Fosco Giannini- “Apokopè” 99 versi dorici –Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA-
Fosco Giannini- “Apokopè”, 99 versi dorici –
Articolo di Sergio Leoni
Casa Editrice “Ventura”
“Apokopè”: caduta della vocale finale (ed eventualmente della consonante che la precede) di una parola. Da non confondersi, secondo la consolidata, ma inevitabilmente, e forse suo malgrado, apertura a rischi o arricchimenti di contaminazione, grammatica della lingua italiana, con l’“elisione” che si ha quando la vocale finale cade solo davanti ad altra vocale.
Una questione da Liceo classico, essenzialmente, e che appartiene a quella terminologia tecnica, ignota ai più, che definisce i passaggi e i movimenti di un testo, ma anche della lingua parlata, che in effetti “spiegano”, ma sempre, significativamente, “a posteriori”, come è stato costruito un qualunque “discorso”.
Nessuno scrittore, nessun poeta scrive pensando a queste definizioni, a queste che sono infine mere classificazioni di lingue continuamente in divenire, applicate a opere che nascono (o dovrebbe nascere) sotto tutt’altre motivazioni.
In realtà lingua parlata e poesia hanno più di un elemento in comune. Senza scomodare quelle che sono ormai tesi consolidate, secondo cui tutta la poesia che noi chiamiamo “epica”, era essenzialmente orale e come tale tramandata, insieme ad una non ancora abbastanza esplorata e per ora sedicente cultura popolare, basterebbe ricordare che la musicalità in poesia è un canone mai abbandonato, nemmeno quando la poesia stessa si è espressa in versi sciolti (cioè fuori dei dogmi che hanno regolato i versi in rime, senari, settenari, etc.), perché, al pari della musica, quando si vuole uscire da schemi consolidati, non è possibile farlo se non rispettando (ancora!) certi criteri non del tutto, alla fin fine, così aperti.
Ma, senza divagare: come nessun pittore dipinge sulla tela avendo a fianco del cavalletto il manuale di prospettiva o della composizione dei colori (salvo il più che rispettabile “pittore della domenica”, cui dovrebbe essere rivolta l’ammirazione che si deve a ogni persona in cui l’onestà intellettuale domina su ogni altro atteggiamento, e che è serenamente consapevole dei propri limiti), nessuno scrittore e nessun poeta scrive pensando alle regole grammaticali, a quelle della composizione (che qualcuno pretende di insegnare a tavolino), a uno “stile” che, quando è pedissequamente quello del tempo presente, si riduce nel migliore dei casi a un semplice riecheggiare temi che fanno parte di un sempre evanescente streaming, e nel peggiore, di un adeguarsi alla moda del momento, quale che sia.
E allora perché questo titolo dell’appena pubblicato libro di Fosco Giannini?
Ma prima ancora una premessa, non del tutto scontata. Chi conosce le opere dell’Autore proposte nel corso ormai di tutta una vita, sa bene che Giannini, essenzialmente, e per scelta, scrive in quello che possiamo definire in prima battuta, e molto provvisoriamente, il dialetto anconetano, dove il poeta – a parte la nascita in piccolo paese una volta nell’alto pesarese ma oggi passato armi e bagagli alla vicina Romagna – vive, ha lavorato e che lo ha visto impegnato in politica fin dalla prima giovinezza. Come vedremo, questa annotazione non è ininfluente.
Ma, tornando al titolo di questa che è, se non mi sbaglio, la sesta raccolta di poesie, (ma lo dico con assoluto beneficio di inventario). Proviamo a formulare un paio di ipotesi, del tutto gratuite e provvisorie.
La più suggestiva, e perciò, come quasi sempre accade, la più infondata, consisterebbe nell’idea che questa “perdita” dell’ultima consonante sia una sorta di metafora di un’altra, più grave e più fondata perdita: quella cioè di un “finale” possibilmente positivo, e che si configura al contrario, come presa di coscienza di una sconfitta che, passando per le “disavventure” esistenziali dei protagonisti di queste poesie, si allarga poi ad una sorta di sconfitta non tanto generazionale, come forse ci si poteva attendere, ma espressamente di “classe”.
