Eric Gobetti- I carnefici del Duce -Editori Laterza-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Eric Gobetti- I carnefici del Duce
Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’?
Editori Laterza-Bari
DESCRIZIONE
Eric Gobetti Editori Laterza Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?
Prologo
L’elefante nella stanza
In un mondo ideale nessuno avrebbe sentito l’esigenza di scrivere un libro sui crimini di guerra commessi durante il Ventennio fascista. Perlomeno non a tanti anni di distanza dai fatti. Perché in quel mondo ideale l’Italia avrebbe già ampiamente fatto i conti con il suo passato più oscuro, con le responsabilità del fascismo e le brutali violenze commesse in nome di quella ideologia. Purtroppo, invece, in questo mondo imperfetto, le cose sono andate in maniera diversa. Innanzitutto dal punto di vista della giustizia.
Dopo la fine della guerra in Italia non si è tenuto un procedimento giudiziario volto a condannare globalmente i fascisti e i loro crimini, qualcosa di anche lontanamente paragonabile ai processi di Norimberga o di Tokyo. In Germania e in Giappone, i principali alleati dell’Italia nella seconda guerra mondiale, si sono svolti nel dopoguerra decine di migliaia di processi, che hanno contribuito a giudicare e condannare non solo i principali dirigenti politici e militari, ma un buon numero di solerti esecutori, a ogni livello della macchina del potere. Nella zona d’occupazione sovietica in Germania si contano circa 150.000 procedimenti penali, con centinaia di condanne a morte; ma anche nella zona occidentale i tribunali alleati hanno condannato migliaia di persone e giustiziato 486 colpevoli, tra cui 12 donne. Dopo la creazione delle due Germanie, i soli tribunali federali hanno giudicato 16.740 cittadini tedeschi imputati per crimini di guerra e contro l’umanita, condannando 6.656 persone, di cui 16 a morte e 166 all’ergastolo. Per quanto riguarda il Giappone, i processi durarono fino al 1953, con circa diecimila procedimenti e centinaia di condanne alla pena capitale.
I grandi procedimenti penali internazionali del dopoguerra sono stati condotti in base alle decisioni prese durante la prima conferenza interalleata, che si era svolta a Mosca nel 1943. A ottobre dello stesso anno venne istituita la Commissione delle Nazioni Unite per l’accertamento dei crimini di guerra nazisti e fascisti (Unwcc). Di conseguenza l’articolo 45 del trattato di pace sottoscritto il 10 febbraio 1947 prevedeva anche per l’Italia l’arresto dei presunti criminali di guerra e l’estradizione verso i paesi che ne avessero fatto richiesta. Con un’abile strategia diplomatica il governo italiano riuscì tuttavia a dilazionare e poi evitare la consegna dei circa 1.100 inquisiti nei paesi che avevano subìto le occupazioni fasciste. Le autorità postbelliche ritenevano soprattutto essenziale evitare di giudicare i militari accusati di crimini di guerra commessi in paesi divenuti poi socialisti, come nel caso della Jugoslavia. E così, con l’inizio della Guerra fredda, il rapido mutamento dei rapporti internazionali e il supporto essenziale dalle potenze occidentali, il giudizio e l’eventuale punizione di questi criminali sfumò per sempre. Contemporaneamente le autorità italiane rinunciavano a pretendere la consegna dei tedeschi responsabili di stragi sul nostro territorio. Quelle indagini, frettolosamente archiviate negli anni Cinquanta, sono poi tornate alla ribalta solo nel 1994 con la riapertura del cosiddetto “armadio della vergogna”.
In assenza di estradizioni, i pochi procedimenti per crimini di guerra portati a compimento nei primi anni dopo il conflitto riguardano individui arrestati dalle truppe di liberazione nei territori precedentemente invasi oppure inquisiti dalle autorità d’occupazione alleate in Italia. Fra questi ultimi spicca il caso di Nicola Bellomo, uno dei pochi generali che aveva preso una ferma posizione antinazista dopo l’Armistizio, difendendo con successo il porto di Bari e consegnandolo intatto alle forze alleate. Processato per la morte di un prigioniero di guerra inglese avvenuta sotto il suo comando qualche anno prima, Bellomo venne condannato a morte e fucilato nel settembre del 1945.
Non solo i crimini di guerra compiuti durante tutto il Ventennio non sono stati perseguiti, ma anche il processo di epurazione dell’apparato di potere fascista è stato in Italia rapido e lacunoso. Le Corti d’assise straordinarie istituite nel dopoguerra hanno condannato in totale 5.928 persone, di cui 91 giustiziate. Si trattava però di crimini di “collaborazionismo” con i tedeschi, compiuti dunque negli ultimi due anni di guerra, e non riguardavano reati commessi in precedenza. Molti dei condannati hanno poi approfittato della cosiddetta “amnistia Togliatti”, emanata dall’allora ministro della Giustizia il 22 giugno 1946, e sono stati scarcerati dopo pochi mesi. In compenso, nel decennio successivo centinaia di partigiani sono stati perseguiti per azioni compiute durante la lotta di Liberazione, derubricate a reati comuni. In sostanza nel 1954 gli ex partigiani in prigione per crimini di guerra erano circa il doppio degli ex fascisti. Nel frattempo, in nome della “continuità dello Stato”, molti funzionari del regime erano tornati a ricoprire incarichi di potere nell’esercito, nella magistratura, nella polizia e in generale in tutti gli organi amministrativi.
La diversa posizione assunta dall’Italia nei due anni finali del conflitto, il contributo della Resistenza e la cobelligeranza dell’esercito del Sud possono spiegare in parte queste dinamiche. A tutto ciò si deve aggiungere il nuovo contesto geostrategico del dopoguerra, la collocazione dell’Italia lungo la Cortina di Ferro e il timore rappresentato dallo straordinario consenso raggiunto dal Partito comunista italiano grazie al suo ruolo egemone durante la guerra di Liberazione. Nell’ambito della violenta contrapposizione ideologica della Guerra fredda, la classe dirigente dell’epoca e gli stessi alleati occidentali ritenevano molto più urgente contrastare il comunismo piuttosto che condannare i fascisti sconfitti. Appariva anzi necessario creare un ampio fronte politico e sociale che includesse alcuni dei protagonisti della stagione precedente, il cui schieramento ideologico era inequivocabilmente anticomunista.
