Marina Cvetaeva -Poesie-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Poesie di Marina Cvetaeva
Come spostando pietre:
geme ogni giuntura! Riconosco
l’amore dal dolore
lungo tutto il corpo.
Come un immenso campo aperto
alle bufere. Riconosco
l’amore dal lontano
di chi mi è accanto.
Come se mi avessero scavato
dentro fino al midollo. Riconosco
l’amore dal pianto delle vene
lungo tutto il corpo.
Vandalo in un’aureola
di vento! Riconosco
l’amore dallo strappo
delle più fedeli corde
vocali: ruggine, crudo sale
nella strettoia della gola.
Riconosco l’amore dal boato
– dal trillo beato –
lungo tutto il corpo!
La mia strada non passa accanto alla casa – la tua.
La mia strada non passa accanto alla casa – di nessuno.
E tuttavia smarrisco il cammino,
(soprattutto – in primavera!)
e tuttavia mi struggo in mezzo alla gente
come un cane sotto la luna.
.
Ospite ovunque gradita!
Non faccio dormire nessuno!
Gioco col nonno ai dadi
e col nipote – canto.
.
Le mogli non sono gelose di me:
io – voce e sguardo.
E per me nessun innamorato
ha costruito un palazzo.
.
Mi fanno ridere le vostre
grazie non richieste, mercanti!
Innalzo da sola in una notte
ponti e regge.
.
(Ma quello che dico – non lo ascoltare!
Tutte chiacchiere – di donne!)
Io stessa al mattino distruggerò
la mia creazione.
Insinuarsi
E, forse, la vittoria vera
su tempo e gravità: passare
senza lasciare tracce, senza
proiettare ombra
sui muri…
Forse – con la rinuncia
prendere? Cancellarsi da ogni specchio?
Come Lermontov al Caucaso, insinuarsi
senza turbare le montagne.
E, forse, unico diletto: con le dita
di Bach sfiorare l’organo
senza turbare l’eco.
Disfarsi senza lasciare cenere
per l’urna.
Forse – con il raggiro
prendere? Da tutti gli orizzonti
uscire? Nel tempo come nell’oceano
insinuarsi – senza allarmare le onde…
(da Dopo la Russia, 1928, traduz. di Serena Vitale)
E guardò come le prime volte
Non si guarda.
Neri occhi sorseggiarono lo sguardo.
Ho alzato le ciglia e sto ferma.
— Che c’è, — fa giorno? —
E’ che sono bevuta fino in fondo.
Tutto, fino all’ultima goccia, trangugiò la pupilla.
Io sto ferma.
E scorre in me la tua anima.
7 agosto 1916
Da dove tutta questa tenerezza?
Non è la prima volta che accarezzo
Riccioli come questi, e ho conosciuto
Labbra più tenebrose delle tue.
Le stelle sono sorte e tramontate,
— Da dove, tutta questa tenerezza?
Due occhi sono sorti e tramontati
Proprio vicino ai miei.
Io non avevo mai udito ancora
Inni del genere, nella notte oscura,
Incoronata — o tenerezza! —
Sul petto stesso del cantore.
Da dove, tutta questa tenerezza,
E cosa devo farne, adolescente
Malizioso, cantore forestiero,
Dalle ciglia — c’è nulla di più lungo?
Marina Cvetaeva – a O.E. Mandel’shtam
Indizi terrestri
Così, nella vita, tra fatiche quotidiane
e amori di una notte, scorderai l’amica
coraggiosa, il suono
dei suoi fraterni versi.
L’amaro dono della sua durezza,
la timidezza, maschera del fuoco,
e quello spasmo, scossa senza fili,
che ha il nome di: lontano!
Tutto l’antico tranne – «dammi!», «mio!»,
tutte le gelosie – non la terrena,
tutte le fedeltà – ma anche all’estremo
scontro – sempre incredula Tommaso…
Sii prudente, mio tenero, ti imploro:
non dare asilo alla fuggiasca –
l’anima! Viva la virile intesa
delle amazzoni, limpida congiura!
Ma forse, tra cinguettii e conteggi,
sfinito dal fatale eterno
femminino, ti tornerà alla mente
la mano mia senza diritti.
Le labbra – senza preventivi.
Le braccia – senza pretese.
Gli occhi – senza palpebre,
protesi – nel vivo!
15 giugno 1922 – traduzione di Serena Vitale
Tentativo di gelosia
Come state con quell’altra –
più semplice, vero? – Un colpo di remo!
