Poesia di Giuseppe Ungaretti- in Memoria di Moammed Sceab -Biblioteca DEA SABINA
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Poesia di Giuseppe Ungaretti- in Memoria di Moammed Sceab
Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970) è uno dei tre grandi poeti dell’Ermetismo italiano. Trasferitosi a Parigi nel 1912, prese parte alla Prima guerra mondiale nelle trincee del Carso e poi in Champagne. Dal 1935 al 1942 insegnò in Brasile e dal 1947 al 1965 fu professore di letteratura moderna alla Sapienza.
Biografia-Moammed Sceab (in arabo محمد شهاب?; Alessandria d’Egitto, 23 gennaio 1887 – Parigi, 9 settembre 1913) è stato un poeta libanese.–Discendente da emiri libanesi nomadi[1], fu amico d’infanzia di Giuseppe Ungaretti, anch’egli nato ad Alessandria d’Egitto. Qui frequentarono insieme il liceo svizzero di lingua francese École Suisse Jacot e il circolo culturale socialista e anarchico “Baracca rossa” di Enrico Pea.
Si ritrovarono a Parigi, complice il comune amore per la poesia, e qui soggiornarono condividendo lo stesso domicilio all’hotel Rue de Carmes.[2] Uniti emotivamente e artisticamente dalla stessa sofferenza per la comune condizione di “apolidi sradicati”, continuarono qui la loro produzione letteraria[3]. Mohammed scrisse con lo pseudonimo di “Marcèl”. Incapace di superare la sua crisi di identità[4], divenuto dipendente dall’uso dell’assenzio, Shehab morì suicida[5] nel suo appartamento il 9 settembre 1913, dopo avere distrutto tutta la sua opera letteraria, di cui non ci resta più traccia se non nelle note di Ungaretti che la descrive come scritta in “purissimo francese” e fortemente legata alla ragione e alla logica, quasi in antitesi con la sua “poesia dell’inesprimibile”.
A lui Ungaretti, nel 1916, dedicò la poesia “In memoria“[6], che apre la sua raccolta d’esordio Il porto sepolto, scritta durante la prima guerra mondiale mentre serviva come militare a Locvizza sul fronte del Carso. Shehab viene ricordato nella poesia come “alter ego” del poeta italiano e vittima di una sorte e di una fine che avrebbe potuto essere la stessa per entrambi. Della figura di Shehab, nel 1963 in un’intervista al Corriere della Sera, Ungaretti disse: “simbolo di una crisi delle società e degli individui che ancora perdura, derivata dall’incontro e scontro di civiltà diverse e dall’urto e conseguenti sconvolgimenti tra tradizioni politiche e il fatale evolversi storico dell’umanità”.
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Questa poesia di Giuseppe Ungaretti Cent’anni sono passati da quando il poeta combatteva e conosceva gli orrori della guerra sul Carso, “scontando la morte vivendo”; in mezzo ai brevi componimenti nel quale descriveva la terribile vita di trincea, ebbe a ricordare un amico. “Locvizza, il 30 settembre 1916”, reca il quaderno di Ungaretti; e Locvizza, o Lokvica, è nei pressi del Monte San Michele “bagnato di sangue italiano”, come dice Fuoco e mitragliatrici. Nei pressi, anche, di San Martino del Carso. Luoghi di guerra dove Ungaretti si trovava non di rado a ricordare episodi della vita civile, che sembrava oramai lontana diecimila anni. Una meditazione continua sulla vita e sulla morte, sull’amore e sulla trascendenza.
Tra questi episodi, la vicenda di un amico che si era tolto la vita a Parigi soltanto tre anni prima, nel 1913. Si chiamava Moammed Sceab, così Ungaretti scrive il suo nome nascondendo il vero nome di Muḥammad Shihāb; aveva ventisei anni ed era un egiziano di nobile origine libanese. Era stato coinquilino di Ungaretti in un albergo fatiscente di Rue des Carmes, nel quinto Arrondissement, albergo nel quale si era suicidato. Un episodio, come tutti gli altri, che la guerra aveva certamente contribuito a ricordare, a suscitare; come se ricordare una vita facesse da contraltare alla morte che, in trincea, sempre stava dappresso.