Il sostanziale fallimento del processo di epurazione, la mancata condanna delle gerarchie fasciste, il predominio politico e culturale dell’opzione anticomunista nel dopoguerra hanno contribuito alla rimozione delle responsabilità della classe dirigente italiana del Ventennio. Fin dai primi anni del dopoguerra il regime fascista è stato rappresentato nei mass media mainstream come una dittatura soft, poco repressiva, per di più sostenuta da un consenso di massa. Al tempo stesso la mancata estradizione degli indagati per crimini commessi all’estero ha contribuito a scagionare l’esercito da ogni responsabilità e a rafforzare il mito degli “italiani brava gente”. Si tratta di una narrazione autoconsolatoria, secondo la quale i militari italiani si sarebbero comportati ovunque civilmente, in maniera umana, mai brutale, mentre avrebbero subìto a loro volta violenze e soprusi da parte di altri contendenti: i partigiani dei territori occupati e i nazisti dopo l’Armistizio. Questa costruzione simbolica, supportata da intellettuali e politici di tutti gli schieramenti, aveva l’intento di ricompattare un paese devastato dalla guerra (anche civile), ma si è rapidamente imposta come uno dei pilastri della nostra identità nazionale, ed è tuttora predominante nell’immaginario collettivo.
A questo stereotipo così radicato contribuisce la quasi totale rimozione dei crimini di guerra commessi dagli italiani durante l’epoca fascista. Blocchi psicologici, meccanismi di autoassoluzione, necessità di scagionare alcuni individui di potere direttamente coinvolti, esigenze economiche e sociali legate alla ricostruzione e alla pacificazione nazionale, logiche politiche della Guerra fredda e dell’anticomunismo possono spiegare questo oblio nei primi decenni del dopoguerra. Ma la rimozione è durata per un’intera epoca storica, voluta e incentivata da tutti i governi che si sono succeduti alla guida del paese. È soprattutto emblematica la difficoltà di accettare il passato coloniale, con i suoi crimini atroci, in parte precedenti al fascismo. Significative in questo senso sono le vicende di due film: Il leone del deserto, un kolossal libico del 1980 sull’eroe della Resistenza, Omar al-Mukhtar, che venne proibito dalla censura italiana perché lesivo dell’onore dell’esercito; e Fascist Legacy, un documentario della BBC prodotto nel 1989, acquistato ma mai trasmesso dalla Rai. Quest’ultimo lavoro, molto documentato e prodotto con la collaborazione dei migliori storici dell’epoca, è andato in onda su una tv privata a molti anni di distanza ed è oggi disponibile online, ma resta sostanzialmente sconosciuto all’opinione pubblica.
Con la fine della Guerra fredda e il crollo del sistema politico di stampo sovietico in Europa, la condanna delle responsabilità storiche del “comunismo reale” ha ulteriormente oscurato i crimini fascisti. Anzi questo nuovo clima politico ha portato con sé una crescente critica a tutto il fronte antifascista di cui i comunisti facevano parte. Nel discorso pubblico le violenze fasciste e antifasciste sono state progressivamente equiparate (con l’insistenza retorica sulla “resa dei conti” e il “sangue dei vinti”), ma in definitiva solamente le seconde hanno subìto un processo di condanna politica e morale, mentre le prime restano poco conosciute e continuano ad essere giustificate o relativizzate.
Non solo l’Italia non ha dunque rispettato le clausole previste dal trattato di pace del 10 febbraio 1947, ma quella data non è diventata una occasione di festa, come sarebbe stato logico, per la fine del peggiore conflitto della storia. Anzi, per quanto possa sembrare assurdo, è oggi in Italia una giornata di lutto: il Giorno del Ricordo delle “vittime delle foibe e dell’esodo”, istituito nel 2004 con una legge fortemente voluta dagli eredi politici del partito neofascista fondato da molti ex criminali di guerra nel 1946. L’uso ideologico e strumentale della vicenda delle foibe è infatti particolarmente emblematico di questo capovolgimento di prospettiva nell’approccio pubblico alla memoria della seconda guerra mondiale. In questo caso la condanna istituzionale è totalmente rivolta alla Resistenza, mentre nessun riferimento viene fatto, nel testo della legge istitutiva, alle precedenti politiche oppressive fasciste né alle stragi dell’esercito italiano in quegli stessi territori. Si giunge così al paradosso di capovolgere le responsabilità della guerra e il senso degli avvenimenti, rappresentando gli aggressori fascisti come vittime innocenti e i partigiani jugoslavi come colpevoli di un’invasione ai danni dell’Italia e di un piano di sterminio etno-nazionale.
Con estrema difficoltà e spesso dopo tanti anni dagli eventi, altri paesi hanno dimostrato di sapersi assumere la responsabilità dei propri errori storici, prendendo così le distanze da pratiche politiche e militari inaccettabili. Molto accidentato è stato il percorso della Germania, che pure viene spesso considerata un esempio virtuoso da imitare. Nonostante il processo di Norimberga, le molte condanne inflitte a gerarchi e comandanti militari e un processo di epurazione più efficace di quello italiano, anche la memoria pubblica tedesca ha fatto fatica a relazionarsi con i colossali crimini commessi durante l’epoca nazista. Per molti decenni prevaleva la percezione autoassolutoria di un popolo vittima del suo stesso regime, un immaginario che condannava un’ideologia criminale, ma assolveva l’esercito che avrebbe combattuto onorevolmente e con motivazioni patriottiche. La svolta in questo senso arriva negli anni Novanta, dopo la riunificazione delle due Germanie e la convergente necessità politica di rassicurare l’opinione pubblica mondiale, da una parte, e costruire una memoria condivisa da tutti i cittadini, dall’altra. I passaggi più rilevanti in questa direzione possono essere considerati lo scandalo prodotto dalla mostra itinerante sui crimini della Wehrmacht (Wehrmachtsausstellung) e il successo editoriale di libri come I volonterosi carnefici di Hitler e Uomini comuni, entrambi incentrati sull’attiva partecipazione di molti “normali” soldati e funzionari tedeschi alla Shoah. Oggi la Germania pare davvero aver preso coscienza dell’enormità dei crimini commessi da “volonterosi uomini comuni” in nome di una patria soggetta a un’ideologia criminale. Le visite scolastiche ad Auschwitz, le cerimonie istituzionali a Cefalonia e in altri luoghi della memoria delle stragi commesse dall’esercito tedesco, una narrazione della fine della guerra e dell’esodo di milioni di profughi dall’Europa dell’Est onesta e priva di revanscismi, sono solo alcuni degli elementi di un approccio al passato decisamente più corretto di quello italiano.