Lungo la linea della costa
se n’è andato presto il ricordo
di me, isola flottante?
(nel cielo – non sulle acque!)
Anime, anime! – sorelle dovete essere,
non amanti – voi!
Come state con una donna
‘semplice’! ‘Senza’ divinità?
Deposta dal trono la sovrana
(e da esso disceso),
come state – vi date da fare –
vi raggrinzite? Vi alzate – come?
Con il dazio dell’immortale mediocrità
come ve la cavate, poveretto?
Spasimi e intermittenze,
basta! Mi prenderò una casa. »
Come state con una qualsiasi-
voi, eletto mio?
V’è più connaturato e commestibile
il cibo? – Non nascondere il successo!
Come state con un simulacro –
Voi che avete calpestato il Sinai?
Come state con un estranea,
una «terrestre»? Per la costola (1) – v’é cara?
La vergogna con le briglie di Zeus
non vi frusta la fronte?
Come state – come vi sentite –
cosa potete? Cantate – come?
Con la piaga dell’immortale coscienza
come ve la cavate, poveretto?
Come state con un articolo
da mercato? La servitù è dura?
Dopo i marmi di Carrara
come state con la polvere
di gesso?. (Dio scolpito,
in una gleba – e frantumato!)
Come state con una centomillesima –
voi, che avete conosciuto Lilith?!
Dell’ultima novità di mercato
siete sazio? Stanco delle maghe,
come state con una donna
terrestre, ‘senza’ i sesti sensi?
Via, per la testa : siete felice?
No? Nella frana senza profondità –
come state, mio caro? È più pesante?
È forse così – come per me con un altro?
19 novembre 1924 – Traduzione di Pietro A. Zveteremich
Preghiera
……..
Io voglio tutto, con anima di zingaro
tra i canti andarmene brigante
per tutti soffrire al suono di un organo,
amazzone, lanciarmi alle battaglie;
in nere torri divinare le stelle,
nell’ombra spingere un bambino…
Perchè il giorno di ieri sia leggenda,
perchè ogni giorno sia – follia!
Il poeta
Il poeta – da lontano conduce il discorso.
Il poeta – lontano conduce il discorso.
Per pianeti, per segni…per borri
di indirette parabole…Fra il sì e il no
lui – persino volando giù dal campanile –
rimedia un appiglio…Poiché il cammino delle comete
è il cammino dei poeti. I dispersi anelli
della casualità, ecco il suo legame! Con la fronte in alto
disperatevi! Le eclissi dei poeti
non sono previste dal calendario.
Lui è quello che imbroglia le carte,
che inganna sul peso e sul conto;
lui è quello che domanda dal banco
chi demolisce Kant,
chi c’è nella bara di pietra della Pastiglia –
com’è l’albero nella sua bellezza…
quello le cui tracce si dileguano sempre,
quel treno a cui tutti
arrivano tardi…
Poiché il cammino delle comete
è il cammino dei poeti: bruciando e non scaldando,
strappando e non coltivando – esplosione e scasso –
il tuo sentiero crinieruto, storto,
non è previsto dal calendario!
Trad. di P. A. Zveteremich
Da … a te fra cento anni
Alla mia povera fragilità
guardi senza sprecar parole.
Tu sei di pietra, ma io canto.
Tu sei un monumento, ma io volo.
Io so che il più tenero maggio
all’occhio dell’Eternità è nulla.
Ma io sono un uccello e non incolparmi
se una facile legge m’è imposta.
Ciao! Né freccia né pietra:
io! – La più viva delle donne:
vita. Tutte le mie carezze –
al sonno incompiuto.
Vieni qui! (vale a dire:
Tienimi! – è questione di senso)
Afferrami tutta così felice
e semplice come mi vedi!
Stringimi! – che oggi lontano navighiamo,
stringimi! – che sciamo! – con un filo di seta!
Oggi porto una pelle nuova:
quella dorata, la settima!
– Mio! – altro che ricompense
in cielo, se tra le braccia, sulla bocca
c’è la Vita: la felicità sfacciata
di dirti ciao ogni mattina!
Da Scusate l’Amore. Poesie, 1915-1925
a cura di Marilena Rea (Passigli, 2013)
Ho sempre voluto
e addirittura preteso
che mi si ami come sono
– per ciò che sono –
perché sono.
