Cristina Annino se n’è andata il 28 gennaio 2022
-Biblioteca DEA SABINA-
Addio a Cristina Annino, se n’è andata in punta di piedi, il 28 gennaio 2022.
Una donna poeta, un’artista. Addio, Cristina…
Cristina Annino, all’anagrafe Cristina Fratini (Arezzo, 11 dicembre 1941 – Roma, 28 gennaio 2022), è stata una scrittrice, poetessa e pittrice italiana.
Ottetto per Madre
Il Panda
Senza pace, con pena e senza girarmi
mai, pestando
mica pepe o caffè ma gardenie, io amo
la mamma e i topi; li metto insieme chissà
perché. O ancora, Perché volere bene a quel
modo? Spezzato così in due, collo in già,
polvere senza cerniere, bottone, qualcosa.
Sempre
senza girarmi. I Perché chiarendo la vita ai
tranvai, alle piante. Lei, pura,
mi dà
questa riserva di bambù. Nient’altro.
Poi via. Io
su, che l’ho addosso oramai e non posso
schivarla, pestarla nemmeno, mettendo
con cura ogni piede tra l’erba.
2
Si fa sabbia così, si sfalda
al vento di casa mia. Accusa
altre cose deboli, la cecità, per
esempio. Io non so
cosa dire quando siede su me come
fossi cemento. Oppure
vola, ci credo, va via, si stende
altissimamente e in largo. La
guardo con quella
paura dei nani per un monumento.
3
Lei ora elegante, vistosa come le madri, si stacca dal
niente e ride. Qualcosa
dei venti, d’urgente, una fuga, un ritorno, mi lega
a lei che darei
tutto il corpo per quella risata.
E’ salita
col petto in su verso l’estasi delle nubi,
a quella distanza più nere che altro; poi
È scesa; pioveva. Ha
saltato la corda coi piedi fiammanti di santa e al collo
perle vere.
4
La vecchia Lina è caduta, cantando, di
schiena, com’una forza muta d’un tratto
cedesse, togliendo le staffe dietro. Era a cavallo e
sbatte in terra. Si prende
al viso tirando invano le cataratte. Eccola
lì, la vecchia canina mamma.
5
Una donnina tutta lepre, sveglia,
s’ accontenta della giornata e beve acqua
com’ una spugna. “Ehi!, non ho mica cent’anni
per aspettare che te ne vada! Sembri Lazzaro”.
Più tardi
sfoneremo i capelli alla sera. Rivede
tante cose crollare per un capello, saranno
persone, cose, non sa, ma non meraviglia
che resti il sughero ancora sulla bottiglia
del fumo. Ce la passiamo
a vicenda. Anche la
città s’incendia ai suoi piedi ora
ch’è buio e lei evapora sulla
pira, entrando in me con gas
letale. Siringa. Chiudo
in tempo col tappo il foro,
e niente è più bello qui: lo
sguardo di lei sull’anello al dito, su
me, poi qualcosa di buono, la stufa, quel
caldo oramai più fratello d’un uomo.
6
Potrei tirar su con le mani
tutta l’acqua del mare. Anche più. E
attraverserei il fuoco da qui a lei in questo
oggi frocio. L’hai
vista l’altro giorno com’era? Piccina. Tutto il
mondo piccino. Le rotaie del destino oramai
fanno clic. Ma lo sai
quanto costa un’ochetta così? Che
sotto terra, dopo le cene, il quadrato di tanta insonnia,
con lei persino
lì starei bene.
7
Volano gli spiriti affettivi di qua e di là su
noi paurosamente soli, salvati
allora dalla coltre ch’ha parato
il salto. Quel
cinema o quella morte la ribeviamo in
piedi nei ricordi di lei ogni sera. Ossessivi.
E’ per me esplosione sull’intera linea di fuoco,
perché troppo volano gli spiriti affettivi, bruciati
come cera dal fosforo.
Penitenza
Vera, quei canti della mamma al suolo che
cantilena ginocchioni senza memoria.
8
RICHTER
Ancora
scale richter. Fuori il sole
fa foia. Ma qui! muore la
mamma com’un uccello. Pari dignità. Bisogna
dirlo che sta andando via. E’ tutta
nel becco, tutta lì, tutta vecchie
penne senza più cervello.
