Giovanni Prati – Il Romanticismo italiano-Nuovi canti e Poesie-TORINO 1844 -Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Giovanni Prati – Il Romanticismo italiano-Nuovi canti Poesie-
– Editore Stabilimento Tipografico Fontana di TORINO 1844 –
Giovanni Prati – Nuovi canti – Torino, Stabilimento Tipografico Fontana 1844 –
Giovanni Prati (1814-1884) fu uno dei più importanti esponenti del secondo romanticismo italiano. Partecipò attivamente alle vicende politiche risorgimentali con una attitudine cavalleresca e disordinata che gli creò seri problemi e difficoltà di rapporto con gli altri attori dei movimenti patriottici. Ebbe una vita avventurosa passando dal natio Trentino, a Padova, dove frequentò senza concluderli gli studi giuridici, a Milano, a Torino, in Svizzera, sempre seguito da polemiche anche calunniose. Fu allontanato dall’insorta Venezia come elemento perturbatore e per la fede monarchica; anche la Firenze del Guerrazzi lo respinse per i suoi legami con la dinastia sabauda, infine furono proprio i Savoia a procurargli impieghi e serenità e al loro seguito si trasferì da Torino a Firenze e infine a Roma. Non smise mai di dedicarsi alla prediletta attività poetica e letteraria contraddistinguendosi per il suo stile melodico e musicale, e per la realistica attenzione al mondo e al sentire della borghesia.
Poesie di Giovanni Prati
Incantesimo
La maga entro l’arena
girò, cantando, l’orma:
con frasca di vermena
mi ha tocco in sull’occipite,
ed io mi veggio appena in questa forma.
Sì picciolo mi fei
per arte della maga,
che in verità potrei
nuotar sopra diafane
ale di scarabei per l’aura vaga.
O fili d’erba, io provo
un’allegria superba
d’esser altrui sì novo,
sì strano a me. Deh fatemi,
fatemi un po’ di covo, o fili d’erba.
Minuscola formica
o ruchetta d’argento
sarà mia dolce amica
nell’odoroso e picciolo
nido che il sol nutrica e sfiora il vento.
E della curva luna
al freddo raggio, quando
nella selvetta bruna
le mille frasche armoniche
si vanno ad una ad una addormentando;
e dentro gli arboscelli
si smorza la confusa
canzon de’ filunguelli,
e sotto i muschi e l’eriche
l’anima dei ruscelli in sonno è chiusa;
noi, cinta in bianca veste
la piccioletta fata
vedrem dalla foresta
venir nei verdi ombracoli,
di bianchi fior la testa incoronata.
E dormirem congiunti
sotto l’erbetta molle;
mentre alla luna i punti
toglie l’attento astrologo,
e danzano i defunti in cima al colle.
I magi d’Asia han detto
che quanto il corpo è meno,
più vasto è l’intelletto,
e il mondo degli spiriti
gli raggia più perfetto e più sereno.
Infatti, io sento l’onde
cantar di là dal mare,
odo stormir le fronde
di là dal bosco; e un transito
d’anime vagabonde il ciel mi pare.
Da un calamo di veccia
qua un satirin germoglia,
da un pruno, o mo’ di freccia,
la sbalza un’amadriade
è in parto ogni corteccia ed ogni foglia.
Lampane graziose
giran la verde stanza:
e, strani amanti e spose,
i gnomi e le mandragore
coi gigli e con le rose escono in danza.
Del mondo ameno e tetro
com’è che ai sensi tardi
mi piove il raggio e il metro?
E né cornetta acustica
mi soccorre né vetro orecchi e sguardi?
Com’è che le mie colpe
non anco all’olmo e al pino
latra la iniqua volpe?
Né il truculento martoro
mi succhiella le polpe a mattutino?
Sono un granel di pepe
non visto: ecco il mistero.
L’erba sul crin mi repe,
ed è minor che lucciola
nell’ombra siepe il mio pensiero.
Oh fata bianca, come
un nevicato ramo,
dagli occhi e dalle chiome
più bruni della tenebra,
e dal soave nome in ch’io ti chiamo.
Oh Azzarelina! in pegno
dell’amor mio, ricevi
questo morente ingegno,
tu che puoi far continovi
nel tuo magico regno i miei dì brevi.
L’erbetta ov’io m’ascondo
so che è incanata anch’ella;
né vampa o furibondo
refolo o gel mortifica
lo smeraldo giocando in che è sì bella.
So che, d’amor rapita,
in un perpetuo ballo
mi puoi mutar la vita
o su fra gli astri, o in nitide
case di margherita e di corallo.
sien acque, o stelle, o venti,
ove abitar degg’io,
per primo don m’assenti
il bacio tuo: per ultimo,
dei rissosi viventi il pieno oblìo.
Ascolta, Azzarelina:
la scienza è dolore,
la speranza è ruina
la gloria è roseo nugolo,
la bellezza è divina ombra fiore.
Così la vita è un forte
licor che ebbri ci rende,
un sonno alto è la morte
e il mondo un gran Fantasima
che danza con la Sorte e il fine attende.
