Philippe-Alain Michaud-Anime primitive-Quodlibet-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Philippe-Alain Michaud-Anime primitive-Figure di celluloide, di peluche e di carta
Quodlibet Studio
Descrizione del libro di Philippe-Alain Michaud, Anime primitive-Biblioteca DEA SABINA–Quindi è un libro di cinema? Non esattamente, o meglio, non soltanto, anche se tratta di immagini animate o di animazione. Parla piuttosto di disegno e di giochi, di trance, di sogno, di spettri, di unione e disgiunzione dell’anima e del corpo…
Un libro di storia dell’arte, di antropologia, di filosofia? Non direi, anche se prendo a prestito concetti di queste discipline per raccontare una storia che in fondo è la storia di tutte le storie: quella della trasformazione del corpo in figura e della sua comparsa nella rappresentazione. Cerco le tracce di questo fenomeno nelle forme più disparate, dall’universo di Krazy Kat o di Little Nemo, al cinema burlesco o scientifico, dal tarantismo del Sud d’Italia alle mitologie indoamericane…
E perché il titolo Anime primitive? Le anime primitive sono le anime separate, come lo sono le figure. Perché una figura appaia bisogna che un corpo scompaia: la figurabilità non è altro che il racconto di una separazione. È per questo che la questione della rappresentazione è così connessa al lutto e a sua volta il lutto ci rimanda sempre all’enigma della rappresentazione.
«In L’anima primitiva, Lucien Lévy-Bruhl descrive i morti, o meglio i fantasmi, come degli esseri che somigliano ai vivi ma sono “incompleti e decaduti”: al momento delle loro apparizioni hanno piuttosto l’aria di fantasmi o di ombre, anziché di esseri reali. Hanno un corpo simile al nostro, ma senza consistenza o spessore. Alla logica dell’essere si sostituisce quindi una logica dell’apparire: i ghosts sono figure persistenti che si caricano di un effetto di ritardo o di sospensione».
Indice
- Introduzione. Guignol, o della non vita
- I. Sullo schermo
- II. Simulacri
- III. La commedia di distruzione
- IV. Uomini-ragno
- V. Peluche psicopompi
- VI. Krazy Katchina
- VII. Il coniglio Oswald, macchina desiderante
- VIII. Dreamland (pavor nocturnus)
- IX. I figli della notte
- X. Fantasmagoria
- XI. Thanatografia
- XII. A volte ritornano
- Ringraziamenti
- Indice dei nomi
L’autore-Philippe-Alain Michaud, filosofo e storico dell’arte, dirige il Dipartimento di cinema sperimentale del Centre Pompidou di Parigi e insegna all’Université de Genève. Tra le mostre da lui curate: Comme le rêve le dessin (Musée du Louvre-Centre Pompidou, Parigi, 2005); Electric Nights (MAMM, Mosca, 2010); Tapis volants / Tappeti volanti (Tolosa-Roma, 2012); Hans Richter. La traversée du siècle (Centre Pompidou, Metz, 2013-2014); Beat Generation (Centre Pompidou, Parigi, 2016); L’Œil extatique. Sergueï Eisenstein à la croisée des arts (Centre Pompidou, Metz, 2019-2020). Tra le sue pubblicazioni: Aby Warburg et l’image en mouvement (Macula, Paris 1998); Sketches. Histoire de l’art, cinéma (Kargo & l’Éclat, Paris 2006); Sur le film (Macula, Paris 2016); Âmes primitives (Macula, Paris 2019). Fa parte del comitato di redazione dei «Cahiers du musée national d’art moderne» e dirige la collana «La littérature artistique» per Macula.
