Irène Némirovsky- Lettere di una vita-Adelphi Edizioni-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
SINOSSI del libro-Lettere di una vita di Irène Némirovsky –Traduzione di Laura Frausin Guarino-Prefazione di Olivier Philipponnat- «Irène Némirovsky non apparteneva alla categoria degli scrittori che, nel dedicarsi alla corrispondenza, si sentono osservati dalla posterità» osserva Olivier Philipponnat nella prefazione a questo volume. E tuttavia, aggiunge, le sue lettere fanno parte a pieno titolo dell’opera letteraria, soprattutto perché ci consentono di scoprire una voce più intima, più autentica, diversa da quella che abbiamo imparato ad amare nei romanzi e nei racconti – sorprendente. Se le prime, le lettere delle années folles, ci restituiscono l’immagine di una ragazza vivace e spensierata che, pur legata alle sue origini russe (e al ricordo della tragedia a cui ha assistito), approfitta golosamente di tutto quello che Parigi e la Francia possono offrirle – e che non perde l’ironia nemmeno quando si sente malinconica, arrivando a chiedersi: «Pene di cuore o indigestione di astice?» –, in quelle degli anni Trenta scopriamo la romanziera brillante e determinata, sia nei rapporti con gli editori che nei confronti della critica. Con lo scoppio della guerra, l’occupazione nazista e le leggi antiebraiche, vediamo crescere in lei l’angoscia, la collera, la disillusione – e leggeremo con un nodo in gola la lettera con cui affida le figlie alla governante, elencando i beni di cui disfarsi per provvedere al loro sostentamento, e l’ultima, scritta al marito subito prima della deportazione ad Auschwitz.
PREFAZIONE di Olivier Philipponnat
Irène Némirovsky non apparteneva alla categoria de- gli scrittori che, nel dedicarsi alla corrispondenza, si sen- tono osservati dalla posterità. Non pensò mai che un giorno le sue lettere sarebbero giunte ad altri che ai lo- ro destinatari, né che potessero essere incluse nella sua produzione letteraria. Lo stesso vale, del resto, per i suoi « diari di lavoro », ancora poco studiati e molto simili a una sorta di « autocorrispondenza » dove l’autrice si ri- volge spesso a sé stessa.
Si può dire che queste lettere, che rientrano a pieno titolo nella sua opera, ne rappresentino piuttosto il lato nascosto. Irène Némirovsky, che pure nutriva grande interesse per la teoria romanzesca, negli scambi episto- lari discute poco di tecnica narrativa; non lo fa neanche con Gaston Chérau, al quale chiede volentieri consigli professionali. «Quando scrivo un libro» con$derà a René Lalou nel 1938 « provo una sorta di inspiegabile pudore a parlarne, anche con le persone più vicine ». Pudore non lontano dall’orgoglio di essere compresa soltanto da sé stessa.
Nonostante questa reticenza, l’argomento principale di questi scambi è proprio la sua opera. La si scopre molto attenta alle condizioni di pubblicazione dei suoi libri, che segue con una cura materna. Inoltre, nel corso de- gli anni, Michel Epstein, il marito, avrà una parte sem- pre più attiva nella difesa dei suoi interessi presso gli e- ditori e i grandi settimanali che la pubblicano. Questa costante preoccupazione rivela la proli$cità di una scrit- trice impegnata nella stesura di un’opera che, dal 1926 al 1942, conta ben sedici romanzi e più di cinquanta racconti, che triplicano se si considerano anche bozze, minute e appunti, ai quali Irène Némirovsky dedica gran parte della giornata.
Si troveranno qui alcune delle sue risposte a certi cri- tici, quando non contengono solo banali e cortesi rin- graziamenti; ma il gran numero di biglietti più o meno di cortesia, mandati in tutta la Francia a oscuri redattori e oggi venduti all’asta o su catalogo a prezzi indecenti –, lascia intuire quanto fosse importante per lei la diffusio- ne e la recensione delle sue opere. L’umiltà di cui dà prova, il tacito consenso alle critiche, l’apparente liber- tà che concede ai giornali di modi$care a loro piaci- mento i suoi racconti contrastano con l’entusiasmo e la passione per la scrittura che traspaiono invece dai suoi manoscritti.