Non per ciò che,
secondo voi,
potrei, dovrei,
avrei dovuto essere.
Marina Cvetaeva
fot. da Max Voloshin nel 1911
Versi a Blok
Il tuo nome è una rondine nella mano,
il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua.
Un solo unico movimento delle labbra.
Il tuo nome sono cinque lettere.
Una pallina afferrata al volo,
un sonaglio d’argento nella bocca.
Un sasso gettato in un quieto stagno
singhiozza come il tuo nome suona.
Nel leggero schiocco degli zoccoli notturni
il tuo nome rumoroso rimbomba.
E ce lo nomina lo scatto sonoro
del grilletto contro la tempia.
Il tuo nome – ah, non si può! –
il tuo nome è un bacio sugli occhi,
sul tenero freddo delle palpebre immobili.
Il tuo nome è un bacio dato alla neve.
Un sorso di fonte, gelato, turchino.
Con il tuo nome il sonno è profondo.
La mia strada non passa vicino alla tua casa.
La mia strada non passa vicino alla casa di nessuno.
E tuttavia io smarrisco il cammino
(specialmente di primavera!)
e tuttavia mi struggo per la gente
come il cane fa sotto la luna.
Ospite dappertutto gradita,
non lascio dormire nessuno!
E con il nonno gioco agli ossi,
e con il nipote – canto.
Di me non s’ingelosiscono le mogli:
io sono una voce e uno sguardo.
E a me nessun innamorato
ha mai costruito un palazzo.
Le vostre generosità non richieste
mi fanno ridere, mercanti!
Da me stessa mi erigo per la notte
e ponti e palazzi.
(Ma ciò che dico – non ascoltarlo!
È tutto un inganno di donna!)
Da sola al mattino demolisco
la mia creazione.
Le magioni – come covoni di paglia – niente!
La mia strada non passa vicino alla tua casa.
27 aprile 1920
da “Poesie” – Ed. Feltrinelli 2009 (traduzione a cura di Pietro Zveteremich)
Breve biografia di Marina Cvetaeva-Mosca 1892 – Elabuga (Tataria) 1941
«Nei miei sentimenti, come in quelli dei bambini, non esistono gradi».In Crimea, sulle rive del Mar Nero, a Koktebel’ Marina s’innamora di Sergej Efron. Lei ha 19 anni, lui 18. Sergej trova sulla spiaggia una corniola che Marina tanto desiderava. Marina vede il segno del destino. Si sposano. Era già stato pubblicato il primo libro di poesie di Marina, Album serale. Marina Ivanovna Cvetaeva nasce a Mosca il 26 settembre 1892. Il padre, Ivan Vladimirovič Cvetaev, figlio di un povero pope di campagna, non ebbe un paio di scarpe proprie fino ai tredici anni; ma sarebbe diventato filologo e professore di storia dell’arte all’università di Mosca, e fondatore del Museo Puškin. La madre, Marija Alexandrovna Mejn, fu obbligata dalla propria famiglia a rinunciare all’amore per un uomo già sposato e alla carriera di pianista, pur essendo stata allieva di Rubinstein. Fu la seconda moglie del professor Cvetaev.
La prima moglie Varvara Dmitrievna Ilovaiskij, aveva dato alla luce Valerija e Andrej; morì prematuramente ed era un’amica di Marija.
Marija avrebbe voluto figli maschi: ne aveva già scelto i nomi. Dopo Marina, nacque Anastasija. Sperò almeno che diventassero musiciste. L’ambiente familiare è ricco di sollecitazioni coltissime. Marina studia musica; scrive le prime poesie in russo a sei anni; si fa incantare dalle passioni letterarie della madre, Puškin e i grandi classici tedeschi e francesi. Cresce a Mosca, al n. 8 del Trёchprudnyj Pereulok, il vicolo dei Tre Stagni. La casa moscovita, assieme alla residenza estiva in campagna a Tarusa, resteranno decisivi, per la Marina adulta e in esilio, in ricordo dell’infanzia e di tutto ciò che viene perduto in modo irrimediabile. La madre si ammala di tubercolosi. in cerca di un clima più mite, la famiglia viaggia – soggiornando anche in Italia, a Nervi. Marina e Anastasija frequenteranno collegi in Svizzera e in Germania, perfezionando il francese e il tedesco.
