Piero Calamandrei-Il fascismo come regime della menzogna -Editori Laterza-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Piero Calamandrei- Il fascismo come regime della menzogna
Editori Laterza-Bari
DESCRIZIONE
«Bisogna fare di tutto perché quella intossicazione vischiosa non ci riafferri: bisogna tenerla d’occhio, imparare a riconoscerla in tutti i suoi travestimenti. In quel ventennio c’è ancora il nostro specchio. Solo guardando ogni tanto in quello specchio possiamo accorgerci che la guerra di Liberazione, nel profondo delle coscienze, non è ancora terminata.»
I capitoli inediti di un’opera di Piero Calamandrei: un bilancio del ventennio all’indomani della Liberazione, un inno alla libertà ritrovata, un’analisi a caldo del regime.
- Il regime della menzogna costituzionale
Lo Stato legalitario è uno strumento di legalità che si presta alla politica di qualsiasi partito: il meccanismo formale con cui le leggi si creano e si applicano è come uno stampo vuoto, nel quale, attraverso un procedimento tecnico fissato una volta per sempre, si può colare qualsiasi metallo. Per arrivare attraverso questo meccanismo a fare approvare una legge che abolisca la proprietà privata non si deve seguire un procedimento formalmente diverso da quello che condurrebbe ad ottenere una legge che gelosamente la conservi: qua e là, basta che si formi nel libero voto delle opinioni e degli interessi una maggioranza in un senso o in un altro, perché il metodo legalitario possa servire ugualmente a trasformare in diritto l’ideale politico di quella maggioranza. Per questo nei programmi dei partiti di opposizione che operano nell’ambito dello Stato legalitario non c’è come necessaria premessa la riforma dei meccanismi costituzionali: attraverso i quali, se se ne accetta il metodo, ogni partito può arrivare a conquistar il governo col voto ed aver tradotti in leggi i propri postulati economici e sociali.
Ma ci sono altri partiti, ai quali più propriamente si adatta l’attributo di rivoluzionari, i quali prima che i problemi di sostanza, attinenti al contenuto del diritto, si pongono i problemi di forma, attinenti al modo di formularlo: i quali ritengono, cioè, che prima di passare alla risoluzione delle concrete questioni economiche e sociali, sia necessario stabilire un “ordine nuovo”, un nuovo metodo per creare le leggi destinate a risolverle. Tra questi partiti, per i quali la questione costituzionale attinente alla forma dello Stato si presenta al primo posto come premessa necessaria di ogni altra riforma di carattere più sostanziale, fu il fascismo: il quale, sia nel suo primo tumultuoso affacciarsi alla vita politica, sia più tardi nella dottrina formatasi dopo il suo trionfo (per non sbagliare, mi riferirò sempre, nel citare i capisaldi di questa dottrina, a fonti autentiche), è stato anzitutto negazione polemica dei metodi costituzionali dello Stato liberale e proposito o velleità di costruire, in luogo di questo, un nuovo meccanismo di legalità attraverso il quale la volontà dello Stato, cioè il diritto, potesse manifestarsi in maniera più genuina e più energica che non attraverso i logori ingranaggi della libertà, del suffragio popolare e della divisione dei poteri.
La iniziale perplessità del fascismo su tutti i problemi politici sostanziali, che passavano in seconda linea di fronte all’urgenza, in cui tutte le ambizioni si trovavano fino ad allora concordi, di dar la scalata al potere, si riscontra, malamente dissimulata, anche nella successiva elaborazione teorica della dottrina; al centro della quale, in luogo di coerenti e consapevoli direttive politiche proposte all’attività pratica del governo, si trovano disquisizioni filosofiche sulla natura dello Stato, e vuote esaltazioni di esso, concepito come strumento di forza e di dominio. Essenziale per questa dottrina è l’autorità: come si conquista, come si tiene, come si impone, ma a quali scopi sociali questa autorità venga esercitata, in quali direzioni essa si adoperi in servizio della civiltà, ciò sembra secondario in quella dottrina. Quando avrò la forza in mano, sembra dire l’autore, vedrò caso per caso che cosa mi convenga fare: “Il fascismo politicamente vuol essere una dottrina realistica: praticamente aspira a risolvere solo i problemi che si pongono storicamente da sé e che da sé trovano o suggeriscono la propria soluzione. Per agire tra gli uomini, come nella natura, bisogna entrare nel processo della realtà e impadronirsi delle forze in atto”.
