Padre Clemente Rebora- Poesie e Biografia -Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Padre Clemente Rebora- Poesie-
Clemente Luigi Antonio Rèbora (Milano, 6 gennaio 1885 – Stresa, 1º novembre 1957) è stato un presbitero e poeta italiano.
Fu insegnante di lettere e collaborò a diverse riviste, tra cui La Voce. Le sue prime poesie rivelavano un profondo interesse per problematiche morali, portandolo a una crisi spirituale. Ordinato sacerdote nel 1936, continuò a scrivere poesie che riflettono il suo costante colloquio con Dio. Fu anche traduttore di autori russi tra cui Tolstoj e Gogol’.
- Intraprende nel 1903 gli studi di Medicina a Pavia, interrompendoli per seguire i corsi universitari di lettere presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano (non ancora Università Statale). Nel ’10 si laurea con una tesi sul pensiero di Gian Domenico Romagnosi, relatore Gioacchino Volpe. Dopo la laurea inizia a insegnare in diversi istituti tecnici (prima a Milano, Treviglio, Novara, poi a Como e ancora a Milano) e collabora a «La Voce», alla «Rivista d’Italia», alla «Riviera Ligure», anche per l’amicizia con Giovanni Boine. Nel ’13 vengono pubblicati i Frammenti lirici per le Edizioni della Voce dirette da Giuseppe Prezzolini, con la dedica «ai primi dieci anni del secolo ventesimo». Nel ’14 conosce Lidia Natus, pianista russa, e vive con lei a Milano. Allo scoppio della Prima guerra è richiamato alle armi col grado di sottotenente del 159° reggimento fanteria; il 17 giugno sul Podgora subisce un forte trauma cranico a causa di un’esplosione; tra il ’16 e il ’19 passa da un ospedale militare all’altro finché, nel ’19, viene riformato. Riprende il suo lavoro d’insegnante in vari istituti privati, dirige la collezione “Maestri di Vita” per l’editore Pavia e tiene conferenze. Nel ’22 pubblica i Canti anonimi raccolti da C. Rebora nelle edizioni de Il Convegno di Milano, una poesia severa, percorsa da un’ansia di verità, di serietà, di fastidio per gli illusori miti contemporanei, espressa in un linguaggio dissonante, privo di concessioni e di abbandoni; una «poesia che non consola», dunque. Nel ’28 s’evidenzia la profonda crisi religiosa (in conflitto con l’educazione morale, mazziniana e laica, ricevuta in famiglia) che lo porta, nel ’31, a entrare come novizio all’Istituto della Carità al Monte Calvario di Domodossola. Nel ’36 è ordinato sacerdote. Negli anni seguenti esercita varie funzioni negli istituti rosminiani di Domodossola, Torino, Rovereto e Stresa, dove infine rimane. In questa nuova vita il silenzio della poesia è quasi totale fin quando non riprende con un’esplicita vocazione di celebrazione liturgica( Via crucis, 1955; Gesù il fedele, 1956) sentita con intensità e passione dolorosa o legata all’esperienza esistenziale attraversata, in Poesie religiose (1936-1947) e specialmente nei Canti dell’infermità (1947-1956), nati in anni in cui è via via ridotto dalla malattia a una progressiva e assoluta immobilità. Nell’estate del ’55 Rebora compone un Curriculum vitae, significativa e sommaria autobiografia, nella quale menziona anche la volontà di distruzione dei libri e dei manoscritti (poi impedita dal nipote , Roberto Rebora, che sottrae le carte allo strascée ). Nel 1985 escono Le poesie (1913-1957), a cura di Lucilio G. Mussini e Vanni Scheiwiller ,pp.585, Coedizione Garzanti-Scheiwiller, Milano.
- Bibliografia:
Novati Laura, Giovanni e Vanni Scheiwiller editori. Catalogo storico 1925-1999, Milano, Unicopli, 2013, p.55-56
Mentre lavoro nei miei giorni scarsi,
Mi pare deva echeggiar imminente
Una gran voce chiamando: Clemente!
