Luisa Giaconi, o la poesia che stregò Dino Campana-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Luisa Giaconi, o la poesia che stregò Dino Campana-
Luisa Giaconi, o la poesia che stregò Dino Campana-Gli anni tra la fine del XIX secolo e il primo decennio del XX sono indubbiamente caratterizzati da una produzione letteraria irrequieta, sperimentale e variegata; questo vale tanto per l’Europa, quanto per l’Italia, che, per quanto in certi aspetti ancora ancillare alla cultura d’oltralpe, seppe trovare una sua voce molto originale e contribuire in modo decisivo all’elaborazione di nuove concezioni artistiche. Ora, per quanto questo periodo possa dirsi, per molti aspetti, come uno dei più vivaci e interessanti della storia letteraria recente, molti sono ancora i punti interrogativi, le zone d’ombra, i nomi posti in un cassetto e mai più riesumati. Tra questi, sarebbe da porre una certa attenzione a Luisa Giaconi, poetessa colpevolmente dimenticata nonostante potesse pregiarsi di un ammiratore del calibro di Dino Campana, che molto amò la sua poesia, e molto, probabilmente, se ne fece influenzare.
Ma procediamo con ordine, cercando anzitutto di inquadrare la vita e il carattere della poetessa. La maggiore fonte biografica a nostra disposizione è la prefazione di Giuseppe Saverio Gargano all’edizione del 1912 della Tebaide, unica opera edita della poetessa. Gargano, oltre ad essere giornalista e studioso di letteratura inglese, fu a lungo legato da una relazione amorosa con Luisa, dal 1899 fino all’anno della morte.
Luisa Giaconi nasce a Firenze nel 1870, da una famiglia nobile di discendenza germanica, per quanto oramai decaduta. Su questo punto è bene soffermarsi, poiché Gargano, nella sua prefazione, afferma che Luisa sentiva una certa «affinità elettiva» con l’animo contemplativo germanico, attribuendo, appunto, questo suo spirito a motivi dinastici. Qui avvertiamo pure la prima affinità con Campana, il «letzten Germanen in Italien», come recita il sottotitolo dei Canti orfici. Il poeta di Marradi, affine alla natura contemplativa e tragica norrena – tanto da dedicare i suoi Orfici a Guglielmo II – non poteva che rimanere colpito da una personalità così affine.
Nonostante il retaggio, però, Luisa trascorre una vita modesta: il padre insegna matematica negli istituti tecnici, e per un certo periodo deve seguirne gli spostamenti in tutto il centro Italia, a seconda delle scuole che vengono lui assegnate. Alla morte del padre, però, Luisa torna a Firenze, dove si iscrive all’Accademia delle Belle Arti. In questi anni comincia pure ad appassionarsi alla letteratura, ma le sue letture sono disordinate, prive di una vera e propria struttura. Questo, almeno, fin quando, a detta di Gargano, non fa amicizia con una signora inglese – di cui non è chiara l’identità – che le insegna la lingua e la istruisce sui principali capolavori anglosassoni. In questo caso, vediamo un punto in comune, invece, con molti dei poeti della generazione successiva a quella della Giaconi, ovvero una formazione letteraria anticanonica, autodidatta, basata su letture non sistematiche e su una forte influenza estera (si ricordino Enrico Pea, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, per citare i più noti).
Nel ritratto di Gargano, Luisa Giaconi appare come molto introversa, tratto che caratterizza il suo stile poetico e spiega in parte la sua travagliata vicenda editoriale. Comincia a scrivere le sue prime liriche ed ottiene dall’editore Paggi – a seguito di una lettura del materiale – la promessa di una pubblicazione. La promessa, però, non viene mantenuta, complice pure il fallimento della casa editrice del 1896. Luisa rimane molto delusa da questa promessa tradita, e si chiude in sé stessa, isolandosi dal mondo. Si immerge nella lettura di classici, tra i quali Gargano cita le opere di Dante, di Leopardi e l’ Ecclesiaste – anche in questo caso, sia le opere citate che l’approccio autodidatta al loro studio sono tipici di molti autori del primo Novecento.
Successivamente, comincia a collaborare con «Il Marzocco», dove a partire dal 1896 pubblica alcune sue liriche. Queste attirano l’attenzione di molti letterati e poeti – tra i quali, per l’appunto, lo stesso Gargano.
Dato il successo che sembra riscuotere, Luisa Giaconi torna a progettare la sua prima pubblicazione in volume. Il suo, è un lavoro di “architettura” lento e molto selettivo, che la porta a scegliere ed ordinare solo diciotto, tra le liriche da lei scritte. Nel 1908, riesce a ottenere da Zanichelli la pubblicazione della sua prima e unica silloge, Tebaide. Purtroppo, però, non riuscirà a vederne la concreta pubblicazione: il 18 luglio del 1908, infatti, Luisa Giaconi muore, a soli 38 anni, consumata dalla tisi; il volume esce dalle stampe solo a dicembre dello stesso anno, seguendo le indicazioni date dalla poetessa.
Ora, quel piccolo volume di versi che è la Tebaide ebbe un grosso successo di pubblico, tanto da convincere la Zanichelli a proporre una seconda edizione, nel 1912, curata sempre da Gargano e più ampia, rispetto alla prima. In questa seconda edizione furono incluse, oltre alle diciotto liriche selezionate dalla poetessa stessa, anche tutti gli altri versi che avevano visto la pubblicazione sul «Marzocco», fino a un totale di quarantaquattro.
L’opera fu divisa in quattro sezioni: la prima rispettava la Tebaide come concepita da Luisa Giaconi, le altre tre erano invece ordinate secondo un criterio puramente cronologico.
Ora, la parte curata direttamente dalla Giaconi è senza ombra di dubbio la più interessante, e riproduciamo qui, per far fronte alla scarsa reperibilità del testo, la poesia che dà il nome all’intera raccolta:
Sei dunque tu, silenziösa terra, l’oasi immensa
che a lungo implorarono i sogni più meravigliosi?
Sei dunque tu il Tempio supremo dei taciti riti
cui nell’ora dei tedii amari il mio spirito venne?
Ti scende la pace dei cieli sacra; e fremono i ritmi
perenni dei boschi come una sinfonia profonda
di arpe e di sistri; e ti piange tremula e roca l’onda
dei fiumi fuggenti, e t’arride vasta l’onda dei soli.
Non altro io ti chiesi, o Silente; poi che venni lasciando
ben lunge le cure e i clamori vani; e tu fosti l’alta,
la provvida liberatrice; e tu mi fosti a gli occhi
visione d’imperiosi fastigi ardui nei cieli.
Oh lento ondeggiar de’ sommersi spiriti ne l’aure
come alito di pure linfe che il suolo emani! oh muto
ascender dei sensi col muto svolgersi de le arboree
vite possenti, protese pensosamente ai cieli!
Venimmo mai, stanchi e senz’ ombra d’ amore, pei tuoi
sentieri, o Lontana, senza che il tuo cuore non si aprisse
col giglio dei campi e splendesse con le tacite aurore?
Che fiori vedemmo più dolci dei tuoi sogni fiorire?
Li autunni non furon che eterne primavere velate
di pianto; e la vita fu sogno e l’amore fu sogno,
e parvero sogni le luci delli astri, e la dolcezza
dei fiori, ed il tempo, e la morte. Poi che noi siamo sogni.
