Marta Fana -Non è lavoro, è sfruttamento-Editori Laterza-Biblioteca DEA SABINA
Marta Fana -Non è lavoro, è sfruttamento
Editori Laterza-Bari
DESCRIZIONE
In Italia il canto costante è che il lavoro ‘non c’è’: però è lo stesso paese dove si chiede di lavorare gratis o senza tutele. Il tutto con spaventevoli ricadute culturali sul lavoro come merce degradata, una svalutazione umana e professionale che riguarda tutti.
Marta Fana ci racconta non solo i numeri del lavoro, già deprimenti, ma la sua perdita di qualità.
Non è un libro per economisti, questo combattivo pamphlet, ma un libro per lavoratori.
Alessandro Robecchi, “il Fatto Quotidiano”
La precarizzazione ha reso il lavoro una risorsa povera, incapace di fornire alla maggior parte degli italiani quello che un tempo poteva dare: sicurezza economica, forza contrattuale, capacità progettuale. In Italia è stato un processo particolarmente rapido e violento, che ha aperto ferite difficili da rimarginare. Un libro militante e documentato.
Giuliano Milani, “Internazionale”
Dicevano: meno diritti, più crescita. Abbiamo solo meno diritti. La modernità paga a cottimo. Così dilaga il lavoro povero, spesso gratuito, e la totale assenza di stabilità lavorativa.
Non è la rabbia di chi ha perso la partita,
ma quella di chi non ha nemmeno potuto giocarla.
Così passi dalla parte del torto (Zerocalcare)
A chi si deve, se dura l’oppressione? A noi.
A chi si deve, se sarà spezzata? Sempre a noi.
Chi viene abbattuto, si alzi!
Chi è perduto, combatta!
Chi ha conosciuto la sua condizione, come lo si potrà
fermare?
Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani
e il mai diventa: oggi!
Lode della dialettica (Bertolt Brecht)
L’autore -Marta Fanaha conseguito un dottorato di ricerca in Economia presso l’Institut d’Études Politiques di SciencesPo a Parigi. Ha iniziato l’attività di ricerca studiando appalti e corruzione e oggi si occupa di political economy, in particolare di mercato del lavoro, organizzazione del lavoro e disuguaglianze economico-sociali. Per Laterza è autrice di Non è lavoro, è sfruttamento (2017).
Prologo.
Di precariato si muore
«Io non ho tradito, io mi sento tradito» sono le parole di un ragazzo, appena trentenne, che decide di abbandonarsi al suicidio denunciando una condizione di precarietà, un sentimento di estrema frustrazione. Non è l’urlo di chi si ferma al primo ostacolo, di chi capricciosamente non vede riconosciuta la propria ‘specialità’. È l’urlo di chi è rimasto solo. Di precariato si muore.
Tutto questo ha a che fare con le trasformazioni della nostra società, a partire dai diritti universali, dal lavoro, dall’umanità e dalla solidarietà negate. Quelle cose che si è deciso di escludere dalle nostre vite, non potendogli dare un prezzo. C’è più di una generazione a cui avevano detto che sarebbe bastato il merito e l’impegno per essere felici. Quella di chi si è affacciato al mondo del lavoro cresciuto a pane e ipocrite promesse, e quella di chi si affaccia oggi, quando la promessa assume il volto di un’ipocrisia manifesta. Oggi ci si suicida perché derubati di possibilità, di diritti, di una vita libera e dignitosa. Qualcosa è andato storto e c’è chi continua a soffiare sul fuoco delle responsabilità individuali, delle frustrazioni che la solitudine sociale produce.
Di precariato si muore. E non è un caso. Il precariato è la risposta feroce contro la classe lavoratrice, il tentativo più riuscito di distruzione di una comunità che aveva in sé un connotato, quello di classe, che si caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli interessi di chi ogni mattina si sveglia e coltiva il culto dell’insaziabilità, dell’avidità che si fa potere. Il potere di sfruttare, di dileggiare tutti quelli che contribuiscono a creare le fortune dei pochi che se le accaparrano.
Di precariato si muore quando al concetto di società si antepone quello di individuo.
Ed è esattamente ciò che è stato fatto dalla Thatcher e da Reagan in poi, quello che hanno fatto tutti i governi che hanno tradito i lavoratori, dalla fine degli anni Settanta fino alle più recenti riforme del mercato del lavoro. È stato un impegno quotidiano. Costanza e tenacia. Le hanno provate tutte e ci sono riusciti perché sono rimasti coerenti con la loro idea e ogni giorno e ogni notte hanno lottato per raggiungere quell’obiettivo. Uniti. Loro hanno vinto nel momento in cui sono rimasti uniti perseverando nel disaggregare i lavoratori in quanto corpo sociale. Per farlo hanno avuto bisogno di molta creatività, di imporre, con una buona dose di maquillage, un nuovo volto al lavoro: eliminando dall’immaginario i bassifondi, gli operai; escludendo dal racconto quotidiano la fatica dello sfruttamento; mascherando l’impoverimento dietro l’obbligo di un dress code.
Come scrive Owen Jones a proposito del ‘thatcherismo’: «L’obiettivo era quello di cancellare la classe operaia come forza politica ed economica della società, rimpiazzandola con una collezione di individui, o imprenditori, che competono gli uni contro gli altri per i propri interessi. […] Tutti avrebbero aspirato a rimontare la scala [sociale] e coloro che non l’avessero fatto sarebbero stati responsabili del loro stesso fallimento».
Né sulla Manica né sul Tirreno è bastata la poesia a fermare questa deriva. Nostalgicamente ascoltiamo ancora De André, capace come pochi di riflettere su un’umanità che sembra persa, spiegarci che esiste «ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore».
