Marina Carullo “Il colore delle foglie”
Biblioteca DEA SABINA
Marina Carullo “Il colore delle foglie”
– PAV Edizioni- Cover graphics: Claus Tamburin-
DESCRIZIONE
Elena Carabelli è una giovane donna benestante che vive un’esistenza serena fino a quando, improvvisamente, si trova ad affrontare un lutto straziante: il suo amato marito, mentre è in viaggio per lavoro, ha un grave incidente d’auto e muore sul colpo. Le dinamiche dell’avvenimento, nebulose e confuse, portano la donna a voler far luce a tutti i costi sull’accaduto. Da quel momento nulla, nella vita della giovane, sarà più come prima. In un susseguirsi di colpi di scena, dove mistero ed amore si mescolano sapientemente, il lettore viene catapultato dentro la vita della protagonista che si dimostra capace di districarsi tra il lutto del compagno, una serie di efferati omicidi, un nuovo amore e una rocambolesca caccia al tesoro per scoprire la verità dietro alla scia di morte che pare perseguitarla.
Sarà in questo viaggio appassionante che Elena imparerà a sue spese che niente è come sembra e che, nella vita reale, bisogna essere sempre disposti a scendere a compromessi.
Breve biografia di Marina Carullo – Nata a Busto Arsizio nel 1971, Marina Carullo vive a Somma Lombardo con la famiglia. Laureata in giurisprudenza, esercita la professione di avvocato. Ha iniziato a scrivere qualche anno fa, in un periodo particolarmente intenso e impegnativo della propria carriera professionale, scoprendo che tale attività le regalava emozioni e spensieratezza. Questa passione é sfociata nel romanzo “Il Colore delle foglie” primo di una serie dedicata alle avventure della giovane e bella Elena Carabelli.
Il Colore delle Foglie –Leggi l’anteprima
Capitolo I
Venerdì 9 settembre 2016
Venticinque anni, compiuti proprio oggi, una laurea in giurisprudenza e un’abilitazione all’esercizio della professione d’avvocato, ambedue nel cassetto; un matrimonio, durato quasi quattro anni e, sempre oggi, il funerale di mio marito. La mia testa era confusa, cercavo di prepararmi in modo dignitoso al funerale, ma la mente divagava ossessivamente sul giorno del mio matrimonio con Alberto… Era il 9 ottobre del 2011, la giornata era soleggiata, fresca e mia madre mi sistemava il velo in testa, terrorizzata dall’idea di rovinarmi l’acconciatura. «Elena, stai ferma! Devo infilarti questo benedetto pettinino senza rovinarti lo chignon.» Il tutto avveniva sotto lo sguardo divertito di mio padre che, ridendo sotto i baffi, guardava amorevolmente mia madre cimentarsi in quell’ardua impresa. Chissà se riuscirò, pensavo nel frattempo, ad avere un matrimonio felice e duraturo come il loro! I miei pensieri vennero bruscamente interrotti dall’arrivo della mia migliore amica, Laura. «È ora di sbrigarsi, lo sposo è già arrivato in chiesa, non vorrai che ci ripensi!» disse con un sorriso compiaciuto per la battuta. «Non sia mai» risposi io. Mi affrettai ad alzarmi e a guardarmi per l’ultima volta allo specchio prima di raggiungere la chiesa. L’abito era veramente meraviglioso, di un tessuto morbido e avvolgente che accarezzava sinuoso la mia figura, mi infilai in fretta le scarpe e, pronti, partenza, via! Destinazione altare! La piccola chiesa in riva al lago era gremita, ma non ci feci molto caso, la mia attenzione era tutta diretta a lui, il mio Alberto che, elegantissimo, mi sorrideva vedendomi varcare la navata della chiesa. Con le gambe tremanti lo raggiunsi all’altare, lui mi prese la mano e me la baciò con discrezione, guardandomi, complice, diritto negli occhi e facendomi pensare a quanto fossi fortunata