Per un’umana impresa ch’è da farsi…
E perché temo che risuoni quella
Quando dai miei fratelli io fossi assente,
Monto, senza sostar, di sentinella
Nel cuor disposto a servire la gente. (1926) 1
ELEVAZIONE SPIRITUALE
Come bello, Signor, nel tuo creato!
Ma sol nel cuore sei bellezza amante!
E doni amor onde chi ama è nato
a quella vita che in morir s’espande.
(8 ottobre 1955) 2
CURRICULUM VITAE
Per Te, con Te, in Te, Gesù, ch’io veda
il Padre: e coi fratelli: un cuore solo;
sii Tu, Spirito, l’ultimo respiro.3
POESIA E SANTITÀ
Mentre il creato ascende in Cristo al Padre,
nell’arcana sorte
tutto è doglia del parto:
quanto morir perché la vita nasca!
pur da una Madre sola, che è divina,
alla luce si vien felicemente:
vita che l’amor produce in pianto,
e, se anela, quaggiù è poesia;
ma santità soltanto compie il canto.4
1 C. Rebora, Le poesie, Garzanti, Milano 1994, p. 251.
2 Ibidem, p. 278.
3 Ibidem, p. 307.
4 Ibidem, p. 320.
RENDIMENTO DI GRAZIE
Io benedico il giorno che fui nato;
io benedico il prete e il sacro Fonte,
il giorno e l’ora che fui battezzato.
Io benedico quel casto mattino
quando, gravato già di nove lustri,
mi cibai di Gesù come bambino.
Io benedico il dì che nel mio Duomo
lo Spirito discese a fare tempio
della Sua gloria anche me, pover’uomo.
Benedico quell’invito giocondo
a lasciar tutto per amor di Cristo,
scegliendo l’Ognibene sopra il mondo.
Benedico l’Amore Crocifisso
quando mi elesse a ministrare il Sangue
che al Ciel ci salva dal mortale abisso.
Bene sia sempre a chi quaggiù la voce
del Signor a seguir mi fu d’aiuto,
l’universal carità della Croce.
Per tante grazie e patimenti tanti
l’Amante Trinità sia benedetta:
con Maria, e Giuseppe, e tutti i Santi.5
Sitivit anima mea ad Deum
fortem vivum (Ps. 41, 3)
Inaridita la terra,
protende la bocca:
implacabile il cielo di sopra.
- Signore, scenda la pioggia,
- che aiuti nei beni del tempo
- ad ambir con fiducia gli eterni. –
- Ecco cade, nel silenzio, una goccia:
- qua, là, crepita l’acqua:
- ora scroscia sonora,
- su alberi in fiore, patiti,
- e zolle in malati germogli:
5 Ibidem, p. 321.
ovunque giunge, s’intende: si estende
la fecondazione gioiosa.
In poco volgere d’ora
l’arido aspetto d’ogni cosa,
il grigio no della morte si sperde
nel sovrano sì della vita
fra trilli d’uccelli e fremiti e fruscii:
fresca appare la quiete del verde:
al Creatore amante tutto s’intona.
O Gesù, aver sete,
anelarti così!
O anima, alla grazia
del Suo amor che si dona,
così, anima, indiata, ringrazia.
(Aprile 1953) 6
Nello Spirito andiam del Precursore
Che prepara le vie del Signore,
E dice: non guardate chi sono io,
Ma guardate a Chi viene, al nostro Dio.
(24 giugno 1930) 7
J.M.J.