Quasi sembrerebbe di sentire in questo passo un’eco dello spirito antidogmatico del liberalismo, il quale nella sua espressione più genuina non vuol farsi sostenitore di programmi organici e completi di riforme economiche, perché insegna che l’ordine e il contenuto delle soluzioni debbono essere suggeriti dalle circostanze concrete via via che esse propongono alla politica i problemi pratici da risolvere. Ma nel liberalismo questa ripugnanza ad accettare programmi aprioristici è naturale, come omaggio alla libertà che non può essere ipotecata da soluzioni anticipate e che, attraverso le forme dello Stato liberale, deve trovar aperta la via a risolvere i problemi concreti nel modo storicamente più aderente alla realtà che via via si presenta sempre nuova e imprevedibile. Viceversa, in una dottrina che nega la libertà e pone in luogo di essa l’autorità, questo confessato agnosticismo su tutto quel che riguarda la soluzione dei problemi politici concreti può esser sintomo rivelatore del profondo indifferentismo ideale di un movimento il quale, avendo come unico dogma il potere, è pronto ad adottare caso per caso qualsiasi politica che gli serva a mantenerlo.
Ma quali sono dunque i caratteri giuridici di questo nuovo strumento istituzionale che il fascismo contrappone allo Stato legalitario? Quando, dalla polemica negativa contro i difetti del metodo liberale, il fascismo passa alla ricostruzione degli organi destinati alla produzione del diritto, in che consiste la tanto vantata originalità dell’ordinamento costituzionale uscito da questa dottrina?
Prima di rispondere a questa domanda, bisogna premettere, per colui che nel lontano avvenire vorrà scrivere pacatamente la storia del fascismo, una avvertenza: guardarsi dal credere che per farsi un’idea esatta del regime fascista possa bastare il leggerne la descrizione nelle leggi da esso create. Creder che per ricostruire l’aspetto giuridico di una civiltà sia sufficiente interrogare le leggi del tempo senza occuparsi di ricercare se e come erano in fatto applicate, è sempre un errore storico, perché quasi sempre tra le leggi come sono scritte e la loro applicazione pratica vi è un certo scarto, e la legalità proclamata nei codici è temperata nella realtà sociale da una certa dose di illegalismo che l’autorità non è in grado di impedire. Ma l’errore diventerebbe particolarmente grave di fronte a un regime come quello fascista, il quale ha avuto il carattere singolarissimo, anzi unico nella storia, di appoggiare i propri ordinamenti costituzionali, quasi arco su due colonne, da una parte sulla legalità ufficiale, dall’altra sull’illegalismo ufficioso: cioè da una parte sulle leggi e dall’altra sulla violazione delle medesime adoprata anch’essa, al par delle leggi, come strumento politico di governo.
In verità nella legislazione fascista abbondano, come si vedrà, le leggi “costituzionali”: e grande risalto fu dato, nei primi anni del regime, alla preparazione della cosiddetta “riforma costituzionale”, lo studio della quale fu solennemente affidato ad una commissione tecnica di diciotto insigni specialisti, che popolarmente furono chiamati i “soloni” (e, dai più maligni, “i fessoloni”). Ma chi si fermasse a considerare soltanto questo corpus di leggi costituzionali che si tengono in vetrina per presentarle, vedrebbe del sistema politico fascista soltanto la facciata, cioè le istituzioni di gala, quelle che si tengono in vetrina per presentarle agli ospiti di riguardo nei giorni di cerimonia: mentre in realtà la parte più importante del sistema, era costituita dai congegni interni, appositamente predisposti nelle retrostanze, per annientare o per snaturare le leggi apparenti tenute in mostra dinanzi agli occhi del pubblico.