Altrettanto complesso e non privo di chiaroscuri è stato il percorso di acquisizione di responsabilità del Giappone, sulla cui memoria collettiva grava però in maniera devastante lo shock dei bombardamenti atomici di fine guerra. Buona parte dell’opinione pubblica giapponese ignora ancora oggi molti dei terribili crimini commessi negli anni Trenta e Quaranta, dagli esperimenti pseudoscientifici condotti sui prigionieri al massacro di Nanchino, fino al fenomeno delle comfort women rapite in Cina e Corea.
Anche in Europa ci sono approcci differenti al passato più oscuro dei diversi paesi, in particolare per quanto riguarda il ruolo delle forze collaborazioniste. Si va dal contesto francese, dove quel fenomeno è ancora condannato senza infingimenti, a paesi dove chi ha combattuto al fianco dei nazisti in funzione anticomunista viene oggi riabilitato e talvolta considerato alla stregua di un eroe nazionale (per esempio in Ucraina), fino a realtà come la Polonia dove esistono leggi censorie volte a stabilire una versione ufficiale degli aspetti più controversi del conflitto: le diverse Resistenze, la collaborazione con i nazisti, la persecuzione antiebraica.
Anche rispetto a episodi storici più recenti esistono approcci differenti nelle politiche della memoria dei fenomeni di violenza e di guerra civile. Particolarmente virtuoso è considerato l’esempio della Commissione per la verità e la riconciliazione voluta da Nelson Mandela per riappacificare il Sudafrica finalmente libero dall’Apartheid. Ma esistono politiche memoriali più ambigue, come quelle condotte dalla Spagna nei confronti dei crimini franchisti o da alcuni paesi sudamericani dopo la fine delle dittature sanguinarie degli anni Sessanta e Settanta.
Di fronte a questo ampio spettro di atteggiamenti, la politica memoriale italiana pare più allineata sulle posizioni delle democrazie considerate fragili e immature che su quelle dei paesi occidentali ritenuti più avanzati. Tentativi di censura, come per i film citati poco prima, la volontà di costruire “verità di stato” nazionaliste, come nel caso delle foibe, e il perdurante immaginario vittimista del “bravo italiano” sembrano caratterizzare il nostro paese. E certamente pesa come un macigno la mancanza di un riconoscimento ufficiale e istituzionale dei crimini commessi nel passato. Con l’eccezione significativa quanto paradossale dell’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi nella Libia di Gheddafi nel 2008, nessuna alta autorità dello Stato ha mai riconosciuto ufficialmente le responsabilità dell’Italia per le violenze commesse in ambito coloniale. Ma nessuno ha mai chiesto scusa né mostrato interesse o rispetto nemmeno verso le vittime dei territori occupati sul nostro continente, molti dei quali, come Francia, Grecia, Slovenia e Croazia, fanno oggi parte dell’Unione europea. Eppure si tratta di fenomeni storici abnormi e pare impossibile che una moderna democrazia possa continuare a ignorarli.
In termini psicoanalitici questo atteggiamento può essere definito “l’elefante nella stanza” (dall’inglese, elephant in the room): un trauma irrisolto, ignorato, col quale ci si rifiuta di confrontarsi, che condiziona la crescita di un individuo, lo rende per sempre bambino, incapace di crescere, di imparare dai propri sbagli, di diventare maturo e responsabile. In questo caso è un paese intero, l’Italia, che si confronta con il suo passato come un bambino viziato e capriccioso, che rifiuta di ammettere i propri errori e pretende di essere considerato sempre innocente. Col passare dei decenni il paese è cresciuto, ma non sembra maturato. Perché nessuno ha mai avuto il coraggio di spiegare all’Italia che quand’era fascista ha commesso gravi crimini, e che sarebbe ora di riconoscerli e di chiedere scusa.
Questo libro vorrebbe dunque contribuire al riconoscimento istituzionale di quei crimini. Ma prima di tutto vorrebbe contribuire alla conoscenza e alla diffusione della consapevolezza di quelle tragedie nell’opinione pubblica italiana. Molto è stato scritto su questo tema, grazie a studiosi che hanno affrontato con onestà e coraggio il tema delle occupazioni militari italiane in epoca fascista. Essi si sono confrontati con difficoltà concrete di vario tipo: la competenza linguistica necessaria all’utilizzo di fonti provenienti dai paesi invasi, la reticenza e l’approccio autoassolutorio di molta memorialistica, gli ostacoli frapposti dalle istituzioni archivistiche militari e non solo. Per molti decenni, ad esempio, le fonti riguardanti il colonialismo italiano sono state monopolizzate dal Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, istituito nel 1952 con intenti evidentemente auto-apologetici. Infine, non si possono dimenticare le difficoltà accademiche, politiche e mediatiche che tali studiosi hanno dovuto affrontare nel corso del loro lavoro. La scarsa considerazione prestata alle preziose ricerche di Giorgio Rochat, Nicola Labanca o Teodoro Sala, le aspre polemiche che hanno accolto i volumi più divulgativi di Angelo Del Boca, fino alle difficoltà di carriera incontrate dai ricercatori della generazione successiva come Matteo Dominioni, Paolo Fonzi, Davide Conti e il sottoscritto sono spie di una resistenza verso la conoscenza della realtà fattuale da parte del mondo accademico, dei mass media e della società in generale. Oggi possiamo dire che, grazie al lavoro costante e coraggioso di questi e altri studiosi, i crimini di guerra fascisti sono usciti dall’oblio: libri, mostre, spettacoli teatrali, documentari, programmi televisivi, siti web contribuiscono a diffondere la conoscenza di questo tema. Tuttavia tale conoscenza rimane confinata in ambienti elitari e fatica a farsi spazio in uno terreno politico-mediatico ancora dominato da un immaginario vittimista.