– Et iterum venturus est cum gloria…
La Fede, in Agostino, prende piede:
La Speranza, in Tommaso, prende corpo:
La Carità, in Rosmini, prende fuoco:
La Chiesa in essi ascende: e a poco a poco
La Verità – che è Cristo – aggiunge al Corpo
Mistico il cuore di ciascun che crede,
Vincendo il mondo col fraterno affetto,
Nel Sangue di Gesù. Poi sarà detto:
Sia or tutto in tutti Dio benedetto…
(Nel Mese di Maria [maggio], 1947)8
6 Ibidem, p. 418.
7 Ibidem, p. 440.
8 Ibidem, p. 456.
Di Gianluca Giorgio
Tra i poeti del Novecento letterario spicca la figura di Clemente Rebora. Il letterato dopo la conversione, avvenuta nel 1929, scelse di diventare sacerdote e membro dell’Istituto della Carità.
Il suo canzoniere, comprendente più raccolte poetiche, tratta della condizione umana con vibrante partecipazione e calore.
Vissuto sul finire del Mille ed Ottocento ed i primi del Novecento, fu tra i giovani che parteciparono alla Grande Guerra.
Quest’esperienza segnò la vita ed il percorso umano dell’autore nel suo cammino verso Dio. Contrario alla politica interventista, fu chiamato a offrire il proprio contributo, richiamato dalla leva militare.
Il suo ruolo lo spinse ad immolarsi per i suoi soldati ed a viverne le ansie e le tristezze della condizione di vita in trincea. Di questo periodo è la lirica Viatico nella quale fotografa, con immediatezza e penetrazione, il senso di quel dramma, caratterizzato dalla condizione di guerra.
Questa è contenuta fra le poesie sparse e le prose liriche, che raccolgono i contributi del poeta dal 1913 al 1927.
Già il titolo è emblematico indicando il conforto e le cose necessarie all’esistere che, con il dramma della Guerra, sembrano perdersi.
Il ritorno alla vita ed alla speranza nel domani, rappresentano quasi il senso sacro di un sacramento che fa da sfondo ai versi, per il futuro dell’umanità.
La lontananza dalla famiglia, la vita di trincea ed il pericolo che da un momento ad un altro si potesse perdere l’esistere, segnarono quell’esperienza nella vita di molti, come uno dei momenti più bui del secolo scorso.
La poesia, scritta dal poeta, ancora non sacerdote, richiamato alle armi, rievoca l’esperienza del campo di battaglia ed al tempo stesso del dolore che in esso si vive. La bellezza dell’esistere diventa sacra, se spesa per i fratelli e per quell’ideale che prese il cuore di Rebora, tanto ad immedesimarsi nel Cristo sofferente,vivendo il dolore della vita di tanti fratelli, dopo la maturata conversione religiosa.
Ecco la lirica:
O ferito laggiù nel valloncello
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio
Di Gianluca Giorgio
Stresa, giovedì, 7. gennaio, 2021 13:00 (ACI Stampa).
Leggendo l’itinerario poetico di Clemente Rebora (Milano1885-Stresa 1957) si resta ammirati dalla forza di volontà nel seguire Dio.
Nel corso dell’esistenza, il poeta ha sempre cercato nell’Assoluto la risposta ai molti interrogativi sulla propria vita. Vita nascosta ed alle volte incrinata sui binari della sofferenza e del dolore.
Da reduce della Prima Guerra mondiale, alla precarietà del lavoro di professore financo alla sofferenza fisica, il suo cammino non gli ha risparmiato nulla.
Ma accanto a tutto questo brilla chiaro, nel suo animo, il desidero profondo della rinascita e della consacrazione a Qualcuno di più grande ,che può esser solo Dio.
Religioso presso l’Istituto della Carità, nel quale spenderà il proprio quotidiano e sacerdote dal 1936, ha interpretato le parole del vangelo, come segno di speranza, per il mondo, sconvolto da due Guerre mondiali e tanta tristezza.
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Animo delicato e profondamente sensibile alle sofferenze altrui, il Padre celeste e gli ultimi furono il suo mondo, per il quale spese i propri giorni.
In occasione della solennità del Santo Natale, che celebra la nascita del Cristo nel grembo della Vergine Maria, il poeta compose una breve lirica, dedicata a tale evento così importante per la fede.