Così, negli ultimi decenni, è andata diffondendosi sempre più la figura del giovane con la partita Iva: libero di solcare i contratti a progetto, le prestazioni occasionali, di non arrivare a fine mese e di non avere diritto al reddito nei periodi di non lavoro. Non vincolato da un contratto, libero di esser pagato quanto e quando vuole l’azienda e di non avere alcun potere negoziale. Nel frattempo, il giovane precario poteva consolarsi e crogiolarsi del racconto della sua specificità, di essere unico, di non essere uguale a ‘quegli altri’, quelli impiegati da più di vent’anni con gravi lacune nell’utilizzo di Microsoft Office o, peggio ancora, quelli vestiti male, un po’ sporchi di polvere, di grasso e vernice. Nei cinque minuti tra il parcheggio e la porta d’ingresso, o tra la caffettiera e la piccola scrivania, separate dal lungo corridoio di una casa in affitto, il giovane precario pensa di essere indispensabile. Pensa che tutto andrà meglio, che questo contratto è solo l’inizio, potrà rivendicarlo al prossimo colloquio, quello che non esiste, perché il curriculum lo mandi a un indirizzo di posta elettronica. Lui è solo e a volte pensa che in fondo è l’unico uomo al comando. Di cosa non gli è ben chiaro. Però i sindacati mai.
E del resto, per molti anni, i sindacati non si sono accorti che questi avevano la partita Iva ma erano degli sfruttati e quando se ne sono accorti hanno procrastinato. Un circolo vizioso che ha portato alla sconfitta. Era in atto la trasformazione antropologica e culturale del lavoro subordinato, mascherato dalle collaborazioni. All’inizio degli anni Duemila chiunque poteva essere un lavoratore a termine. Una generazione in fin dei conti abituata dai tempi della scuola: le verifiche a crocette, i quiz ogni quindici giorni erano già l’emblema del ‘mordi e fuggi’. Al diavolo il diritto a una conoscenza lenta, approfondita, critica. Gratta e vinci. Usa e getta. Come quei gadget che, ora, soddisfano gli attacchi di consumismo bulimico, mentre un operaio muore sotto un camion durante un picchetto. È il momento in cui, controllando il codice a barre che traccia la spedizione, il giovane collaboratore inveisce contro Poste Italiane perché non ha consegnato il gadget in tempo. Ma Poste Italiane è stata privatizzata, i postini sono sempre meno e quelli che son rimasti lavorano dieci ore al giorno, le spedizioni sono state appaltate a un corriere esterno, gli sportelli chiudono perché i cittadini sono stati trasformati in clienti. E vanno su internet, le filiali non servono più.
Sono gli anni in cui molti più giovani potevano dirsi liberi dal lavoro subordinato, lo dicevano alla televisione, lo dicevano i giornali. Purtroppo continuano a dirlo. I costi del lavoro diminuiscono, le imprese non devono pagare i contributi, ma non devono pagare neppure la formazione ai propri collaboratori. E i giornali tornano a titolare che le imprese non trovano giovani adatti a ricoprire le mansioni cercate. La colpa della disoccupazione e della precarietà è stata accollata alla scuola, che non prepara al mercato del lavoro. Devono uscire precisi e perfetti per il prossimo annuncio. Ma guai a investire nella formazione: meglio pretendere che sia la scuola, e quindi lo Stato, a pagare, anche per far lavorare gratis nelle aziende i propri studenti.
È così che nasce l’alternanza scuola-lavoro, i cui protocolli d’intesa del Ministero del Lavoro e di quello dell’Istruzione e della Ricerca danno il diritto a grandi multinazionali di impiegare migliaia di studenti nei propri locali, per fare i commessi. Una velocità che lascia interdetti. È stato un attimo, dal susseguirsi di stage umilianti o inutili al dovere del lavoro gratuito. Sarà un’esperienza fantastica, recitavano le pubblicità dell’Expo 2015 a Milano. Vedrete cose, conoscerete gente, gratuitamente. Lavorerete gratis finché altri vorranno. Poi il nulla. Anzi no, poi Garanzia Giovani, il progetto europeo per l’inserimento lavorativo dei Neet (Not in Education, Employment, Training), cioè per coloro che non studiano, non lavorano e non sono coinvolti in programmi di formazione. Più di un milione di persone tra i 15 e i 29 anni si sono presentati ai centri per l’impiego o strutture convenzionate, con la speranza di trovare un lavoro. L’ha detto la pubblicità, il Ministero del Lavoro non fa che vantarsi di questo programma. E allora proviamoci, come in un reality, sia mai che ci dice bene. Altri ci sono arrivati celando l’umiliazione, mettendo da parte l’orgoglio della laurea, dei master da fuori sede. Tirocini come se non ci fosse un domani, per tutti!
Masse di lavoratori che la sera tornano a casa con le proprie storie personali, alcuni aprono un blog e si raccontano. Una questione privata. Nessuno ha inventato il sito di incontri per partite Iva, un mega raduno di chi ha partecipato al grande show di Garanzia Giovani. Lo sciopero generale dei tirocinanti. Ognuno a pregare che quella promessa di assunzione possa un giorno farsi realtà.
Loro, i potenti, gli avidi, gli sfruttatori, hanno vinto perché sono stati coerenti, uniti, perché sono stati più forti nel ‘tutti contro tutti’, dove i morti li abbiamo contati solo noi. Hanno vinto quando ci hanno chiamati «bamboccioni», imponendoci una partita Iva, e siamo stati educati, silenti, accondiscendenti. Hanno vinto quando ci hanno detto che eravamo «choosy» e abbiamo porto l’altra guancia. Hanno vinto quando abbiamo smesso di credere che, uniti, si vince anche noi.