Il libro che state leggendo vuole essere dunque un omaggio alla fatica di tanti studiosi che mi hanno preceduto e al tempo stesso un invito rivolto alla comunità dei lettori per provare a confrontarsi con questa storia adottando uno sguardo nuovo, attuale, scevro da pregiudizi ideologici e morali. Io non sono né un giudice né un prete, il mio compito non è quello di giudicare, condannare o assolvere nessuno. Il mio dovere, da storico, è quello di capire, spiegare, offrire strumenti per comprendere il passato ed eventualmente contribuire a migliorare la società futura. Non è dunque mia intenzione contrapporre allo stereotipo del “bravo italiano” una “galleria degli orrori” per mostrare la brutalità dei nostri connazionali. Né si tratta di rifare oggi, a distanza di ottant’anni, i processi mai celebrati all’epoca, o di spiegare ancora una volta perché la giustizia non ha fatto il suo corso a tempo debito. Lo scopo di questo libro è piuttosto quello di interrogarsi sulle ragioni, sulla mentalità, sui condizionamenti sociali che hanno spinto tanti (troppi) italiani a prendere parte a quei crimini. Militari e dirigenti politici, generali e soldati, funzionari, poliziotti, intellettuali hanno condiviso il modello politico fascista e hanno commesso crimini in nome di quei valori e per conto di quel regime. La domanda che intendo pormi non è se tali individui fossero realmente dei criminali, ma perché hanno commesso crimini, dato che non erano criminali. Queste persone infatti non facevano i ladri, i rapinatori o i killer di mestiere; alcuni erano ufficiali di carriera, professionisti della guerra, ma la maggioranza era composta da gente comune mandata al massacro e a massacrare. E hanno fatto proprio questo: massacrare (anche) civili inermi. Perché? Cosa li ha spinti a diventare criminali? Cosa li ha spinti a infrangere non solo le leggi di guerra, ma anche la legge morale, quel senso di solidarietà umana che probabilmente condividevano con le loro vittime? È tutta colpa del contesto di violenza in cui si trovavano a operare, come molti di loro hanno sostenuto in seguito, o c’è qualcosa di più dietro i loro comportamenti? E come mettere in relazione tali attività con analoghe operazioni repressive condotte dalle forze d’occupazione in ogni contesto di guerra? C’è qualcosa di speciale, di unico, nelle violenze commesse dagli italiani negli anni del fascismo?
Questo libro è dedicato alle vicende di quegli uomini e vuole provare a dare una spiegazione storica al loro operato. Non per attribuire responsabilità collettive né tantomeno per giustificare singoli criminali e le violenze da essi commesse. Ma per cercare di comprenderle nel contesto storico, geografico, politico e bellico che li circondava, per trovare una spiegazione a tanta banale, quotidiana crudeltà. Molti di questi uomini sono stati infatti banali carnefici, ma al tempo stesso anche vittime. Vittime della guerra, vittime di un’ideologia, di un pensiero politico e culturale; vittime, in definitiva, anche di se stessi. Una condanna in tribunale, una condanna politica di quel sistema di valori, una presa di distanza istituzionale da quei crimini avrebbe perlomeno reso queste persone consapevoli della gravità dei propri comportamenti. Ma non è stato così. Tranne rari e virtuosi esempi, gli italiani che hanno preso parte alle guerre fasciste hanno conservato anche in seguito la sensazione d’innocenza, l’idea di non aver commesso nulla di male, di non essersi macchiati di alcun crimine, di essere stati anzi vittime. Tutto ciò di fronte all’evidenza dei fatti.
Ovviamente le responsabilità sono diverse – ne parleremo –, i generali che davano ordini criminali sono certo più colpevoli di chi era spinto dal sistema gerarchico ad eseguirli. E poi ci sono gli innocenti o coloro che consapevolmente cercarono di opporsi a quelle pratiche violente. È vero, la società italiana in quegli anni era in gran parte fascista, imbevuta di idee razziste e nazionaliste, favorevole ai progetti imperiali e coloniali. Ma c’erano anche i dubbiosi, gli indecisi, addirittura i contrari. In una società strutturalmente violenta e rigidamente conformista, in cui prevaleva il senso della disciplina e il rispetto delle regole imposte dall’alto, c’era chi remava contro. Non solo gli antifascisti, spesso in carcere, in esilio o al confino. Anche nei territori in guerra c’era chi, a rischio della vita, denunciava, criticava, cercava di limitare i danni, offriva aiuto e conforto alle vittime o addirittura sceglieva di schierarsi dalla parte di chi combatteva l’esercito invasore. Ecco, insieme ai carnefici e alle vittime, in questo libro parleremo anche di quegli individui, coloro che potremmo definire i “giusti”, che hanno contrastato il sistema criminale fascista.
Nel raccontare questa storia di violenza attraverso i percorsi biografici di alcuni dei protagonisti, si è scelto di partire dall’ultima delle imprese fasciste, laddove il fallimento del regime e del suo esercito si è mostrato in maniera più evidente: l’invasione della Jugoslavia. È un punto d’osservazione significativo, direi emblematico. La Jugoslavia è un terreno di espansione fondamentale per il regime fascista, da un punto di vista simbolico, politico e militare. Qui viene applicata compiutamente una strategia repressiva già sperimentata in ambito coloniale; qui metodi quali la deportazione e l’internamento, il saccheggio e la devastazione, la cattura di ostaggi e la rappresaglia raggiungono la loro applicazione più ampia, in termini numerici, ma soprattutto come codificazione, come regola.