I versi sono del 1 dicembre 1955 ed appartengono alla raccolta dei Canti dell’infermità, composti tra l’ottobre 1955 ed il dicembre del 1956.
La poesia si intitola “Avvicinandosi il Natale”.
Si noti, nella lettura, il senso del divenire e la potenza di quel fuoco che disgela le coscienze, addormentate, dal trambusto del mondo, che nell’animo del sacerdote lascia il posto alla venuta del Santo di Betlemme, tanto amato e desiderato.
Oh Comunion vera e sol beata,
se con te, Cristo, sono crocifisso
quando nell’Ostia Santa m’inabisso!
Intollerabil vivere del mondo
a bene stare senza l’Ognibene!
Penitenza scansar, che penitenza!
Se ancor quaggiù mi vuoi, un giorno e un giorno,
con la tua Passion che vince il male,
Gesù Signore, dàmmi il tuo Natale
di fuoco interno nell’umano gelo,
tutta una pena in celestiale pace
che fa salva la gente e innamorata
del Cielo se nel cuore pur le parla.
O Croce o Croce o Croce tutta intera,
nel tuo abbraccio a trionfar di Circe,
solo sei buona e bella, e come vera!
Abbraccio della Madre, ove già vince
nel suo Figlio lo strazio che l’avvince.
Di Gianluca Giorgio
Padre Clemente Maria Rebora spirò al mondo il 1 novembre 1957. La sua esistenza di poeta trascorse, feconda ed attraversata da moltissime istanze, che lo portarono dall’ideale laico della bontà a quello divino della santità.
Proveniente da una buona famiglia di tradizioni mazziniane, fin da giovane, sente il richiamo della partecipazione e del farsi fratello fra i fratelli, frutto di un solidarismo laico.
Nel 1910 si laurea in Lettere, discutendo una tesi avente ad oggetto: “Gian Domenico Romagnosi ed il pensiero del Risorgimento”. Relatore è il professor Gioacchino Volpe.
Fu autore di diverse raccolte, tra cui i Frammenti lirici (1913) per le edizioni de la Voce di Giuseppe Prezzolini, i Canti anonimi (1922) ed infine i Canti dell’infermità (1956).
La poesia è stata sempre la sua realtà, nelle pieghe dell’esistere I suo versi sentono il richiamo alla poetica del Leopardi.
Parte degli studiosi sono concordi nel ritenere che i Frammenti lirici abbiano influenzato, anche, autori come Eugenio Montale, per i suoi Ossi di seppia (1925).
Fu professore di italianistica, in diversi Istituti ed amò il mondo dell’insegnamento, con la volontà di donarsi, ai ragazzi, per portarli al desiderio di un mondo migliore.
Ufficiale, durante la Prima guerra mondiale, una non nota “mania dell’eterno”, gli fu diagnosticata, come pensiero dominante, da un medico di Reggio Emilia, dopo aver riportato una ferita da obice, alla tempia, durante il conflitto.
In quei mesi di trincea, il poeta è ricordato per esser stato vicino ai soldati e dedito all’ascolto di ogni sofferenza.
Del periodo successivo è la traduzione di diverse opere della letteratura russa, tutt’ora, ripubblicate. Convertito al Cristo, dal 1929, ascese i sentieri della religione, per varcare quelli della gioia dell’incontro con il Padre.
La sensibilità maturata, tramite un percorso fra la ricerca personale e la cultura furono la base per scendere nel cuore dell’uomo e portarvi la felicità dell’incontro con quella fede, che trasfigura ogni cosa.
Chi conobbe padre Clemente Maria Rebora lo ricorda, dopo la sua entrata nell’Istituto della Carità, come un uomo nuovo, completamente, rinnovato dalla parola del vangelo.
Seguendo il beato Antonio Rosmini, nella nuova famiglia religiosa, scelse di vivere la Carità come anelito e la Provvidenza, come mezzo del suo essere.