Era un po’ difficile, in verità, dare di un siffatto sistema una definizione in termini giuridici!
Una rivoluzione, quand’è una rivoluzione vera, sopprime una dopo l’altra le istituzioni giuridiche e con esse la legalità dell’ordinamento abbattuto; e mentre prepara le nuove leggi in cui dovrà stabilmente fissarsi la sua vittoria, apre necessariamente, tra il vecchio regime ed il nuovo, uno hyatus di illegalismo, sulla natura del quale i giuristi non trovano ardui problemi da risolvere: è l’inevitabile illegalismo di fatto che segue le rivoluzioni vittoriose, male accetto ma transitorio, che non è fine a se stesso e dura solo quanto occorre per ricostruire la nuova legalità. Né difficile è la definizione giuridica di un’altra sorta di illegalismo: quello che impera in quei regimi dove il principe apertamente si proclama legibus solutus e governa come tale. Qui si sa di che si tratta: è il tradizionale illegalismo dei tiranni, senza mezzi termini e senza maschera; e quindi ben definibile e classificabile; che almeno ha il merito della sincerità.
Ma quando ci si mette a cercare una definizione giuridica del regime fascista, in cui si incontra questo singolarissimo paradosso che è una legalità appoggiata sull’illegalismo, ovvero un illegalismo non di fatto ma di diritto, il compito di chi voglia descrivere in maniera chiara questo ibrido ordinamento diventa quanto mai arduo. Era ammirevole l’impegno con cui i professori di diritto costituzionale cercavano di sciogliere i mille indovinelli che venivano fuori da quel regime: era rivoluzione o non era? La monarchia rappresentativa c’era ancora o era stata abolita? Contava più il capo dello Stato o il capo del governo? Lo Statuto era ancora in vigore o era stato soppresso? C’era ancora l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, ovvero si era introdotta una distinzione tra iscritti che hanno tutti i diritti e non iscritti che hanno tutti i doveri? I detti interpreti aguzzavano gli espedienti della loro ermeneutica su quelle leggi; e credevano di trovare in esse la risposta a tutti quei problemi. Ma non si accorgevano, o figuravano di non accorgersi, che la soluzione, più che alle leggi, sarebbe stato necessario chiederla a quella pratica politica a cui le leggi servivano soltanto da schermo figurativo.
In verità nel regime fascista c’è stato qualcosa di più profondo, di più complicato, di più torbido dell’illegalismo: c’è stata la simulazione della legalità, la truffa, legalmente organizzata, alla legalità. A tutte le tradizionali classificazioni delle forme di governo bisognerebbe aggiungere una nuova parola che riuscisse a significare questo novissimo tipo di regime: il governo dell’indisciplina autoritaria, della legalità adulterata, dell’illegalismo legalizzato, della frode costituzionale…
In un regime siffatto le istituzioni vanno prese non per quello che è scritto nelle leggi, ma per quello che è sottinteso tra le righe di esse: e le parole non hanno più il significato registrato nel vocabolario, ma un significato diverso e assai spesso opposto a quello comune, intelligibile soltanto agli iniziati.
Come meglio si vedrà dal seguito di queste considerazioni, il carattere in cui si riassumono le singolari qualità di questo regime è quello della doppiezza: in senso proprio ed in senso traslato. Il sistema fascista risulta infatti dalla combinazione di due ordinamenti giudiziari uno dentro l’altro: quello ufficiale, che si esprime nelle leggi, e quello ufficioso, che si concreta in una pratica politica sistematicamente contraria alle leggi. A questa duplicità di ordinamento corrisponde una doppia stratificazione di organi: una burocrazia di stato e una burocrazia di partito, pagate entrambe dagli stessi contribuenti, e ricongiunte al vertice in colui che è insieme il manovratore dell’una e dall’altra, “capo del governo” e insieme “duce del fascismo”. Ma tra la burocrazia dell’illegalismo e quella della legalità non vi è antitesi, anzi vi è una segreta alleanza e una specie di reciproca vicarietà: tanto che per volersi render conto esattamente di quello che è il regime, non si deve chieder la spiegazione ad una sola di esse, ma bisogna piuttosto cercarla nel punto ove esse si incontrano, a mezza strada tra legalità e illegalismo.