Indagare sulle condizioni di lavoro e non lavoro in Italia è una vera e propria discesa agli inferi. Il dilagare del lavoro povero, spesso gratuito, la totale assenza di tutele e stabilità lavorativa sono fenomeni all’ordine del giorno, che si abbattono su più di una generazione, costretta a lavorare di più ma a guadagnare sempre di meno, nonostante viviamo in una società il cui potenziale produttivo già permetterebbe di ridurre e distribuire il tempo di lavoro mantenendo e/o raggiungendo un tenore di vita più che dignitoso. È la realtà contro cui si infrange la narrazione dominante sulla ‘generazione Erasmus’ e sui Millennials, la stessa che con facilità dichiara che coloro che sono nati negli anni Ottanta dovranno lavorare fino a 75 anni per avere una misera pensione. Come se fosse un fatto naturale, inevitabile, ma soprattutto irreversibile, e non invece il risultato di scelte politiche ben precise, che hanno precarizzato il lavoro, la possibilità di soddisfare bisogni che dovrebbero essere considerati universali, come l’istruzione, la sanità, la casa, il trasporto pubblico. Le stesse politiche che hanno provocato l’inasprirsi delle diseguaglianze sociali spostando reddito e ricchezza dai lavoratori, che li producono, alle imprese, che a loro volta hanno scelto di trasformarli in vere e proprie rendite. Il furto quotidiano operato a danno dei lavoratori, di oggi e domani, è stato sostenuto dall’ideologia del merito, imposta per mascherare un inevitabile conflitto tra chi sfrutta e chi è sfruttato. Ma soprattutto per negare la matrice collettiva dei rapporti di lavoro, dei rapporti di forza in gioco: è la retorica per cui ognuno è unico artefice del proprio destino.
Il risultato è l’avanzare di forme di sfruttamento sempre più rapaci che pervadono ogni settore economico, con labili differenze tra lavoro manuale e cognitivo: dai giornalisti pagati due euro ad articolo ai commessi con turni di dodici ore, dagli operai in somministrazione nelle fabbriche della Fca ai facchini di Amazon.
Sono questi gli argomenti trattati in questo libro in cui l’analisi delle trasformazioni economiche e sociali che hanno attraversato i diversi settori si intreccia con le storie di quanti vivono quei luoghi – e non luoghi – di lavoro. Per ragioni oggettive e soggettive, ho scelto di analizzare e descrivere solo alcuni settori economici e forme di lavoro, in particolare la logistica, la grande distribuzione e i servizi pubblici, ma anche i lavoretti dietro la gig economy, le forme di lavoro gratuito, il lavoro a chiamata e il sistema dei buoni lavoro (i voucher). È una scelta dettata da poche ragioni di fondo, tra loro collegate. Primo, essi costituiscono gli esempi più significativi della ristrutturazione del capitalismo, dove la frammentazione del lavoro segue la frammentazione del processo produttivo. Secondo, sono la più nitida rappresentazione di come la valorizzazione del capitale necessiti la creazione di vere e proprie avanguardie dello sfruttamento, che coinvolgono sia i lavoratori immigrati della logistica, sia quelli italiani della grande distribuzione o dei servizi pubblici. La matrice di classe che opera in questi settori è la medesima, nonostante la narrazione dominante tenda a separare e a diversificare una soggettività, quella del nuovo e trasversale proletariato, con espedienti retorici e di facciata. Terzo, il riemergere dei conflitti che popolano questi settori e le modalità con cui le lotte si affermano son spesso taciuti o relegati a meri fatti di cronaca locale quando, invece, sono espressione di un mondo nient’affatto pacificato. D’altra parte, frontiere del precariato come il lavoro a chiamata e il lavoro gratuito si configurano non soltanto come forme di totale estrazione del valore prodotto dai lavoratori che ingrassa solo gli utili d’impresa, ma agiscono come strumenti di estremo ricatto: la promessa di un futuro migliore se si è disposti a farsi sfruttare senza mai alzare la testa.
Mettere in luce la comunanza di interessi, palesando la natura di classe di questi conflitti, ha l’obiettivo di far convergere e amplificare le lotte e le pratiche in atto.
Infine, sebbene con estrema sintesi e in modo nient’affatto esaustivo, si è provato a descrivere il processo politico che ha portato all’impoverimento della classe lavoratrice e soprattutto di quelle generazioni che si affacciano oggi al mondo del lavoro. Per ribadire, in fin dei conti, che il divorzio tra la sfera economica e quella politica è solo un inganno: i processi economici non sono nient’altro che processi politici di potere, di riproduzione di rapporti di forza. In Italia come nel resto d’Europa, la scelta dei governi è stata quella di avallare il progressivo smantellamento dei diritti in modo da restituire forza e dominio alle imprese, a discapito del progresso sociale, cioè del miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza.
Mi preme specificare alcuni dettagli del modo in cui nasce e prende forma questo volume. Innanzitutto, esso è frutto di un lavoro collettivo per cui ringrazio i colleghi, gli amici ma soprattutto i compagni che, interrogandosi e stimolando il dibattito su questi temi, mi hanno, metaforicamente, costretta nel tempo ad approfondirli. È soprattutto grazie a loro che questa coscienza collettiva ha preso forma in uno scritto, preceduto da diversi interventi sui giornali, nei dibattiti, in piazza, nei picchetti e nelle assemblee. Gli incontri con lavoratori e disoccupati sono la fonte delle storie che a tratti compaiono nel libro. Storie che si ripetono e di cui il breve racconto che ne viene fuori non è che una sintesi di prassi molto più frequenti.
Con la speranza che questa presa di coscienza collettiva possa diffondersi e raggiungere i tanti, i molti, che hanno diritto a un riscatto, all’emancipazione negata dall’avidità del capitale e dall’ipocrisia del potere. A loro è dedicato questo libro.