La lirica fece la sua prima apparizione sul «Marzocco» nel 1899. Oltre agli influssi linguistici e stilistici pascoliani e dannunziani, è da segnalare una forte originalità ritmica e melodica, che certo si muove dalla metrica barbara, ma che crea sviluppi molto originali – e forse lo stesso Campana ne fu influenzato. Le varianti “a sentimento” del ritmo dattilico di questi pentametri sono indicativi di una concezione “intima” della prosodia, in linea con il contenuto della lirica. Tebaide, infatti, tiene propriamente fede al suo titolo erudito, dipingendo con tinte lussuose ed eteree un eremo di silenzio e di pace, dalle tinte oniriche e misticheggianti, in cui sentir solo il fremere dei «ritmi perenni / dei boschi», che evocano il suono armonico «di arpe e di sistri». In questo, l’inizio descrittivo è molto placido, riflessivo e vagamente leopardiano (si evoca quasi il Canto notturno). Con l’avanzare delle strofe, però, qualcosa di inquieto affiora, fino a rivelarsi nell’ultima strofa, che si fa incalzante nel ritmo grazie a un uso sapiente delle ripetizioni. L’ansia che la visione svanisca, che si riduca a sogno, la consapevolezza finale che tutto è sogno, e che tutto dunque svanisce, crea uno strano senso d’amarezza che turba in maniera decisiva la mistica armonia della tebaide. Come si sentono, in questi ultimi versi, riecheggiare le “chimere” di Campana, come si possono avvertire anche somiglianze con passi noti, come il «tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno» della Notte, che pare quasi offrirsi come sintesi di quest’ultima strofa. L’interesse di Giaconi sta nell’invisibile, nel tentativo di rappresentare ciò che l’occhio, o l’orecchio, può arrivare ad intuire, ma non a vedere o sentire concretamente. Da qui, il legame con la dimensione onirica, chimerica, nel desiderio di un’altra dimensione priva dei dolori e del rumore tipici della modernità.
Nicolò Bindi
Redattore
Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l’Istituto “Francesco Datini” di Prato.
Luisa Giaconi, otto poesie, una prosa
di Caterina Del Vivo
ARCHIVIO CONTEMPORANEO
Estratto dalla rivista: « Antologia Vieusseux » fascicolo LXX
Aprile – Giugno 1983
Gabinetto Scientifico Letterario
- P. VIEUSSEUX FIRENZE
ARCHIVIO CONTEMPORANEO:
Ricerche
Ringrazio l’amica Caterina del Vivo per avermi permesso di pubblicare questo articolo. (p. p.)
Fra i versi che Luisa Giaconi1 inviava al «Marzocco», confidando in un giudizio benevolo e in una eventuale pubblicazione che da un lato la familiarità e il probabile incoraggiamento di Enrico Nencioni2 e Giuseppe Saverio Gargàno suggerivano, e d’altra parte il timore di un certo dilettantismo e dell’approssimatività della propria formazione poetica sembravano quanto meno limitare nell’ambito di un’amichevole condiscendenza, fra questi componimenti poetici sono rimaste finora sconosciute agli studiosi otto liriche e una breve prosa, conservate nell’Archivio della rivista fiorentina3.
Sono pagine non pubblicate sul periodico né della postuma raccolta Tebaide4 , curata dal Gargàno nel 1909 – e ripresentata con numerose aggiunte nel 1912 – oltre che per una effettiva stima della poetessa, quasi per mantenere un antico impegno ed una irrealizzata aspirazione di lei.
Crediamo di non essere troppo lontani dal vero indicando i motivi principe di queste esclusioni nei mutamenti di impostazione e nelle reali difficoltà del periodico a partire dall’estate 1897; nella maggiore severità della direzione Corradini, e quindi Adolfo Orvieto, nei confronti di un certo tipo di liriche che non fossero quelle di poeti ormai gratificati da una completa approvazione del pubblico5; ed infine, ma non ultimo, in una certa mancanza di finitezza delle composizioni che potrebbe aver determinato a riguardo un riserbo della stessa Giaconi (e quindi l’esclusione nelle raccolte ad opera del Gargàno), essendo quello di un incompiuto “labor limae” pensiero assillante della poetessa:
Io mi sono messa all’opera della lima e trovo che non è poi tanto noioso come credevo. Speriamo che la sua pedanteria ne sarà soddisfatta6.
Vorrei che Ella mi rendesse tutti quelli abominevoli versi perché io ne faccia giustizia con la lima o col rogo secondo il loro merito
Ecco le rimando i versi a cui ho fatto quelle mende che mi ha consigliato Gargàno, ma la fretta mi ha impedito di limare come avrei voluto8.
[….] sono pronta a rilimare qualora fosse necessario e spero anzi voglio che me lo dica senza paura di essere pedante9.
L’insoddisfazione e la continua ricerca della compiutezza del verso è resa spesso più ardua dalla predilezione, testimoniata ampiamente nella Tebaide, di ritmi classici e carducciani10, cui certamente non era estraneo il legame artistico e il sentirsi discepola di Enrico Nencioni, e si accompagna ad intime incertezze linguistiche e lessicali: nella scelta aggettivale ad esempio, dove sussistono il timore di un abuso ed una resistenza mentale nei confronti dell’attributo:
Mi dica pure – scrive ancora ad Angiolo Orvieto – se vi sono troppi aggettivi; gli aggettivi sono il mio incubo da un pezzo in qua; non sogno che quelli; e mi verrebbe voglia di bruciare ogni cosa pur di distruggere questi bacilli del verso! Ne ho fatto un abuso straziante11.
Brevi frasi, sempre da lettere all’Orvieto, definiscono il porsi giaconiano di fronte alla poesia: afferma infatti di essere come gli uccellini, che cantano senza preoccuparsi di come cantano, ma anche di temere “una imitazione troppo azzardata del linguaggio puerile”12.
Dove, nel timore di un uso improprio, e sia pure in una circostanza contingente, dimostra di aver accolto, quanto meno a livello di coscienza poetica, se non di coerente e continuata applicazione artistica, uno dei principi propri della nuova poesia, quello del poeta – puer, che prima ancora delle definitive enunciazioni pascoliane13, e risalendo alle teorie di Walter Pater, si faceva strada negli ambienti, fiorentini e non, di quella schiera autodefinitasi di nuova nobiltà spirituale; principio che spesso conviveva mentalmente accanto al preziosismo lessicale, alla pennellata dorata, non immuni – e sembra avvertirlo la stessa Giaconi – dallo sfocamento semantico imputabile all’uso ricorrente dei medesimi.
Il mondo della Tebaide, e dei nostri versi, è mondo di decadente sensibilità esasperata dall’avvertire la presenza quotidiana del mistero, dal parallelo e continuo intreccio sogno-vita, realtà-morte, che già è stato avvicinato ad un certo Pascoli conviviale14 (semmai, crediamo, valido soprattutto per le liriche della IV° sezione della Tebaide).
In queste otto composizioni, per il continuo fluire di significante e significato di cui spesso si fondono i termini, ci sembra piuttosto di verificare quanto è stato detto per Enrico Nencioni: l’identificazione del simbolo con la cosa rappresentata, o meglio «la cosa quale simbolo di se stessa» come sarà poi nel D’Annunzio del Poema Paradisiaco15.
Svariati i ‘topoi’ decadenti di cui si è appropriata la Giaconi: si pensi (e rimandiamo unicamente ai versi qui presentati) all’insistente richiamo di temi sepolcrali (A te che nella chiusa ombra romita), al ricorrente motivo del giardino abbandonato (Una voce nel tempo; A te che nella chiusa ombra romita), all’ispirazione claustrale (Le rose della morte).
Dove, acquisita la lezione del Nencioni – si vedano di quest’ultimo soprattutto il Giardino della morte o il Giardino abbandonato – e forse con memoria anche al dannunziano Hortus conclusus, i claustri sono assunti già per loro natura a remoto “giardino di morte”, posto in indefinita dimensione; la figura virginale è morta e morte a un tempo; le rose appassite d’aspetto carnicino, come già in tanta letteratura, si fondono e confondono con le mani a cui si intrecciano: ma le stesse mani sono disegnate già con sensibilità, e vorrei dire con fraseggio, dannunziani. Soprattutto la lettura del Poema Paradisiaco e delle Elegie Romane non doveva essere estranea alla Giaconi.