“Dalla perfetta Regola ordinato-scrive nel Curriculum vitae– l’ossa slogate trovaron lor posto: scoprì l’intelligenza il primo dono: come luce per l’occhio operò il Verbo, quasi aria al respiro il Suo perdono”.
Fu un religioso devoto e pio: solo la bontà, sempre pronta alle esigenze di coloro che incontrava sul suo cammino.
Il sorriso e l’accoglienza erano il modo di porsi nell’incontro con l’altro.
Fu un autentico padre, donando quanto possedeva, ai tanti, che ne chiedevano l’intercessione o la carità. Si privava di tutto pur di assecondare le molte richieste.
Visse, con altissima partecipazione, la fede, leggendo nei segni del quotidiano, la mano di Dio che guida il cammino, alle volte, difficile dell’esistere.
Condivise un sacerdozio, esemplare e generosissimo, reso vivo dall’esser parte della Passione del Cristo e della Madonna addolorata, venerata nella spiritualità rosminina.
Seguì i giovani, amministrò i Sacramenti, predicò ritiri ed insegnò nelle scuole dell’Istituto della Carità, pur di far regnare il vangelo nella società.
Poche parole, dense di molta interiorità, filtrano dai suoi consigli spirituali, ai fedeli. La conversione gli fece abbandonare il mondo culturale, la musica e la poesia, seppur ripresa poco tempo prima di morire, con diverse liriche religiose, pur di trovare la verità della croce.
Fu un vero apostolo e con la parole e l’esempio, riportò molti cuori alla fede ed alla bontà.
Visse di Dio e per Dio lasciando la terra per il cielo, nella contemplazione dell’Assoluto, cercato ed amato nel corso dei propri giorni.
La vitaClemente Rebora – il grande poeta innamoratosi di Cristo crocifisso – nasce a Milano, nel 1885, da una laicissima famiglia di origine genovese: il padre, che era stato con Garibaldi a Mentana, tiene il ragazzo lontano dall’esperienza religiosa e lo educa agli ideali mazziniani e progressisti, tanto in voga fra la borghesia ambrosiana del tempo. Dopo il liceo, il giovane frequenta medicina per un anno a Pavia, ma non è questa la sua strada. Passa a Lettere: l’accademia scientifico letteraria di Milano – presso la quale si laurea – era un ambiente pieno di fervore creativo. Rebora incontra condiscepoli di grande ingegno, con i quali intrattiene appassionanti conversazioni. Intraprende poi l’attività d’insegnante. La scuola è per lui luogo d’educazione integrale, per formare uomini pronti a cambiare la società; e proprio con articoli di argomento pedagogico comincia a collaborare a “La Voce”, la prestigiosa rivista fiorentina. Come quaderno de “La Voce” esce nel 1913 la sua opera prima: i Frammenti lirici. Il successo è immediato. Alla fine di quello stesso anno conosce Lidya Natus, un’artista ebrea russa: nasce fra loro un affetto che li lega fino al 1919. Allo scoppio della prima guerra mondiale Rebora è sul fronte del Carso: sergente, poi ufficiale. Ferito alla tempia dallo scoppio di un granata, ne rimane segnato soprattutto a livello psicologico (i biografi parlano di «nevrosi da trauma»). Nell’immediato dopoguerra torna all’insegnamento, optando per le scuole serali, frequentate da operai: da quel popolo semplice che egli, con slancio umanitario, ama. Si autoimpone un regime di vita molto austero, devolvendo gran parte dello stipendio ai poveri e spesso ospitandoli in casa. Appare a molti come una specie di santo laico, ma in realtà, «l’ignorato Battesimo operando», egli è sempre più affascinato dalla religione. Lo si evince anche dai Canti anonimi: il suo secondo libro di poesia, del 1922. Nella stessa direzione va la sua iniziativa editoriale: I sedici Libretti di vita attraverso cui divulga opere di mistica occidentale e orientale (e su tali argomenti è anche apprezzato conferenziere). Sono questi, diversi segnali che preludono all’approdo: la conversione al cattolicesimo, nel 