Miserie e splendori del lavoro:
un immaginario da ricostruire
Durante gli ultimi decenni, la rappresentazione del lavoro, della quotidianità dei lavoratori, è scomparsa dall’immaginario, dalla cultura. La creazione di vere e proprie periferie nel mondo del lavoro è stata inizialmente giustificata come l’unico strumento efficace per affrontare le difficoltà a trovare il primo impiego da parte di categorie poco partecipi, come le donne, o più vulnerabili, come i giovani e gli immigrati. Una volta create, tuttavia, queste periferie sono state utilizzate dalla narrazione dominante per giungere al fine ultimo: la precarizzazione di ogni forma di lavoro, anche quelle finora garantite da tutele, come i contratti a tempo indeterminato. Dal punto di vista della composizione sociale, lo scontro alimentato è stato quello generazionale: i padri garantiti stanno togliendo lavoro e possibilità di lavorare ai propri figli. La stessa identica narrazione assoldata per giustificare e imporre antidemocraticamente dosi massicce di austerità sul piano fiscale e dei conti pubblici.
Le condizioni di vita di milioni di persone sono usate solo ed esclusivamente per la costruzione di un’immagine funzionale a rappresentare altro: una volta un nemico da creare – come nel caso dei dipendenti pubblici o degli operai in lotta –, un’altra volta un’azienda da esaltare. Più recentemente quel che torna di moda è la costruzione del nemico esterno incarnato dagli immigrati. La retorica dominante, trasversale, sebbene con qualche eccezione nello spettro politico, indica l’immigrazione come causa ultima del crollo di diritti e salari, nonostante sia evidente che l’Italia – da molti più anni rispetto all’inizio dell’attuale ondata di immigrazione – vive un vero e proprio esodo verso l’estero. Secondo quanto riporta l’Istat nel rapporto Migrazioni Internazionali e interne della popolazione residente, «Negli ultimi cinque anni le immigrazioni si sono ridotte del 27%, passando da 386 mila nel 2011 a 280 mila nel 2015. Le emigrazioni, invece, sono aumentate in modo significativo, passando da 82 mila a 147 mila. Il saldo migratorio netto con l’estero, pari a 133 mila unità nel 2015, registra il valore più basso dal 2000 e non è più in grado di compensare il saldo naturale largamente negativo (-162 mila)». Andamento che si ripete nel 2016. Inoltre, il perdurare di fenomeni storici di immigrazione interna – da sud a nord Italia – viene accolta paternalisticamente come qualcosa di naturale. Ma anche nelle regioni del Meridione, dove lo sfruttamento è prassi mai messa in discussione, si agita lo spettro dell’immigrato che ruba il lavoro al giovane disoccupato, senza mai ricordare che già prima dell’arrivo dell’immigrato la disoccupazione giovanile raggiungeva tassi superiori al 50%. Briciole di realismo necessarie per ribaltare uno schema di analisi falso e deleterio. Ma, appunto, l’immagine dell’immigrato causa dei mali di questo paese è utile per nascondere ciò che realmente avviene quotidianamente contro lavoratori italiani e stranieri. Agitare la guerra tra poveri è il gioco prediletto da chi sullo sfruttamento dei molti, indipendentemente dalla nazionalità, mantiene il proprio potere. Tutto il resto è bene insabbiarlo. Dei conflitti sempre più intensi e frequenti che popolano le relazioni industriali del nostro paese, e che non distinguono tra italiani e stranieri, non deve sapere nessuno, è un’immagine che mostra le crepe di un sistema, un conflitto mai sopito e sempre più radicale, che si è scelto strategicamente di ignorare. Quel che quotidianamente viene raccontato, fino a diventare la lettura dominante di questa fase storica, è una realtà che non esiste, almeno non più, fatta di, seppur scarsa, mobilità sociale, di brevi periodi di precariato seguiti da carriere dignitose, possibilità di uscire da uno stato di bisogno attraverso il lavoro. L’unico scontro generazionale che si intravede è questo: la lettura della realtà nella sua dimensione storica. Più di una generazione vive oggi in un contesto di crisi permanente, di distruzione del patto sociale – scioltosi come neve al sole – del dopoguerra e degli anni del boom. Metabolizzare il lavaggio del cervello quotidiano operato a uso e consumo delle élites non fa che distogliere lo sguardo dalle vere cause e responsabilità e dai possibili rimedi. Secondo questa visione distorta continuano a trovare legittimazione non soltanto opinionisti d’accatto che provano a imporci un ribaltamento della realtà per continuare a garantirsi un posto nel mondo, nonché la loro posizione di potere, ma anche opzioni politiche superate dalla storia e ormai incompatibili con la tenuta politica e sociale del paese. Tra queste, ad esempio, le proposte di mantenere i vincoli di bilancio o le privatizzazioni del settore pubblico, il ripetere incessante del non c’è alternativa al costante impoverimento del mondo del lavoro e non lavoro. Convinzioni e prospettive politiche che scongiurano la necessità di abolire l’intero impianto del Jobs Act, fermandosi nel migliore dei casi a una revisione di facciata, come chi propone di ristabilire non già l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ma l’art. 17 e mezzo. Sono gli stessi che avallano l’aumento dell’età pensionabile e ritengono che sia possibile creare solidarietà tra le generazioni riducendo ancora le pensioni di oggi e assoggettando il diritto alla pensione di oggi e domani al pareggio di bilancio. Attraverso questa lente falsata quel che rimane del mondo del lavoro è un racconto ipocrita che si commuove per le proteste degli operai nelle fabbriche lager del Pakistan o per le stragi in quelle del Bangladesh, come fossero eventi esotici, slegati dall’incedere dell’ordine globalizzato, quello che antepone in ogni luogo gli interessi degli sfruttatori a quelli degli sfruttati.
Più ci si avvicina ai confini dell’Italia, più il conflitto, quando non ignorato, è ormai relegato a una questione di cronaca, di ordine pubblico. Nei fatti si tratta di repressione. Risalgono al 2014 le immagini dei lavoratori delle acciaierie di Terni manganellati durante un corteo a Roma, o le cariche durante gli scioperi all’aeroporto di Malpensa del 2013, quelle contro i lavoratori Alcoa. Lì dove regna la repressione, il titolo di apertura è Scontri! Lo stesso è avvenuto di fronte alla lunga primavera di manifestazioni e scioperi generali che hanno attraversato la Francia nel 2016 contro la Loi Travail. Uno sciopero generale ogni settimana, strade piene in molte città francesi, solidarietà tra operai e studenti, tra disoccupati e pensionati. Ai commentatori italiani non importò l’unità che si andava creando per quelle strade, così come nessuno degli habitués dei talk show di prima e seconda serata ebbe un sussulto di indignazione di fronte all’operazione antidemocratica con cui quella legge fu approvata.