La menzogna politica, che può sopravvenire in tutti i regimi come corruzione e degenerazione di essi, qui è stata sistematicamente assunta, fin da principio, come strumento normale e fisiologico di governo. Ciò apparirà in maniera evidente dall’esame di quei quattro capisaldi della dottrina fascista, che potrebbero denominarsi le sue quattro finzioni costituzionali: il totalitarismo, la rivoluzione, il consenso, la monarchia.
- La finzione del totalitarismo
Totalitarismo: per vent’anni questa parola ci ha ossessionato. Era uno di quei vocaboli catapulta che quando i gerarchi li scaricavano enfiando le gote e sporgendo la quadrata mandibola, davano alla folla la sensazione quasi fisica dell’irresistibile schiacciamento. Nella maschia oratoria fascista tutto diventava totalitario: dalla dedizione al duce alle adunate dei gregari, dalla riforma scolastica alla consegna dell’olio agli ammassi. Ma i sostantivi per i quali questo attributo era stato originariamente inventato dal suo creatore (giustamente celebrato dai filologi più avvertiti come rinnovatore della lingua italiana) erano soprattutto due: “regime” e “Stato”. Regime totalitario, Stato totalitario… Quale realtà politica si nascondeva sotto questo aggettivo rintronante?
Qualunque professore di dottrine politiche (ce n’era uno per ogni cantonata) avrebbe potuto spiegarvelo in quattro parole: di fronte al frazionamento e alla disgregazione dei regimi liberaldemocratici, in cui l’unità dello Stato era perpetuamente messa in pericolo dalle lotte dei partiti e dalle tendenze anarchiche del sindacalismo, ecco finalmente, col fascismo, il regime che armonizza e unifica tutte le forze sociali, e tutte le “potenzia” senza che alcuna vada dispersa; ecco finalmente raggiunto, qui, perfetta identificazione dell’interesse privato nell’interesse pubblico, l’annientamento di ogni egoismo individuale nel sentimento di disciplina nazionale… Questo è il totalitarismo: un monumentale blocco d’acciaio, in cui tutti i cittadini si trovano finalmente fusi, emulsionati, amalgamati…
Ma sarà meglio che cerchiamo di capir per conto nostro, senza scomodar le guide autorizzate, che cosa c’era sotto queste belle immagini.
La teoria del totalitarismo è riassunta in una nota formula: “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, la quale, secondo la glossa autentica, significa nella sua faccia negativa che “nulla di umano, di spirituale, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato”; e nella sua faccia positiva che “lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo”.
