Poesie di Ilaria Palomba-pubblicate dalla Rivista «Atelier»-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Poesie di Ilaria Palomba-
pubblicate dalla Rivista «Atelier»-Nota di Pietro Barbera
Ilaria Palomba, scrittrice, poetessa, studiosa di filosofia, ha pubblicato i romanzi Fatti male (Gaffi; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero; Premio Carver 2015), Una volta l’estate (Meridiano Zero), Disturbi di luminosità (Gaffi), Brama (Perrone), Vuoto (Les Flâneurs; presentato al premio Strega 2023 e vincitore del premio Oscar del Libro 2023); le sillogi Mancanza (Augh!), Deserto (premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble), Microcosmi (Ensemble; premio Semeria casinò di Sanremo 2021; premio Virginia Woolf al premio Nabokov 2022), Scisma (Les Flâneurs, settembre 2024), ; il saggio Io Sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud). Ha scritto per La Gazzetta del Mezzogiorno, Minima et Moralia, Pangea, Il Foglio, Succedeoggi. Ha fondato il blog letterario Suite italiana, collabora con le riviste La Fionda, Le città delle donne, Inverso, Versolibero.
«Io sono l’onorata e la disprezzata». Sulla poesia di Ilaria Palomba-Nota di Pietro Barbera
Avendo avuto l’opportunità di leggere in anteprima la nuova silloge della poetessa Ilaria Palomba, mi consento qualche osservazione, spunto critico, trasalimento, in piena libertà.
Il poemetto è abbagliante: le immagini si susseguono di giorno in giorno, di stanza in stanza, in piena terribile nudità, senza simbolismi eccessivi, né orpelli, né caricature. Non si ravvisa maniera qui. Si trafigge (e ci si trafigge) dritto per dritto, e ciò nonostante mantenendo sempre un’ammirevole compostezza formale, scevra da sbavature.
“Cos’è la dignità? Sono rimasta nel mezzo – immobile – nella vastità di nessuno”, scrive Palomba. Scisma certo parla (anche) di suicidio, ma non è, a mio parere, un diario poetico di un’esperienza personale. Questo è un punto di tema, di contenuto, che considero assai dirimente: NON è il diario poetico di un’esperienza suicidaria che si dipana secondo il classico mitologema Morte/Rinascita. Infatti la poetessa non è “rinata”, ma è stata “restituita”, quasi suo malgrado. Perché non è stata lasciata andare via? Dio, il Caso? “Devi restare, creatura infelice/nella bolgia della mente/nella frattura del mondo/del tuo mondo/nell’avversione al corpo/al nulla caduco /al nulla vacuo/all’immobilita/alla paralisi”. Palomba attraversa la suprema seduzione della Caduta che la consegnerebbe alla sottrazione radicale, alla dissoluzione dell’ego ed estinzione d’ogni conflitto (“essere cielo”), ed invece si trova restituita, ma smembrata, lacerata, nell’angusta immobilità di un letto d’ospedale, per tanti mesi, dove protagoniste sono la stanza, le infermiere, le pareti con le loro voci, i persecutori interni mai sazi. E il cielo sì riappare, ma scorto, perlopiù immaginato, dalla finestra di quella stanza. E sono tutti i cieli del mondo, condensati dalla colpa e dalla nostalgia: “cosa ho fatto al mio corpo?”. Domanda che la attanaglia senza tregua. E allora Scisma, ma anche crepa, crepaccio, ferita, frattura, lacerazione: tutti sostantivi che rimandano ad un’irredimibile separazione (dal sé di prima, “Non avrai più nome. Rinuncia al tuo nome”, dall’amato, dalla vita di prima). Ma il”volo”; non è pieno, è cavo, appartiene al regno dell’indicibile. E la Poetessa si ritrova non già corpo vivo e animato, ma Korpen, “nuda materia plasmabile”; per usare le sue parole, a guardare le “enormi fauci dell’ospedale”; che “masticano i corpi”; dei convenuti a giudizio. Ma il suicidio si rivela ancora epifenomeno: il più profondo tema sotteso a tutta la silloge é la lettera”s”. Si, proprio una singola lettera: quella s anteposta che porta Oltre sempre (sconfinare, smarginare, sbordare, sradicare, sgretolare), e l’estremo pericolo insito in questo cammino, la necessità di praticarlo con un controllo, con una funzione coscienziale liminale che permetta di “dissipare senza dissiparsi”, citando ancora l’Autrice. Tutto questo ha presentato un conto salatissimo (“Il volo cavo/il prezzo della furia”): la necessità di affrontare quotidianamente il non accettato, il corpo, i nuovi limiti imposti. Prezzo della Colpa: esito paradossale, feroce nemesi per chi avrebbe voluto sempre “slimitare”;. Palomba infatti prova struggente nostalgia per il corpo e la vita che precede lo Scisma, ma anche per l’ospedale e financo per la “pazzia”, per la libertà dell’infinito sbordare: costretta a vivere nell’ “altrimenti”; sorto dalla restituzione, indossando nuove maschere che rendano praticabile una vita in sé sempre impossibile. L’Appello si palesa a Dio e al mondo alla fine del giorno 73: “alta marea è vicina e forte è la buriana/Ancorate la nave!”. Il rischio supremo é avviluppato al proprio destino di sconfinatrice ed esploratrice di abissi (i propri in primis): ma parrebbe profilarsi anche un’altra via all’agognata dissoluzione, forse la rinuncia al mondo (che resta senza possibilità di Verità), forse l’estatica contemplazione del muto mistero che tutto sovrasta. Riuscirà Ilaria Palomba a “rinunciare al suo nome”? E, soprattutto, veramente lo vorrà? Leggere “Scisma” significa farsi attraversare dal “Pericolo” di artaudiana memoria, sondare (senza per forza abbracciare) costituenti antropologiche annidate nell’interiorità di ciascuno; parallelamente però richiede al lettore un’ineludibile disponibilità, un abbandono, un eclissarsi di difese in una temporanea epochè.