I rapporti epistolari che intrattiene con gli scrittori – Henry Bernstein, Jacques-Émile Blanche, Henri de Régnier, Gabriel Marcel, Jacques Chardonne e altri… sono occasionali, raramente confidenziali, e sempre ca- ratterizzati da un rispetto delle convenzioni, da un riserbo e da una modestia disarmanti, insaporiti a volte da un pizzico di malizia o da un’ombra di piaggeria, mai offuscati dalla mancanza di sincerità. Da una parte, dunque, una scrittrice che esercita un potere assoluto sui suoi personaggi e sulla sua opera; dall’altra, una donna che nelle lettere non ne fa mai parola. I dubbi, le paure, le domande che intimamente si pone sono e- spressi qui senza la rabbia e l’umorismo caratteristici dei suoi romanzi, piuttosto con un’autoironia sottile, come nelle lettere a monsignor Ghika, che nel febbraio 1939 le amministrerà il battesimo.
La corrispondenza è necessariamente lacunosa: anche se moltissime delle lettere scritte da Irène Némirov- sky sono state conservate dai loro destinatari e oggi si possono consultare in diversi fondi archivistici e in alcu- ne collezioni private, lo stesso non si può dire per quelle che lei aveva ricevuto e che furono molto probabilmen- te distrutte, dopo la guerra, dai nuovi occupanti dell’appartamento parigino in cui la scrittrice le aveva lasciate, nell’aprile 1940, per rifugiarsi insieme alle figlie nel villaggio borgognone di Issy-l’Évêque.
Che cosa resta, quindi| Per gli anni dal 1919 al 1924, il ritratto di una studentessa in gamba, più seria e perseve- rante di quanto vogliano lasciar credere le sue lettere a Madeleine Avot; in mancanza di risposte, ci si può soltanto chiedere se la «cara piccola Mad», erede di una dinastia di cartai che servirà da modello alla virtuosa fa- miglia Hardelot nei Doni della vita, fosse realmente «shockingata» dalle scappatelle dell’amica russa. A quegli anni di spensieratezza segue un intervallo di tem- po, dal 1925 al 1930, di cui non abbiamo alcuna testimonianza epistolare; è il periodo in cui Irène Némirovsky sembra dedicarsi esclusivamente alla vita con Michel Epstein, sposato nel 1926, e alla stesura dei primi ro- manzi, Il malinteso (1926) e soprattutto David Golder (1929), in un anonimato reso ancora più marcato dal- l’uso di uno pseudonimo (Pierre Nerey) per La nemica (1928) e per Il ballo (1929). Tutto questo è in violento contrasto con la grandissima notorietà che le procura l’improvviso successo di David Golder, subito portato sul- lo schermo e sul palcoscenico con Harry Baur e preso in considerazione per il premio Goncourt – al quale la scrittrice, come spiega a Gaston Chérau, preferirà ri- nunciare affinché la sua domanda di naturalizzazione francese sia considerata completamente disinteressata. È l’epoca in cui, per lettera o al telefono, risponde con semplicità alle interviste più o meno serie dei giornali; ripetuta negli anni, questa abitudine finisce per comporre, una pennellata dopo l’altra, un brillante autori- tratto.