Nei teatri coloniali i crimini commessi dall’esercito italiano sono certamente più gravi, l’intensità della violenza è maggiore, il cinismo degli esecutori più evidente. Il fatto che tali crimini siano avvenuti lontano dall’Italia e fuori dall’Europa, ai danni di popolazioni culturalmente differenti non li rende meno gravi. Eppure consente psicologicamente di attribuirli non solo a un’altra epoca, ma a un altro mondo, uno spazio estraneo alla nostra autopercezione nazionale. Lo stesso non si può dire dei territori occupati oltre Adriatico. I crimini fascisti in Jugoslavia vengono compiuti nel cuore dell’Europa, a un passo dall’Italia. Anzi, in alcuni casi, addirittura all’interno dei confini italiani dell’epoca, in terre che oggi, nella retorica politica neonazionalista, si vorrebbero rivendicare come appartenenti alla madrepatria. Tanti luoghi della memoria delle violenze italiane si trovano a pochi minuti di macchina da Trieste. Quei crimini non sono solo un “elefante nella stanza”: sono l’elefante dentrola nostra stanza. Non possiamo ignorarli.
Eppure ci riusciamo benissimo. Nella memoria pubblica quei crimini sono caduti rapidamente nell’oblio, assenti nella cinematografia, nella divulgazione televisiva, nella manualistica scolastica e soprattutto nelle politiche memoriali. Non c’è mai stato un riconoscimento ufficiale delle violenze commesse dagli italiani in Jugoslavia e nessun importante rappresentante delle istituzioni repubblicane ha mai fatto visita al campo di concentramento di Arbe, per fare un esempio fra i tanti, forse il più ovvio. La sovraesposizione mediatica della vicenda delle foibe ha poi favorito, negli ultimi vent’anni, un vero corto circuito memoriale, per il quale i fascisti invasori finiscono per essere identificati con le vittime inermi delle foibe, giustificando così gli aggressori e condannando gli aggrediti. I crimini commessi in Jugoslavia rappresentano dunque un buon punto di partenza, anche perché contribuiscono a scardinare un immaginario vittimista costruito proprio sull’oblio di quegli stessi crimini.
La psicoanalisi insegna che non è mai tardi per affrontare un trauma, e con questo libro possiamo provare a farlo insieme. Viaggiando nell’inferno del passato del nostro paese, confrontandoci con le responsabilità italiane, per identificare le colpe individuali e comprendere i meccanismi collettivi di esclusione, guerra e violenza. Non spetta a me fare processi, lo ripeto. Mi limito a mostrare i crimini compiuti in nome dell’Italia in quei drammatici decenni e a cercare di capire perché sono stati commessi. Senza assolvere né condannare gli uomini. Ma cercando di capire quali idee li animavano, li spingevano al crimine. Le idee sì, le possiamo, le dobbiamo condannare. Perché quelle idee, se considerate innocenti, rischiano di tornare alla ribalta, e spingere noi oggi, i nostri figli o i nostri nipoti domani, a commettere nuove prevaricazioni, nuove violenze, nuovi crimini.
1.
Dall’Africa ai Balcani
Mi sembra di vederlo, pare un eroe. Ha sessantaquattro anni ma, «nonostante l’età, è nel pieno vigore delle sue forze, massiccio, alto, senza un capello grigio. Ha un occhio sicuro: a trenta metri, colpisce con la pistola una scatola di cerini». E se la cava pure con la spada, visto che in gioventù ha vinto diverse competizioni olimpiche in quella specialità. La descrizione agiografica del generale Alessandro Pirzio Biroli ricalca davvero l’immagine stereotipata del grande comandante militare.
Mi sembra di vederlo, dunque, dritto, robusto, sicuro di sé, mentre entra trionfante in Montenegro, alla fine di luglio del 1941, per assumere il comando delle sue truppe e condurre l’offensiva. È stato chiamato a risolvere un problema, il generale Pirzio Biroli, e ha tutta l’aria di volerlo affrontare con la massima decisione, costi quel che costi.
Il Montenegro è una regione della Jugoslavia meridionale, sulle coste orientali dell’Adriatico. Viene occupato dalle truppe italiane alla fine della campagna balcanica, nell’aprile del 1941, quando l’intervento tedesco salva l’Italia da una clamorosa sconfitta militare e conduce in pochi giorni alla resa della Jugoslavia e della Grecia. Gli italiani entrano in Montenegro a cose fatte, il 17 aprile, il giorno in cui l’esercito jugoslavo firma la resa. Le autorità fasciste assumono allora il controllo di circa un terzo della ex Jugoslavia: alcuni territori vengono annessi, altri attribuiti all’Albania già inclusa dal 1939 nel sistema di potere italiano, altri alla Croazia collaborazionista.
Per il Montenegro i dirigenti italiani hanno piani ambiziosi. Vorrebbero farne uno Stato indipendente unito all’Italia da un’unione dinastica grazie a Elena (ovvero Jelena), la moglie di Vittorio Emanuele III, una delle figlie dell’ex re montenegrino Nikola. È un piano che impiega per qualche settimana le migliori menti della diplomazia fascista, alla ricerca affannosa di un possibile erede della dinastia montenegrina che si dimostri però anche fedele all’Italia. «Non avrei mai pensato di bruciare tanto fosforo per un paese come il Montenegro», commenta sarcastico nel suo diario il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano. Per di più è uno sforzo che si rivela inutile. Alla fine tutti i possibili candidati rifiutano di prendere parte alla farsa e il Montenegro viene dichiarato un regno indipendente, ma senza un re e senza un reggente. Il fallimento appare evidente.