Sotto l’aspetto negativo è chiaro, e più chiaro diventa nel commento dell’autore, che cosa la formula voglia dire. Non solo si nega, ma addirittura si dichiara “non pensabile” l’esistenza fuori dello Stato di una vita morale individuale: la libertà, la dignità spirituale, è, per il fascismo, un dono che la persona riceve dallo Stato; anzi la persona è tale solo in quanto lo Stato abbia soffiato in essa il creator suo spirito. Che nell’uomo esista per natura un pensiero che le leggi esterne non possono costringere, una volontà libera che non riconosce alcuna tirannia, una coscienza morale che vive sola padrona di sé in una quarta dimensione posta fuori dal tiro dello Stato che può colpire soltanto con armi a tre dimensioni, tutto questo è, più che negato, ignorato dal fascismo: “Nulla di umano, di spirituale esiste… fuori dello Stato”; è proprio scritto così. Anche la morale è una creazione dello Stato, è volontà dello Stato “etico”: cosicché in sostanza morale e diritto si identificano, e non può neanche sorgere il problema del contrasto tra legge giuridica e giustizia morale, dato che quello che lo Stato pone come diritto, è, per il solo fatto che chi lo pone è lo Stato, volontà morale: “Lo Stato, come volontà etica universale, è creatore del diritto”. Tutto questo è assai chiaro; ma non è altrettanto originale. Si tratta infatti, semplicemente, di una brutale caricatura della deificazione hegeliana dello Stato, che tradotta in termini politici vuol dire un esasperato assolutismo in adorazione della propria onnipotenza; lo schiacciamento della libertà sotto la religione fascista dell’autorità: “Lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo”. È una concezione non soltanto antindividualistica e antiliberale, ma anche, essenzialmente, anticristiana. Se si ricercano nel campo pratico le conseguenze giuridiche di queste premesse filosofiche, si vede che esse significano nient’altro che il ritorno ad un’autocrazia peggiore, poiché estesa anche al campo spirituale, di quelle rovesciate dalla rivoluzione francese. Aboliti quei “diritti di libertà” che lo Stato legalitario aveva posti a salvaguardia della persona umana come barriere non valicabili dalla stessa legalità, la legge torna ad essere in ogni campo onnipotente: e può anche, se così piace allo Stato, ristabilire la schiavitù. Dato che la personalità giuridica non si considera più come necessario riflesso di una preesistente personalità morale che lo Stato deve limitarsi a riconoscere, ma come creazione ex novo dello Stato che può a suo arbitrio rifiutarla e ritoglierla, niente si oppone a che, in cosiffatto regime, l’uomo sia legalmente retrocesso a cosa. Questo vuol dire dunque, sotto questo primo aspetto negativo, il totalitarismo: una specie di teocrazia senza dio, in cui lo Stato si è assunto anche il potere di creare le anime.
Ma il totalitarismo, si è visto, non ha soltanto questa portata negativa, di annullamento dell’individuo nello Stato; nell’altra faccia, quella positiva, esso si presenta come esaltazione dei valori individuali, dei quali lo Stato fascista sarebbe “sintesi ed unità”: ogni individuo, “in quanto esso coincida con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica”, trova nello Stato il suo “potenziamento”: fuori dello Stato è nulla, dentro lo Stato esso diventa tutto: e nel sottoporsi all’autorità dello Stato trova in questa soggezione “la sola libertà che possa essere una cosa seria”, cioè la libertà dell’individuo nello Stato”.
Messo di fronte a queste formule per lui misteriose, il giurista che poco si intende di filosofia cerca di tradurle in proposizioni che abbiano un senso pratico chiaramente intelligibile alla sua tecnica. Egli vede nello Stato uomini che comandano e uomini che ubbidiscono, nel diritto regole formulate da uomini a cui altri uomini sono chiamati ad ubbidire; egli chiama libertà individuale quella zona di attività esterna nei limiti della quale, stabiliti dalla legge, l’individuo può comportarsi come meglio crede senza essere soggetto ad alcuno; e vede nella soggezione il contrario della libertà. E il suo spirito semplificatore lo porta a ricercare i meccanismi pratici che si annidano sotto il fumo del linguaggio filosofico: come son ripartite, nello Stato totalitario, le funzioni del comandare e dell’ubbidire? Chi sono i governanti e chi i governati? Quali persone concorrono effettivamente, colla loro volontà, a creare quei comandi che poi devono valere come volontà dello Stato, cioè a creare il diritto?
Si legge che il totalitarismo è la sintesi e la messa in valore della vita di tutto il popolo: guardiamo dunque attraverso quali sistemi pratici tutto il popolo concorre nello Stato fascista alla creazione del diritto.
Il fascismo respinge energicamente “l’assurda menzogna convenzionale dell’egualitarismo politico”. Esso “nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere la società umana; nega che questo numero possa governare attraverso una consultazione periodica; afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini; che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco, com’è il suffragio universale…”. Lo Stato “…non è numero, come somma di individui formanti la maggioranza di un popolo. E perciò il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggiore numero, abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia, se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi; anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti”.