Non vi capiti mai d’essere misurati;
tanto
è l’ardore tra noi. Più
liturgia di dolore sacro, con scranni
cerebrali e vesti da cerimonia; chiusi
sempre tra le pareti come mosconi.
Sono
Poco e troppo le cose che vi posai con le mie
Ali: tappeti celesti e candelabri vuoti. Anche
dentro l’esilarante Richter, che assuefà
perdio, metà
come sono, ho sete, ma non
bevo io disegni divini mai
innocui.
da “Non me lo dire, non posso crederci” (Techne, Firenze 1969)
XI
Ero per l’appunto aumentato di spessore,
colato in un caldo gesso,
all’interno mi sentivo
pieno di finestre, di arredi con pavimenti
lucidi, corsie esclusive, con una decorazione invadente.
Ero solo, e gli altri mi sorvegliavano
anche all’aria aperta
nel regno della tua pelliccia verde
adatta per una razza maggiore,
per animali metallici; mi hai detto
col tuo viso lungamente polare “mio caro,
mio bell’amore celibe, oggi non si può essere imperiali”.
Ma il colpo è stato scoperto
stamani davanti alla vetrina il foro dei ladri,
proprio un colpo al centro del cuore, mi hanno tolto,
con la tua complicità,
la mia fontana di Chantilly,
l’inerzia mentale sugli incunaboli.
XV
Non vale neanche un indice di fallimento,
credetemi,
promuovere disordini antistatali,
oggi, in un contesto come questo:
reclamare per la fame, per i prezzi sulla fame,
è un’arma indefinita.
Ne ho visto uno barricarsi in casa per tre giorni,
come un forsennato,
non questo ci vuole;
bisogna accettare (venitemi in aiuto)
le forme più esasperate.
Attraverso le grate di un confessionale
– ancora vi giuro -,
il mondo è oltre che il reale aggregarsi, tanto di più:
si gira con la gonna molto sopra al ginocchio,
la testa bicolore,
gli occhi già mezzo persi dallo spazio che vi circola;
con calma e senza calore
questa vecchia avanguardia rinnega ogni vecchio programma.
Bisogna assistere la scuola,
assistere le assemblee,
assistere gli enti mutualistici.
C’è tendenza all’interscambio, poi
dolce e acuto il rilancio del passato (se buono),
del nuovo;
la sottana un poco più aperta: grazie!
Si può anche tentare di battere la fame.
da “Ritratto di un amico paziente” (Gabrieli, Roma 1977)
MEDEOT
Ecco: Medeot pensa alla maturazione,
sa che non è una cosa semplice né logica;
si interessa persino di botanica
Medeot ha un cane tutto defilato,
si muovono insieme fin dall’alba:
ai giardini, sul terrazzo della casa
o nello studio di Medeot, il cane
si avvolge come un minuscolo faro,
a volte muove il capo.
Medeot ha idee per la testa
che si aprono come fantasmi
e gli lasciano addosso
un colore perlato, impalpabile.
Si chiede, a volte, se pensare abbia
una qualche radice nel cuore,
se ne valga la pena.
Ed è tremendo sentirlo parlare, somiglia
a chi crede, a chi deve ancora
bruciare qualcosa; si stacca da sé
come l’ombra che gli assale la testa ogni sera
e l’allunga per terra.
*
Lasciare un ospedale come un lento
giro di umidità, poi le finestre
chiare senza uccelli, in una mattina
fredda, dicembre 21, desiderare
te all’uscita che risolvi ogni frase maledetta,
col cappotto e le giarrettiere indorate,
feroce dolce scandalo,
e il tuo corpo invade la cinta dei muri.
Ma non ci sei;
ti ricompongo allora:
le mani fuori che saluti sul cappotto duro,
cara presenza di questa radice
comune in cui si salta, buffi addendi
o ruote secolari.
Ecco, fuori dai vetri, aria fredda e lo spavento
che senti ti si ghiaccia negli occhi
dove saggiamente sbatti, e non lo sai,
il tuo modo di sorridere
rapito fisso come i gufi.
Tralasciare oggi pensieri muti
eppure vivi in qualche nervo gonfiato,
vuoti come vuote stanze di ospedale,
in una mattina senza ali, che pensi
la nebbia sale via da ogni densità
e ci fa meno densi,
passare dalla portineria…
L’UOMO FELICE
Si guarda camminare il primo asciutto
uomo che capita, si gioca a dargli un volto
qualche emicrania, un’identità. Basta
l’unghia fioca del suo colletto; se è isterico tanto
meglio,
se gira le palme in su camminando.