E’ la storia di un senza radici, o di uno sradicato; una storia comune allora come adesso. Di una persona che, esule in un paese straniero, sente di non farne e di non poterne far parte allo stesso modo in cui, oramai, il suo stesso paese gli è diventato estraneo. Se, indubbiamente, è opportuno maneggiare la parola “identità” con molta attenzione, è altrettanto indubbio che la crisi di identità è una tragedia personale che, in parecchi casi, va ad aggiungersi alle altre tragedie che un esule, un profugo, un rifugiato deve subire sulle proprie spalle. Tra queste, la solitudine totale.
Una grande importanza nella storia della mia vita e nella storia della mia poesia deriva dall’incontro, ad un certo momento della mia giovinezza, con Enrico Pea ad Alessandria d’Egitto. Enrico Pea faceva ad Alessandria il commerciante di marmi e nello stesso tempo aveva messo su, sviluppando il laboratorio di falegnameria del suocero, una segheria meccanica. Sopra la segheria meccanica – era ingegnoso Pea -aveva pensato di starci di casa e di destinare uno stanzone, uno stanzone enorme, e altri stanzini accanto allo stanzone enorme, ai gruppi sovversivi che, in quel periodo erano numerosi ad Alessandria.
Tra i giovani sovversivi di Alessandria che si raccoglievano nella baracca del mio amico Pea, c’era un arabo – era forse l’unico arabo in quella baracca – e questo arabo era Moammed Sceab. Moammed Sceab era anche stato mio compagno di scuola. Quindi eravamo doppiamente uniti; eravamo uniti nelle speranze di un mondo organizzato con maggior giustizia, ed eravamo uniti dai ricordi di infanzia e dalle aspirazioni letterarie che avevamo l’uno e l’altro. Aspirazioni diverse: io credevo in una poesia dove il segreto dell’uomo (fin da allora) trovasse in qualche modo un’eco, credevo nella poesia dell’inesprimibile, e invece Sceab credeva – mente logica, arabo discendente da quelli che avevano inventato l’algebra – credeva invece in una poesia strettamente legata alla ragione.
Ecco. Ed avevamo, in fondo, in comune anche un altro dramma: l’uno e l’altro avevamo un’educazione europea, occidentale, francese. Anch’io. Io ero nato in un paese che non era il mio, ero nato ad Alessandria, lontano dalle mie tradizioni; ero lontano dai paesaggi, dalle immagini che avevano accompagnato la vita di tutti i miei. Eravamo l’uno e l’altro, per ragioni diverse, degli uomini che non erano avviati in un modo naturale a compiere il loro destino. E naturalmente queste cose non avvengono nell’uomo senza turbamenti e senza strazi a volte terribili. E la mia, la nostra gioventù, la nostra prima gioventù, quella mia e quella di Sceab, è cosparsa di giovani, di giovani compagni che nelle stesse circostanze delle nostre si troncarono la vita. E anche Sceab a un certo momento si troncò la vita. Sceab a Parigi, lontano dalla sua terra africana – o dalla sua terra araba perché in fondo viveva in Egitto ma non era africano, veniva dal Libano – essendo stato rilavorato da una cultura e da una tradizione diversa, non resisté al dissidio e anche lui si uccise. (Giuseppe Ungaretti)
sospesi tra una tradizione e una vita lasciate dietro di sé come in un gorgo che si richiude, ed una nuova condizione materiale e culturale che è pressoché impossibile interiorizzare. E’ la condizione usuale del déraciné che Ungaretti ben conosceva. Nato a Alessandria d’Egitto da genitori toscani (lucchesi), dall’Egitto Ungaretti si era trasferito in Francia dove si sentì sempre un senza patria.
Nelle prime edizioni del Porto sepolto, “In memoria” si trova quasi isolata, all’inizio, come se si trattasse di una dedica. Nella raccolta complessiva L’allegria, pubblicata molti anni dopo (nel 1931), il tema complessivo è quello della guerra; e la poesia dedicata all’emico egiziano suicida è ancora una volta lasciata a sé stante, legata indissolubilmente quanto indefinitamente alla guerra.