Interessanti risultati darebbe un esame di tutta l’opera della poetessa – ma qui non è luogo – sia in tale prospettiva sia alla luce dell’assimilazione di esperienze pascoliane, perché molto del cursus del poeta delle Mirycae e dei Poemetti passa nella struttura metrica e sintattica della Giaconi, intrecciandosi al dovuto tributo pagato al carduccianesimo: e sarebbe indispensabile, ai fini di una curata analisi delle singole composizioni, una esatta collocazione cronologica di tutti i versi confluiti nella Tebaide del 1912.
Nella visione simbolica della natura giaconiana il paesaggio sembra farsi tramite di idee e sentimenti che dal piano individuale del poeta vogliano approdare all’universo misterico; in particolare può essere tracciata una sommaria distinzione fra versi colloquiali con un potenziale interlocutore, dotato della stessa sensibilità dell’autrice, interlocutore vivente o, spesso, sentito più vicino proprio perché già parte della realtà di un mondo inconoscibile, e liriche in cui non si intravede possibilità alcuna di comunione di sensi con l’elemento umano.
Se nel primo caso la ricerca è quella di un conforto o di un appoggio alla lettura della “foresta di simboli”, una conferma della medesima, nel secondo ci si rivolge agli elementi della natura come possibili interlocutori diretti e intermediari dell’oggetto dell’ispirazione poetica: ma la nota paesistica – e ciò distingue la Giaconi da molta poesia minore coeva – è sempre suggerita e mai insistita, fugace, presa ad uso proprio e quindi subito riassorbita, in una immediata trasposizione interiore, dal tema dominante, la bipolarità vita – sogno ed il desiderio epifanico che ne consegue.
Non sappiamo se nella formazione della Giaconi trovasse posto lo studio in lingua dei grandi della stagione simbolista e parnassiana d’oltralpe: certamente ne recepì la lezione almeno per via indiretta: scelte di musicalità e di vocabolario non lasciano adito a dubbi16.
Diretta invece fu probabilmente la lettura di Shelley e dei preraffaelliti inglesi17: lo stesso Gargàno conferma tale lettura essere avvenuta dopo che la Giaconi aveva imparato quella lingua da una signora anglosassone18.
Si tratta comunque di poesia calata ormai pienamente nell’esperienza decadente italiana, area spesso sfuggente e di difficile analisi tanto più perché sovrastata ben presto dalle dimensioni pascoliana e dannunziana, destinate a compendiare con le loro presenze, ed a definire spesso anche nominalmente una realtà poetica e culturale diffusa, pre e co-esistente.
Una realtà che per alcuni esponenti trova espressione più plateale nel cenacolo poetico ed estetico, inteso, pur nei suoi intenti antiaccademici, a sua volta quale “accademia” spirituale, in cui lo scrivere versi costituiva momento di affinità elettiva e una sorte di necessario tributo iniziatico19; per altri invece – è il caso della Giaconi – si risolve in una ricerca più schiva, interiorizzata, di intima comunione di sensibilità, di studio tematico e di cesello metrico e stilistico che fa sì che venga superato il valore di period-pièce.
Nel cenacolo di vita e di arte, meglio di arti, ed in particolare in quello della cerchia marzocchina, era diffuso un misticismo estetizzante di derivazione shopenhaueriana, polarizzato intorno al principio dello stretto legame, e della contaminazione, fra pittura, poesia e musica, principio riproposto già dal Nencioni20, e ripreso da tutta la “nuova” critica coeva: e si pensa qui principalmente a Angelo Conti ed al suo legame definito “misterioso” fra le forme artistiche, già presente nel Giorgione21 in attesa della codificazione della Beata Riva, resa attuabile in quella forma solo a fianco e per mezzo della lezione poetica dannunziana22.
Nemmeno la Giaconi, e non solo nella sua vita di pittrice-poeta, rimarrà estranea a tali principi, pur nelle sue per lo più scabre e sfumate attenzioni paesistiche; i suoi contatti saranno a livello di atmosfera lirica, più evidenti nelle pièces lunari della raccolta.
Ma soprattutto la contaminazione poesia – pittura paesistica si evidenzia nell’unico esempio di prosa di lei che possediamo, quella traccia di “poème en prose”, per altro inferiore al livello dei versi giaconiani, che è Il Biancospino23:
Prendi dunque la mia mano. Ed ancora per quei sentieri che non sai trovare, fra i susurri (non tu anche del mare ami le voci eterne?) e il sol che inora i boschi melanconici, verrai meco o fratello. Io ti farò sentire come è dolce di quei boschi l’aulire vago; e la pace che non cangia mai come è dolce… Verrai meco a l’eterno oblio dei cimiteri ermi, sì greve, io ti dirò come quel sonno è lieve se l’irrora di pianto un cuor fraterno…
Verrai, ne l’ineffabile mistero de’ vesperi, (e tu pure ami quell’ora pallida?) e ti dirò come s’irrora di tremule rugiade ogni sentiero…
Verrai sul mare ove un pallor si effonde arcanamente, come una tristezza umana… Io ti dirò quanta dolcezza che pianto arcano nel mio cuor s’asconde.
E tu allora potrai dirmi in quel sogno qualche cosa di sacro, una parola ineffabile e mesta, per me sola che poi perdasi lieve al par di un sogno24.
Luisa G.
Febbraio 1895
Le rose della Morte
(nei claustri)
Io vidi, nei profondi claustri, sola,
Una giovine morta; scesi i densi
Veli su lei del Silenzio; scesi immensi
Fiumi, intorno, d’oblìo senza parola.
E un Sogno immenso, un brivido, un
Pensiero Sovrumano su lei, l’ombra distesa
Nell’ombra, (morta?) come nell’attesa
D’altre cose, albeggianti nel Mistero.
Io vidi, oh! vidi come cuori umani
Gli esili ceri struggersi in ardenti
Lagrime, e su le pallide moventi
Fiamme passar dei soffi oltrechéumani.
Io vidi – oh arcane e sconsolate cose! –
Sul petto inerte, e in quelle mani come
Tenui fiori marmorei senza nome
Vidi mucchi di moribonde rose25
Io chiesi: è morta? Squàrciati o Mistero Ineffabile! È il Sogno ora la Vita?.
Non ode ella nel sonno l’infinita
Parola? … Io piansi: Squàrciati o Mistero!
Oh grandi e sconsolate cose! Io
Vedeva quelle stanche rose, lente
Morire; come cuori, umanamente
Morire… E piansi in quel supremo Oblìo.
- Maggio 1896
Ad un Salcio
O tu salcio che ne le fresche aurore
Stilli il notturno pianto
De le rugiade, pendulo sul cuore
De la terra materna, e a l’acque a canto;
Ô tu salcio a cui nei vesperi soli
Quando inargenta i cieli
Il plenilunio, vengon li usignoli
Cantando sovra i tuoi penduli steli,
Perché mai piangi? Perché mai l’arcana
Anima de le frondi
Non sogna mai l’immensità lontana,
Non s’erge ai cieli taciti e profondi?
Qual rimpianto ti piega o quale sogno
Sovra il materno cuore,
O salcio, tu che non hai mai bisogno
Di primavere, che non getti il fiore?
Oh! lascia che il mio cuore triste, pianga!
Lascia i tedii supremi
Al cuore triste; e ch’ei solo rimpianga
L’ombre fuggenti de le umane spemi.
Tu, non piangere. Un giorno, (oh mio sospiro
Di pace!) un giorno, al fine
Anch’io, lasciando l’aure di zaffiro,
Verrò, ne l’ombre de l’Oblio divine.