1929. Decisiva è per lui la figura dei cardinal Schuster, da cui riceve il sacramento della Cresima. Rebora adesso capisce che la via alla totalità passa attraverso la sequela di un carisma particolare: nel suo caso è quello rosminiano, con il «voto di annullamento» – perdersi per ritrovarsi -, con la mistica prospettiva di «patire e morire oscuramente scomparendo polverizzato nell’amore di Dio». Nel Curriculum vitae il poeta, ormai anziano, ricorderà Rosmini come il maestro cui filialmente si era affidato, forma attraverso la quale la novità di Cristo aveva investito e cambiato la sua persona: E fui dal ciel fidato a quel sapiente che sommo genio s’annientò nel Cristo onde Sua virtù tutto innovasse. Dalla perfetta Regola ordinato, l’ossa slogate trovaron lor posto: scoprì l’intelligenza il primo dono: come luce per l’occhio operò il Verbo, quasi aria al respiro il Suo perdono. La vita di Rebora può procedere ormai con passo sicuro: nel 1931 entra come novizio nell’Istituto rosminiano di Domodossola, nel ’33 emette la professione religiosa, nel ’36 è’ ordinato sacerdote. Per un ventennio don Clemente spende le proprie energie in mezzo a poveri, malati, prostitute. Colui che camminando tra le tante parole (magari poetiche) si era imbattuto nel Verbo che si è fatto carne, ora non ha più bisogno di scrivere: la parola fa spazio all’azione di carità. Solo negli ultimi anni di vita, malato nella carne, tornerà alla parola poetica: Curriculum vitae, autobiografia in versi, del 1955; Canti dell’infermità, del 1957, l’anno della morte di Rebora.
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L’itinerario poetico
La palestra in cui il giovane Rebora affina il proprio stile poetico è la rivista “La Voce”: egli, assieme a Sbarbaro e Jahier, e a narratori quali Boine e Slataper («gente che – avverte Gianfranco Contini – era abbonata al Cahier de la quinzaine, che sentiva l’esigenza religiosa … »), pensa un’arte come testimonianza nuda, autentica, magari polemica, sempre carica di tensione morale ed esistenziale.
Tra questi autori che «testimoniano in versi il tormento profondo dell’uomo alienato ed esposto all’angoscia delle estreme domande esistenziali, Rebora è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca» (Elio Gioanola).
li suo stile espressionistico consiste nel deformare il segno linguistico, renderlo aggressivo, incandescente, non temendo di mescolare termini aulici e dialettali per ottenere accordi stridenti e disarmonici. «La carica di violenza deformante con cui egli aggredisce il linguaggio – scrive il Mengaldo – mima il caos peccaminoso della realtà rugosa». Gli fa eco il Gioanola: «La poesia di Rebora appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è e agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».
A Mario Apollonio che si chiede se non sia tutta religiosa la poesia di Rebora (anche quella che precede la conversione), si può decisamente rispondere in maniera affermativa: nei frammenti lirici e ancor più nei Canti anonimi il senso religioso si esprime proprio come “sproporzione” che evolve in “domanda” di totalità, mentre gli attimi che scorrono sono come una morsa funerea che aggredisce brandelli di gioia. Nitidamente il poeta lo ricorderà nel Curriculum vitae:
un lutto orlava ogni mio gioire:
l’infinito anelando, udivo intorno
nel traffico e nel chiasso, un dire furbo:
Quando c’è la salute c’è tutto,
e intendevan le guance paffute,
nel girotondo di questo mondo.
Al cuore, strutturalmente fatto per l’infinito, non basta il buon senso, la salute – epidermico colorito sulle guance -; gli è piuttosto necessario il Senso ultimo, la Salvezza.
Al giovane Rebora proprio questo mancava: «ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno :scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo».