Tentare con tutte le proprie forze di adattarsi, o di “integrarsi” come si direbbe adesso. Arrivare a cambiare nome; quante volte, conoscendo per intenzione o per caso un attuale immigrato, al sentirsi domandare il proprio nome questi risponde declinando un nome locale, Pietro, Giuseppe, Maria, al posto del proprio nome vero? Qualche anno fa, all’Elba, arrivava sempre a casa un ragazzo del Ghana a vendere la sua mercanzia di quart’ordine; per tutti si chiamava “Alessandro”. Il proprio nome è la propria identità; è ciò per cui tutti ti riconoscono come appartenente ad una tradizione o ad un’altra. In questo il poeta Ungaretti, che pure nome non lo aveva cambiato, si riconosce appieno; l’amico Moammed Sceab è il suo alter ego. Una condizione che il poeta si trova a ricordare e a fissare in versi in una situazione terribile, lontanissima eppure vicina. Lo fa sconvolgendo totalmente una tradizione poetica intera: un linguaggio fatto di parole comunissime, secco, dalla sintassi elementare. Quasi dei piccoli gridi interiori che riescono, però, a coprire il frastuono dei combattimenti.
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse.
Sarebbe forse inutile, al giorno d’oggi, chiedere o addirittura esigere che di tutte queste cose si tenesse conto di fronte a un immigrato; eppure sono cose che molti, anche in questo paese, hanno vissuto. Sicuramente, essere in una trincea a costante e diretto contatto con la morte poteva aiutare a penetrare nel dramma vissuto da chi aveva lasciato il proprio paese per sempre; morendo, resterà una qualche traccia della nostra vita? La risposta del poeta è la poesia stessa, che è anche una risposta di umanità e di amicizia; una risposta attraverso la quale la vita torna a scorrere. Il nome di Moammed Sceab, quello autentico, è rimasto.
Non così quello, ad esempio, delle centinaia di migranti periti in fondo al mare Mediterraneo. Annegati due volte, nel mare e nella massa dei diseredati. Privati di tutto, anche della propria individualità di esseri umani. Ridotti a numeri di statistiche, e senza nessun poeta che si ricordi di loro nel momento estremo. A tutte queste persone vorrei dedicare questa poesia, scritta nell’infuriare di una guerra. [RV]
Nella pagina, la poesia di Giuseppe Ungaretti (che ha trovato una sua musica per opera di Aldo Bova nel 2014, viene presentata anche in parecchie traduzioni, tra le quali si segnala quella della poetessa austriaca Ingeborg Bachmann.
By Antiwar Songs Staff on 3 Novembre 2015
In memoria, la poesia che apre la raccolta Il porto sepolto, è dedicata a Moammed Sceab, amico di Ungaretti durante l’infanzia trascorsa ad Alessandria d’Egitto ed emigrato come lui a Parigi. Moammed, però, non riesce a sopportare la sua condizione di nomade senza patria e si suicida nel 1913 in una stanza dell’albergo di rue des Carmes dove alloggiava anche il poeta. In Vita di un uomo, Ungaretti definisce Moammed Sceab un ragazzo dalle idee chiare che – a differenza di lui, rimasto fedele a Mallarmé e Leopardi – prediligeva Baudelaire ed era addirittura soggiogato da Nietzsche, autori che spesso diventavano per i due amici occasione di discussioni interminabili.
IN MEMORIA.
Locvizza il 30 settembre 1916.
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse
La poesia consiste in una serie di informazioni scarne (Si chiamava, Fu Marcel), con riferimenti a luoghi ben precisi (Parigi/dal numero 5 della rue des Carmes; camposanto d’Ivry), espresse in strofe e versi spezzati che conferiscono alla narrazione un tono distaccato e doloroso ed un ritmo lento, simile a quello di una nenia funebre.
Le parole più significative (suicida, Patria, vivere, sciogliere, Riposa, sempre) stanno da sole, isolate nello spazio bianco del verso; fra queste, Patria, vivere e sciogliere sono precedute – potremmo dire sovrastate – dalla negazione non (non aveva più/Patria; non sapeva più/vivere; non sapeva sciogliere) che esprime l’impossibilità di ricostruire legami, di superare l’isolamento e la solitudine. La congiunzione e posta all’inizio del verso mette in evidenza lo spazio vuoto che la precede nella pagina (e mutò nome; e non sapeva più); quella in maiuscolo all’inizio delle strofe (E non sapeva; E forse io solo) sembra voler creare un faticoso e sofferto raccordo fra i versi separati dagli spazi bianchi, che creano pause cariche di silenzio.