Io vorrò allora riposarmi; e allora
Potrai forse i poemi
Lievi del Sonno susurrarmi, e l’ora
Stanca cullar di aneliti supremi.
Gennaio 1897
Rosei fiori…
Rosei fiori già smorti adesso già tenui, come ale
A cui vibrato strale la morte con sibilo apporti,
Rosei fiori cui brevi aurore ingemmaron di pianto,
E che nel vago incanto auliste come anime, lievi,
Quali rugiade o quali gentili tepori di sole
Che ancor bagnan le aiuole in cui vi schiudeste, come ali,
Vi renderanno il dolce sorriso fiorente al bel cielo
E avviveran lo stelo cadente che più non soffolce?
Rosee labbra già smorte, come alvi di estinte corolle
Cui non ravvivi il molle effluvio d’aurore risorte.
Rosee labbra ridenti negli anni lontani al celeste
Lume de’ sogni, e meste (oh tedii de l’anima lenti!)
E mute scoloriste, serbando parole supreme
In una vana speme di baci, in un fremito triste
Di pianto, ah, qual ritorno di cose lontane, smarrite
Potrà rendervi il mite divino sorriso di un giorno?26
13 febbraio 1897
Vento d’Autunno
Quale, il tuo soffio suscita ai montani27
Silenzi, immenso fremito sonoro!
Per cui levano i boschi antichi un coro
Lungo di voci e d’organi lontani.
E scendi tu più lieve ai mesti piani
Ove apre i solchi l’ultimo lavoro,
E la vite dei suoi pampini d’oro
Dispogli lento, con sospiri arcani.
Né ora il fido verdeggiar de li orti
T’accoglie; sol del lauro severo
La eterna chioma a te piegando, freme.
Lenti e pensosi curvano il leggero
Stelo gli ultimi fiori a cui tu porti
L’onda di voci pallide e supreme.
sf.; s.d.
Sorrisi
Nel sogno Egli tornava a me; nel sogno
Vedevo ancor quelli umidi occhi come
Fiamme di desideri senza nome
Splendere; Ei sol d’amore avea bisogno,
D’amore… Oh! Lungo fu l’oblio e triste;
Lunghi gli anni ch’Ei tacque a me lontano,
Come sogno a cui tese erano in vano
La palme; oh lungo fu l’oblìo e triste.
Nel sogno (poi ché la Vita è sì priva
Di luce), Egli veniva ancora. In torno
Come un risveglio, per quel suo ritorno
Lieto, una primavera nuova auliva.
Io sentiva fluire musicali
Parole da le mie labbra – fiorirmi
Desiderii ne l’anima; fiorirmi In torno dei sorrisi spiritali.
Ma fu dunque nel sogno? Una suprema
Gioia venìa da le sue labbra vive
A le mie labbra, così a lungo prive
Di baci… Il cuore triste ancora ne trema28.
sf.; s d.
Canto di Giovinezza
“O dell’arida vita unico fiore!’
Tu doni meste e fuggitive l’ore
Al Tempo eterno o Giovinezza, quali
Lacrime lente eguali
Pioventi da una fonte erma che muore;
Mute (ed il cuore ne susulta a pena)
Volgon pei campi de l’oblio silenti
A li oceàni lenti
De l’Infinito, come tenue vena.
Già la caligin vela li orizzonti
Degli anni morti; già ne l’aure spente
Piangono fiocamente
Canti di sogni e mormorii di fonti,
Aridi sogni aride fonti! Miti
Odori di defunte primavere
Palpiti di leggere
Ali, pallòr di anemoni sfioriti…
Passi, tu ô lieve giovinezza; e in torno al cuor profondo l’anima dei fiori
Palpita nei tepori
Lievi d’un’alba che si muta in giorno;
Luci di stelle tremolan di vaghi
Cieli ne l’ombra dolcemente, quali
Fluide perle immortali
Nate da l’onda d’infiniti laghi.
Passi tu ô lieve giovinezza. E lunge
Nei deserti del Sogno e della Vita
Tremulo splende, e invita
Un mistero l’incerta anima, e punge,
Tremano echi d’armonie lontane
Che la terra sospira; e il cuore ascolta
Trepido d’insepolta
Speme, il susurro de le cose vane.
sf.; sd
Una voce nel tempo
“Ancora ti sogna la mia anima dolente ancora? … non volli obliare e non obliai?
Non vidi in altri occhi più dolci e profondi de’ tuoi la muta e divina promessa dell’amore? e in vano… Tu fuggi; ma per quali mari ma per quali terre remote, non so. Mai le tue labbra toccarono le mie; io non udii mai parole d’amore da te; il mio sogno fu dei più taciti e soli.
Ma oh no, per Iddio, non negare che mi amasti un giorno e che una dolcezza di sogni vegliò nel tuo cuore nel tuo muto cuore o fratello per me. Non negare.
Ancora ti sogna la mia anima dolente ancora? … non volli obliare e non obliai?
L’ Autunno ritorna. Le bianche rose dei giardini si sfogliano, e i crisantemi fioriscono, in vece, il vento fa piangere i salci e piega i cipressi de gli ermi viali; le foglie d’oro galleggiano ne le vasche morte. E tu parti! … Chi ti dirà mai la triste dolcezza la triste forza del mio amore? Le lacrime del cielo e dei fiori ti parranno mai quelle ch’io piansi o fratello?
Ancora ti chiama ancora ti cerca la mia anima dolente, ancora? … non volli obliare e non obliai?”
Così Ella. E venne Una un giorno che alfine le impose silenzio. Ella ebbe dei gigli tra i fragili arti Ella ebbe sul capo un diadema» di pallide rose, e a tutti sembrò ch’Ella alfine tacesse per sempre.
sf.;
Note
1) Luisa Giaconi nacque a Firenze nel 1872; figlia di un insegnante di matematica, per seguire il padre visse in giovinezza in varie città italiane; alla morte di lui si ristabilì a Firenze. Qui conseguì il Diploma dell’Accademia di Belle Arti, che le servì anche per guadagnarsi da vivere dipingendo copie su commissione; lavorò fra l’altro agli Uffizi, alle scuole fiamminga e veneta: è testimoniato che dipingesse una copia della Flora di Tiziano (Cfr. lett. a Angiolo Orvieto, s.d., «Caro amico debbo avvertirla…», A.C.G.V., Fondo Orvieto, Carteggi, G. 7).
Un piccolo auto-ritratto ad acquerello, inviato ad Angiolo Orvieto, è conservato nello stesso Fondo Orvieto. Dal carteggio si ha inoltre notizia che un altro suo dipinto fu vinto da Amalia Orvieto, madre di Angiolo, in una fiera di beneficenza, nel 1897.
Morì a Fiesole il 18 luglio 1908. Ben poco si sa degli ultimi anni di vita: la corrispondenza con Angiolo Orvieto porta infatti le date estreme 4 gennaio 1895 – 31 gennaio 1900 (anche se poesie della Giaconi furono pubblicate sul «Marzocco» in anni più tardi).
La prefazione di G. S. GARGÀNO lascia intendere che la malattia che la portò alla morte già la minasse da diversi anni (G. S. Gargàno, Prefazione a Tebaide, 2°, Bologna, Zanichelli, 1912, p. VI).
2) L’amicizia con Enrico Nencioni è testimoniata anche in due lettere a Angiolo Orvieto, Firenze 8 maggio 1895 e s.d. (ma probabilmente primavera – estate 1895) A. C. G. V., ibid. Non si conoscono le vie attraverso le quali nacque l’amicizia: forse tramite lo zio di lei Tommaso Guarducci; va comunque notato che i due poeti abitavano in quegli anni entrambi in via delle Caldaie.