Questo gemito, questa grande tristezza è il carattere fondamentale della vita consapevole di sé, che è – come diceva san Tommaso «desiderio di un bene assente». Quel bene, quell’unico oggetto veramente cercato, sfugge all’umana capacità di «presa». Un individuo è allora tentato di aggrapparsi agli idoli, che però dapprima si offrono a un possesso precario, poi scivolano via – beffardi – tra le dita. La creatura resta sola con il suo “grido”, con «una segreta domanda».
E’ il tema della splendida lirica Sacchi a terra per gli occhi:
Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
a una segreta domanda…
Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio!
La ragione è esigenza di spiegazione adeguata e totale dell’esistenza. La risposta c’è: l’intima domanda che urge nel cuore ne è la prova; c’è, ma dimora al di là dell’orizzonte da noi misurabile. La ragione al suo vertice si sporge sul «mistero».
E’ ladinamica de Il pioppodi Rebora (come già de Il libro di Pascoli, dal quale il poeta rnilanese riprende la tripletta di rime: «pensiero-mistero-vero”):
Vibra nel vento con tutte le sue foglie
il pioppo severo;
spasima l’aria in tutte le sue doglie
nell’ansia del pensiero:
dal tronco in rami per fronde si esprime
tutte al ciel tese con raccolte cime:
fermo rimane il tronco del mistero,
e il tronco s’inabissa ov’è più vero.
Tutto il reale è segno che rimanda ad altro, oltre sé, più in là; tutto è “analogia” che chiede di “tendere a”, ovvero di “ad-tendere”. Se l’allodola era, in Claudel come in Pascoli, aereo simbolo dell’uomo che ha riconosciuto Dio e spende la vita per lodarlo, nel giovane Rebora è invece l’emblema del poeta: teso al cielo per il quale è fatto, ma legato alla terra, egli canta l’elegia dello schiavo consapevole, inchiodato alla missione di richiamare i fratelli (apparentemente) liberi a prender coscienza della propria condizione. Ogni slancio verso il cielo della felicità pare destinato a ricadere dolorosamente al suolo:
O allodola, a un tenue filoavvinta,
schiavo richiamo delle libere in volo,
come in un trillo fai per incielarti
strappata al suolo agiti invano l’ali.
Egli resta “spatriato quaggiù, Lassù escluso».
Eloquente questa confessione, nell’ultimo dei Frammenti lirici:
Il mio canto è un sentimento
che dal giorno affaticato
le ore notturne stanca:
e domandava la vita.
Questa «domanda di vita» attraversa da un capo all’altro l’opera prima: frammenti gremiti di una domanda di totalità.
In Dall’intensa nuvolaglia il poeta proietta in un evento esterno – il ternporale – l’incombenza minacciosa che intimamente lo pervade. Coscienza del male e domanda di Bene: in 0 pioggia dei cieli distrutti «un’ansia continua di superamento, una richiesta di assoluto muove anche dai più comuni spettacoli, come quello della pioggia» (G. Bàrberi Squarotti). In 0 carro vuoto sul binario morto il dato realistico viene «trasformato in inquietante simbolo di un condizionamento senza scampo – il binario che costringe ad una rotta vincolata – e di ansia per il libero spazio»: è il contrasto esistenziale «tra prigionia dell’hic et nunc e volontà di assoluto» (E. Gioanola).
Nel secondo libro di Rebora, i Canti anonimi, «si accentua la sua tendenza – come dice ancora l’ottimo Gioanola – a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto».
Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.
Universalmente riconosciuta come il capolavoro di Rebora, Dall’immagine tesasta sulla soglia della conversione: scritta nel 1920 e posta in chiusura dei Canti anonimi, questa lirica sigilla la produzione “laica” del Nostro. Poesia dell’attesa, o meglio dell”‘Atteso”, è reputata da Margherita Marchione «la lirica italiana più religiosa e vibrante del nostro tempo»; e Stefano Jacomuzzi la definisce «uno dei più alti canti religiosi dell’arte contemporanea».
