GABRIELE D’ANNUNZIO nasceva Il 12 marzo 1863, esattamente 160 anni fa
Biblioteca DEA SABINA
GABRIELE D’ANNUNZIO nasceva Il 12 marzo 1863, esattamente 160 anni fa
Articolo di DANIELA MUSINI
Dichiarava di essere nato <<a bordo del Brigantino Irene>> e non era vero perché il difficile parto di sua madre Luisa de Benedictis avvenne in un palazzotto signorile di Corso Manthoné a Pescara, alle 8 del mattino del 12 marzo 1863, non <<sotto l’Ariete durocozzante>> come lui millantava, ma sotto il fascinoso e fantasioso segno dei Pesci.
Suo padre era Francesco Paolo, possidente e poi sindaco della città adriatica e avrà con l’illustre figlio rapporti sovente turbolenti.
Abruzzese quindi, Gabriele, e l’amata sua terra natia rivivrà in molte sue pagine poetiche, narrative e drammaturgiche.
«Porto la terra d’Abruzzi, porto il limo della mia foce alle suole delle mie scarpe, al tacco de’ miei stivali», scrisse con orgoglio nel “Libro segreto”: non rinnegò mai le sue origini, neppure quando a 19 anni si trasferirà nella Capitale, diventando nel contempo brillante giornalista, acuto osservatore della fastosa Roma del tempo e raffinato arbiter elegantiarum.
Ma questo Abruzzese sempre agghindato (possedeva un guardaroba sterminato che comprendeva, tra l’altro, 50 soprabiti, 200 paia di scarpe e 500 cravatte) conquisterà il mondo: provocherà la follia nelle donne e l’esaltazione nei soldati, sarà idolatrato e detestato, vivrà tra ozii lussuosi e debiti clamorosi, in un’esistenza lussureggiante e inimitabile.
Controverso, contraddittorio a volte, persino discutibile come personaggio, ma indiscutibile fu la sua grandezza di scrittore-intellettuale che seppe traghettare la letteratura italiana verso una dimensione europea e moderna, così come inoppugnabili saranno l’onnivoro suo ingegno, il vitalissimo bisogno sperimentalistico e quella sorta di “ulissismo” culturale che lo fece aderire a tutte correnti e stili artistici della sua epoca.
Sì, è vero, fu un cleptomane letterario: rubò idee e versi a Poeti e intellettuali, ma seppe restituirli con incomparabile maestrìa. Joyce, Musil, von Hoffmansthal, Proust lo ammirarono incondizionatamente, Montale gli fu debitore.
Il suo genio creatore produsse opere immortali: romanzi (Il Piacere, L’innocente, Il trionfo della morte, Il fuoco), novelle (Terra vergine, Le novelle della Pescara), tragedie teatrali (La città morta, La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, queste ultime ambientate nel suo amato Abruzzo), fino ad arrivare al Notturno con quel suo linguaggio innovativo, sorprendente e modernissimo.
E che dire della sua sterminata produzione poetica? Dalla sua prima raccolta, Primo Vere, scritta da adolescente, fino alle Laudi, scrigno di gemme preziose in cui rifulge Alcyone, che raccoglie liriche di incomparabile bellezza e di assoluta perfezione (Sera fiesolana, L’onda, La pioggia nel pineto).
Il suo fu uno stile particolarissimo: pennellate lampeggianti, opulento cromatismo, manipolazione incantata di luci e ombre, un’armonizzazione musicale sublime. La maestria verbale, la suggestione sensuale, l’inarrivabile uso della parola da lui utilizzata sia per la capacità evocativa che per la pertinenza semantica, costituiscono una magia e una malìa da cui è difficile sottrarsi.
Riuscì ad infiammare gli animi e a conquistare migliaia di donne grazie ad un fascino magnetico ed irresistibile (nonostante la poca avvenenza).
Ebbe una sola moglie, Maria Hardouin di Gallese che gli diede tre figli: Mario, Gabriellino e Veniero. Un’altra figlia, Renata, l’ebbe da Maria Gravina Cruyllas Ramacca Anguissola di San Damiano, principessa siciliana che per lui lasciò la famiglia e alla quale dedicò il suo romanzo capolavoro “L’innocente”.
Non fu né un buon marito, né un buon padre: troppo tumultuosa la sua esistenza, in cui preminenti l’attività artistica e la passione per le donne. Già, le donne.
Migliaia, si disse, ma poche quelle veramente amate e tutte trasfigurate in Muse, tutte eternate nei suoi capolavori. «Il mio cervello è alimentato dal fuoco degli inguini», soleva ripetere, ribadendo quanto il trasporto sentimentale ed erotico fosse propellente necessario alla sua creatività.
Ed ecco allora Giselda Zucconi, l’amore della sua «adolescenza anelante e furiante», eternata col nome di “Lalla” nella sua seconda raccolta poetica “Canto Novo”, ecco “Barbara” (al secolo Elvira Natalia Fraternali, maritata, assai infelicemente, Leoni), con cui visse una ribollente passione a San Vito Chietino in una casetta annegata nel verde, che oggi è conosciuta come Eremo Dannunziano, e immortalata nella figura di Ippolita Sanzio del suo romanzo “Il trionfo della morte”.