Si può innanzitutto osservare che in questa polemica contro il sistema elettorale dei regimi liberali e democratici, si cerca a bella posta, con superficiale espediente giornalistico, di far confusione tra l’uguaglianza di fatto e la uguaglianza giuridica. Lo Stato legalitario non è in alcun modo basato sull’assurda credenza, smentita dalla natura, che tutti gli uomini siano di fatto qualitativamente uguali, né pretende che tutti i cittadini possano di fatto concorrere al governo in misura uguale, come unità aritmeticamente equivalenti; ma crede che per far affiorare le direttive politiche corrispondenti alle forze sociali più vive e per trovar gli uomini meglio adatti a governare in conformità di esse, non esista metodo più perfetto (o meno imperfetto) di quello che dà a tutti i cittadini in ugual misura la libertà giuridica di esprimer pubblicamente le proprie idee, di raggrupparsi secondo esse in partiti, e di concorrere col voto alla elezione di coloro che dovranno tradurle in leggi. Non dunque equivalenza quantitativa di tutti i cittadini: ma libertà giuridica data ugualmente a ciascuno di immettere nella lotta politica le proprie qualità personali, in modo che, nelle idee e negli uomini, le qualità migliori possano affermarsi e prevalere. È un sistema, dunque, che vede nella libertà il miglior filtro dei valori umani. Si potrà sostenere che questo sistema ha dei difetti, si potranno suggerire, se ci sono, sistemi migliori; ma non è lecito, se non si vuol cambiare le carte in tavola, far apparire come un sistema indirizzato a soffocare la qualità sotto la quantità livellatrice quello che è, viceversa, essenzialmente un metodo per allargare sulla totalità del popolo la ricerca e la educazione della qualità, per dare a tutte le idee e a tutti gli uomini che valgano, in qualunque ceto sociale, la possibilità di rivelarsi e di farsi valere.
Ma guardiamo qual è, in contrapposto a questo che si afferma superato, il metodo di selezione delle idee e degli uomini proposto dal totalitarismo fascista.
Prima di tutto, abolizione dei partiti: un partito solo, che esclude ed annienta tutti gli altri e che pretende di coincidere, esso solo con lo Stato. “Un partito che governa totalitariamente una nazione è un fatto nuovo nella storia” sentenzia gravemente l’inventore della dottrina; in questo ha perfettamente ragione, perché i partiti finora avevano avuto storicamente un senso, solo in quanto fossero più d’uno e in contrasto tra loro: cioè porzioni o frazioni della vita politica dello Stato, che rappresentava il tutto di cui essi, anche etimologicamente, erano le “parti” contrapposte. Ma quando, com’è avvenuto col fascismo, i partiti si riducono ad uno e quest’uno si dilata fino ad abbracciare in sé la totalità della vita politica (sicché si è potuto parlare del fascismo come di un partito-Stato e di uno Stato-partito), allora l’idea stessa di partito dovrebbe dissolversi; e la stessa espressione di “partito totalitario” dovrebbe apparire come una contraddizione in termini, come quella di chi dicesse che l’intero è parte di sé medesimo. E in verità, durante questi vent’anni coloro che guardavano con superficiale buon senso l’evoluzione della vita pubblica italiana, non riuscivano a spiegarsi il fenomeno indubbiamente nuovo nella storia di questo partito che dopo aver sgominato tutti gli altri partiti ed esser rimasto padrone unico e incontrastato del campo, continuava tuttavia, pur governando lo Stato senza opposizioni, a stare in armi contro le opposizioni che non c’erano, come un duellante che dopo aver steso in terra l’avversario continuasse a rimanere in guardia, puntando la spada contro il vento; e i pacifici cittadini, nel veder questa gente vestita di nero che dopo dieci o quindici anni dal trionfo continuava ad aggirarsi per le piazze con aria truce e con tanto di pugnale alla cintola, si domandavano: “Ma con chi l’hanno?”.