Vieni ed amiam. L’aurora
non spunta ancor; gli steli
ancor son curvi; ancora
il focherel di Venere
malinconico infiora i glauchi cieli.
Vieni ed amiam. Chi vive,
naturalmente guada
alle tenarie rive:
ma chi è prigion nel circolo
che la tua man descrive a ciò non bada.
Un giorno d’inverno
Sempre sul farsi della tacit’ora
Crepuscolar m’invade una tranquilla
Malinconia, che dolcemente irrora
Questi occhi del dolor che da lei stilla.
Guardo il foco morente, e m’innamora
Tenervi intenta e risa la pupilla,
lnsin che appena qualche brace ancora
Tra la commossa cenere scintilla.
Il crepitar di quella ultima vita,
L’ombra addensata e la cadente neve
Di piu cupa tristezza il cor mi serra.
E prorompoll dall’anima atterrita:
Mio Dio, che sogno è questo viver breve!
Mio Dio, che solitudine è la terra!
Oh che cielo!
Oh che cielo ! oh che mar ! Quella profonda
e doppia immensità quanti sospiri
mi trae dal cor ! di che malie m’inonda!
con che forza m’assorbe entro i suoi giri!
La man per gioco, o fanciulletta bionda,
non por sugli occhi miei: lascia ch’io miri
queste due glorie. A te né il ciel né l’onda
parlano: ed altro muove i tuoi desiri,
Te move il riso dell’età tua verde,
un’ape d’oro, una farfalla, un fiore:
me l’infinito ciel, l’onda infinita.
E in questi abissi il mio pensier si perde,
e mentre scherzi, o bimba, il pensatore
piange tra il vel delle tue rosee dita.
Alba
Fumano i campi; la rugiada stilla
sull’erba nova; il cheto aere si desta
il sol che spunta, e con l’aletta in resta
il cardellino in cima al gelso trilla.
Al giocondo lavor sparsa è la villa
sui bruni solchi; pei declivi a festa
saltan le capre; e in seno a la foresta
le allegrie della caccia il corno squilla.
Questa è vita davver; questo è divino
elemento di forza all’uman petto:
aria, luce, tripudio, opera intorno.
E noi, civico vulgo, ogni mattino
(fatica insigne!) ci leviam dal letto,
pallidi spettri, ad invecchiar d’un giorno.
Ramuscello
O ramuscel di mandorlo,
quando su te si posa
il cardellino, e ai limpidi
rigagni e al ciel di rosa
sparge la fresca e lieta
anima di fanciullo e di poeta;
o ramuscel, per magica
arte io vorrei mutarmi
nell’ augellin che dondola
su te, trillando carmi;
su te che spargi al vento
la molle nebbia de’ tuoi fior d’argento.
E là, cantando il giovane
mio tempo e i dolci inganni,
le ingrate nevi e il cumulo
non sentirei degli anni.
Ma ognun la sua fatale
stella ha sul capo; ed accusarla è male.
Marionette
Al fantolino, più che pesca o mela,
piace il casotto degl’incanti, dove
un piccol mondo di figure nove
al suo cupido e fermo occhio si svela:
né sa che dietro la dipinta tela
per fili arcani in giocolier le move;
e crede velo il finto; e in quelle prove,
in quegli atti, in que’ volti avvampa e gela.
Grandeggia quindi il fantolin con l’ora:
e nel mondo degli uomini s’aggira,
e crede vero ciò ch’ è finto ancora.
Uom poi diventa, e si travaglia e stanca
pur dietro a sogni: e il dì che l’ombra ei mira
del Ver, spìa sul quadrante, e il tempo manca.
Or passeggi solinga
Ti veggo, o madre; per i conscii lochi
dove teco scherzava io fanciulletto
or passeggi solinga, e il caro aspetto
del tuo lontano lacrimando invochi.
Parmi d’udire i tuoi gemiti fiochi
i quando mesta riguardi il vacuo letto,
e tuo figlio mancar vedi al banchetto,
e il cerchi indarno ai consueti giochi.
Sì, vederti mi par, parmi d’udirti
povera madre! e rimaner lontano,
tal rimorso è per me ch’io non so dirti.
Conosco il fallo e m’addoloro e piango!
Ahi! Com’è questo cor misero e strano!
Conosco il fallo, eppur lontan rimango.
Tra veglia e sonno
Un verno a notte bruna
mentre nell’erma stanza
d’Usca inducea la luna
un pallido chiaror,
cantò questa romanza
il reduce Gildorl.
«Senti diletta mia,
la mezzanotte appressa;
io gelo sulla via,
e tu non vieni ancor:
compi la tua promessa;
vieni, mio dolce amor.
Eccoti il lino bianco,
segnaI della tua fede;
mirami cinta al fianco
la ciarpa tricolor;
vieni, nessun ti vede,
angelo del mio cor.
Mio bel tesor, calcai
sabbie infuocate e nevi;
un oceàn varcai
per te, mio bel tesor;
per me varcar tu devi .
solo un vial di fior.
Tu mi dicesti un giorno,
con lacrime dirotte:
«Quando farai ritorno,
chiamami, o mio Gildor,
chiamami a mezzanotte, .
ti volerò sul cor.»