Per di più l’occupazione straniera, la mutilazione di alcune regioni a vantaggio dell’Albania e la presenza di migliaia di profughi provenienti dal Kosovo creano presto un clima di ribellione che non sfugge a Serafino Mazzolini, la massima autorità italiana presente nella nuova capitale, Cetinje. In occasione della cerimonia per l’indipendenza, nel luglio del 1941, il diplomatico scrive: «Quel che capita oggi al Montenegro è talmente grave che non so dissimularmi né posso dissimulare le incognite pericolose del domani. […] Ho tutto predisposto perché le apparenze diano la sensazione di totalitaria adesione. Spero e mi auguro che non ci siano sorprese. Ma la realtà è ben diversa», avverte, prima di concludere teatralmente: «Io sono un soldato e rimango sulla trincea». Il giorno dopo scoppia la prevista rivolta, che in breve si diffonde in tutto il paese.
Quello del Montenegro è dunque un caso da manuale, che si ripete molte volte nella storia: invasione, occupazione militare, tentativo di coinvolgere élite locali marginali, di fatto screditate dalla stessa collaborazione con l’invasore straniero, esplosione di una rivolta guidata da leader altrettanto minoritari ma carismatici e popolari. Seguirà una repressione spietata da parte dell’esercito occupante, che a sua volta porterà al rafforzamento e alla radicalizzazione della ribellione. La conseguenza finale è una carneficina: decine di migliaia di vittime, in gran parte civili. Alla conclusione del conflitto il Montenegro sarà il territorio più devastato della Jugoslavia, a sua volta uno dei paesi col maggior numero di morti durante la seconda guerra mondiale: circa un milione di caduti (su 15 milioni) è il risultato finale dell’invasione della Jugoslavia da parte dell’Italia e dei suoi alleati.
Disperse in una miriade di piccoli presidi, colte di sorpresa dall’improvvisa rivolta, nel luglio del 1941 le truppe italiane si arrendono quasi ovunque. Sono 30.000 i ribelli, dicono gli storici, e nel giro di pochi giorni riescono a prendere il controllo di gran parte del territorio. «Se non avesse un profondo amaro significato, sarebbe grottesco: è in atto una guerra fra l’Italia e il Montenegro!», commenta ancora il ministro Ciano, quello che aveva sprecato tante energie, tanto “fosforo”, senza trovare una soluzione che soddisfacesse il desiderio dei Savoia di un regno legato all’Italia.
In una situazione che appare disperata, il Comando supremo decide di affidare la repressione a un generale di sicuro successo.
Erede di una famiglia con importanti tradizioni militari, figlio di un volontario garibaldino e padre a sua volta di un ufficiale di carriera che morirà nei giorni concitati del dopo-Armistizio in Albania, Alessandro Pirzio Biroli ha dedicato la vita all’esercito. Nato nel 1877, a undici anni è già in collegio militare a Roma. Prosegue poi gli studi all’Accademia di Modena: appena maggiorenne è sottotenente di un corpo d’élite come quello dei bersaglieri. È una storia comune, la sua. La storia di tanti ufficiali di carriera che hanno attraversato quegli anni a cavallo tra la fine del secolo e l’avvento del regime fascista. Uomini entrati fin da bambini nell’ingranaggio di un’istituzione “totale” come l’esercito, menti plagiate dal senso del dovere, dell’onore, del rispetto per la gerarchia prima e sopra ogni cosa. E dall’amore per una patria matrigna e violenta che tutto chiede e poco dà.
In quei primi decenni postunitari l’Italia opera ancora per il completamento dell’unità nazionale, puntando soprattutto verso est. Un obiettivo che pare ampiamente raggiunto e superato alla fine della Grande Guerra con l’annessione delle cosiddette terre irredente, ovvero località a maggioranza italiana come Trento e Trieste, ma anche province che hanno ben poco a che fare con l’identità nazionale, quali il Sudtirolo, l’Istria interna e una parte della Venezia Giulia. Ma come in altri casi, anche il nazionalismo italiano si nutre di un immaginario imperiale che va ben oltre la realtà e il rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli. Fare grande l’Italia, edificare una patria forte ed egemone vuol dire prima di tutto far coincidere i suoi confini con quelli raggiunti in un mitico passato glorioso. Agli italiani vengono indicati due modelli a cui ispirarsi: l’Impero romano e la Serenissima repubblica di Venezia, sebbene ovviamente si tratti di esperienze storiche assolutamente non identificabili con la moderna idea di nazione. L’impegno di tanti intellettuali nazionalisti (tra cui archeologi, storici ed etnografi sono in prima linea) e la presenza di vestigia antiche e di piccole comunità italofone in molte località del bacino mediterraneo, dall’Istria a Tunisi, da Malta a Rodi, sembrano giustificare questi ambiziosi obiettivi. L’imposizione di un’egemonia sul Mare Nostrum diventerà da lì a poco anche uno dei pilastri dell’espansionismo fascista.
Nazionalismo, imperialismo, colonialismo e razzismo si intrecciano in quei decenni nel formare un’idea di patria violenta e aggressiva, capace di farsi rispettare dai forti e di dominare i deboli. In questa logica, l’Italia liberale opera anche per procurarsi “un posto al sole”, ovvero una terra africana da conquistare. Solo i grandi Stati hanno colonie, e il nuovo regno unitario vuole far parte di questa schiera. Anche per liberarsi dello stigma di paese mediterraneo e dunque inferiore (e in qualche modo “meticcio”), l’Italia ha bisogno dei “suoi neri”, sui quali imporre il proprio dominio, per essere riconosciuta a tutti gli effetti come nazione “bianca” ed essere ammessa a pieno titolo nel novero delle grandi potenze europee.
Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento il progetto coloniale coinvolge dunque l’intera società italiana. L’Africa è percepita come un territorio “vuoto” da occupare e verso cui indirizzare la propria popolazione in eccesso, i tanti emigranti che a milioni affollano i bastimenti in direzione delle Americhe. Nella logica razzista dell’epoca non è ammissibile che i popoli africani si governino autonomamente. Essi non sono umani come gli europei: fanno quasi parte del paesaggio e, al pari dei cammelli o degli elefanti, possono essere sfruttati come forza lavoro. La superiorità razziale dà diritto alla conquista, ma è anche percepita come un dovere: il dovere della civilizzazione, il cosiddetto “fardello dell’uomo bianco”. La percezione condivisa è quella di essere nel giusto, di operare per un bene superiore, un dovere morale e nazionale al tempo stesso. È in questo scenario, psicologico prima ancora che politico, che vanno inquadrate le guerre di conquista italiane di fine Ottocento e inizio Novecento (nel Corno d’Africa e poi in Tripolitania) e le occupazioni fasciste che, da lì a poco, devasteranno la Libia e l’Etiopia.