In queste poesie difficilmente si intravede uno spiraglio di luce. Difficilmente in questi versi vengono espressi sentimenti quali felicità, soddisfazione, o quantomeno serenità.
Qui siamo davvero lontani da quel tono un po’ mellifluo che è la cifra di un indugiare a sentimenti un po’ scontati e perfino banali che talvolta ha caratterizzato la produzione poetica di scrittori di sicuro spessore lirico, anche, e starei per dire, soprattutto in ambito dialettale, per quanto “evoluto” esso si sia voluto rappresentare. Ma qui apriremmo un capitolo molto ampio che necessiterebbe di adeguati spazi. (E la speranza, e l’auspicio, è che una cultura esplicitamente di “classe”, prenda prima o poi il coraggio di affrontare una questione che non potrà essere a lungo procrastinabile, pena la totale sparizione di una forma d’arte che ha dimostrato di avere tutte le carte per dare un contributo ad una visione di una società diversa).
Certo, siamo del resto anche lontanissimi da quella tristezza ostentata dei tanti poeti della domenica, questi sì esecrabili, con tutti i loro piagnistei e quelle angosce di facciata.
La sostanza che compone queste opere rimarca in maniera netta la differenza tra un vero poeta come è Fosco Giannini, la cui ultima raccolta è pubblicata da una coraggiosa casa editrice di Senigallia, la “Ventura”, da quella pletora di dilettanti che tali non si sentono, perché il “mercato”, la diffusione di libri di poesie, detta le sue regole in maniera iperegualitaria. Vendite nei canali ufficiali praticamente pari a zero. Diffusione, dunque, al buon cuore di amici e parenti. Uno scenario desolante, e tutto italiano.
Fosco Giannini da sempre (e non si tratta di una esagerazione,) sceglie consapevolmente di essere testimone di atteggiamenti, di modi di affrontare la realtà che appartengono, sostanzialmente, alle classi più deboli, ai diseredati, a quelli che non possono contare che sulla sopravvivenza quotidiana, in qualunque modo essa si presenti.
Siamo di fronte ad un pessimismo che definirei, in prima battuta, “ragionato”. Esso è dunque “oggettivo” e, insieme, più profondo perché più in profondità ne ricerca le cause e le dinamiche. Una scelta che non si può che definire “coraggiosa”, non fosse altro perché si pone nettamente al di fuori di un “senso comune” diventato ormai senza infingimenti, la proposizione delle tesi e dell’ideologia (questa sì ancora ben viva e vegeta) delle minoritarie ma potentissime classi dominanti.
Un’altra ipotesi, solo in apparenza poco rispettosa del dettato del poeta e che comunque rientra nei termini della cosiddetta ‘licenza poetica’, vorrebbe che il termine, il titolo, i suoni (e in poesia, bisogna ribadirlo, il suono conta molto) sia in qualche modo evocatore di culture “altre”, mediterranee in particolari. “Apokopè” evoca un termine greco. E sostanzialmente dal greco deriva, come una quantità di altri termini di cui si è persa la radice e, in qualche modo, il significato profondo.
Non diversamente “Amaladè”, un’altra raccolta di poesie di Fosco Giannini, suona come un termine evocativo di culture orientali, mentre non è altro, ma questo lo rende in qualche modo più significativo, che una semplice e diretta frase di un dialetto (quello anconetano : ‘amala adesso’) di cui è ancora difficile stabilire in che modo sia stato contaminato dalle culture, dai traffici, dalle lingue dei paesi che da secoli stanno dall’altra parte di un Adriatico che non è mai stato tanto grande da dividere, in maniera definitiva, le due sponde.
In questa raccolta di poesie il “dialetto” di Ancona, (torniamo a metterlo tra virgolette perché, come vedremo presto, si presta quantomeno a due versioni, che non sono interpretazioni di una “lingua” ben definita) elimina radicalmente tutti quegli aspetti “tipici” delle culture popolari che fanno sempre la gioia e argomento di quelli che di cultura popolare non sanno e non vogliono conoscere niente. (E, naturalmente, non vi appartengono in alcun modo),
La scelta di Fosco Giannini è chiara e non apre spazi a diverse interpretazioni.