Non capivano, questi loici pieni di ingenuità, che la sopravvivenza paradossale di questo partito totalitario colle sue gerarchie armate costituenti dal centro alla periferia un duplicato apparentemente inutile della burocrazia dello Stato, era (come meglio si vedrà tra poco) uno strumento necessario della “rivoluzione continua” coltivato a bella posta per mantenere gli spiriti in stato di perpetua mobilitazione per conservare al regime quel certo tono eccitante di illegalismo che giustificava il continuar delle sopraffazioni e delle ruberie.
Prima conseguenza di questo tipico carattere del totalitarismo, che è la soppressione di tutti i partiti fuor che di quello al potere, è stata la esclusione dalla vita pubblica (e qui, come si è visto, vita pubblica voleva dire molte volte vita professionale) di tutti i cittadini che non fossero iscritti al partito fascista. Abolita la libertà di stampa e di associazione, tolta a tutti la possibilità di manifestare in forma legale opinioni che dissentissero da quelle del partito dominante, la gran maggioranza dei cittadini fu condannata al perpetuum silentium ed all’ozio politico: esser fuori dal partito voleva dire, politicamente, esser fuori dallo Stato. E questa fu, nonostante che potesse superficialmente apparire come una prova di forza, la fatale debolezza del fascismo: quella che doveva togliergli inesorabilmente ogni possibilità di avvenire. Mentre si proclamava a parole la espressione totalitaria di tutte le forze vive della nazione, si metteva al bando la grandissima maggioranza dei cittadini, e così, col rinunciare a cercare in mezzo ad essi un contributo di uomini e di idee, a ridurre la vita politica dello Stato, la sintesi universale di tutto un popolo, a sfogo partigiano di una sola minoranza faziosa. A ben guardare, se per Stato totalitario si deve intendere quello che apre la strada alle qualità dei migliori, ricercandole e ridestandole in mezzo al popolo senza distinzioni di tendenza o di ceti, questa denominazione si addice ai regimi liberali e democratici, assai meglio che a quello fascista; perché solo in quelli, attraverso la dialettica dei partiti, non c’è voce che vada perduta, e la vita pubblica dello Stato riesce veramente, attraverso la libertà di opposizione che è anch’essa una forma di collaborazione, ad essere la sintesi di tutto un popolo. Anche nel campo spirituale, la libertà è ricchezza: dove c’è libertà non vi è frazione sia pur minima della nazione che sfugga a questa gara di qualità, attraverso la quale la vita pubblica perpetuamente si ossigena e si rinnovella; mentre una dittatura di partito finisce con l’impoverire anche spiritualmente lo Stato, perché si condanna da sé a trarre uomini ed idee da quel suo piccolo campo chiuso che ogni giorno diventa più sterile e più maligno, mentre al di là della siepe fertili distese rimangono incolte. Ma si può dire almeno che dentro a questo angusto recinto il fascismo abbia saputo introdurre ed attuare un metodo di selezione delle qualità migliore di quello praticato nello Stato legalitario? Si potrebbe infatti pensare che quella feconda opposizione delle idee che non era più permessa come distinzione e opposizione di partiti fosse però ammessa nell’interno del partito unico, in modo che i vantaggi del metodo liberale fossero messi a profitto entro questa più limitata cerchia: e che dentro di essa fosse tollerato e magari incoraggiato il formarsi di diverse tendenze, e consentita la critica reciproca, e concesso ai fascisti di raggrupparsi intorno ad esse e di scegliere da sé, in ciascun gruppo, i propri capi.
Niente di tutto questo. Ogni tanto, specialmente tra i fascisti universitari, affioravano correnti eterodosse che invocavano la libertà di critica e di discussione politica: non per tutti i cittadini, si intende, ma almeno per gli iscritti al partito. Pareva, sul primo momento, che a queste correnti giovanili si volesse consentire libero sfogo: si lasciavano fondare giornaletti che parevano destinati a rimettere in onore l’intelligenza, a riportare nella gioventù l’abitudine
Breve biografia di Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.