Poesie di Alberto Fraccacreta- Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Poesie di Alberto Fraccacreta-
Alberto Fraccacreta –(nato nel 1989), originario di San Severo, è assegnista di ricerca in Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Collabora con alcuni quotidiani nazionali.Le seguenti poesie sono tratte da Sine macula. Poesie 2007-2019, Transeuropa. Il volume raccoglie Uscire dalle mura e Basso Impero, pubblicati da Raffaelli nel 2012 e nel 2016, aggiungendo sequenze inedite e riordinando il materiale alla luce di Delia, ineffabile presenza femminile sempre sul filo dell’epifania, colei che è lì da mostrarsi ? com’è inscritto nel suo etimo ?, immagine della donna costantemente cercata. Delia è l’idea di Maurice Scève, la Velata che nei suoi lineamenti interiori dà ragione di una traccia sine macula, trasparenza, poesia stessa e tensione del soggetto verso un’edenica relazione con il reale.
Il falco pellegrino
La luce di ottobre rade
in picchiata la schiena della Cesana.
Le nubi corrono e si sporgono
verso un fascio coartato
che le mortifica. Bacche e corolle
nel giardino pensile, una tribù
di cespugli in vampa, foglie
smeraldo refrattarie al libeccio
nella siepe del Polo Volponi.
Se mi affaccio dal parapetto
vedo qualcosa di distante
oltre le antenne e il viadotto,
sotto il crinale, che non sei tu.
Dubito se sia io a sporgermi
e avanzare nel tratto mancato,
nel passo marcato, protetto dal limite,
quando da basso i coni d’ombra
assomigliano a venati abissi
e sfrecciano auto a lato del nero.
Ma il distendermi non ti mortifica.
Non evita l’effetto e il transito,
in un moto ascensionale
vedo il tuo viso che si alza
dominante, dà forza come la prima volta,
tutto purché si noti il sorriso
lieto e cordiale,
nuovo e incoraggiante.
Madrigali del legionario
Dopo la stenta guiderai la rivolta.
L’inverno dal belvedere è ancor più sigillato.
Dal trespolo si arruffa il viso stravolto
color mandolino, sparisce in glissato.
Ma tu passerai il gelo sul coperchio del mondo,
tortorella, abbaglierai le murene al tuo canto.
Se il mio grumo d’ala sarà lì per garrire,
ricordane lo sparo, potresti sfiorire.
Cena in Emmaus
A Palestrina o a Zagarolo, dopo l’assassinio di Ranuccio. Desidera
rappresentare il congedo, a seguito della parola dei profeti,
l’ostinazione del pane spezzato. L’ombra di Cristo sbatte sulla pancia ovale
dell’oste. Una luce sovrumana filtra. Manca la canestra di frutta della copia
londinese, ci sono solo una brocca, i piatti, la tovaglia ricamata.
È tutto più asciutto.
Nessuna chiazza di vino, nessun rettangolo color mora ? il buio che avvolge
la scena è una mora di gelso, una chiazza di vino ? la tovaglia è linda.
Il piatto vuoto è così tenacemente in attesa
che potresti vedergli spuntare la membrana malvacea del timpano.
La brocca vorrebbe parlare, è puntata sulla carotide dell’uomo come una pistola.
Tace.
Il contenuto emotivo del soggetto colpisce lo spettatore.
Ma anche: il soggetto è colpito dal contenuto emotivo dello spettatore.
L’ostessa sta portando qualcosa d’invisibile su un vassoio amaranto. Il
discepolo a destra deve aver capito finalmente, ma è condannato allo
snebbiarsi d’idee.
A essere sul punto di diradarsi, senza poter, senza voler schiarire.
La scena è generalmente opaca. La scena è luminosa.
Il volto di Cristo è grave e meraviglioso. Non esistono aggettivi meno invasivi.
Gli aggettivi sono veleno pesticida.
L’uomo di spalle, Cleopa, ha compreso ogni cosa, ma non potrà mai dirla a
nessuno. L’evangelista Luca sta scrivendo universalmente il prosieguo.
Allora si aprirono loro gli occhi. Condannati per sempre a non sbattere più le
palpebre. Fine della secrezione del sebo palpebrale.
L’ostessa sembra appena arrivata.
L’ostessa sembra che voglia togliere subito il disturbo. Non pare interessata.
L’oste sta per intromettersi, sbraitando: ‘Sentiamo un po’ cosa ha da dire’.
L’oste sarà perennemente al di qua di ogni sgarbo. Il torrente del rimprovero
non scorre. Il pane fuori dal piatto è letteralmente incredulo.
Cristo sta perdonando da sempre l’assassinio perpetrato dal pittore
nel cui pane fuori dal piatto si può scorgere la figura di un teschio.
Cristo se ne andrà prima dell’ostessa. Ma c’è ancora tempo. Cristo non se ne
andrà per la lunghezza dell’eterno. Non finché sarà integro il dipinto.
Entrambe le affermazioni sono ugualmente vere. Tutto quello che si dice del
quadro è plausibile.
Lui rimarrà. Ed è lì per andarsene.
Se è lì per andarsene, rimanendo ritornerà.
Simic a Strafford
Il nostro è un rapporto epistolare,
scambio di mail come lo schiocco
del carpodaco.
Non esente da frizzi e ticchettanti ironie.
Quando sulla mascherina rossa
della posta elettronica appare il suo nome,
mi sembra che la fiamma purpurea
con le zampette carnicine
venga a beccare lì vicino e allora
prilla la vibrazione, trilla
lo smartphone. Nel sottile passo
del lucherino delle pinete
(con quella nomenclatura
retoricamente ineccepibile,
Spinus pinus delle Fringillidae)
lascia varietà timbriche
fino a ventitré note ? il professor
carpodaco, amico di guaine
da sfogliare sul cellulare,
bozze residuali da Il mondo non finisce.