Recensione di Luigi Azzariti-Fumaroli-«Antinomie»
Nel tentativo di trovare «riposo nell’erudizione, in questa fuga lungi dalla nostra vita che non abbiamo il coraggio di guardare», o, più semplicemente, da ciò che di «altro un altro anno prepar[a]», si è atteso alla lettura dell’edizione italiana, appena apparsa presso Quodlibet, d’un volume pubblicato originariamente in Francia nell’estate 2019 per l’editrice parigina Macula, e di cui si era avuta notizia qualche mese dopo, scorrendo le pagine di Critique d’art. Guitemie Maldonado vi aveva dedicato una breve recensione: «Leggere questo libro di Philippe-Alain Michaud significa percorrere un’intera sezione della cultura e del pensiero visivo moderno in compagnia di una guida tanto colta quanto ispirata. Dall’introduzione, si passa dalle prime esperienze di Franz Kafka, Maxim Gorki e Siegfried Kracauer come spettatori di film alla storia del teatro delle ombre: si stabilisce così un movimento dialettico tra “rappresentazione del reale” e “presentazione dell’irrealtà”, radicato nell’idea di “reale” e “irreale”, ancorato all’idea che “tanto quanto l’apparizione delle figure, è la scomparsa dei corpi che il cinema racconta”, “il battito meccanico dell’otturatore […] inscrive un evento di scomparsa nel cuore dell’esperienza filmica per farne la condizione di possibilità della formazione delle figure”». Con le dande offerte da una pletora di phares, ora incliti ora oscuri, l’autore – si leggeva – prosegue in una disamina volta ad «individuare il ruolo dell’animismo» nella cultura moderna, ricorrendo ad esempi tratti non soltanto dalle pellicole cinematografiche, ma pure dai fumetti, dalla pittura, da alcuni riti tribali e persino dalla storia di certi giocattoli, considerati capaci di perpetuare un insieme di credenze relative alla vita dell’anima in virtù del loro mettere in scena dei «fenomeni d’incorporazione che si prolungano oltre i limiti dell’esistenza grazie all’intervento della figura animale». Pur nutrendo, colpevole forse anche un’eccessiva frequentazione delle “laboriose inezie” manganelliane, qualche scetticismo verso le recensioni che intendano far opera di servizio per il lettore, si è dunque preso a leggere lo studio di Michaud essendo già avverti, benché per sommi capi, dei suoi contenuti, e perciò interessati soprattutto ad approfondire alcuni temi ch’erano stati profilati in quel ritaglio di rivista. Del resto, secondo quanto ha insegnato Walter Benjamin, affinché un’esegesi possa risultare efficace è sufficiente ch’essa si componga di due parti: la glossa e la citazione. Le quali, a loro volta, non sono altro che «segnali indicativi» tracciati sulle pagine dalla matita, nella sua veste – direbbe Valerio Magrelli – di «ossatura / esile del pensiero».
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Il titolo (come uno dei due eserghi) del lavoro di Michaud richiama espressamente l’opera dell’antropologo Lucien Lévy-Bruhl, L’Âme primitive (1927), nella quale, come osservò, nel 1948, Ernesto De Martino introducendo l’edizione pubblicata per i tipi di Boringhieri, veniva per la prima volta delucidata quella mentalità che «rende misticamente partecipe ciò che, per noi, è distinto»: il che la fa essere poco o punto sensibile al principio di contraddizione (per cui A è diverso da B), con la conseguenza ch’essa si troverebbe prigioniera d’un delirio immodificabile, perché refrattario ad essere smentito dall’esperienza. Un delirio, tuttavia, dotato di una logica retta da quella particolare legge che governa ogni forma di soppressione di “linguaggio concordante”, sicché a connotare quest’ultimo sarebbe soltanto una “confusione”, che, d’accordo con Filone di Alessandria, si dirà non già equiparabile ad un “miscuglio”, ad una “combinazione” o ancora ad una “giustapposizione” e neppure ad una “separazione” o “divisione”, bensì alla sparizione di ogni elemento che non possa più essere separato, tanto che nulla più rimane delle qualità originarie, e tutto inclina verso la formazione di un’unica qualità. Lévy-Bruhl la chiama“mana”, termine melanesiano che indica una forza anonima e impersonale della quale parteciperebbero tutti gli esseri: essa sarebbe «sostanza, essenza, forza e unità di qualità diverse», in grado di conferire alle cose e agli esseri animati un carattere misterioso. Ed è di questo enigmatico potere interiore che Michaud si propone di indagare i riverberi che si prolungano in quegli spazi interstiziali compresi «tra la parte visibile ed il piano di fondo», e dai quali come da un leonardesco spiracolo o da un sartriano buco della serratura guateremmo «la pura coscienza delle cose e le cose stesse», così da non essere più osservatori, ma meri oggetti, cose fra cose.
Per Michaud, questa forma di reificazione troverebbe una prima esemplificazione nelle pantomime dei clown ovvero nelle gag interpretate dai protagonisti di certe pellicole di genere slapstick, in quanto il corpo vi sarebbe rappresentato come «un organismo privo di anima e dotato d’una plasticità che eccede o ignora il dato fisiologico e le regole di verosimiglianza che dovrebbero regolarne l’azione». Ma sarebbe stato specialmente un «film pressocché insopportabile», The Act of Seeing with One’s Own Eyes, terzo capitolo del trittico dei Pittsburgh Documents (1970) di Stan Brakhage (fig. 1), a mettere in scena in modo definitivo, attraverso la ripresa cinematografica d’una granguignolesca autopsia, non delle figure, ma dei corpi, i quali, però, finirebbero per non rappresentare altro che la condizione d’ogni figura, rendendosi così sopportabili o semplicemente possibili. Un cortocircuito che peraltro – nota Michaud – caratterizzerebbe anche le tante lezioni d’anatomia che la storia dell’arte annovera, a cominciare da quelle di Rembrandt (fig. 2), e nelle quali s’assisterebbe alla descrizione della vita attraverso la sua assenza.