La frantumazione del mondo del lavoro vive dentro e fuori i luoghi di lavoro, soprattutto fuori dalle coscienze di chi per vivere deve lavorare. Senza mezzi termini, l’oggetto della discussione è la coscienza di classe, motore della storia, la cui esistenza è negata nella retorica dominante per sgomberare il campo dalla resistenza a tutte le scelte politiche che in questi anni hanno decretato l’inasprirsi delle diseguaglianze economiche, politiche e sociali.
Ma il conflitto prima o poi emerge, in modi più o meno dirompenti. Non sempre la questione di classe si esprime con una direzione politica, ma quando accade è irresistibile. Fuori dai palcoscenici di una politica a-dialettica, l’esigenza di una ricomposizione di classe prende vita grazie a quella generazione di cui tutti parlano e che nessuno ascolta.
«Siamo quei ragazzi che neanche tu, tu che da noi sei stato servito, hai notato. Perché noi siamo invisibili, siamo fantasmi, siamo una rotella di un ingranaggio gigantesco. Invisibili, ma indispensabili perché senza di noi l’ingranaggio si incepperebbe… Senza di noi, tu non avresti la tua pizza, la tua assistenza telefonica, la tua visita guidata, i tuoi jeans… Siamo in tanti, tantissimi, neanche lo immagini quanti… tutti al servizio di chi sul nostro lavoro ci guadagna, assumendoci senza contratto o con contratti finti che bluffano sull’orario di lavoro, sempre più lungo, bluffano sulle mansioni, sempre di più, sempre troppe. E la paga è sempre più bassa, lontana anni luce da qualsiasi standard contrattuale… Dovrebbero riconoscerci dei diritti: ferie, malattia, permessi, maternità e invece… niente di niente… perché noi siamo invisibili, siamo fantasmi… non esistiamo eppure ci siamo, siamo qua…».
Questo coro agguerrito ha fatto irruzione per le strade assolate di Napoli invase dai turisti nel giorno della Festa internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici, il Primo Maggio 2017. Perché la storia non bussa, entra sicura. Con nitidezza, oltre ogni deformazione. Qui si uniscono le storie dei lavoratori della ristorazione, dei call center, del turismo (affidato al privato), del commercio. La trama è sempre la stessa: lavoro sfruttato, spesso a nero, non importa se con o senza la laurea, se si tratta di lavori ad alta o bassa qualifica. Lavoratori che parlano al resto della società, a tutti quelli a cui è negata quotidianamente la dignità, ai troppi giovani e meno giovani del Sud Italia, del Sud Europa.
Se non si tratta di vero e proprio lavoro nero, si parla comunque di lavoro povero. In particolare, si è di fronte a una vera e propria proletarizzazione della classe lavoratrice, dove i livelli di sfruttamento intensivo riguardano ampi settori dell’economia e coinvolgono sia il lavoro manuale sia quello intellettuale. Dai giovani fattorini delle consegne a domicilio gestite dalle piattaforme digitali, ai giovani avvocati, dai giornalisti precari, freelance e non, agli ultimi arrivati nelle grandi società di consulenza.
Non vi è dubbio che il lavoro povero si palesi con intensità e modalità differenti nei vari contesti, ma ciò non toglie che la tendenza in atto sia univoca.
Per questa ragione l’urlo dei lavoratori a nero coinvolge anche i tanti collaboratori e partite Iva che, per sfuggire alla solitudine, per anni uscivano di casa per andare a lavorare seduti al tavolino di un bar qualsiasi. Finché qualche illuminato non ha deciso che anche la solitudine può essere messa a valore. Il cameriere e la giovane partita Iva si incontrano sempre meno. Infatti, la solitudine di collaboratori e freelance diventa oggetto di innovazione sociale, in cui privati mettono a disposizione spazi a pagamento dove i lavoratori possono recarsi e sentirsi meno soli. Perché spesso i collaboratori non hanno neppure il diritto a una postazione in azienda: a volte, indipendentemente dagli spazi a disposizione, gli è proprio vietato andarci, perché semplicemente non sono coperti da assicurazione in casi di infortunio sul luogo di lavoro. Così il luogo di lavoro è altrove, anzi, non esiste. Ognuno si crei il suo.
Ed eccola, l’innovazione: l’emergere di spazi di ‘coworking’, dove apparentemente si lavora insieme, ma, molto più realisticamente, ognuno se ne sta per i fatti suoi. Mettere a disposizione uno spazio di coworking viene spesso raccontato come l’offrire un servizio che dà l’opportunità di incontrarsi, fare rete, scambiarsi idee e, perché no, crearne di altre tra una pausa e l’altra. A pagamento. Per sentirsi meno soli si spende intorno ai 15 euro al giorno, si affitta una postazione con una presa e se va bene si scambia qualche parola con quel collega fittizio e potenziale. Solitudine e frammentazione create dai processi di precarizzazione produttiva rimangono questioni private a cui il mercato risponde, trova soluzioni a carico dei lavoratori e su cui è sempre pronto a trarre un po’ di utili. Un cortocircuito che rende bene l’idea di come il concetto di condivisione venga messo a valore. In questo caso, infatti, la solitudine e la frantumazione del lavoro diventano ‘nuovi mercati’; la condivisione non ha un connotato sociale bensì di mercato: si paga per condividere qualcosa che non si detiene, a parte la frustrazione della solitudine. Mentre le aziende risparmiano sui costi relativi ai luoghi fisici del lavoro, i lavoratori pagano per dotarsi di uno spazio di lavoro in cui immaginarsi una vita non atomizzata. Si potrebbe ovviamente sostenere che è possibile riconquistare spazi pubblici dismessi, che il settore pubblico potrebbe impegnarsi a adibire a postazioni di lavoro. La riappropriazione degli spazi pubblici da parte della collettività è un obiettivo nobile che va costantemente rivendicato: tuttavia non si capisce perché, ancora una volta, sia il pubblico a dover pagare per il privato e la sua deresponsabilizzazione!