Le espressioni popolari, quelle usate quasi sempre per ridurre e banalizzare problemi più complessi, o strumentalizzate, (rifacendosi ad una presunta e mai definita saggezza popolare), non fanno parte del bagaglio poetico dell’Autore. Queste stesse espressioni, sappiamo come spesso vengono usate per ridurre a “macchietta”, una specie di triste parodia, un pensiero che si immagina “alternativo”, ma che in realtà riproduce pedissequamente le ripetizioni e gli slogan, logori ma in qualche modo efficaci, di una cultura sostanzialmente subordinata.
Qui, in queste poesie, non c’ è traccia di questa “deriva”. Al contrario, il dialetto diventa un modo di riappropriarsi delle radici più popolari, quelle più genuine che non sanno solo “far ridere”, (come nei patetici festival dei vari vernacoli), ma che anzi, e più spesso, usano questo linguaggio che può sfuggire al dominio linguistico dominante per raccontare una realtà “altra”.
È una scelta. Una scelta del resto difficile e, forse, alla lunga, perdente.
Il problema della “lingua da usare” diventa allora il vero tema dirimente, quello su cui la discussione sembra sempre aperta e impossibile da chiudere.
Nelle poesie di Fosco Giannini la scelta è netta.
Ma è netta, e difficilmente contestabile, perché in questo caso l’Autore non si rifà ad una tradizione che usa il dialetto come momento di unificazione, di spirito di appartenenza ad una cultura locale, ma al contrario tenta (e a mio modesto parere ci riesce per la gran parte) di rendere questa “lingua”, non universale ( il che sarebbe un altro modo di appiattire ogni tematica), ma funzionale all’espressione, alla esposizione, verrebbe da dire, di una società altra che sotto traccia, scava ancora e subisce la grande distanza da quelle classi che in qualche modo si sono allineate al pensiero corrente.
Certo, poi le poesie di Fosco parlano anche di amore, di sentimenti complessi, di situazioni amorose complesse, e questo non è altro che logico dal momento che queste situazioni sono condivise e vissute da tutta l’umanità.
La lingua della poesia di Fosco Giannini, è una lingua “a parte”, nel senso che le parole, ultimo grado del discorso, non appartengono, a ben vedere, ad una lingua codificata. Ne inventa una. La libertà che l’autore si prende nell’uso di parole che possono appartenere, talvolta, ma non così raramente, anche ad altri “dialetti”, contaminandoli, è la libertà di chi si muove nel campo, per molti versi inesplorato, della tradizione popolare italiana.
In questo contributo alla lettura del libro di Fosco Giannini, come si può vedere, non ci sono citazioni, non sono presentati brani di poesie che del resto, staccati dal pur piccolo contesto della singola poesia, risulterebbero poco significativi o, che è peggio, darebbero un’immagine alla fine fuorviante. Ogni poesia è evidentemente leggibile da sola, come una frequentazione di un solo momento.
Ma credo che anche questo libro di Fosco Giannini, dal momento che ha un titolo che e raccoglie un numero importante di poesie, sia da considerare come un’opera compiuta e definita. Allo stesso modo importanti musicisti hanno voluto riunire in un’opera ben definita quelle che potevano tranquillamente presentarsi come opere in sé compiute. Penso ai Concerti Branderbughesi di Bach. Anche in questo caso, ogni capitolo può essere letto come un pezzo a sé stante. Ma per comprendere il disegno complessivo ci vuole forse un po’ di pazienza che comunque è completamente ripagata.
Il motivo per cui non ho mai citato neanche un verso delle poesie di “Apokopè” è in quest’ottica. Questo libro va letto come un’opera in cui ogni parte, ogni poesia, sostiene e si completa con l’altra, in un intreccio che crea, appunto, una trama in cui leggere, e neanche tanto in trasparenza, quello che è, nettamente, il punto di vista di Fosco Giannini.
E poi, come segnalare una poesia piuttosto che un’altra se non affidandosi ad un criterio totalmente soggettivo, privo di una logica condivisibile?
Ma siccome Fosco inserisce in questa raccolta una poesia edita in altri tempi, considerandola, in un’ottica insieme politica e musicale, come una sorta di filo rosso, allora vale la pena di citarla, e soprattutto di leggerla:
Come i poeti
Sott’al lavello
è pieno de formighe,
pare che cianne
el fogo al culo
come cercasse un dio badulo;
se move in righe,
ordine de questura,
a caccia de mollighe,
un pezzo de culatello
sortiti dà la spazzatura.