Si pensa: quest’uomo si siede, può ascoltare,
parla: è una punta metallica, si tiene intorno
il bel tempo, il temporale come una stuoia.
Dentro vive, nella sua intimità,
si vede sfollare dalla casa e procedere
imbuto in strada: macina ingoia e prende.
Ha le dita in tasca e capelli teneri sulla fronte.
Poi osserva una donna, poi si sdraia;
dice parole che gli escono dalla gola
e lo lasciano come un fiume gualcito.
Ha un’ampia grazia senza viso; ammettere, per
scusarsi,
che ogni mutamento è lento nell’essere umano,
che ora ha la sua piccola fola, che ama, poi,
è naturale, cambierà registro.
Ma ha un ritmo mai visto nel sorridere,
da valvola e sensi staccati da sé,
elastici che pendono da una sedia. Mangia
e parla con alacrità. Si guarda
camminare il primo asciutto uomo che capita,
spande aria, finto ossigeno, mette
le palme sul torace fingendo inedia.
GUARDANDO UNO SCONOSCIUTO DOPO AVER LETTO UN FATTO DI CRONACA
I
Non diamogli un’età: vedo un uomo
dalla finestra salire su dal giardino
mentre il dito del sole rovescia
insetti con odore fradicio.
Conta solo quel morto a cui non so dare
un’età. Lo immagino sulla giacca dell’uomo,
che marcia curvo come un vecchio soldato,
ha i capelli feriti in un punto,
perdono un liscio liquido e il colletto
quasi la lingua di un imbianchino
brilla un po’.
Non entra in casa, asfissiato si guarda
le mani; il pomeriggio caldo
ha degli strani bagliori di carta.
II
Chissà se il mio ozio alla finestra
mi rende colpevole del morto.
Ho solo questa idea: che io e il vecchio
entrato in casa di profilo – visto
il suo occhio dissimile dal viso
come messo lì a caso – entriamo,
anche poco, in quella morte.
Non reggo a prendere il giornale di nuovo,
sfogliare fino al volto squamato, il corpo breve
su una strada di città.
Penso
a tanti casi ancora, altri morti in fila,
piccoli, storti e rigidi come birilli o dadi.
III
Ho paura dei miei molti stati d’ozio,
di questa incapacità a percorrere le strade,
a scendere in piazza.
Ho paura di una certa intelligenza,
dei miei momenti di grazia insensibile;
temo tutto adesso: la casa di fronte
mi è estranea. Dietro le sue imposte
chiuse l’uomo-soldato uccide forse e marcia
sui morti. Tutto è fermo, bianco e vorace.
IV
La sera poi so ritrovare
gli odori della mia camera come un cieco.
Il giorno mi cade stracciato
più leggero di un foglio.
Faccio un esame molto pacato dove non entra
quel morto. È distante da qui, non conosco
il suo nome, l’età, le cause, se vi avesse
ragione di ucciderlo. La notte
ha certe sue smanie che toccano i piedi
di chi dorme. È tranquilla la pace
del vecchio di fronte a me,
marcia da stanco soldato anche nel sonno.
Penso
alle strade di città, alle fonde
piazze dei morti vuoti e scordati.
da “Il cane dei miracoli” (Bastogi, Foggia 1980)
IL VENTO CHE SPAVENTA I CANI HA CAMPANELLI
La paura del cane è un muro duro,
un duro muro sonoro. Vi sbatte
contro il mare dell’intestino
e gli occhi restano in fondo,
piccolo semino d’anice.
Gli dico
d’altre paure nel mondo,
reggo la sua bava di panna
e la pena del tondo cranio
metto in un cesto con cotone.
Ma il muro giunge, giunge
il suono, la vena d’un terrore
cosmico gli resta il fiato,
appanna il sonno, se dorme.
Non si ferma, bianco
spicchio dagli occhi, cerca
il muro, o vento sonoro, i campanelli;
le sue zampe tirate
nell’avena del collo, sono
chiodi.
C’È UN CANE IN QUESTA CASA
C’è un cane in questa casa,
azzurro quasi una lampada,
il collo pieno d’odori,
che gira e si aggrappa
e sul cranio
ha un inizio di tetra ansietà.
