Il tempo che ci vuole – La recensione dell’ultimo film di Francesca Comencini -Biblioteca DEA SABINA
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Il tempo che ci vuole – La recensione dell’ultimo film di Francesca Comencini –
Articolo di Peter Ciaccio -4 ottobre 2024- È nelle sale Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, che racconta la relazione tra lei e il padre Luigi, dall’infanzia alla totale emancipazione della donna adulta. Il film è stato presentato fuori concorso a Venezia, dove è stato, a ragione, molto apprezzato.
La regista riesce a mettere in scena una storia che, sulla carta, presentava non poche difficoltà, perché è tante cose insieme. Anzitutto è un film di formazione. Vediamo la protagonista crescere da bambina a giovane donna fino al debutto professionale. Secondo elemento, la pellicola racconta del rapporto tra figlia e padre. Terzo, è un film autobiografico: quella bambina e donna è la regista stessa. Quarto, la figlia fa lo stesso mestiere del padre. Quinto, il padre è uno dei più importanti registi dell’epoca d’oro del cinema italiano. Sesto, è un film che necessariamente è “cinema sul cinema”, con un forte rischio di autoreferenzialità, mentre il cinema deve creare una relazione tra l’opera e il pubblico, la cosiddetta “gente comune”.
Il risultato è un’opera fluida, poetica, intensa e coinvolgente, in una parola sola: matura.
La chiave narrativa scelta dalla regista, chiave che fa funzionare tutto, è quella di offrire in maniera radicale il punto di vista della protagonista, che, a posteriori, è ciò che il cinema fa sin dalla sua invenzione. Potremmo dire, allora, nulla di nuovo. Sì e no: da una parte è così, dall’altra non c’è difficoltà maggiore per un artista del trovare una perfetta e originale espressione attenendosi al “canone”.
Il punto di vista di Francesca è quello di una figlia che non ha occhi che per il padre. Pertanto il resto della famiglia non è presente in alcun modo, né la madre Giulia Grifeo di Partanna né le sorelle Cristina, Eleonora e Paola. Non c’è alcuna esclusione, ma “solo” una scelta narrativa e stilistica radicale. Tra l’altro, la sorella Paola è la scenografa del film.
Il film inizia mostrandoci le riprese di Pinocchio (1972) e una Francesca 10-11enne che “vive” tra le riprese e che coglie un’arrabbiatura del padre nei confronti dei suoi collaboratori, colpevoli di non rispettare gli abitanti del borgo scelto come location. «Prima la vita, poi il cinema!», urla l’irato Luigi. In questa frase si racchiude l’eredità del padre alla figlia. Quando, poi, Francesca cresce e vive una crisi autodistruttiva, Luigi molla il cinema per dedicarsi del tutto a lei: il cinema viene dopo, il lavoro viene dopo, prima viene la vita. «Per quanto tempo?», chiede lei; «Il tempo che ci vuole», risponde con serenità lui.
Parlare di Luigi come padre restituisce la grandezza del Luigi regista. Lo spettatore evangelico, poi, non avrà difficoltà a cogliere la profonda consapevolezza del Luigi fratello, valdese, pur non esplicitata nel film. Infatti, la forte etica del lavoro e il rispetto dei principi d’indipendenza e autodeterminazione non rendono Luigi cieco rispetto alle esigenze della “vita” (parola che i protestanti italiani dovrebbero recuperare, perché sequestrata oggi da mortifere ideologie). Anzi.
È un film denso e profondo ma mai pesante. Fa riflettere sull’essere figlia e sull’essere padre, sul rapporto tra arte/lavoro e vita, tra la paura e il coraggio di vivere, sulla rappresentazione della realtà tra neorealismo e surrealismo. Ed è magistralmente retto dai due interpreti principali: Fabrizio Gifuni, quasi un Laurence Olivier italiano, in grado di incarnare con efficace naturalezza qualsiasi personaggio, e Romana Maggiore Vergano, già apprezzata in C’è ancora domani, che qui raggiunge l’intensità delle attrici bergmaniane.
In conclusione, nel film c’è uno scambio tra Luigi e Francesca, in cui, pur sostenendo la scelta della figlia di diventare regista, il padre le dice esplicitamente che, in linea di principio, non comprende il senso delle opere autobiografiche; pertanto la prega di non chiedergli di vedere film con quel taglio. Il tempo che ci vuole si presenta così come una disubbidienza della figlia emancipata, che al contempo rispetta la richiesta del padre, morto nel 2007. Si tratta di due necessità legittime e opposte, che però riescono a incontrarsi, facendo passare “il tempo che ci vuole”.
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.