Destinataria di torride lettere e bugie impietose, dopo l’abbandono del Poeta, condurrà una triste esistenza in un pensionato gestito da suore.
La vera, “imaginifica” Musa della sua Vita fu però la più grande attrice di tutti i tempi: Eleonora Duse. Di cinque anni più vecchia di lui, tisica, appassionata e di inarrivabile talento, lo proiettò sull’empireo della drammaturgia europea: fu lei l’ispiratrice e la sovvenzionatrice di tutti i suoi capolavori teatrali. Lui l’amò senz’altro, ma la tradì persino con la sua rivale Sarah Bernhardt; è vero che la eternò nell’eterea Ermione de “La pioggia nel pineto” (che all’inizio si chiamò Heleonora), ma poi la tratteggiò impietosamente ne “Il fuoco” e la lascerà comunicandole, spietato: «Sento nelle fibre più profonde il bisogno imperioso del piacere, della vita carnale, del pericolo fisico, dell’allegrezza».
In realtà aveva perso la testa per la giovane e avvenente Alessandra Starabba di Rudinì, bella e statuaria (che ribattezzerà “Nike”, come la Nike di Samotracia), la quale, quando sarà da lui abbandonata, fuggirà in Francia, si farà suora, ma conserverà sempre, tra le biografie dei Santi e i libri di preghiera, le audacissime lettere del suo mai dimenticato amante.
E poi via via fino ad uno dei più brucianti amori della sua Vita, quella contessa fiorentina, che di nome faceva Giuseppina Giorgi Mancini, ma che lui appellerà “Giusini” nello splendido “Solus ad Solam”, una sorta di struggente diario scritto da Gabriele quando la sua appassionata amante finirà nel gorgo della follia, per arrivare a quella che fu la sua ultima Ninfa Egeria: l’attrice del muto Elena Sangro, nome d’arte della vastese Maria Antonietta Bartoli Avveduti che divenne la protagonista del torrido e senile poemetto “Carmen Votivum”.
Ma anche nella girandola di passioni e avventure, la sua linfa creativa continuò sempre ad essere vitalissima, non solo nella scrittura, ma anche nella pubblicità: fu lui a conferire il nome “La Rinascente”, a cambiare genere all’automobile che da maschile diventerà femminile («L’ Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’ una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza», scrisse a Giovanni Agnelli, fondatore della FIAT), ma fu anche lui ad inventare la parola tramezzino, scudetto, a indicare rispettivamente in “Aurum” e in “Parrozzo” i nomi da dare al liquore e al dolce più amati dagli Abruzzesi.
E diede un apporto importante anche nel Cinema: al Kolossal “Cabiria” del 1913 lavorò direttamente, suggerendone il titolo, il nome del protagonista (Maciste) e scrivendone le didascalie per le quali percepì una somma favolosa.
“Poeta, Eroe e mascalzone”, lo definì lo scrittore inglese E.M.Forster: d’Annunzio fu tutte e tre le cose e molto di più.
Eroe, certamente: dalla Beffa di Buccari al Volo su Vienna durante la Grande Guerra, fino alla straordinaria conquista di Fiume, il 12 Settembre 1919 alla testa di 2000 fervorosi combattenti.
Fu fervente nazionalista, mai fascista e con Mussolini ebbe rapporti conflittuali: <<d’Annunzio è come un dente guasto: o lo si estirpa o lo si ricopre d’oro>> diceva di lui il Duce. Scelse la seconda via e lo confinò in una prigione dorata.
A Villa Cargnacco sul Lago di Garda, dimora lacustre che, trasformata e trasfigurata, diventerà il celebre e celebrato Vittoriale degli Italiani, monumento al suo genio e alla sua indomita personalità, visse dal 1921 con l’ultima compagna della sua Vita, la talentuosa pianista Luisa Baccara.
E lì fu risucchiato in un gorgo erotico senza fine, vittima ormai di un predace e patetico delirio sessuale. E nella ubriacatura orgiastica degli ultimi anni una giovane donna spicca su tutte: la Contessa Scapinelli Morasso, “Titti”, l’«ultima Clematide», fresca e splendente creatura, che gli destò un ultimo singulto d’amore. E a Titti, lui, vecchio, ripugnante, ma ancora disperatamente vorace, scriverà la sua ultima, straziata lettera d’amore, datata 2 febbraio 1938. Non ci sarà risposta.
Gabriele d’Annunzio, il sitibondo vampiro di corpi e di anime, l’artifex smagliante di capolavori e di vite inimitabili, morirà di lì a poco, per ictus cerebrale, alle 20,05 del 1° marzo 1938 (ultimo giorno di Carnevale), mentre è intento a «capolavorare» alla sua scrivania.
E la leggenda continua…
Articolo di Daniela Musini
Ps: Per fugare dubbi sul suo cognome: Rapagnetta era il cognome di suo padre Francesco Paolo che, essendo stato adottato da piccolo dallo zio acquisito Antonio D’Annunzio, espunse il suo cognome originario, sicché Gabriele nacque da Francesco Paolo D’Annunzio (sarà il Poeta a volere la “d” minuscola nobilitante) e da Luisa de Benedictis.
Il cognome di Gabriele pertanto NON È RAPAGNETTA ma D’Annunzio o d’Annunzio, come si firmava.