io, Elena Carabelli, bella ragazza di provincia, a prendere come mio sposo Alberto Mascetti, eclettico e affascinante top manager milanese. Improvvisamente i miei pensieri furono interrotti dal suono del telefono. Risposi. «Elena, amore, io e papà stiamo passando in macchina sotto casa tua, ti accompagniamo noi in chiesa». «Non ti preoccupare, mamma. Sto preparando le ultime cose, vi raggiungo fra poco. Ciao». Riattaccai. Mi guardai allo specchio, la pelle ancora abbronzata, gli occhi azzurro intenso arrossati dalle lacrime, il mio vestito nero e quel senso di vuoto, misto a disperazione, che mi accompagnava da quel giorno. Mi infilai gli occhiali da sole, uscii dall’appartamento e presi l’ascensore. Antonio, il portiere, mi aprì la porta con uno sguardo di sincero rincrescimento. «Ancora tante con[1]doglianze, signora Mascetti». Lo ringraziai, accennandogli un sorriso, e mi diressi verso la macchina, parcheggiata per strada. Faceva ancora molto caldo a Milano e il traffico, dopo la tregua estiva, era ritornato caotico. Mi separavano pochi minuti dalla chiesa, dove entrai malvolentieri fra gli sguardi compassionevoli di tutti. Mi vennero incontro i miei genitori e Laura. «Fatti forza, Elena» disse mia madre. Le sorrisi non molto convinta, attendendo l’arrivo del feretro. La funzione procedeva veloce, in un’atmosfera di composto dolore: quasi non me ne accorsi e il funerale era finito. Una fila di persone, che mi sembrava interminabile, si avvicendava a porgermi le sue condoglianze; le ringraziai garbatamente, non vedendo l’ora di andarmene. Fra i tanti anche l’ingegner Hermann Fisher, amministratore delegato della Betafarma, l’azienda farmaceutica dove lavorava Alberto. «Non la lasceremo sola, Elena, l’azienda penserà a lei in questo momento di grande dolore». Annuii con un sorriso accennato, ricordando fuggevolmente l’occasione in cui lo conobbi… Era a Lugano, all’Hotel du Lac, ad una delle lussuose ed esclusive feste organizzate dalla Betafarma. Io e Alberto eravamo appena sposati. Indossavo un vestito blu elettrico e un paio di orecchini di brillanti e zaffiri regalatimi da lui. Un uomo attraente, sulla trentacinquina, mi guardava da lontano e subito capii di piacergli. Poi si era avvicinato. «Dottor Mascetti, non mi presenta questa splendida signora?» «Oh dottor Fisher, come no. Mia moglie Elena, l’ingegner Fisher, l’amministratore delegato di Betafarma». Subito gli sorrisi e lui mi baciò la mano con galanteria. «Hai fatto colpo sul capo!» mi disse poi Alberto quando Fisher si allontanò. «Meglio così» gli risposi senza pensarci troppo. Nel frattempo la chiesa si era svuotata e tutti ci avviammo al cimitero per la sepoltura. Solo quando l’ultima manciata di terra soffocò la sua bara, mi resi conto che non l’avrei più rivisto!
Capitolo II
Sabato 10 settembre 2016
Sola, nella mia camera, mi giravo e rigiravo nel letto. Era l’una di notte e non riuscivo a dormire, rimbombava nelle mie orecchie lo squillo del telefono di qualche giorno prima, il primo settembre. «Signora Mascetti?» «Sì…» «Sono l’ispettore Vannucci del commissariato di Sanremo, e purtroppo… devo darle una brutta notizia. Suo marito è stato vittima di un terribile incidente stradale. Abbiamo da poco recuperato dal mare la sua macchina. Dovrebbe venire all’obitorio… per il riconoscimento». Incidente, obitorio, riconoscimento? Stavo preparando la cena e quasi pensai d’essere vittima di uno scherzo. «Signora? Signora, si sente bene?» Che idiozia, pensai, come potrei sentirmi bene dopo una notizia del genere? «Sì…», gli risposi col fiato corto, «sto bene».