E quando non si deresponsabilizza per legge, si chiude un occhio, come di fronte al lavoro nero, di fronte al disinvestimento in manutenzione e sicurezza: vengono tagliati i controlli e le ispezioni sul lavoro mentre si spendono soldi pubblici, dei lavoratori, per i rastrellamenti degli immigrati. Così se un operaio muore mentre lavora, è distrazione. Un incidente.
Le morti bianche, cioè quelle sul lavoro, compaiono per poche ore sulle pagine dei giornali. Stando ai dati dell’Inail, nell’ultimo quadriennio sono morti sui luoghi di lavoro circa mille lavoratori ogni anno. Cifre che sottostimano il fenomeno, in quanto non tutti i lavoratori sono registrati presso l’Inail, come i liberi professionisti, i vigili del fuoco o proprio quei collaboratori che popolano i coworking o le camere in affitto in centro città. Ogni giorno, in Italia, più di tre persone muoiono sui luoghi di lavoro, a cui vanno aggiunti gli infortuni e tutte le malattie che si manifestano lentamente, quando ormai il lavoratore è andato in pensione. Secondo i dati ufficiali, nel 2016 le denunce per infortunio sul lavoro sono oltre seicentomila. Neanche fossimo in guerra!
Non si discute peraltro di come le scelte aziendali volte alla riduzione del costo del lavoro producano insicurezza sugli altri lavoratori. È un altro caso di come la tecnologia impatti in modo non neutro sulle condizioni di lavoro. Alcune aziende hanno scelto di sostituire le squadre di vigilanza con dei braccialetti elettronici indossati da un unico addetto alla sicurezza. Nel caso in cui dovesse succedere qualcosa, il braccialetto emette suoni allarmando la centrale operativa, che si trova fuori dallo stabilimento. Solo allora saranno attivati i soccorsi. Peccato però che il tempismo non può essere garantito come avveniva quando a vigilare si era almeno in due. La probabilità di incidenti è inoltre proporzionale all’inesperienza e inversamente correlata con la conoscenza dei luoghi di lavoro e dei suoi impianti. È allora inevitabile che più si precarizza il lavoro più gli incidenti aumentano, soprattutto lì dove i lavoratori temporanei non ricevono neppure la formazione sulla sicurezza.
Anche nel lavoro più strutturato si assiste a una inaccettabile deriva per cui la sicurezza sul lavoro, ma anche dei territori, si fa oggetto di ricatto. Capita che i premi aziendali siano ancorati alla riduzione degli incidenti sul lavoro, cioè i lavoratori possono percepirli – in teoria, dato che rimane una promessa – se in azienda diminuiscono gli incidenti sul lavoro. I lavoratori sono allora incentivati a non dichiarare infortuni altrimenti perdono la possibilità di ricevere il premio. Ma, oltre alla beffa, l’inganno: ai fini della retribuzione con i contratti integrativi contano anche le assenze per malattia. Più ci si ammala meno si guadagna. Al lavoratore non rimane che scegliere tra meno soldi a causa della dichiarata malattia, con la promessa di percepire il premio, o denunciare l’infortunio e non perdere i soldi trattenuti dal datore di lavoro in caso di malattia. Gallina oggi, uovo domani.
Recentemente, un esempio di ricatto tra lavoro e sicurezza si è manifestato durante il referendum sulle concessioni per le trivellazioni, quando si barattava il diritto a trivellare ed estrarre petrolio e profitto con il diritto al lavoro che la riduzione delle trivellazioni avrebbe messo a repentaglio. Ci si può tuttavia opporre a derive simili e rivendicare la priorità del rispetto dei diritti sui profitti, come ha fatto la Fiom-Cgil Basilicata nei confronti dell’Eni al Centro Oli di Viggiano, stabilimento le cui attività sono state sospese dalla giunta regionale della Basilicata dopo plurime richieste di intervento a riduzione degli eccessivi livelli di inquinamento provocati. Una storia mai risolta, quella della sicurezza sul lavoro, del conflitto tra diritti sociali e avidità del capitale, come dimostra magistralmente lo scrittore Alberto Prunetti nel suo libro Amianto. Una storia operaia.
Un atteggiamento paradossale, quello degli italiani di fronte al concetto di sicurezza. Prevale oggi nell’opinione comune un bisogno incondizionato nei confronti della propria sicurezza verso il prossimo, specie se più povero, se sta peggio di noi. Una costante richiesta di protezione della nostra non ricchezza, ma pur sempre proprietà di fronte all’indotto pericolo del ladro che invade le case o il garage o l’orto di casa. Si pretende addirittura il diritto di sparargli contro, di ucciderlo se necessario. Perché la proprietà non è più un furto e non può essere oggetto di furto. Sentimenti o risentimenti che sfociano il più delle volte in vere e proprie forme di razzismo e di odio verso il basso; posizioni che conquistano quotidianamente spazi di riflessione e azione politica. Ancora una volta, il racconto è strumentale a evitare che emerga e si consolidi la consapevolezza che il conflitto vive all’interno del processo di produzione e riproduzione sociale, ed è quello che contrappone sfruttati e sfruttatori, oppressi e oppressori.