3) Tutti i testi qui proposti si trovano conservati presso l’A. C. G. V. Fondo Orvieto, G. 7. I manoscritti risultano autografi.
4) Oltre le composizioni qui presentate sono conservati nel Fondo Orvieto i manoscritti di Armonia, Senz’ombra d’Amore Chopin e Silenzio autografi della Giaconi, pubblicate le prime due già nel «Marzocco», Armonia riproposta in Tebaide, 1° ed, Bologna, Zanichelli, 1909, ed infine tutte e quattro in Tebaide, 2° ed, cit.
Va osservato che nel testo edito di Silenzio mancano completamente i vv. 9-12 del ms.: “Taci pure. Talvolta (vuoi?) qualcosa / Come un arcano anelito di sensi / Supremi, come il sospirar d’immensi / Canti, ti terrà l’anima pensosa…”
E inoltre citiamo le varianti: v. 13 del ms.: Così. Talora tendersi da lunge; vv. 15-16 del ms.: Invocazione; (e sembri a noi che frema / Qualche misteriosa arpa, da lunge.): v. 17: Oh! Taci pure; v. 18: Sogni, la Vita; vv. 19-20: e l’anima mia culla/ Lento, in folgorio tremulo d’ali. Inoltre vi si trova la trascrizione di altra mano (Gargàno?) di Dianora (datata 1904) e Dalla mia notte lontana, la seconda presente in Tebaide, I° ed., cit., ed entrambe in Tebaide, 2° ed., cit.
5 ) Cfr. lett. a Angiolo Orvieto, s.d. (ma: agosto 1897) in cui si fa cenno a nuove disposizioni del giornale che le lasciano intendere «di non osare di mandar più qualcosa» (A. C. G. V., Fondo Orvieto, cit.).
Il discorso è ripreso nella lettera a Enrico Corradini del 20 gennaio 1898 (ibid.) a Angiolo Orvieto, 5 aprile 1895 [d.t.p.file:////Users/admin2019/Library/Group%20Containers/UBF8T346G9.Office/TemporaryItems/msohtmlclip/clip_image026.jpg” alt=”” width=”3″ height=”6″ />
22 ) A. CONTI, La Beata Riva, Milano, Treves, 1900.
23) La prosa, di complessive cc. 6 manoscritte autografe, è datata maggio 1896. Il Biancospino è l’unica prosa della Giaconi attualmente nota. La Giaconi fu forse spinta a scrivere non in versi da un motivo contingente, perché talvolta, come nota Gargàno, si lamentava che qualcuno scambiasse i suoi versi per prosa armoniosa (Prefazione di G. S. Gargàno a Tebaide, 2°, ed. cit., p. IX). La descrizione lunare rientra pienamente nella tradizione dell’epoca, e non solo letteraria: si pensi ai dipinti di ispirazione lunare di De Maria (“Marius Pictor”) anch’egli fra i corrispondenti del Marzocco.
24) Cfr. G. D’ANNUNZIO, Poema Paradisiaco, Consolazione, ed in particolare i vv. 5-8 e 29-32 per i vv. 16-20 e 5-8 della Giaconi.
25) Oltre alle immagini topiche che rimandano immediatamente al Nencioni, sulla visione delle mani in particolare cfr. L. GIACONI, Le morte mani, Tebaide, 2 ° , cit., p. 69, e il celeberrimo Le mani in G. D’Annunzio, Poema paradisiaco.
26 ) Per la fortuna dello schema metrico con rima interna qui seguito dalla Giaconi si rimanda in primo luogo ad alcune fra le Elegie Romane dannunziane (Villa d’Este ecc.).
27 ) In interlinea è indicata la variante, fra parentesi: sveglia pei montani.
28) Cfr. G. D’ANNUNZIO, Poema Paradisiaco, Aprile, in particolare per i v.v. 38-40.
29) Nel ms.: diadeda, si tratta evidentemente di un refuso.
Nota bibliografica
Oltre alle già citate edizioni della 16:57:04, Bologna, Zanichelli, 1909 e, con numerose aggiunte, Bologna, Zanichelli, 1912, rispettivamente con un Epilogo e una Prefazione di G. S. Gargàno, ricordiamo che furono complessivamente pubblicate sul «Marzocco» 21 liriche (per le quali rimandiamo agli Indici del Marzocco, a cura di Clementina Rotondi, Firenze, Olschki, 1980) dal 19 aprile 1896 al 21 febbraio 1909.
Di tutte le composizioni proposte dalla rivista degli Orvieto non furono ristampate nelle due edizioni della Tebaide soltanto: I fantasmi («Il Marzocco», 19.9.1897), Il giardino chiuso (ibid., 18.7.1897), Oltre la vita (ibid. 29.9.1901) Orto antico (ibid. 5.9.1897) Le visioni del mare; La prora (ibid. 24.1.1897).
Due liriche della Giaconi, Philomela e Nel bosco furono inserite nell’antologia Dai nostri poeti viventi, a cura di Eugenia Levi, Firenze, Le Monnier 1896, composizioni assenti entrambe dalla Tebaide.
La Giaconi fu molto lieta che dette poesie fossero state scelte dalla Sig.ra Levi per la sua raccolta (cfr. lettera di L. GIACONI a Angiolo Orvieto, 15 novembre 1895, A. C. G. V., Fondo Orvieto, cit.).
È interessante ricordare che Luisa Giaconi sperò inoltre a lungo nella pubblicazione di una sua raccolta di versi ad opera del Paggi, con il quale sembra fosse già in parola; ma in seguito alle vicende fallimentari dell’editore dell’estate 1897 tutto fu annullato in modo alquanto brusco, cosa di cui la poetessa si rammaricò molto (cfr. lettere a Angiolo Orvieto del 14 luglio 1897; 31 luglio 1897; 5 agosto 1897; A. C. G. V., Fondo Orvieto, cit.).
Tale raccolta in effetti non vide mai la luce; si può supporre che la prima edizione della Tebaide comprenda alcune delle liriche scelte dalla poetessa per il Paggi.
La collaborazione a «Cordelia» sembra essersi limitata a Fides, già citata, uscita nel n° 19, I marzo 1896, p. 226.
Sporadici gli interventi nel corso del secolo sulla poesia giaconiana: si ricordano unitamente alle antologie che hanno accolto composizioni della medesima:
ANGIOLO ORVIETO, Un poeta del silenzio: Luisa Giaconi, in «Il Marzocco», Firenze, 26 luglio 1908.
- GARGÀNO Le poesie di Luisa Giaconi, in «Il Marzocco», Firenze, 22 novembre 1908. A. SORANI, La poesia di Luisa Giaconi, ibid.
- [GARGÀNO], Marginalia, in «Il Marzocco» 20 agosto 1916 (parlando di Guido Gozzano si fa riferimento alla poetessa, ricordando che lo stesso Gozzano ne scriveva a Gargàno ponendola a modello di onestà artistica).
- CECCHI, in «La Tribuna», 19 marzo 1912.
- MAZZONI, L’Ottocento, in Storia Letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, 1913. Antologia della lirica italiana, a cura di A. Ottolini, Milano, Taddeo, 1923.
- GALLETTI -A. ALTEROCCA La Letteratura italiana, Bologna, Cappelli, 1924.
- CUCHEITI, La Poetessa Luisa Giaconi, Venezia, Libreria Emiliana editrice, 1928.
- SPAGNOLEITI, in «La ruota», febbraio 1943.
- SPAGNOLETTI, Antologia di poesia italiana contemporanea, 1° vol., Firenze, Vallecchi, 1946.
- ANNESI PALIERI, Una Poetessa dimenticata, in «Paese Sera», 9 maggio 1953.