Nero, dietro al detersivo,
‘ppartato che non pare vivo,
c’è el scarafaggio,
da solo per disperazio’,
o per coraggio.
Vie’ dà la starda
del sciacquo’,
el passo de j anacoreti,
dannato senza ragio’,
come i poeti.
(Dalla raccolta “Apokopè”)
Sergio Leoni fa parte della redazione nazionale di “Cumpanis” e del gruppo di lavoro “Arte, Cultura, Comunicazione” del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.
Mattino anconetano
S’enne sveijati i mostri
de le tredici cannelle,
colpi de tosce e spadacci’ de ferri.
Naschene come rospi le prime bancarelle
S’alza el scirocco e il mare
è sale ’nte i polmoni:
aspro è l’odore d’ostrighe
e limoni.
(Dalla raccolta di Fosco Giannini “Borea”. “Mattino anconetano” è dedicata all’opera di copertina di Rodolfo Bersaglia per la raccolta “Apokopè”)
“Apokopè” e il suo dialetto
Poesia dialettale: definizione quanto mai generatrice di equivoci. Ebbi la fortuna di frequentare Franco Scataglini nella metà degli anni ’70, quando ero ragazzo. Sulla scorta di un mio rilevamento (la constatazione e l’analisi di uno strano florilegio della poesia dialettale in ogni provincia d’Italia, in quegli anni) sottoposi a Scataglini una tesi: quella “poesia dialettale”, che in sé avrebbe dovuto essere linguaggio del popolo, in verità era vergata, in grandissima parte, da una “classe” in vasta proliferazione: la piccola borghesia semicolta; una “poesia” distorta e assassinata dagli esponenti più decadenti, annoiati e “bovaristi” delle “professioni”, che utilizzavano il dialetto come una sorta di divertissement e, tutti convinti che quello fosse il linguaggio del popolo (disprezzando, nell’essenza, il popolo), producevano una “poesia” volutamente priva di afflato, spiritualità, universalità, senza ambizione poetica, dunque senza metafora, metonimia, sineddoche. Con un linguaggio povero, rozzo e “volgare” (nella modalità spregiativa che la borghesia ha sempre utilizzato per il volgo), che era quello che la piccola borghesia “poetica” attribuiva al popolo. Scataglini, naturalmente – poiché da tempo e ben prima di me era giunto allo stesso punto analitico – “approvò” la mia tesi. Essendo innamorato dell’infinita musicalità del dialetto e della sua potenza evocativa e avendo, tuttavia, appurato a quale degenerazione un suo utilizzo sbagliato, equivoco e ambiguo potesse portare, seppi sin da subito – coadiuvato da Scataglini e dalle letture innamorate di Pier Paolo Pasolini nella sua ferrigna e risplendente poesia friulana, di Biagio Marin, Franco Loi, Mario Brasu, poeta-pastore sardo, nelle sue liriche contro la guerra e contro l’occupazione della sua Isola da parte della Basi militari Nato, Ignazio Butitta nella sua poesia siciliana di arance, antifascismo e lotte contadine – che cosa fare: utilizzare il dialetto come una lingua alta, come un diverso strumento linguistico dalla lingua italiana, un diverso congegno da essa ma dalle stesse potenzialità estetiche ed evocative. La stessa scelta di uno strumento – dialetto o lingua italiana – che un musicista opera tra il violino e il pianoforte, tra la chitarra e l’oboe. Il dialetto come un utensile per il più alto livello poetico possibile, non come un recinto ideologico-estetico ove far pascere una brutalità di rime bovine. Il dialetto per il firmamento della poesia, non per una caricatura efferata del popolo. Col tempo, per farmi largo nell’incomprensione, tentai di rafforzare, raffinare sempre più la mia argomentazione, giungendo ad affermare che la poesia tout court, essendo una rottura col linguaggio quotidiano, è già di per sé, nel suo determinarsi, un “linguaggio dialettale”. Una forzatura, certamente; ma come cantava Fabrizio De André, un assunto, se non del tutto vero, quasi per niente sbagliato.
(Fosco Giannini)
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