Cedendo alla narrazione tossica che arriva dall’alto, di fronte al sopruso dei potenti si abbassa la testa, di fronte al furto quotidiano di diritti e salari ci si rivolge con remissività, con l’illusione che da quell’autorità, il capitale e chi lo governa, si può sempre ricevere qualcosa. Un atteggiamento di subalternità che quasi penetra a livello antropologico. Su questo terreno vanno concentrati gli sforzi di una resistenza attiva che rivendichi come sopruso lo stipendio che non arriva da mesi, gli straordinari mai pagati, il contratto a tempo determinato dopo più di tre anni di rinnovi, i contributi non versati, le molestie al lavoro. Rifiutando la guerra tra sfruttati di ogni genere, età, nazionalità.
Dal lavoro a chiamata ai voucher,
andata e ritorno
Quando scoppiò la crisi del 2008, le massicce dosi di flessibilità, introdotte fino a quel momento nel mercato del lavoro, mostrarono in modo più eloquente il loro vero volto. La politica aveva però un compito: negare, negare sempre, negare soprattutto di fronte ai giovani: quelli maggiormente coinvolti dai lavori precari e che presto furono espulsi in massa dai processi produttivi insieme ai propri genitori; quelli che un lavoro non riuscivano proprio a trovarlo, indipendentemente dal titolo di studio. La disoccupazione nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni è cresciuta dal 18,3% del 2009 al 30,3% del 2016 (37,8% se si considera la fascia 15-24 anni). Nell’ultimo trimestre del 2016 il tasso di occupazione dello stesso gruppo anagrafico rimane al 29,5%, contro il 39% del 2009.
Alle scelte politiche, ostinate sulla via delle riforme strutturali, serviva rafforzare la narrazione e trovare altri responsabili. Primi tra tutti i giovani stessi, quelli che non ce la fanno neppure a trovare un lavoro sottopagato, sottoinquadrato, quelli che non possono permettersi di lasciare casa dei genitori perché né loro né i genitori hanno i soldi per pagare una stanza in affitto altrove, quelli che si laureano in ritardo e a nessuno importa perché. Nel 2012 essere «bamboccioni», termine coniato dal fu ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, era ormai un complimento: stavano per arrivare gli «sfigati» e gli «schizzinosi». «Dobbiamo dire ai nostri giovani che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa»: parola di Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti (gennaio 2012). Rincara la dose la ministra Elsa Fornero (ottobre 2012): «Non bisogna mai essere troppo choosy [schizzinosi], meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro. Non aspettare il posto ideale. Bisogna entrare subito nel mercato del lavoro».
Così come ha fatto Chiara, che per due anni ha lavorato come cassiera a chiamata all’ipermercato Martinelli di Mantova. Alla cassa tutti i week-end da venerdì a domenica e poi anche un turno durante la settimana. Per gli infrasettimanali la chiamavano il giorno prima per darle conferma. No ferie, no malattia. Il turno era di dodici ore, con un’ora e mezza di pausa pranzo. La pausa pranzo era il solo momento in cui Chiara aveva diritto a bere. In cassa era vietato bere, ma anche sedersi. Così lei e le sue colleghe erano costrette a tenere nascoste le bottigliette e a scomparire sotto la cassa per qualche istante. Essere sorridenti sempre, anche quando ti arrivava un’infezione urinaria, perché pure se bevi poco al bagno devi andare, ma quando chiami il cambio la collega non arriva a tamburo battente. Aspetti, anche mezz’ora, quaranta minuti. A fine turno, nonostante nel contratto ci fosse scritto «cassiera», Chiara e le sue colleghe dovevano pulire i bagni, tutti.
Chiara è riuscita a trovare lavoro subito e a farsi sfruttare come si deve; le dichiarazioni della Fornero però rimangono non soltanto offensive ma anche fuorvianti. Per la legge della domanda e dell’offerta, se tre milioni di persone sono disoccupate e altrettante scoraggiate – cioè non lavorano e si sono stancate di cercare – significa che la prima offerta spesso neppure esiste. Lo dimostra il numero di posti vacanti, cioè disponibili rispetto al totale dei posti di lavoro esistenti (somma tra i posti vacanti e quelli occupati). Un indicatore che misura la domanda di lavoro da parte delle imprese, a ben vedere fanalino di coda europeo tra il 2009 e il 2016.
Ma perché i giovani? Perché se avessero preso coscienza di non essere sfigati – cioè di aver fatto tutto quello che veniva loro richiesto – avrebbero potuto rievocare uno spettro pericoloso: il conflitto. Così i giovani avevano bisogno di una dose, più massiccia, di distrazioni di massa, che dirottasse la frustrazione ed evitasse ad ogni costo che questa si tramutasse in voglia di riscatto. Andava alimentata una guerra tra poveri e diseredati, mascherata da guerra intergenerazionale: padri contro figli, prima di tutto. Poi è arrivato il tempo degli immigrati, che però nel frattempo erano costretti a lavorare gratis.
Senza girarci attorno, ciò che emerge dalle parole di chi è stato chiamato (dall’allora presidente Giorgio Napolitano, con la fiducia in primis del Pd) a governare il paese all’esplodere della crisi è un profondo disprezzo nei confronti dei lavoratori e dei disoccupati, chiamati solo a sacrificarsi sull’altare della competitività e dei profitti delle imprese finanziarie e non. Non a caso proprio la riforma Fornero, oltre a demolire l’art. 18, permise alle imprese di disporre in modo indiscriminato di un enorme esercito di riserva, sempre più giovane, dati i crescenti tassi di disoccupazione. Una specie di gioco delle tre carte: da un lato, venivano aumentati dell’1,4% i costi dei contratti a termine a carico dei datori di lavoro; dall’altro, si escludeva l’obbligo di comunicare la causa del ricorso al contratto a termine per i primi 12 mesi. Allo stesso tempo, con una mano si restringevano le possibilità di ricorrere al lavoro intermittente (o a chiamata) e con l’altra si liberalizzavano a tutti i settori produttivi i buoni lavoro (o voucher).