È sfortunato, però, Pirzio Biroli: cresciuto nel cuore della belle époque, durante un lungo periodo di pace mondiale, deve aspettare fino a trentacinque anni per combattere finalmente una guerra vera. Dopo un brevissimo impiego in Libia durante la guerra anti-ottomana del 1911-1912, finalmente arriva la Grande Guerra. Nel 1917 Pirzio Biroli è ufficiale di collegamento con le truppe serbe sul fronte di Salonicco, di nuovo, come pochi anni prima, contro l’esercito turco.
Finita la guerra, l’allora colonnello Pirzio Biroli viene inviato per cinque anni in Ecuador, a capo della missione militare italiana in quel paese. Data la lunga esperienza acquisita all’estero è considerato un esperto di tematiche extraeuropee, tanto che nel 1935 è destinato in Eritrea, per partecipare all’imminente offensiva contro l’Etiopia. Promosso generale, comanda il Corpo d’armata indigeno che raggruppa decine di migliaia di àscari, le truppe coloniali che affiancano l’esercito italiano durante l’invasione.
Per Pirzio Biroli è la grande occasione, nella quale può dimostrare finalmente le sue doti di condottiero. Come è noto, però, l’avanzata è più lenta del previsto e lo stesso neogenerale non riesce a distinguersi in maniera particolare. In definitiva gli italiani hanno la meglio sugli avversari solo grazie alla schiacciante superiorità tecnologica e all’uso massiccio e premeditato di armi chimiche proibite dalle convenzioni internazionali. Il successo personale di Pirzio Biroli è comunque straordinario, anche se dovuto soprattutto alla parentela con Alessandro Lessona, l’allora potente ministro delle Colonie. Dopo la vittoria contro l’esercito etiope, Pirzio Biroli viene soprannominato “il leone di Gondar”, dal nome della capitale della regione dell’Amara di cui diventa governatore. Ex atleta, ex campione di scherma, esaltato dalla propaganda e omaggiato dai colleghi, Pirzio Biroli è l’unico generale a lasciare temporaneamente l’Africa per una trionfale tournée in Italia a base di ricevimenti e onorificenze. «Pirzio il leone, altissimo, quadrato, col profilo calmo incorniciato dalla folta criniera nera», lo descrive ispirato un suo giovane ufficiale, il futuro giornalista Indro Montanelli. A lui viene dedicato addirittura un libretto agiografico dal titolo: L’Etiopia liberata dal novello Alessandro: Pirzio Biroli. Poema eroico.
Ma il successo dura poco. Come poi accadrà in Montenegro e in molte altre località, anche in Etiopia la guerra non termina con la conquista di Addis Abeba e la proclamazione dell’Impero dal balcone di Palazzo Venezia. Nelle settimane e nei mesi successivi, la Resistenza non accenna a spegnersi e anzi si allarga e si diffonde in tutto il paese. La ribellione provoca una reazione sempre più violenta e spietata, in particolare dopo l’attentato al governatore Rodolfo Graziani, il 19 febbraio 1937. È in queste operazioni che il generale Pirzio Biroli acquisisce la sua fama di comandante inflessibile: ordina di fucilare i partigiani etiopi catturati, impiccare pubblicamente i comandanti, radere al suolo «i paesi che hanno fatto causa comune con i ribelli». Il “leone” Pirzio Biroli si distingue anche nell’utilizzo delle armi chimiche, ad esempio l’iprite nel dicembre 1937. Si tratta di una delle sue ultime operazioni in Etiopia: pochi giorni dopo il generale viene rimosso dall’incarico e rimpatriato.
L’invasione dell’Etiopia e la violenta campagna di conquista provocano reazioni negative in tutto il mondo e l’isolamento internazionale dell’Italia finisce per favorire l’avvicinamento alla Germania nazista; un’alleanza che è comunque la naturale conseguenza dei modelli politici adottati dai rispettivi paesi. Anche il fronte antifascista e anticolonialista non resta a guardare, e il Komintern, l’Internazionale comunista guidata dall’Unione Sovietica, decide di inviare in Etiopia alcuni suoi rappresentanti. Il leader del gruppo si chiama Ilio Barontini. Livornese, tra i fondatori del partito comunista italiano, esule in Francia dopo la condanna da parte del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, negli anni Trenta Barontini diventa un militante internazionalista. Si forma in Urss, poi combatte in Cina nella resistenza antigiapponese con Mao Zedong e in Spagna nelle brigate internazionali. Alla fine del 1938 viene inviato in Etiopia con altri due attivisti. Per più di un anno opera al fianco dei partigiani etiopi, gli arbegnuoc, offrendo la sua esperienza come propagandista, organizzatore politico e comandante militare.
Rientrato in Italia nel 1943, Barontini è tra gli organizzatori della resistenza armata in diverse città del Nord Italia, tra cui Milano, Torino e Bologna. Il suo principale avversario militare è nuovamente Rodolfo Graziani, l’ex governatore dell’Etiopia, ora comandante dell’esercito della Repubblica sociale italiana di Mussolini. Processato per i soli crimini commessi in Italia, nel dopoguerra Graziani sconta appena quattro mesi di carcere. Dopodiché aderisce al primo partito neofascista, il Movimento sociale italiano (Msi), e nel 1953 ne diventa presidente onorario. Anche Barontini prosegue l’attività politica come parlamentare, ovviamente nel Partito comunista italiano (Pci), ma muore in un incidente stradale nel 1951, a soli sessant’anni. Per tutta la vita ha agito in una prospettiva internazionalista, opposta a quella dei generali fascisti: la sua esperienza e quella di altri personaggi altrettanto straordinari dimostrano come anche allora fosse possibile pensare e agire in termini non razzisti e solidali verso i popoli aggrediti e oppressi.