Marija muore nel 1906 rimpiangendo la musica, il sole, e di non poter vedere adulte le figlie, che saranno viste crescere da «cretini qualsiasi». La sua fame di vita e la sua rivolta diventeranno, in Marina, vocazione: «Dopo una madre così non mi restava che divenire poeta». A 16 anni, da sola, segue i corsi di letteratura francese antica alla Sorbona di Parigi. Iscritta al ginnasio a Mosca non riuscirà a concludere studi regolari a causa del suo carattere indocile. L’anticonformismo si unisce al devoto amore per il marito, che seguirà sempre «come un cagnolino», e che non le impedirà di avere altre relazioni, fra cui Osip Mandel’stam, la poetessa Sofija Parnok e l’attrice Sonja Halliday. Sergej comprende e soffre il dinamismo della passione creatrice della moglie: Marina “inventa” le persone, le investe con l’uragano della propria passione, per poi scoprirne l’umana mediocrità; ne consegue la disillusione, derisa in modo crudele, incarnata in una formula razionale che genera, ogni volta, un libro, un progetto di scrittura. Questo meccanismo ha un bisogno di alimentarsi per vivere e per creare, «come una grandissima stufa che per funzionare ha bisogno di legna, legna, legna»; ma mai pensa di lasciare Sergej. Il destino di Marina è nella fedeltà ai propri sentimenti e soprattutto alla poesia.
Per l’Armata Bianca, alla quale si era unito Sergej dopo la Rivoluzione, Marina osa leggere in pubblico, alcune poesie scritte da lei, senza la parola amore né il pronome tu. Non viene denunciata per il tema scelto: doveva ancora arrivare il grande terrore staliniano. Resta bloccata a Mosca in condizioni disumane, descritte nella prosa Indizi Terrestri, senza notizie di Sergej, sola con le due figlie: Ariadna (Alja) e Irina,ma non riesce a mantenere entrambe e Irina viene affidata ad un orfanotrofio dove muore per fame.
Il sentimento per Marina richiede forza. La sua poesia arriva al grido, raggiunge l’oratoria poetica. Nelle prime raccolte di poesia prevalevano il quotidiano, la famiglia e la maternità, o l’odore della nursery – come scrissero i più critici; nel tempo la poesia si fortifica in una potente energia espressiva in cui tutte le possibilità del linguaggio sono utilizzate: ritmo, assonanze, rime, il particolare utilizzo della negazione, giochi fonetici in poesie che andrebbero lette ad alta voce.
Ogni genere e argomento entra nella sua produzione: poesia e nel dramma storico (Sten’ka Razin), favola (Il Pifferaio di Hamelin ovvero l’Accalappiatopi), e leggende popolari (Lo Zar-fanciulla), storie bibliche, classiche (Ariadna e Fedra). E prosa critica, L’Arte alla luce della coscienza e Il Poeta e il Tempo.
Scrisse che si potevano ricavare da lei sette poeti, senza tralasciare i prosatori…La poesia di Marina non è romantica – nonostante circolino di lei oggi sillogi più facili e canzoni – , è analogica, razionale e intellettuale. È impegnativa: la sua lettura è un atto di con-creazione, un’esperienza conoscitiva. Bisogna arrivare all’essenza della cosa o della persona, non descrivere visivamente, piuttosto dare dall’interno: se si trattasse di un albero, restituirne il midollo.
«Io mi sono sempre fatta in pezzi, e tutti i miei versi sono, letteralmente, frammenti argentei di cuore.» In questa smisuratezza, tanti critici hanno prediletto un approccio istintivo e passionale piuttosto che analitico e conoscitivo.
Alja e Marina raggiungono Sergej, che sanno finalmente vivo, all’estero, nel 1922.
Nasce a Praga Georgj, detto Mur: capriccioso, maleducato, insopportabile, viziato dalla madre. Alja si legherà sempre di più al padre. A Berlino, Praga e Parigi vi sono case editrici russe. L’ambiente dell’emigrazione è vivace. Marina pubblica interi cicli di poesia, anche se per motivi economici prevale la prosa. Scrive molto di più di quanto riesca a pubblicare e legge anche in serate letterarie. A Parigi frequenta il famoso salotto di Natalie Clifford Barney. Conosce la pittrice Natal’ja Gončarova, nasce una collaborazione, ma l’amicizia non regge nel tempo: «non ho lasciato in lei un segno abbastanza profondo, non le sono diventata necessaria. Sentiero subito invaso dall’erba».