Ma la storia dei voucher e del lavoro a chiamata non nasce con la Fornero, che di per sé non ha dovuto inventare nulla, bensì con la riforma Biagi-Maroni del 2003. In principio, nel contratto a chiamata un lavoratore «si pone a disposizione del datore di lavoro per lo svolgimento di determinate prestazioni di carattere discontinuo o intermittente». È un contratto subordinato e può essere a tempo determinato o indeterminato, può coinvolgere tutti i lavoratori, ma nel caso di under 25 o over 45 è necessario che siano disoccupati o in mobilità. Ben presto, nel 2005, la condizione di disoccupato decade e la legge estende a tutti la possibilità di lavorare a chiamata. Oltre alla durata del rapporto di lavoro (a termine o permanente), fin dalla legge Biagi-Maroni il lavoro a chiamata può essere di due tipi: con o senza disponibilità garantita dal lavoratore. In pratica, quest’ultimo può concedere al datore di lavoro la propria disponibilità a essere chiamato (per questa sua disponibilità riceve addirittura un compenso!) e si accolla l’obbligo di rispondere alla chiamata. Oppure può non dare la propria disponibilità: se arriva la chiamata ed è libero bene, altrimenti il datore di lavoro dovrà cercare altrove.
Il lavoro intermittente esplose e, dopo alcuni tentativi, la riforma Fornero decise di limitarlo agli under 24 e agli over 55. Ironicamente potremmo dire che la riforma Fornero non volle privare i giovani del loro protagonismo nel lavoro a chiamata. Secondo quanto riporta il Rapporto annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie del 2013 (relativo ai dati 2012) del Ministero del Lavoro, i rapporti di lavoro intermittente coinvolgevano principalmente i giovani: «nel 2012 sono stati avviati 223.532 (il 32% del totale) lavoratori nella fascia di età 15-24 anni e 194.941 (ovvero 28% del totale) nella classe 25-34 anni». Si tratta principalmente di contratti a chiamata a tempo determinato, l’8% circa in entrambi i casi.
L’efficacia della riforma Fornero in termini di riduzione del lavoro a chiamata è registrata dai dati: l’incidenza degli avviamenti di contratti a chiamata sul totale dei contratti torna ai valori del 2010 (4%), la metà rispetto al picco massimo raggiunto a inizio 2012, circa l’8%, come riporta l’Isfol nel rapporto del 2015.
Solo una cosa non toccò la riforma del lavoro intermittente attuata dal governo Monti: i rapporti di forza tra datori di lavoro e lavoratori. E non è un caso, perché la flessibilità non è neutra: scarica il suo peso sulla parte più debole, il lavoratore, in balìa del ricatto della disoccupazione. Gioco facile per le aziende, a cui la Fornero dimenticò di apporre un limite massimo complessivo di lavoratori a chiamata: come abbiamo visto, la legge dispose infatti un tetto massimo per ciascun lavoratore, non più di 400 giornate lavorative in un triennio. Ma alle aziende fu accordato il diritto di usare le 400 giornate di ciascun lavoratore e poi cambiarlo con un altro sempre a chiamata. Quindi, i datori di lavoro non soltanto potevano assumere a volontà lavoratori a chiamata (a parte i casi esclusi dai contratti collettivi nazionali che, si sa, vivono ormai in costante difensiva), ma potevano e ancora oggi possono esercitare il proprio potere di ricatto usando i contratti intermittenti senza l’esercizio della messa in disponibilità, così da non dover neppure versare le somme dovute per il periodo di non lavoro. Il ricatto scaturisce sempre da quella tensione messa in atto dall’esercito di riserva, le masse di disoccupati alla disperata ricerca di un posto di lavoro. Non accettare quanto chiesto dal datore di lavoro espone direttamente alla perdita dello stesso, ma piegarsi al ricatto significa contestualmente cedere un diritto.
Un’offerta da non rifiutare, soprattutto se giovani e inesperti, così come suggerì il ministro!
Così è stato per Chiara che, dopo due anni, si è licenziata dall’ipermercato in cui faceva la cassiera. Ha lavorato 510 giornate in due anni, oltre il limite. Non ha prove e non può denunciare. Quando ci siamo incontrate non sapeva che l’essere a disposizione dell’azienda è qualcosa per cui le sarebbe spettato un compenso, che andava scritto nel contratto. L’azienda non gliel’ha mai detto e i sindacati non li ha mai visti. Ha accettato la prima offerta e l’hanno sfruttata.
Come si diceva, alle restrizioni all’uso del contratto a chiamata fu affiancata, sempre nel 2012, la totale liberalizzazione dei voucher. Nati nel 2003, i buoni lavoro erano rivolti a regolarizzare i lavori occasionali e accessori, di tipo domestico o in agricoltura. Bisognava fare qualcosa contro il lavoro nero, si diceva, anche a costo o supportando l’idea di un impoverimento di fasce crescenti della forza lavoro. Una questione di priorità o pura formalità, parafrasando i Cccp.
L’idea geniale, quasi fantascientifica, fu quella di creare e liberalizzare uno strumento incostituzionale per porre rimedio a un’attività irregolare. Uno strumento che si compra facilmente dal tabaccaio e sempre lì si riscuote. Ogni settimana, Giorgio si sveglia e va al tabacchi sotto casa. Ha con sé venti voucher: 150 euro. Gli habitués delle slot machine vivono con estrema invidia la riscossione di Giorgio, pensano sia una vincita ottenuta a quelle maledette macchinette in cui finisce quotidianamente la loro pensione. Vagli a spiegare che è uno stipendio! Vagli a spiegare che le bollette non le porta con sé perché o fa la spesa o paga luce e gas.
Secondo il principio di lucidità, la bulimia con cui il legislatore (nei fatti, sia i governi che i Parlamenti) si è scatenato nella deregolamentazione dei voucher rispecchia intenzioni ben più profonde: abbattere fortemente il costo del lavoro a scapito dei lavoratori.
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