Poeti minori dell’Ottocento, a cura di E. Janni; Milano, B.U.R., 1958.
Inoltre, per la nota vicenda legata alla poesia Dianora e a Dino Campana, rimandiamo principalmente a E. FALQUI, Inediti di Dino Campana, Firenze, Vallecchi, 1942, pp. 321-24, e E. FALQUI, Cronistoria dei Canti Orfici, Firenze, Vallecchi, 1960.
Riassumendo brevemente, la lirica, che pure faceva parte della Tebaide, 2° ed., fu trascritta con alcune varianti dal Campana e inviata a Mario Novaro, perché la pubblicasse sulla «Riviera Ligure» rendendo omaggio alla sfortunata poetessa.
Questi la stampò nel numero della rivista del maggio 1916 (E. FALQUI, Cronistoria…., cit. pp. 104-109). Si cfr. in particolare la lettera s.d. (ma anteriore al maggio 1916) di Dino Campana a Mario Novaro (ora anche in E FALQUI, Novecento letterario italiano, vol. V, p. 132, Firenze Vallecchi 1973).
La copia manoscritta della lirica, rimasta fra le carte di Dino Campana, fu successivamente ritenuta da Bino Binazzi opera dello stesso poeta.
Luisa Giaconi
Firenze 1870 – Fiesole (FI) 1908
DI Grazia Frisina
[…]
così grande il tuo sogno, Anima, in questa
solitudine mia palpiti, e celi
tanta di tedi vani ombra funesta
[…]
(L’offerta, vv 7- 9)
Poche pennellate per un ritratto. Il ritratto di un’anima, di una donna, di una poeta, la cui breve esistenza è stata segnata da una ricerca di senso al proprio vivere e da un ineludibile ardore artistico.
Luisa Giaconi.
Un’autrice purtroppo a lungo dimenticata, comparsa qua e là in sporadiche antologie, tra queste, in: E. Levi, Dai nostri poeti viventi (1896, 1903) G. Viazzi, Poeti simbolisti e liberty in Italia (1971), Dal simbolismo al deco: antologia poetica cronologicamente disposta (1981); S. Raffo, Donna, mistero senza fine bello: la poesia femminile d’occidente dalla Grecia classica alle soglie del XIX secolo, (1994).
Si deve all’attenzione di Maria Luisa Spaziani il merito di averne maggiormente riconosciuto il valore nel suo Donne in poesia (Marsilio, 1992), introducendo il nome di Luisa Giaconi tra le sue interviste immaginarie, accanto a molte poete del panorama mondiale a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento (Dickinson, Achmatova, Cvetaeva, Lasker-Schüler, Bachmann) e alle italiane Amalia Guglielminetti, Ada Negri, Vittoria Aganoor Pompilij, Antonia Pozzi.
“Chi fu e che fece, in mezzo alle altre, questa creatura così alta?”
(G.S. Gargano, epilogo a Tebaide)
Di lei, oltre al ritratto dipinto dall’amica Romea Ravazzi, non molte sono le notizie pervenute, in parte grazie al rinvenimento di un epistolario e in parte alla sua raccolta Tebaide, pubblicata postuma, da cui si può desumere l’immagine di una figura delicata, fors’anche timida e schiva, amante del silenzio e della solitudine; un animo dedito alla riflessione e al vagheggiamento, con una spiccata vocazione poetica. Un’esistenza sommessa e riservata, la sua, fuori dai clamori e dalla mondanità.
[…]
Ma veniva essa da un mondo ignoto, un mondo lontano,
sola, come mai fu solo chi andò fra i sogni errabondo
[…]
(L’immagine, vv 13-14)
Nasce a Firenze, il 18 giugno 1870 in una famiglia di nobili origini.
Con la sorella Alba e la madre Emma Guarducci, si sposta in varie città italiane per seguire i trasferimenti del padre, Carlo, insegnante di matematica. Dopo la morte di questi, torna a Firenze, dove si diploma alla Regia Accademia di Belle Arti, che le permetterà di avvicinarsi ai grandi capolavori di artisti del passato e di vivere dignitosamente svolgendo l’attività di copista di dipinti presso musei e gallerie d’arte.
Una sensibilità artistica che, pertanto, esplicita sia nella pittura che nella poesia.
È un’attenta lettrice, in particolar modo dei classici, Dante, Petrarca, Foscolo, dei filosofi Emerson e Schopenhauer. Non meno, fra i suoi interessi, c’è l’ascolto della musica, di Beethoven e Chopin.
Per quanto difficile per una donna di quell’epoca, partecipa alla vita culturale della Firenze di fine ‘800. Contesto che le permette di stringere amicizia con alcuni intellettuali, tra cui Angiolo Orvieto (fondatore della rivista Marzocco) e col poeta Enrico Nencioni, suo vicino di casa, nel quartiere di Santo Spirito, grazie al quale intensifica lo studio della lingua e della letteratura inglese.
Del carteggio di circa 200 lettere, ritrovato, assieme ad alcuni inediti, dalla studiosa Manuela Brotto, in un archivio privato, otto lettere sono indirizzate a Giuseppe Saverio Gargano, critico e collaboratore del «Marzocco»; missive riconducibili ai mesi di agosto e settembre del 1899, durante una vacanza, in una località montana, non ben precisata, di nome Badia, con l’amica Romea.
Il carteggio testimonia la breve relazione avuta col Gargano, lui ha 40 anni, lei 29 anni, terminata alla fine del 1899, quando, con l’acuirsi dei suoi problemi di salute, Luisa è costretta a una vita ritirata, in cui però, sebbene lontana dalla cerchia letteraria fiorentina, continua a comporre ancora liriche di intensa bellezza.
Rivolgendosi a Giuseppe Saverio con l’affettuoso vezzeggiativo Cherilo (alludendo forse al poeta tragico della antica Grecia Cherilo di Samo, VI-V sec. a.C.), ella manifesta un impeto sincero, appassionato e sensuale:
… penso a come sono stata avvinta a te, al tuo petto all’anima tua, e a come le mie labbra hanno aspirata dalle tue labbra l’essenza della vita, la vera, la pura, la buona essenza. (lettera I)
… fra pochi giorni tu mi stringerai a te e tu vorrai ancora bere la dolcezza profonda dei nostri baci, senza ombre senza timori. (lettera V)
variando nei toni a tratti scherzosi:
non fumare troppo, ricordati che avevi deciso di smettere, ti permetto di fare della ginnastica, anche acquista forze per sostenere la mia pinguedine! (lettera III)
a tratti malinconici:
Non ti affliggere per la tristezza che qualche volta mi prende; è l’ombra dell’amare. (lettera III)
come quando, ad esempio, esprime la delusione, il rammarico per le poche missive che lui le invia:
Nemmeno stasera tu mi hai scritto, ciò mi ha reso un po’ triste, ma spero domani mattina. (lettera I)
… faccio delle piccole passeggiate nel bosco, e vado alla posta sempre alla sera, qualche volta anche la mattina, ma ahimè spesso me ne ritorno delusa; ma di questo bisogna incolpare la mia avidità di notizie. (lettera II)
Dalle parole affiora una donna capace di un amore spontaneo e di grande dedizione:
… io metterò tutta la mia vita nelle tue mani. (lettera IV)
Cherilo è la tua gioia, è la tua pace che io voglio, ed io non esiterei a sacrificarti la mia parte di felicità, purché tu non dovessi piangere mai. (lettera III)
E se c’è una nube nel mio cielo d’amore è il tuo sconforto; perché io ti vorrei felice come nessuno uomo al mondo; e vorrei che a me fosse data la grazia suprema di sollevarti in alto, nella gioia ultima. (lettera V)
ma al tempo stesso calata praticamente nella vita di ogni giorno; una donna dalla personalità vivace, riflessiva, lontana dalle mode e dalle convenzioni sociali, animata da ideali e passioni nonché da incertezze e preoccupazioni, consapevole del male che sta consumando lentamente il suo corpo.