Senti, diletta mia,
la mezzanotte appressa;
io gelo sulla via,
e tu non vieni ancor;
compi la tua promessa,
vieni, mio dolce amor.
Soldato e trovatore,
piti bello ho salutato
ma te recando in core,
fu mio secondo amor
la spada del soldato
e il suon del trovator.
Che fai, diletta mia?
Quell’ora è già suonata.
lo gelo sulla via,
e tu non vieni ancor …
Ti sei di me scordata;
addio, mio dolce amor.
Soldato e trovatore,
le belle ho ricusato ;
or senza te nel core,
sarà mio solo amor
la spada del soldato
e il suon del trovator.»
E dileguò. Svegliata
Usca, sul far del giorno,
disse d’aver sognata
la voce di Gildor;
e aspetta il suo ritorno
la poveretta ancor.
Biografia di Giovanni Prati
Giovanni Prati (Comano Terme, 27 gennaio 1815 – Roma, 9 maggio 1884) è stato un poeta e politico italiano.
Giovanni Prati nacque nel 1815 a Dasindo (oggi frazione del Comune di Comano Terme) nel Trentino, all’epoca appartenente all’Impero Austro-Ungarico e si formò nell’Imperial Regio Ginnasio d’Austria-Ungheria di Trento, intitolato alla sua persona nel 1919, Liceo Classico Giovanni Prati, dopo il passaggio del Trentino – Alto Adige all’Italia. Nello stesso Ginnasio studiò il poeta e patriota Antonio Gazzoletti.
Studiò legge a Padova e si dedicò alla poesia. Si sposò nel 1834 con Elisa Bassi, dalla quale ebbe tre figli: Riccardo, Rita ed Ersilia (i primi due morirono infanti). La moglie venne a mancare nel 1840. I temi della morte della moglie e dell’affetto per la figlia ritorneranno frequentemente nelle sue liriche. Pubblicò a Padova la prima raccolta, Poesie, nel 1836. Decise di trasferirsi a Milano nel 1841; qui conobbe Alessandro Manzoni e pubblicò l’Edmenegarda, una novella sentimentale in endecasillabi sciolti che ebbe un grande successo di pubblico ma fu stroncata dalla critica.
A Milano pubblicò nel 1843 i Canti lirici, canti per il popolo e ballate; nel 1844 dette alle stampe Memorie e lacrime e Nuovi canti. Dal 1845 al 1848 soggiornò a Padova, a Venezia e a Firenze. Nel 1848, recatosi a Torino, si mostrò sostenitore della Monarchia Sabauda. Negli anni che precedettero la prima guerra di indipendenza, fu sostenitore di Re Carlo Alberto di Savoia: per questo motivo, gli austriaci lo espulsero dal Regno Lombardo Veneto (anche Milano e Venezia all’epoca appartenevano all’Impero),e il governo di Firenze del Granducato di Toscana (sotto la dinastia Asburgo-Lorena) gli rifiutò l’asilo politico.
Furono questi i tempi più difficili e tormentati della sua vita perché professava i suoi ideali a favore della Monarchia Sabauda in una terra ostile e tra uomini decisamente avversi. Legato da ideali alla Monarchia Sabauda tornò a Torino, dove la sua fedeltà fu premiata con la nomina del Re Vittorio Emanuele II di Savoia a storiografo della Corona. Nel 1851 sposò in seconde nozze l’attrice drammatica Lucia Arnaudon.
Nel 1861 nel Governo Cavour (VIII legislatura del Regno d’Italia) venne eletto Deputato nel Parlamento Italiano con Torino divenuta Capitale del Regno d’Italia. A Torino presso il Caffè Fiorio in via Po, frequentato tra gli altri anche da Camillo Benso conte di Cavour, Massimo D’Azeglio, Urbano Rattazzi, Gabrio Casati, discuteva le sorti della neonata Italia. Nel 1865 seguì il Governo Unitario a Firenze divenuta Capitale, dove conobbe Mario Rapisardi, Niccolò Tommaseo, Atto Vannucci, Pietro Fanfani, Arnaldo Fusinato, Francesco Dall’Ongaro, Terenzio Mamiani ed altri.
Nel 1871 si trasferì a Roma divenuta Capitale d’Italia, nel 1876 divenne Senatore nel governo Depretis I XIII legislatura del Regno d’Italia nel 1878 divenne membro del Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1878 il Ministro dell’Istruzione Francesco De Sanctis governo Cairoli I fondò a Roma l’Istituto Superiore di Magistero del quale Giovanni Prati divenne direttore. Durante questi anni la sua poesia aveva continuato a fluire con la pubblicazione del poema Armando (1868, una parte del quale era apparsa nel ’64), degli oltre cinquecento sonetti di Psiche (1876) e delle liriche raccolte in Iside (1878). Morì a Roma nel 1884.
Sepolto a Torino, le sue ceneri furono trasferite nel paese natio ricongiunto alla patria. Dal 1923 le sue spoglie risiedono nella chiesa di Dasindo di Lomaso.
Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Prati