Strutturalmente è divisa in due parti di tredici versi ciascuna. Nella prima, costruita su una fitta serie di affermazioni e negazioni, il corpo è teso a vigilare l’istante, all’erta come sentinella (o come le vergini prudenti: imminente è l’arrivo dello Sposo). «Nell’ornbra accesa» (ardito ossimoro), nel buio dell’incertezza in cui scintilla l’attesa, il poeta spia quel silenzio gremito d’impercettibili suoni, profumati e leggeri come polline (splendida la sinestesia: «polline di suono»!). Lo spazio, nell’immobilità sospesa e colma di stupore, pare dilatarsi all’infinito. In esso il poeta, che tre volte ribadisce «non aspetto nessuno», pre-sente di essere sull’orlo di una rivelazione. L’«immagine tesa» dell’incipit – spiegherà Rebora ormai vecchio – è «la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae».
La seconda parte della lirica, aperta dall’avversativa «Ma», afferma perentoriamente che l’Ospite atteso «verrà» (sei volte ricorre l’anafora). Fragile è la mia capacità di vigilanza, sempre minacciata dalla distrazione – dice il poeta – ma, «se resisto» nell’attesa, non potrò non assistere al Suo impercettibile «sbocciare» (dunque era Lui – l’Ospite – a spandere «un polline di suono»). La Sua venuta sarà un avvenimento «improvviso», imprevisto (qui come già in Péguy); e porterà il “per-dono”, il grande dono della vittoria sul peccato e sulla morte (qui la concezione è già pienamente cristiana, sebbene la conversione accadrà solo nove anni dopo). Verrà come certezza che c’è un «tesoro», per acquistare il quale vale la pena vendere tutto; dolori e pene permarranno, ma abbracciati da un «ristoro» umanamente impensabile. «Verrà, forse già viene»: «La Presenza è alle soglie e chiede un totale tremante silenzio perché possa essere udito il suo discreto “bisbiglio”» (Jacomuzzi). Testirnoniando la propria fede a Eugenio Montale, Rebora – negli ultimi anni di vita – tornerà su quel bisbiglio: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».
Curriculum vitae
In quest’opera il poeta, ormai vecchio e malato, ripercorre la propria vicenda esistenziale, a partire dagli anni della giovinezza, quando «sola, raminga e povera /un’anima vagava». Ogni “idolo” illudeva e puntualmente deludeva. «Immaginando m’esaltavo in fama /di musico e poeta e grande saggio: /e quale scoramento seguitava!». La cultura cresceva in quantità, non in profondità: «Saggezza da ogni stirpe affastellavo /a eluder la sapienza». Un’esistenza mondana era «civil asfissia». Finché si piegò alla Grazia.
Come nella mistica classica, l’incontro con l’Agnus Dei accade al culmine di una lunga salita, dopo aver attraversato la notte oscura dello smarrimento, quando egli si era visto schiacciato da nebbia e caligine, quando aveva provato terrore, disperazione e angoscia. A salvarlo dallo smarrimento era stato dapprima un richiamo, un indizio: un fievole belato. Poi tutto si fa chiaro, e la strada è finalmente in discesa: gli è dato di baciare la tenerezza di Dio, di sostare nella «dimora buona», di camminare lieto, «ri-cordando» – portando nel cuore – Colui che è venuto attraverso Maria.
Alla critica laicista non è piaciuto questo Rebora novissimo, questa poesia che si fa inno, officiatura, parola paraliturgica. Giovanni Getto trova inveceche proprio adesso questa lirica «si insapora d’un gusto pungente»: il senso e il gusto riconosciuto in «Gesù il Fedele, /il solo punto fermo nel moto dei tempi». Centro del cosmo e della storia.
Da Roberto Filippetti _ IL PER-CORSO E I PERCORSI – Schede di revisione di letteratura italiana ed europea volume terzo “Da metà Ottocento al 2000” – Ed. ITACA