Venerdì 02 settembre 2016
Sanremo, cosa faceva a Sanremo? pensavo mentre il treno partito da Milano mi portava lì. M’aveva detto che si trattava di un breve viaggio di lavoro, in Svizzera, e invece era a Sanremo… Risvegliatami dai miei pensieri, mi accorsi che il treno, percorrendo meravigliosi paesaggi marittimi, si avvicinava alla stazione di destinazione. Presi velocemente le mie cose e, una volta scesa, un taxi, inerpicandosi sulle colline sanremesi, raggiunse l’ospedale. Lì mi aspettava l’ispettore Vannucci, un bel ragazzo sulla trentina, che mi accolse con un sorriso, forse un po’ troppo smagliante date le circostanze. Se ne accorse e cercò di darsi maggior contegno. «Signora Mascetti?» mi chiese, con un accento romano. «Sì» gli risposi. «Sono Vannucci, ci siamo sentiti telefonicamente. Sentite condoglianze». «La ringrazio». Con il braccio mi invitò a entrare, aprendomi la porta, e mi condusse verso l’obitorio. Una luce metallica illuminava quell’ambiente spaventosamente asettico e spoglio, mi sembrava una situazione surreale, come se stessi vivendo la storia di qualcun altro, non era possibile che tutto questo stesse capitando a me! Mentre ero assorta nei miei pensieri un signore sulla sessantina mi avvicinò, tendendomi la mano. «Buongiorno, sono Giovanni Grasso, il medico legale!» «Buongiorno, Elena Mascetti». Seguito da Vannucci, Grasso mi condusse in un altro locale, freddissimo, con grossi cassettoni a parete. Ne estrasse uno, tolse il lenzuolo che ricopriva il corpo e vidi che era lui, Alberto. «Lo riconosce, signora Mascetti?» «Sì, è mio marito» dissi con la voce rotta dal pianto. Mentre Vannucci cercava maldestramente di consolarmi, offrendomi dei fazzoletti di carta, Grasso si dirigeva verso un altro cassettone; aprendolo, scostò il lenzuolo dal volto e mi chiese: «Sa chi sia questa donna?» Mi avvicinai e la guardai con attenzione: era bella, giovane e bionda; dal rigonfiamento del suo ventre capii che era incinta. «Non ne ho la più pallida idea…» «Era in macchina con suo marito, signora Mascetti» disse Vannucci. Ci fu un attimo di silenzio: mio marito a Sanremo in macchina con una ragazza bella e giovane, ma soprattutto incinta? Ero totalmente spiazzata. Vannucci mi osservava imbarazzato e io non sapevo proprio che dire. «Le ripeto che non so chi sia!» dissi con tono infastidito. «E, soprattutto, non so cosa facesse in macchina con mio marito». «Va bene, signora» affermò Vannucci. «Dovrebbe solo passare in commissariato a formalizzare le sue dichiarazioni e poi la riaccompagno in stazione». Annuii. Vannucci verbalizzò le mie dichiarazioni presso il commissariato e mi accompagnò, in totale silenzio, alla stazione. «Buon viaggio, signora Mascetti». «Grazie ispettore» gli risposi, e così ci congedammo. In realtà, quello fu tutt’altro che un buon viaggio: non solo la morte di mio marito, ma anche quell’inspiegabile compagnia femminile, che forse, però, solo io non riuscivo a spiegarmi. Vedevo gli sguardi dei poliziotti in commissariato, e dicevano chiaramente: «È arrivata la cornuta!»