La mia anima vede con la più grande lucidità questo suo corpo lottare contro una corrente più forte di lui, e, cosa strana, mi pare anche che questo corpo non sia mio, ma un altro che io contemplo nelle sue sofferenze, e che io abbia in me tutte le forze della giovinezza e della salute.
(G.S. Gargano, prefazione a Tebaide 1912)
Questa l’immagine di Luisa Giaconi che le sue lettere ci restituiscono.
“Luisa Giaconi cercò ella stessa l’oscurità e il silenzio. Con l’istinto che rivelava nello stesso tempo l’elevazione del suo spirito e la più squisita delicatezza femminile, le parve cosa piccola ed inutile cercare i mezzi coi quali ordinariamente si giunge a salire qualche gradino di quella pubblica tribuna intorno alla quale s’agita sempre ondeggiante la folla senza nome”.
(G.S. Gargano, epilogo a Tebaide)
Nel silenzio e nella solitudine sono scandite le sue giornate.
Silenzio e solitudine ricercati dunque per meglio abbandonarsi alla contemplazione, alle sue rêveries:
Errai nei campi del Sogno
in una bianca, divina
luce d’aurora. Oh visioni
di verde mari lontani!
Oh visioni di stelle
Sovra il pallore dei cieli!
Errai per dolci sentieri;
discesi a le valli profonde.
[…]
Io sola, mite e serena
In quei silenzi d’aurora
Scesi alle valli profonde
Ed ai mari de l’infinito
(Nei muti campi del sogno vv 1- 8, vv 21-24)
per rispondere alle urgenze della sua anima, per sciogliere i nodi del cuore, per catturarne le vibrazioni, dando loro forma ed essenza, mediante il ricorso alla scrittura poetica.
[…]
Vano rifugio che rimane aperto
ai vènti; canto di richiusa vena;
nido non fatto, che lasciam deserto,
prima del giorno, e ove posammo a pena.
(Il rifugio vv 63 – 66)
Le sue composizioni appaiono in varie riviste, come in «L’idea liberale», «Cordelia» e, soprattutto, in «Marzocco», ma mai in una silloge, se non con la pubblicazione postuma di Tebaide. Poesie, con la casa editrice Zanichelli, nel 1909.
Già qualche mese prima della morte, confidando nell’attenzione di qualche editore, l’autrice cura, fin nei più minimi dettagli, l’eventuale stampa di una sua opera, pianificando con precisione la struttura e la successione delle 18 liriche selezionate dalla sua produzione, come anche la scelta del titolo: Tebaide, appunto. Titolo di significativa evocazione, che rimanda, non a caso, alla nota esperienza di romitaggio, di quiete, d’ascesi e preghiera dei primi anacoreti nella desertica regione dell’antico Egitto.
“Poeta del silenzio” è definita da Angiolo Orvieto.
Tebaide, quindi, è il riflesso della sua intima ansia per una pace silenziosa, per una solitudine da vivere nella quotidianità e nella creazione poetica. Tebaide come rifugio, come soglia verso una terra agognata, silenziosa terra, oasi immensa, silente, lontana, tempio supremo, alta la provvida liberatrice. Questi gli attributi, gli appellativi espressi nella poesia d’apertura, che riporta lo stesso titolo della raccolta, facendone quasi una personale attestazione poetica.
L’edizione si apre con la dedica:
“ad Anna Montagnon /dolce anima sorella/ L. G.”
Tebaide è un originale florilegio, che racchiude una realizzazione lirica tra le più singolari e moderne nel panorama delle composizioni femminili a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ricca di suggestioni, presenta tracce di ispirazione simbolista, del Romanticismo inglese e dei Preraffaelliti. Non mancano tuttavia riprese riconducibili al Decadentismo, a D’Annunzio e, soprattutto, al Pascoli, dei Poemi Conviviali e dei Canti di Castelvecchio, (i sistri d’argento della poesia Il vento; nido non fatto, che lasciam deserto/prima del giorno della poesia Il rifugio; cuore di un cipresso, in La casa sul monte) con un’impronta tutta peculiarmente sua.
Riecheggiano anche versi da Leopardi e da Petrarca (l’ora muta in cui tu lento cammini/ lungo le solitudini pensose/de’ sogni, in L’ora divina).
Il suo poetare evidenzia una ricerca metrica, stilistica e linguistica accurata e suggestiva, tesa alla perfezione, che non manca tra l’altro di una meticolosa esplorazione di carattere esistenziale e filosofico.
“Tutta la sua poesia (ancora si può dire ignota) è un continuo anelito a quelle altezze e a quelle profondità, uno sforzo sempre più vittorioso di costringere la parola ad esprimerle, di trovare nelle ondeggianti e grandiose melopee dell’Infinito la linea melodica che ne riveli la musica anche nelle anime meno attente.”
(Angiolo Orvieto, in Gargano, Epilogo)
È un verseggiare fine, arioso, aggraziato da sonorità armoniche, a volte elegiaco e visionario a volte inquieto e drammatico, che, assecondando gli stati d’animo e la sensibilità di uno spirito femminile, ne segue il ritmo, ora cadenzato ora ansante.
Eretta Ella nel lampo del sol morente, cantava
un antico e lento poema suo; fremeva di ritmi
profondi il silenzio de’ lauri solenne come eco;
cantavano i cieli con echi vasti di luce d’oro.
[…]
Diceva Ella il poema suo vasto ed antico dinanzi
a un’ara invisibile; e faci magiche eran le vite
arboree accese ne l’ora fiammea, ed incenso
la errante pei cieli odorosa anima dei fiori.
(Armonia vv1-4; vv 9-12)
La Giaconi alle tonalità accese, chiassose del giorno, crude e assolate dei mezzogiorni, predilige nelle sue strofe le atmosfere crepuscolari, velate, serotine e principalmente notturne, che inducono all’intimismo, sintonici col suo sentire, col suo io interiore, aderente alle corde della sua anima, pensosa e sognatrice.
E a notte, nel silenzio di Dio, a fiore dell’ombra,
come il riflesso d’una stella sul mare infinito,
vedevi una tua luce, un tuo fioco astro romito
l’Anima, che mai non s’adombra,
vedevi che splendeva sola nel tuo gran deserto,
che sola t’accendea la vita oltre i suoi confini,
che ti scaldava sola i germi del cuore divini,
come in un solco grande aperto.
(L’ultima pagina, vv 37-44)
Un modulare semantico che riflette dunque uno scavo profondo, tutto introspettivo e meditativo.
Ma altri nuclei ispiratori, altri temi nodali ritroviamo nelle sue liriche, come il senso del mistero e dell’imponderabile che circonda la vita tutta:
[…]
il giorno, ch’è fra due notti,
come la vita nel nulla,
che nel mistero ci culla;
un sogno anch’esso e non più.
(L’alba vv 17- 20)
il sogno, il suo fascino e il suo disincanto:
[…]
Li autunni non furon che eterne primavere velate
di pianto; e la vita fu sogno e l’amore fu sogno,
e parvero sogni le luci delli astri, e la dolcezza
dei fiori, ed il tempo, e la morte. Poi che noi siamo sogni.