Nonostante le illustri parentele e le buone amicizie, dopo il trasferimento dall’Etiopia Pirzio Biroli viene tenuto ai margini per qualche anno. Nell’estate del 1941 si trova in Albania, un fronte minore, con compiti di presidio. È da Tirana infatti che lancia il suo proclama alle truppe che dovranno partecipare alla riconquista del Montenegro. «La repressione deve essere di estremo rigore e di esemplarità solenne, ma senza carattere di rappresaglia e senza inutile crudeltà», annuncia il 15 luglio. Ma cosa prevede di preciso quell’operazione? E che bisogno c’è di escludere testualmente la “crudeltà” dall’attività prevista per le truppe italiane nei giorni successivi?
Come generale, Pirzio Biroli ha pochissima esperienza di guerre tradizionali, non ha praticamente mai guidato un’unità militare contro un esercito moderno di pari forza. In compenso può essere considerato un esperto di guerra asimmetrica, come si direbbe oggi: ha comandato una grande unità coloniale contro l’esercito etiope armato in maniera antiquata, ma soprattutto ha sperimentato sul campo ogni metodo repressivo per sconfiggere la resistenza all’occupazione. È questo il biglietto da visita di Alessandro Pirzio Biroli, è così che si è costruito la sua fama di vincente: non con brillanti operazioni militari, ma grazie allo spietato uso di metodi repressivi contrari alla morale e alle leggi internazionali. A quanto pare il Comando supremo ritiene che sia questa la strategia più adatta anche al Montenegro: è l’uomo giusto al posto giusto, insomma.
Nel 1941 l’esercito italiano non ha ancora adottato organiche strategie di controguerriglia. Non c’è stata un’elaborazione formale per questo tipo di guerra, né corsi specifici nelle accademie militari e nemmeno sono stati pubblicati manuali o normative generali. Pirzio Biroli si affida allora all’esperienza maturata dall’esercito italiano in ambito coloniale, di cui lui stesso è stato uno dei protagonisti. Ma è davvero possibile applicare le stesse strategie repressive in Europa?
È ancora aperta la discussione storiografica su quanto le occupazioni militari italiane nei Balcani possano essere considerate in continuità con le precedenti esperienze coloniali. Le similitudini, specialmente nelle pratiche repressive, sono evidenti e più volte sottolineate dagli stessi protagonisti, molti dei quali, peraltro, operano in entrambi gli scenari: oltre a Pirzio Biroli e a Carlo Geloso, governatore italiano della Grecia, ben quattro comandanti di corpo d’armata e molti generali di divisione in Jugoslavia avevano fatto carriera in Africa. Un elemento che sembra accomunare i diversi territori occupati è certamente la prospettiva di dominio assoluto: in tutti questi contesti infatti non si tratta di sconfiggere un esercito nemico, bensì di sottomettere l’intera popolazione, renderla schiava e dipendente dagli invasori. In tale logica tutti gli abitanti sono percepiti come possibili nemici e potenzialmente solidali con la Resistenza, a meno che non dimostrino il contrario, collaborando apertamente con gli occupanti.
Ma ci sono anche evidenti differenze. Il presupposto essenziale delle operazioni coloniali è la presunzione di una netta superiorità razziale rispetto ai popoli oppressi. È quella concezione, profondamente interiorizzata e condivisa dalla maggioranza degli europei, che consente di adottare metodi spietati e “inumani” nei confronti delle popolazioni africane che si ribellano all’invasione. L’internamento di massa, i ripetuti massacri, l’eliminazione di specifiche categorie di individui, le persecuzioni contro interi gruppi etnici hanno fatto parlare, in relazione alle guerre coloniali, di vere e proprie pratiche genocidarie. Documenti e testimonianze sembrano confermare tale ipotesi. Scrive, ad esempio, il maresciallo Pietro Badoglio ordinando le deportazioni della popolazione libica il 20 giugno 1930: «Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via è tracciata e noi dobbiamo proseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica».
In una prospettiva simile operano gli italiani in Etiopia. È appena terminata la campagna di conquista quando Mussolini comanda di «condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio». Un anno dopo, il viceré Rodolfo Graziani ribadisce «la necessità di perdere ogni carità e sentimentalismo nei riguardi degli Amara», il gruppo etnico maggioritario: «Eliminarli, eliminarli, eliminarli, come dal primo giorno che ho assunto il mio ufficio vado predicando contro tutte le illusioni altrui». Dopo l’attentato subìto il 19 febbraio 1937, lo stesso governatore ordina l’annientamento dell’intera élite culturale del paese, colpendo in particolare alcune categorie di individui: gli intellettuali, gli indovini (colpevoli, secondo gli italiani, di aizzare la popolazione contro gli invasori) e i leader religiosi copti. Questi ultimi, nelle parole di Graziani, avrebbero dovuto desistere «dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti». È in questo contesto che avviene forse il più grave eccidio di religiosi cristiani della storia moderna. Il 21 maggio 1937 uno dei simboli della Chiesa nazionale etiope, il monastero di Debre Libanos, viene preso d’assalto dalle truppe italiane: nei giorni successivi circa 2.000 religiosi vengono uccisi a sangue freddo. Non è l’unico caso; le uccisioni proseguono anche dopo, ed è lo stesso Graziani a elogiare Pirzio Biroli per aver ordinato l’impiccagione di venti etiopi e la fucilazione di quattro preti copti: «Bene ha fatto Sua Eccellenza Pirzio Biroli ad imitare l’esempio di Debre Libanos», scrive il governatore dell’Etiopia in quell’occasione.
L’autore Eric Gobetti
Eric Gobetti è uno storico freelance, studioso di fascismo, seconda guerra mondiale, Resistenza e storia della Jugoslavia nel Novecento. Autore dei documentari Partizani e Sarajevo Rewind e di diverse monografie, è esperto in divulgazione storica e politiche della memoria. Per Laterza ha pubblicato Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943) (2013), nella serie “Fact Checking”, E allora le foibe? (2021) e I carnefici del Duce (2023).