Marina non frequenta solo i salotti. Spazza, cucina, si procura soldi, cibo, legna e carbone: «e poi un uomo non può fare lavori femminili, è bruttissimo da vedere (per le donne)». Marina vive pesantemente il byt, il quotidiano, fino in fondo, senza delegare alcuno, ma nella sua poesia emerge possente il Byt’e, l’Esistenza, la forza che non sottostà ad alcuna legge. Sergej, quasi sempre a carico della moglie, ne è consapevole: Marina è poeta che pur passando la maggior parte del tempo in cucina, non ha perso né il talento né la capacità di lavorare. Ostinata, fedele alla poesia, scrive appena può. Si reca al mare per un breve soggiorno: non il mare, ma nel poter scrivere è la sua vacanza. Nel 1928 esce l’ultimo libro di poesie che vedrà pubblicato, Dopo la Russia. Molte case editrici dell’emigrazione russa chiudono per mancanza di fondi. Le condizioni economiche peggiorano. Marina viene poco a poco emarginata, per la sua intransigenza e anche perchè non si dichiara antisovietica; senza soldi non può muoversi da casa; vive una grande solitudine. Da questo isolamento nasce la corrispondenza straordinaria con Boris Pasternak e con Rainer Maria Rilke: i loro rapporti si muovono in un ambito parallelo, spostato. I tre poeti non s’incontreranno mai, per un eterno mancarsi. L’assenza diventa un vantaggio perché l’altro, amato, interiorizzato, diventa più intero nell’anima.
Marina è un’eterna straniera, non solo perché vive fuori dalla Russia per molti anni, senza riconoscere alcun paese come patria: è un’estranea al proprio tempo, condannata a guardarlo dall’esterno. Quando rientra in Russia è conosciuta solo per le sue prime raccolte poetiche e sarà riscoperta a partire dal 1956; all’estero non verrà più letta da una emigrazione russa sempre più ostile.
Nel 1937 Alja decide di rimpatriare, così poco dopo anche Sergej, ora filosovietico e implicato in un assassinio politico. Marina è convinta della sua innocenza. L’ostracismo della colonia russa raggiunge l’apice. Rimpatriare? In una lettera chiede ironicamente a un’amica di procurarle un consulto da un’indovina, tanto soffre l’indecisione.
Nessuno la informa di quello che stava accadendo in Russia, nessuno la ferma. Come se presentisse la sciagura: la partenza le appare sotto una nube nera. Nel giugno 1939 parte per l’Unione Sovietica con Mur. Trova tutte le porte chiuse, ed è stupita e furiosa. Come si permette la città di Mosca a darsi così tante arie? La sua famiglia l’aveva colmata di doni, su tutti il Museo Puškin. La famiglia resta riunita per pochi mesi. Nell’agosto del 1939 Alja è arrestata e condannata, prima alla prigione, poi al confino. In ottobre tocca anche a Sergej: sarà fucilato due anni dopo. Nel 1941 Marina incontra Anna Achmatova. Le due donne, pur stimandosi, sono troppo diverse, solo unite dal dolore per la sorte dei propri cari.
In agosto Marina e suo figlio sono evacuati a Elabuga, in Tataria. Nella più profonda indigenza. Marina chiede di lavorare come lavapiatti nella mensa dell’Associazione degli Scrittori. Non ottiene il posto. La scrittrice Lidija Čukovskaja: «Se si mette la Cvetaeva a lavare i piatti, perché non far lavare i pavimenti ad Anna Achmatova e assumere come fuochista Blok, se fosse ancora vivo? Allora sì che sarebbe una vera mensa per scrittori».
Marina si impicca il 31 agosto 1941. Avrebbe desiderato giacere a Tarusa, sotto un cespuglio di sambuco, «dove crescono le fragole più rosse e più grosse», ma viene sepolta in una fossa comune.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Marina Cvetaeva, Poesie (a cura di Pietro Zveteremich), Feltrinelli 1979
Marina Cvetaeva, Indizi terrestri (a cura di Serena Vitale), trad. Luciana Montagnani, Milano, Guanda 1980
Marina Cvetaeva, Dopo la Russia e altri versi (a cura di Serena Vitale), Milano Mondadori, 1988
Marina Cvetaeva, Il paese dell’anima: lettere 1909-1925 (a cura di Serena Vitale), Milano Mondadori,1988
Marina Cvetaeva, Deserti luoghi: lettere 1925-1941 (a cura di Serena Vitale), Adelphi 1989