Estremamente meticolosa quando si tratta di far rispettare i propri diritti, Irène Némirovsky, nelle lettere di questo decennio, contrassegnate dal monogramma « IE », dimostra un’assoluta professionalità nei rapporti con gli editori o i direttori di riviste, sempre attenta a e- vitare controversie ovvero a prevenirle. Mai o quasi mai accenna al contenuto o al signi$cato della sua opera, se non nelle lettere aperte o nelle risposte che indirizza ad alcuni giornali; anche allora, è raro che alzi i toni, tran- ne quando è in gioco il suo onore e si trova accusata, per esempio, di aver fatto sì che il commediografo Fernand Nozière traesse spunto dalla sceneggiatura di Julien Duvivier per David Golder. La scopriamo attenta a non atti- rarsi critiche – e il sospetto di antisemitismo suscitato da David Golder non è, secondo lei, così assurdo. Ma gli al- terchi più violenti li riserva ai personaggi dei suoi libri, che sembra talvolta usare per ribellarsi alle regole della buona creanza alle quali di solito è vincolata dal rispetto delle convenienze, nonché dalla condizione di stranie- ra, o addirittura di intrusa nella repubblica delle lettere.
Questa tranquillità s’incrina nel 1938. Nel dicembre di quell’anno l’inquietudine religiosa di Irène Némirovsky, del tutto concreta, e il fallimento dei suoi tentativi di na- turalizzazione la convincono a ricevere il battesimo cat- tolico insieme al marito e alle figlie, per una sorta di de- vozione ai valori cristiani della Francia. O almeno così si poteva supporre, fino alla scoperta di una lettera (la numero 199) inviata nel giugno 1938 a Jean Zay, ministro dell’Istruzione. La richiesta sembra dimostrare che Irène Némirovsky desiderava evitare alle figlie, Denise ed Élisabeth, i palesi inconvenienti legati al loro essere ebree a cominciare dalla mancata ammissione della maggiore ad alcuni istituti privati cattolici, dopo che il liceo pubblico Victor-Duruy aveva dichiarato di non avere più posti. Il ministro trovò la soluzione, ma nella vita di Irène Némirovsky si introdusse l’incertezza, e l’angoscia di non essere francese alimentò via via le ultime opere del deennio, Il signore delle anime (1939), I cani e i lupi (1940) e anche, per simmetria, I doni della vita (scritto nel 1940) inno alla solidità delle vecchie famiglie della borghesia provinciale, ovviamente cattoliche.
Sopraggiungono poi la guerra, la sconfitta e il regime di Vichy. Dall’ottobre 1940 al luglio 1942, di lettera in lettera, vediamo Michel Epstein e Irène Némirovsky di battersi nella morsa delle disposizioni legislative antie- braiche, le quali a poco a poco li impoveriscono e fanno lievitare il debito contratto con le edizioni Albin Michel. Il senso e le finalità di tali provvedimenti sono loro incomprensibili, così cercano solo di aggirare la pioggia di vessazioni e di divieti che impediscono a Irène di amare le sue opere e la obbligano poi a usare Julie Du- mot, la governante delle figlie, come prestanome. Le lettere di questo periodo sono più numerose; sono me- glio conservate e, data la loro frequenza, rivelano un’an- goscia crescente. Quelle di Irène e Michel, indissolubil- mente legati nella sciagura e nella sofferenza, esistono spesso in forma di carta carbone o di minute che viagge- ranno, dopo la loro deportazione, nella famosa valigia in cui Julie Dumot stiperà tutti gli scritti incompleti, le vecchie carte e le lettere ricevute dai coniugi Epstein durante i due anni passati a Issy-l’Évêque. Ne consegue che il periodo più drammatico della vita di Irène Némirovsky, quello della stesura del suo capolavoro, è anche il meglio documentato da una corrispondenza in cui si esprimono senza inibizioni la collera, l’angoscia e la de- lusione. Ma anche l’amicizia e la riconoscenza, in una bellissima serie di lettere indirizzate a André Sabatier,1 il cui intervento fu fondamentale per convincere Robert Esménard, genero di Albin Michel, a continuare a versare a fondo perduto degli anticipi mensili a un’autrice che non poteva più pubblicare.
