Eugenio Montale -Traduzione del “Cantico di Simeone” di Thomas S.Eliot-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Eugenio Montale -Traduzione del “Cantico di Simeone” di Thomas S.Eliot-
Articolo di Domenico Pisana
Leggendo la traduzione di Eugenio Montale della poesia di Eliot, dal titolo Cantico di Simeone, l’interrogativo che sorge è come mai Montale, poeta della negatività, del non senso e del pessimismo, si accosti ad un testo eliotiano di grande apertura teologica; Cantico di Simeone, infatti, è una poesia che si snoda in un chiaro orizzonte teologico ed escatologico:
Signore, i giacinti romani fioriscono nei vasi
e il sole d’inverno rade i colli nevicati:
l’ostinata stagione si diffonde…
La mia vita leggera attende il vento di morte
come piuma sul dorso della mano.
La polvere nel sole e il ricordo negli angoli
attendono il vento che corre freddo alla terra deserta.
Accordaci la pace.
Molti anni camminai tra queste mura,
serbai fede e digiuno, provvedetti
ai poveri, ebbi e resi onori ed agi.
Nessuno fu respinto alla mia porta.
Chi penserà al mio tetto, dove vivranno i figli dei miei figli,
quando arriverà il giorno del dolore?
Prenderanno il sentiero delle capre, la tana delle volpi
fuggendo i volti ignoti e le spade straniere.
Prima che tempo sia di corde verghe e lamenti
dacci la pace tua.
Prima che sia la sosta nei monti desolati,
prima che giunga l’ora di un materno dolore,
in quest’età di nascita e di morte
possa il Figliuolo, il Verbo non pronunciante ancora e impronunciato
dar la consolazione d’Israele
a un uomo che ha ottant’anni e che non ha domani.
Secondo la promessa
soffrirà chi Ti loda a ogni generazione,
tra gloria e scherno, luce sopra luce,
e la scala dei santi ascenderà.
Non martirio per me -estasi di pensiero e di preghiera-
nè la visione estrema.
Concedimi la pace.
(Ed una spada passerà il tuo cuore,
anche il tuo cuore).
Sono stanco della mia vita e di quella di chi verrà.
Muoio della mia morte e di quella di chi poi morrà.
Fa’ che il tuo servo partendo
veda la tua salvezza.
(T.S. Eliot)
Se tradurre non è per Montale un semplice atto del “transferre”, cioè del sostituire una parola con un’altra, ma un momento creativo in cui si realizza la dimensione del “ri-creare” un testo accampando in esso tutto il proprio mondo interiore, desta meraviglia questa scelta di Montale di tradurre Cantico di Simeone di Eliot, dove si parla di pace eterna, di salvezza, di vita dopo la morte, di consolazione del Verbo fatto carne; non si può pensare infatti che sia casuale o semplicemente mossa da intenti filologici e puramente linguistici, ma che obbedisca piuttosto ad un processo della anima montaliana che tende ad appropriarsi e a riconoscersi nel testo per metterlo in relazione, forse, con la dimensione della fede cristiana maturata nell’ultima fase della sua vita.
A conferma di questa montaliana maturazione di se stesso , ci viene in aiuto un secondo dato, ossia l’affermazione che ritroviamo in Intervista immaginaria del 1946, ove, tra l’altro, Montale afferma:
L’avvenire è nelle mani della Provvidenza, Marforio: posso continuare e posso smettere domani. Non dipende da me….
Espressioni del genere non credo possano essere abbellimenti di un discorso, ma sono il chiaro riferimento ad un sentire che Montale sicuramente riteneva di dovergli appartenere.
Nonostante il poeta ligure sia stato il cantore del non senso della vita, nonostante la critica lo abbia definito il poeta della disperazione, del pessimismo cosmico e universale, egli ammette apertamente che “l’avvenire è nelle mani della Provvidenza”; egli sostiene che la contingenza dell’essere e dell’esistenza postula un essere assoluto e necessario, che non è semplicemente il motore immobile di Aristotele, ma Provvidenza nel senso manzoniano.
Anche a non voler identificare questa Provvidenza con il Dio della Bibbia, non c’è dubbio che nel suo tormento di vita e nel suo sforzo assiduo e problematico di conoscere la Provvidenza, spesso indagata, ora negata, Montale ha “cercato di vedere ciò che poteva esserci oltre la parete”, “ha bussato disperatamente come uno che attende una risposta”, ha attraversato “la scena di questo mondo”, per usare l’immagine paolina, non smettendo, sino alla fine della sua vita, di “battere il muro” ,di “interrogare” e di “interrogarsi” sul Mistero.
Articolo di Domenico Pisana-Fonte RAI Letture