Capitolo III
Sabato 03 settembre 2016
Arrivai a Milano Centrale alle due di notte, presi un taxi che mi portò a casa. Finalmente sola – dopo quella giornata convulsa e surreale – scoppiai a piangere. Mio marito era veramente quel[1]lo sconosciuto che mi tradiva con una ragazzina, per giunta incinta? Pensai a quel giorno di tanti anni prima in cui lo conobbi sul treno, lui che tornava a Milano dalla Svizzera e io che andavo all’università per un esame; presa dal ripasso frenetico degli ultimi concetti di diritto costituzionale, non mi ero neppure accorta d’essermi seduta vicino a lui. Lui però si accorse di me. «Un esame, signorina?» «Sì» risposi un po’ imbarazzata. Si notava così tanto? «Che materia?» «Diritto costituzionale». «Oh, giurisprudenza allora! Anch’io sono laureato in giurisprudenza! Sono un avvocato e lavoro per una grande casa farmaceutica». Che carino, pensai, così elegante ed educato, deve avere qual[1]che anno più di me. «Anch’io vorrei fare l’avvocato» gli dissi. Mi sorrise. «Bene, allora le lascio il mio numero di telefono, così mi potrà ragguagliare sulla realizzazione dei suoi sogni anche se, sinceramente, spererei che mi chiamasse un po’ prima!». Così si concluse la nostra conversazione. L’avvocato in realtà non l’ho fatto, ma lo chiamai lo stesso… La luce del mattino entrava dalla finestra, avrei voluto dormire ancora, per non pensare a tutto quello che era successo, ma lo squillo del telefono mi riportò prepotentemente nel vortice di quelle giornate assurde. Risposi di malavoglia: «Pronto!» «Elena, tesoro!» sentii dall’altro capo del telefono. «Mamma…» bofonchiai, e in quello stesso istante mi resi conto che non l’avevo ancora informata di nulla. «Ma ti ho svegliata? Dormite ancora a quest’ora? Io e papà aspettavamo te e Alberto per la festa di San Tito!» Oddio, m’ero completamente dimenticata! Sopraffatta dal dolore e dalla frustrazione scoppiai a piangere e le raccontai tutto. In poco meno di un’ora mamma, papà e Laura erano lì con me, per me… «Non puoi stare qui da sola in queste condizioni, Elena, lasciati aiutare!» disse mia mamma. «Prepara le tue cose e vieni qualche giorno da noi, ti farà bene!» «Sì tesoro», replicò mio padre, «staremo tutti insieme come una volta». Anche a me, sinceramente, sembrava una buona idea: la loro presenza e quella di Laura mi avrebbe distratto dall’incubo. In fretta misi in un borsone poche cose, chiusi la porta di casa e me ne andai con loro. Maddalena era una minuscola cittadina sulle rive del Ticino, fresca e lussureggiante, dove tornavo sempre volentieri, soprattutto per disintossicarmi dalla grande città. Non so come fosse possibile, ma al mio arrivo già tutti sapevano del grave lutto, e la cittadinanza al completo, non che fosse molto numerosa, mi attendeva sul sagrato della chiesa. 15 «Elena, cara, che grave perdita…» mi disse il parroco stringendosi a me. Annuii piuttosto forzatamente sotto lo sguardo vigile e curioso di tutti i presenti. «Noi siamo con te cara, di qualsiasi cosa tu abbia bisogno». «Grazie, don Antonio» dissi, e mi congedai. Tutte le volte mi dimenticavo di quanto fosse bella la nostra casetta, immersa nei fiori sulle rive del Ticino. «La mia piccola reggia» dissi. «Non esagerare» replicò mia madre, inorgoglita dal complimento. Mi mancava l’atmosfera di casa mia, così tranquilla e rilassata. Qui sembrava che il tempo si fosse fermato: i ricami sugli asciugamani, i lavori a maglia, le marmellate e la pasta fatta in casa. La mia vita a Milano era diventata tutt’altra cosa: colazione al bar con le amiche, corsetta al parco, pranzo veloce, al club a giocare a tennis e poi a casa per preparare la cena, aspettando il mio Alberto. Mi sembrava di sentire ancora la sua voce: «Elena, sono tornato, cosa c’è di buono per cena? Oltre alla mia bella mogliettina, ovviamente». E, la mente ritornò lì: chi era quella donna, perché era con lui, di chi era quel figlio che portava in grembo? Tutti questi pensieri mi rimbombavano nella testa, quando venni riportata sulla Terra dalla voce di mia madre. «Cosa vuoi per cena?» «Quello che vuoi tu, mamma». «Bene, allora faccio io! Vienimi ad aiutare». Impastando, frullando e tagliando, per un’oretta non pensai a nulla. Ci sedemmo a tavola e mio padre, come di consueto, accese la televisione per il telegiornale della sera. Stavo sussumendo il mio passato di verdura, quando una notizia mi fece trasalire: il manager milanese Alberto Mascetti ha perso la vita in un tragico incidente automobilistico, sul quale indaga la procura di Imperia. Nello stesso incidente ha perso la vita anche una giovane donna incinta, ancora non identificata, che viaggiava nella medesima vettura dell’uomo. Tutti mi guardarono in silenzio, aspettando una mia reazione. «Bene», dissi, «se ancora qualcuno non sapeva della relazione di mio marito, adesso abbiamo rimediato».