Questo legame privilegiato non s’interrompe con l’arresto di Irène Némirovsky il 13 luglio 1942, e neppure con quello, in ottobre, di Michel Epstein, il quale, dopo aver tempestato André Sabatier di lettere e di telegram- mi disperati, si arrende al suo destino: raggiungere la moglie passando per la prigione di Le Creusot e poi per il campo di Drancy. La sua ultima lettera, che le figlie non potranno mai leggere, è emblematica: « Forse presto vedrò Irène », scrive poche ore prima della partenza del convoglio numero 42 che lo porterà alla camera a gas. La divulgazione del Journal de guerre di Paul Morand, nel 2020, ha tinto di sinistra ironia i vani tentativi di Michel e di Sabatier di ottenere l’intercessione di questo stretto collaboratore di Pierre Laval. Se Morand per un breve momento appare colpito dalla sorte di Irène Né- mirovsky, una delle sue più ferventi ammiratrici, quella degli ebrei, spietatamente perseguitati dal regime di cui lui è al servizio, gli ispira soltanto indifferenza.
Anche Julie Dumot, divenuta tutrice legale di Denise ed Élisabeth $no alla loro « collocazione » nel collegio cattolico di Notre-Dame-de-Sion nel settembre 1945, continua a corrispondere con André Sabatier e con le edizioni Albin Michel. Avremmo forse dovuto eliminare questa « corrispondenza postuma », visto che il 17 a- gosto 1942 Irène Némirovsky era morta di tifo ad Auschwitz-Birkenau| Lo avremmo fatto se, prima del ritor- no degli ultimi deportati, qualcuno fosse stato a cono- scenza della sua sorte. E se Julie Dumot non le fosse servita per così dire da sostituta $no alla partenza per gli Stati Uniti nel 1946, a missione compiuta. Così, abbia- mo scelto di chiudere queste Lettere di una vita con le parole disincantate di Albin Michel: « Nonostante tutto, continuiamo a sperare… », che in realtà non lasciavano quasi alcuna speranza sulla fine dell’incubo.
SPENSIERATEZZA (1913-1924)
Nata a Kiev l’11 febbraio 1903, Irène Némirovsky cre- sce nella venerazione della lingua francese, nell’osses- sione del ghetto e nell’ignoranza della cultura ebraica. Troppo giovane per ricordare il pogrom dell’ottobre 1905, la prima immagine che conserva della sua infan- zia è il carnevale di Nizza, nel 1906. Ogni inverno, $no allo scoppio della guerra, va per sei mesi in Costa Azzurra o sulla costa basca con i genitori.
Suo padre, Leonid, spregiudicato uomo d’affari, sa chiudere un occhio di fronte alle scappatelle della mo- glie Anna. Irène invece, dopo il licenziamento di Zézelle, l’adorata governante francese, non perdona niente alla madre. Sopraggiunta la guerra, vediamo Leonid esercitare la sua attività di banchiere molto vicino ai cir- coli del potere. Nel febbraio 1917, a San Pietroburgo, Irène assiste alle cosiddette «rivolte per il pane». Nel gennaio 1918 la rivoluzione bolscevica costringe i Némi- rovsky a riparare in Finlandia viaggiando su una slitta. Qui, Irène scrive i suoi primi versi e legge con fervore autori francesi. Alla fine della primavera 1919 la fami- glia, passando da Stoccolma, riesce a raggiungere laFrancia, «il paese più bello del mondo», dove Leonid Némirovsky ricostruisce il suo patrimonio.
Alla Sorbona, dove studia letteratura russa e comparata, Irène stringe amicizia con René Avot, figlio di un industriale del Pas-de-Calais, e con la sorella Madeleine, detta « Mad ». Con la bella stagione, sotto la sorveglianza di una governante inglese, si trasferisce a Vichy, a Plombières o a Vittel e si sottopone alle cure termali per l’asma. A Parigi è libera di vivere come vuole: va nei locali dove si fa jazz, flirta, fa gite in auto. Frequenta gli ambienti dei russi in esilio e pubblica i primi testi in france- se su varie riviste, con il suo nome o sotto pseudonimo.