Pietro Barbera-
Pietro Barbera, quarantaseienne libero di stato, privo di precedenti letterari e di altra natura, vive a Novara e vi lavora svolgendo la professione di assistente a-sociale. Ha alle spalle studi sociologici e la frequenza del Master in “Death Studies; the End of Life” presso l’Università degli Studi di Padova, nel cui contesto la poetessa e indologa Laura Liberale, durante un seminario, l’ha sollecitato a dedicarsi con maggiore impegno alla scrittura. Burocrazie del Dolore, edito da Giuliano Ladolfi Editore 2024, ne è l’opera prima.
Poesie di Ilaria Palomba
Da “Scisma” (Les Flâneurs, 2024)
Giorno 11
Le infermiere aprono la finestra
il mattino trabocca di lacrime
violaceo azzurrato l’albore tuona –
Schubert copre la nudità dei corpi
avvizziti gremiti di piaghe.
Al mattino il Colosseo Quadrato
sporge nel tramestio di nubi.
Al mattino penso al mio corpo
alla fine del sogno
alla fine dei giochi
un corpo disabitato – l’anima
anela prega piange –
tentativo di uscirne.
Devi restare, creatura infelice,
nella bolgia della mente
nella frattura del mondo
del tuo mondo
nell’avversione al corpo
al nulla caduco
al nulla vacuo
all’immobilità
alla paralisi.
*
Giorno 17
Valium. Litio. Clozapina. Lyrica. Polveri mefitiche lassative. Più di dieci farmaci. La pillola per il fegato: in rianimazione avevo il fegato perforato, l’arteria epatica pronta a deflagrare. Ventotto trasfusioni. È abbastanza come anestesia? Tornati nelle stanze dormiamo tutto il giorno per vivere una vita che non sia questa, per dimenticare il dolore, per inventare un fuori. Dimentica la successione del ricordo, cancella la persona, non esiste il prima. Infettate le pareti; sporche di merda le lenzuola. Cos’è la dignità? Sono rimasta nel mezzo – immobile – nella vastità di nessuno.
*
Giorno 26
Qui è la ghiera del persecutore interno,
non hai rivali fuori da te stessa.
L’uomo illuminato dal demonio
parla la lingua delle bestie:
Qui si smarrisce la coscienza.
Qui si aprono i multipli.
Vuoi vivere o morire?
Rinuncia al tuo nome, o la vita o il tuo nome.
Guarda, guardalo. Anche lui è qui.
Sono tutti qui. Aspettano.
Siamo qui per pulire.
*
Giorno 29
Non voglio essere salva
per restare nell’ombra.
Adesso, sai, non ricordo
il volo cavo,
il prezzo della furia.
Nuda materia plasmabile.
Proteggi le ossa,
allontana la bestia.
Si schiude la ferita, sangue e buio
giacere sgraziata all’esistenza,
crebbe in te la ferita, restò nuda,
avrebbe martellato l’osso sacro,
avrei guardato tutto l’angelico
suppurare in infero, smarginare.
*
Giorno 49
La vecchia nella mia stanza ha un mieloma, è peggiorata. Siamo una moltitudine di solitudini. Li ho guardati qualche volta negli occhi. Erano i restituiti. Veniva l’uomo della stanza accanto a portarmi il cornetto. Lo chiamo F. Diceva: Come sei finita dentro il tumulto? L’ospedale aveva enormi fauci e masticava i nostri corpi. Trovare la forza di portare a termine il pensiero.
Come sei finita?
Un pensiero fecondo mentre muovo la gamba cattiva. Dovrò occuparmi di tutto ciò che ho lasciato. Nulla si può sospendere se non l’attesa. Dovrò occuparmi dell’ottusità.