Attorno a questa assenza, a questo vuoto indefinibile, Michaud indugia con lo specillo dell’anatomista, nella convinzione di poter così celebrare «i fasti e le superiori geometrie della vita», la quale, per farsi oggetto di conoscenza e di osservazione, parrebbe dover cessare d’essere tale. In tal senso, la seconda metà del suo studio parrebbe potersi leggere come il tentativo di teorizzare ciò che Francis Bacon definiva “emanazioni”, ossia di catalogare quelle “figure” che sembrano per certi versi promanare dalla loro stessa carne. Jean-Louis Schefer le ha definite simili a pittura che si può spazzolare, gettare, una pasta liquida, una sostanza senza soggetto che produce figure: lo sperma della vita di cui parla Proust. Michaud preferisce cogliere questo “qualcosa” che è creato dalla forma stessa, in certe figure semi-animali come le katcinas (fig. 3) degli indiani Hopi: «bambole o pupazzi di cui ai bambini si raccontano storie a volte paurose a volte divertenti, ma che sono anche una rappresentazione dei defunti e assicurano una continuità tra i vivi e i morti. Sono le immagini lasciate dagli spiriti prima di scomparire per sempre». Esse, non diversamente da quanto accade per i peluches quando intesi come “oggetti transizionali”, rappresenterebbero un principio vitale in un corpo inumano. La figura zoomorfa assolverebbe insomma ad una funzione psicopompica. La medesima assolta dal cartone animato di marca disneyana, considerato – anche sulla scorta di alcuni rilievi di Ėjzenštejn – il segno del completo abbandono di ogni costruzione psicologica, a vantaggio di un movimento perpetuo, nevrotico e febbricitante.
Questo stato spasmodico sembra invero pervadere lo stesso dettato di Michaud, che scivola avanti e indietro fra i diversi autori ch’egli convoca a sostegno delle proprie affermazioni, ma sempre guardandoli di sfuggita. È per questo forse che i riferimenti bibliografici, scelti per lo più in forza d’una regola analogica, rivelano nella sua scrittura un certo manierismo, se è vero che questo, linguisticamente, può individuarsi, secondo Ludwig Binswanger, in una pluralità di riferimenti “innaturali” enorme, smisurata, che fa saltare o lascia negletti i “confini naturali”. Vi è, nel citazionismo che caratterizza la scrittura di Michaud, un che di compulsivo, non dissimile dal modo di disegnare o di scrivere di artisti e scrittori ch’egli stesso ricorda, come Winsor McCay, Gabriel de Saint-Aubin (fig. 4) o Thomas Browne.
Quest’ultimo è in particolare evocato per la sua familiarità coi fantasmi, al centro delle pagine finali di Anime primitive, ispirate dal desiderio di offrire un ulteriore tassello a quella “scienza degli spettri” di cui Pierre Le Loyer, nel secolo XVII, intendeva gettare le basi, interrogandosi sui diversi “non essere” che hanno accompagnato per secoli il discorso più intimo della cultura occidentale e che ci insegnerebbero a considerare ogni esistenza soltanto nelle sue intermittenze. A partire da quella che si pone sotto il nome di “Io”. Infatti, «se la possibilità della mia scomparsa in generale» – ha scritto Jacques Derrida, fra i riferimenti più ricorrenti nelle pagine di Michaud – «deve essere vissuta in un certo modo perché possa istituirsi un rapporto alla presenza in generale, non si può più dire che l’esperienza della possibilità della mia scomparsa assoluta (della mia morte) venga ad intaccarmi, sopravvenga ad un io sono e modifichi il soggetto». Questo sarebbe infatti già da sempre solo un’ombra in congedo ed in annuncio, memore appena del suo dileguare. Farne l’epicrisi sarebbe perciò impossibile, a meno di sconfinare nel comico, come accade in Autopsia de un fantasma (1968) di Ismael Rodriguez. Peraltro, La scienza del comico (ma Umberto Eco, nella prefazione, segnalava che miglior titolo sarebbe probabilmente stato Il comico della scienza) è un saggio di Giorgio Celli che Michaud non manca di menzionare, traendolo dal «Mottenwelt», dal «mondo di tarme» in cui il tempo l’ha confinato, e di cui rammenta un passo nel quale si tratteggia la figura dell’anatomista come «un carnefice per delega cadaverica». Una definizione dove echeggia la passione, comune a Celli e a Michaud, per il grottesco: «rire vrai, rire violent» – osservava Baudelaire – a cospetto di oggetti che non sono un segno di debolezza o di sventura, ma, all’opposto, «créations fabuleuses», come, ad esempio, gli anaglifi, gli automati, le bambole, i peluches, le cere anatomiche, gli utensili chirurgici del dottor Farabeuf.
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