(Tebaide, (vv 21-24)
Come non ricordare qui le parole di Prospero nella I scena del IV atto de La tempesta di Shakespeare “Noi siamo della materia di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno”; il dualismo tra l’oggetto onirico e la realtà, l’illusione di entrambi, poiché tutto è sogno, e, con un esplicito richiamo al Qōhelet e ai Canti di Leopardi, tutto è sconfinata vanità che illude;
l’amore nella sua accezione di desiderio vitale ed erotico, di sentimento sovente doloroso, ma anche nella sua valenza cosmica e spirituale:
[…]
Oh averti con me nella notte che accieca, che avvolge,
cercare con li occhi il mistero delli occhi, cercare
coi labbri il mistero dei labbri, essere una fremente
dolcezza che silenziosamente imperi su l’ombra…
Sentire nei sogni supremi la grazia che ebbero
all’aurora; sentire ancora nei baci supremi
un pianto di gioie più grandi de la vita… colmare
noi come un infinito ritmo la notte, la morte.
(Voto, vv 9-16)
l’inquietudine, la morte, come soglia verso un mondo altro, superno, l’anelito verso l’infinito:
[…]
meta dolce, meta ultima che s’ama
raggiunger quando l’anima ha bisogno
non della terra – or nulla vi brama
più – ma d’un eco per il suo gran sogno:
l’Infinito
(Il rifugio vv 29 – 33)
e infine la Natura, contemplata e percepita non nella sua oggettività quanto piuttosto nella sua dimensione segreta, arcana, orfica:
[…]
E avea per tempio, nelle solitarie
notti, la valle misteriosa e il tacito monte,
tempio che s’allungava immenso fino all’orizzonte
sotto le stelle millenarie
[…]
La terra palpitava chiusa nel suo gran mistero
[…]
(Le due preghiere vv 31- 34; v 51)
una natura delicatamente permeata da lucori e ombre, oppure attraversata da forze e impeti incoercibili, di fronte ai quali c’è la resa, l’inermità, come nella bellissima poesia Il vento con cui si chiude la raccolta:
Qualcuno spinge la mia porta, l’agita violento;
qualcuno piange con dei lunghi gemiti stasera,
uno che corse sibilando per la notte nera…
È il vento che si leva, è il vento
(Il vento vv 1-4)
che prosegue nel ritornello delle successive strofe con un climax in crescendo di vorticosa intensità: il vento che si leva… si lagna… riposa… cammina… che mi cerca… che c’incalza.
Ed è qui, nel 19° verso, che si scorge il tragico accenno premonitore della sua vita, un soffio sveglia la mia lunga tosse funesta: la morte di Luisa a soli 38 anni, avvenuta a Fiesole il 18 luglio 1908, a causa della tubercolosi contratta da ragazza.
La raccolta ha in chiusura l’epilogo di G. S. Gargàno, in cui egli esprime non solo il rimpianto per la sua precoce morte ma anche, con accenti un po’ edulcoranti e agiografici, la nobiltà e l’armonia della sua persona che “diffondeva intorno a sé quasi una malinconica grazia, pari all’aroma dell’ambrosia che lasciavano al loro passare, le antiche dee. E quel segno era indimenticabile.”
Tebaide ha un buon successo di pubblico e di critica. Il poeta crepuscolare Guido Gozzano, così affine al sentire Giaconiano, in una lettera inviata al Gargano, afferma la sua stima per la persona e per la poeta: “Luisa Giaconi! Ecco il modello che ogni artista onesto dovrebbe proporsi nella vita letteraria o non. Invece!”
Nel 1912 Gargano, addolorato dal lutto della morte della sua amata, si adopera per una seconda edizione di Tebaide, sempre con l’editore Zanichelli, con l’aggiunta di 26 inediti, portando così a 44 composizioni in tutto, divise in 4 parti, precedute da una sua prefazione.
Il critico tuttavia stravolge, molto arbitrariamente, l’ossatura compositiva della prima edizione, non solo con l’inserimento delle nuove liriche, ma ponendo come incipit della raccolta la poesia intitolata a Cherilo, quasi a far intendere che l’intera silloge sia a lui dedicata, palesando in tal modo il legame amoroso che li univa ma anche un, non proprio taciuto, senso di vanità e autoreferenzialità.
In alcuni testi si nota inoltre l’intrusione della sua mano, quando qua e là ne manipola gli aspetti stilistici e formali, con indubbie difformità rispetto agli originali.
Qui compare il ritratto di Luisa, realizzato dalla Ravazzi il cui nome, probabilmente per un refuso, risulta scritto Romeo, anziché Romea.
Indossa un abito chiaro, estivo; è seduta con le mani aperte, abbandonate sul grembo; i capelli scuri le incorniciano il volto delicato, bambino, lo sguardo un po’ malinconico, assorto a fissare qualcuno da cui sembra attendere un’attenzione, una qualche parola. Nell’insieme una fisionomia esile, gentile.
All’amica è dedicata il Tempio.
Questa seconda Tebaide si conclude con la poesia Dianora, altrettanto splendida, altrettanto struggente quanto Il vento.
In merito al suddetto componimento c’è una vicenda editoriale che avvicina la Giaconi al poeta Dino Campana. Questi infatti, avendo letto i suoi testi, nella Tebaide dell’edizione 1912, rimane particolarmente colpito da Dianora tanto da segnalarla, come “memorabile” per la “sensibilità neo-greca che è quella della vera poesia italiana moderna”, a Mario Novaro, suo editore. Nel biglietto accluso scrive “una donna di Firenze morta”, senza tuttavia – chissà se consapevolmente o inconsapevolmente – nominarla. Da ciò scaturisce una bizzarra e ambigua situazione, perché la poesia pubblicata col titolo La tua giornata d’amore, il 1/5/1916 ne La Riviera Ligure, di cui Novaro è direttore, porta la firma di “inediti di D.C.”. Solo nel 1941 sulla rivista «Documento» si spiegherà finalmente l’equivoco, col riconoscimento del nome di Luisa Giaconi, quale effettiva autrice di Dianora.
La lirica è definita da Brotto: “un canto universale di vita e di morte, di arte e d’amore”. Nella figura e nella storia di Dianora – nome di fanciulla presente in alcune leggende, non raro in quegli anni a Firenze – si può intravedere la delicata e sensibile personalità di Luisa, la sua esistenza tessuta tra sogni e disillusioni, segnata dalla ricerca di un amore sincero, da un destino d’infelicità e di morte.
Un filo di seta iridescente pare unire silenziosamente la vita e la persona di Luisa a due grandi poete, quasi sue contemporanee: Alfonsina Storni e Antonia Pozzi.
Ritorna lontano. La tua giornata d’amore
passò, la tua ora di sole si spense, Dianora;
[…]
Chi mai in silenzio ora
accende la lampada ai vespri muti del Poeta,
sorride alle sue notti bianche,
bacia le sue palpebre stanche,
chi mai, Dianora?
[…]
Avviati per qualche deserto sentiero che ignori,
per la landa tacita e brulla
dove l’ultima pace culla
chi pianse ed amò, Dianora.
Riposati a qualche cipresso, attendivi l’ora
che tutto ti sembri un immenso e inutile nulla,
o Dianora.
(Dianora, vv 1-2, vv 6- 10, vv 33-39)
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Luisa Giaconi
- Giaconi, Tebaide. Poesie, Zanichelli, Bologna 1908
- Giaconi, A fiore dell’ombra. Le poesie, le lettere, gli inediti. Saggio di M. Brotto Luisa Giaconi: la donna fiore, Ed. Petite Plaisance, Pistoia 2008
- Giaconi, Dalla mia notte lontana, a cura di I. Rabatti, ed. C.R.T., Pistoia 2001
- Spaziani, Donne in poesia: interviste immaginarie, Marsilio, Venezia 1992
- Frabotta, Il simbolismo nel mondo simbolico femminile tra due secoli, in Les femmes écrivains en Italie (1870-1920): ordres et libertés. Chroniques italiennes nn. 39,40, 1994, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle
Voce pubblicata nel: 2022
Ultimo aggiornamento: 2022