*
Giorno 54
È rimasto qualcosa di umano in te?
Quanto ancora dovrai attendere?
E la tua smania, chi saprà estirparla?
Una pietà maldestra ti apre all’ascolto
ma un giudizio feroce ti ottunde il pensiero.
Non puoi più seguire i desideri,
Imparerai ogni cosa di nuovo
e sarà un po’ diversa.
Avrai un altro nome.
*
Giorno 73
Nella lontananza dell’idrogeno
il cloro si annoia. Tu con me
aderendo fino alla fine, foglia,
non ti annoi, se l’albero si
scuote e ti strappa via. Io
foglia non mi arrendo se
tu vita mi strappi via. Io,
nella lontananza di questo
reparto, dopo aver gettato
la spugna, risalgo alla vita
stessa. Che sia il barbaglio
di questo sole, sradicamento,
il suicidio non conosce
retrovie, non ho visto il
mio corpo cadere ma
ho sentito cantare un
coro soave. Dove siete,
sorelle? Io vi chiamo
dal letto diciotto, della
stanza numero quattro
dell’unità spinale. Venite,
nel giardino, dove possiamo
camminare, zoppicando.
Era l’alta marea in me
a gettare scompiglio,
era l’altra, colei che
non voglio, e non sono.
Ognuno nel fondo è
un altro. Riprendere
il timone, ancorare la
nave. Dentro un tormento
cui non sono pronta,
l’alta marea è vicina
e forte è la buriana.
Ancorate la nave!
*
Inediti
Se io non fossi l’acerbo sventrato
ma il verbo dell’oltre,
se non avessi macchiate le vesti
di sangue,
se io non portassi in grembo i segni
del mare,
se fossi limpida come il mare
che bagna i tormenti,
se fossi limpida come il mare
che bagna i suoi campi,
se conoscessi il preludio e il perdono,
se una pietà abitasse il corpo,
se una pietà venisse a strapparmi dal
gesto,
se avessi occhi di madre e non sguardo
furioso di figlia,
se io fossi foglia e non magnolia,
se io potessi scombuiare e svanire,
se io potessi smarrire il senno e svenire,
se solo potessi annientarmi e obliare,
se non vedessi gli occhi e gli sguardi,
se non fossero forbici le mani
e gli occhi pugnali,
se non scimitarre le bocche
o gherigli,
e se potessi non rispondere
all’ingiuria col pianto,
ma con l’incanto di chi conosce la fine,
ma con la voce che risale il perdono,
ma con la voce del perdono accolto,
ma con l’avvento di una pietà smarrita,
ma con la memoria di una vita arresa,
non patirei le mani, gli occhi, gl’inganni.
La mente vacilla, il suono del ricordo
annerisce i palmi, oscura le mani.
Io mi rivolsi al cielo e lui mi vinse,
mi rivolsi al mare e l’abisso mi tagliò
in porzioni sottili più e più volte.
alla città fantasma
*
Se tu tornassi io ti accoglierei
nelle mie braccia, ti accoglierei
viva e morta, ti accoglierei,
tu nemesi, tu cieco, tu traudito,
sei il seme dell’uomo e della donna,
il sangue e il giogo e la caduta,
il cervello raccolto dalle membra,
sei la via verso il vuoto,
l’aspersione del fianco,
anima mundi e anima immundi,
sei sangue del mio sangue,
sei cuore del mio cuore,
sei ventre sventrato,
sei la parola smembrata nel vizio,
sei il santo cui votai il crollo,
l’unico biancore del precipizio,
sei tenebra e luce,
accecato e ritornante,
sei l’immondo amante,
sei catena di ruggine rappresa,
sei la mia intera discesa
tra i palazzi crepati della terra,
qui batte il sole e ragliano i cani,
qui siamo all’ora dell’orizzonte vermiglio,
e le case bucate hanno finestre di occhi,
e io fui tua moglie e tu mio figlio,
e fosti il padre e la madre e la conchiglia,
fioritura nera di crisalide estinta,
io sono la tua nemesi spuria,
impara il tempo del mio tempo,
l’arte feroce dello smembramento,
– io sono l’onorata e la disprezzata
io sono la prostituta e la santa
io sono la sposa e la vergine
io sono la prima e l’ultima –
Iside cieca sul fondo
della tua stirpe brunita,
sono la menade e il sacrificio,
e tutte le guerre furono arrese
alla grazia della tua immensa sparizione.
a Iside
*
La notte prima della crocifissione
guardammo le frane e la terra,
guardammo l’algore dell’uomo,
nessuno seppe chiedere perdono.
Perché sono tornata a te adesso?
Per sconquassare la ruggine
nelle mani o per non sapere,
non ho coscienza delle piaghe,
nell’altissimo cercare l’uomo,
la via baluginante nella gioia,
alla ferita succede l’abbandono.
a Gesù Cristo
La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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