Capitolo IV
Domenica 4 settembre 2016
Se affrontare la morte del proprio marito è un’esperienza tragica, non immaginate quanto possa esserlo reggere gli sguardi di chi ti compatisce per essere stata l’ignara e inconsapevole vittima di un adulterio. «È una così bella ragazza, perché il marito l’ha tradita?» «Vai a capirli, gli uomini!» Questo brusio animava l’abitualmente annoiata parrocchia di Maddalena, dove, con il mio arrivo, calò un improvviso ed eloquente silenzio. Don Antonio iniziò l’omelia: «Cari fedeli, sono felice della vostra presenza così numerosa in questi giorni di grande dolore per la nostra cara Elena». Oh no, pensai, e tutti si girarono verso di me. «Uniamo, quindi, le nostre voci in una preghiera per il nostro caro fratello Alberto». Almeno non ha esteso la preghiera alla sua misteriosa compagna di viaggio, pensai fra me e me!
Martedì 6 settembre 2016
Le giornate passavano veloci a casa, già eravamo arrivati a martedì pomeriggio. Sulla veranda aiutavo mia madre a sbrogliare una matassa di lana dall’improbabile colore fucsia, quando il telefono suonò. «Pronto?» «Buongiorno signorina… signora… sono Vannucci». «Buongiorno ispettore». «Ehm… volevo informarla che il dottor Grasso ha ultimato gli accertamenti medico-legali sulla salma di suo marito che, domani, sarà trasportata all’obitorio di Milano per le esequie». «Grazie» gli dissi, interrompendo rapidamente la conversazione. Era arrivato il momento di ripartire alla volta di Milano, dovevo contattare le pompe funebri e organizzarmi quanto prima per il funerale. La sera stessa mi feci accompagnare alla stazione e arrivai a Milano Centrale verso le diciannove. La città era ancora illuminata dal sole, ma quando varcai la porta di casa mi si raggelò il sangue. Con tutto quanto già mi era successo, pensai proprio a un feroce accanimento del destino: anche i ladri in casa! Sembrava che nell’appartamento fosse passato uno tsunami: tende strappate, cassonetti aperti, divani tagliati, cassetti sparpagliati ovunque, un impietoso scempio della mia casa e della mia vita. Pareva che Attila in persona con la sua orda avesse fatto sosta da me. La vicina di casa, signora Spadoni, una donna separata con due figli, era nella casa di campagna dei genitori a trascorrere le vacanze estive. Citofonai, quindi, al dottor Giorgetti, ma anche lui non era in casa. Avrei chiesto in portineria la mattina seguente. Preferii non informare mia madre dell’accaduto e chiamai i carabinieri per la denuncia. Circa un’ora dopo suonò il campanello. «Signora Mascetti?» «Sì». «Siamo i carabinieri, ci apre?» Aprii subito il portone e la porta d’ingresso. Devo dire che anche loro rimasero piuttosto impressionati dallo scempio. «Cosa le hanno rubato, signora?» Da quanto avevo visto, la fedina di brillanti, un paio di orecchini di rubini e qualche cornice d’argento. «Sono entrati con una chiave bulgara, probabilmente. Non ci sono segni di scasso» disse uno dei due. Redassero il verbale e me lo fecero firmare. «Signora, se è assicurata deve consegnarlo al suo agente per il risarcimento». Mentre cercavo di mettere un po’ d’ordine in quel disastro, suonò il campanello di casa. Dovevo aspettarmi altro da questa giornata? «Sono il fiorista, la signora Elena Mascetti?» «Sì!» Dei fiori, pensai fra me e me, e lo feci salire fino alla porta di casa. Sussultai quando mi consegnò uno splendido mazzo di iris, i miei fiori preferiti, quelli che Alberto mi regalava sempre a ogni ricorrenza. Entrai frettolosamente in casa per vedere se c’era un biglietto. «Eccolo!» Lo aprii e lessi: Cara Elena, sono vicino al suo grande dolore. Conti su di me per ogni cosa. Hermann Fisher. E, unito, trovai il suo biglietto da visita. Era la prima volta che, in occasione di un funerale, vedevo i fiori recapitati al vivo e non al morto!