Diritto, dimentica
il viso nell’ombra
sul cumulo della schiena;
pensa all’aria, a scatti,
dove arriva, a gatti interminabili
che nella sua azzurra testa
lascino occhi e saliva.
AUTOCRITICA DEL FORMICHIERE
Piccolo, buio; ho fretta di parole;
la poesia può bastare, corre.
Dunque: ti incontro in un corridoio,
uomo quanto me, o su una panchina,
c’è una macchiolina sulla tua fronte
ed aspiri saliva parlando.
Un fiotto di persone mi arriva
a guardarti, un ospedale di persone,
un giardino di persone malate.
Che fare? Mi siedo. Non sono
buono, ma se vedo nel tuo corpo-fagotto
l’animale che vomita gessetto
dal mortale occhio; la pulizia della narice,
lo sputo nel fazzoletto, o l’emicrania,
se c’è, m’appare
il più felice paesaggio.
Perché amo, in parole tenere, la morte.
Non sono strano; corro
semplicemente sulla poesia. È il mio cucchiaio
e la bevo, senza di lei, che farei.
E neppure forte, sono. Dico
daccapo: prediligo la morte.
Che spaventoso egoista sono, diamine!
Ma che fare.
da L’udito cronico (nuovi poeti italiani 3, Einaudi, Torino 1984)
CAOS
Premettendo
ch’è sempre doloroso impalare
l’anima in un discorso, scrivere
un diario, lettere, versare
iride nella tinozza di un colloquio.
A quest’età e con i tempi che corrono,
io siedo al bordo dell’orecchio
universale; dico
“biondo, marziale cieco cielo
dove il tempo è rotondo: la verità
è orrendo cannocchiale”.
Poi mi rivolgo, ascolto chi parla,
annuso odore di vero nel parziale
gesto di chi mi appaia. Credo
a tutto; a quest’età si è un cimitero
abbastanza paziente.
LA MADRE VEDOVA
Porto un etto di morte sulla spalla
ad amare mia madre; salmina
lucida, odora; e ti salta
di dire “zitta”, pestarla. Che fare
senza marito? Il pomeriggio le sale
negli occhi – alta marea – e affoga
così mitemente la sua crocchia o pelliccia
di lontra, tinta, fioca, che io
salvo da nuotatore quella fronte, le cavo
il sinistro ciglio, lo porto
a riva con fatica infinita. Poi,
ricomincio.
da “Madrid” Corpo 10, Milano 1987
LA POESIA
Io so spiegare come si fa. So ch’è
opulenta, e qualcuno ne paga le spese. Sarà la nostra
società e basta; egoista, amara quanto qualsiasi
continente. Insomma
è tutto quel che si guarda. Ma senza
dubbio sono io il paese più poeta del mondo. Esempio:
getto un bicchier d’acqua sulla parete; quello
cade – lo giuro – però resta la macchia. Visto
al rallentatore con musica. Poi prendo col termometro
la temperatura al pezzo di muro fradicio.
Credo d’averne bisogno, di friggere e
d’annoiarmi. Con rara facilità quando dico “mia
madre è una magnolia, una
magnolia è mia madre”, giro da continente quel sostantivo
ovale di pianta nana, coi nervi a terra e a fuoco
il vento dei nei. Non per soldi
vo dal rosso all’aceto tenero e il bianco che fa
spavento come corni di bue. Nessun gioco
è peggio di questo. Neppure farsi coraggio, dire
avanti, lo stesso. O aspettarsi la risposta. Neanche
lessarsi nell’acqua, è meno.
Spara da sé il suo orologio senza
volerlo. Un fulmine, eccolo lì: rami sull’infinito
lesso dei piedi. Chi rifabbrica l’albero se n’è
andato. Neanche un pezzo. Dici che
schifo han fatto prima la morte, han fatto già
l’uovo. Codè. Ti
portano dentro; così si sa tutto. Noti
la polvere che all’aperto non vedi, e le gambe
perché sei solo. Senti chiudere la porta. Coc. Non
pensi al mondo, la società, il resto. Ma a quel
che viene spezzato allora. Dè. Un lavoro. E in qualche
parte qualcuno di certo paga il conto.
*
Se un ospite mi lascia la casa, io
le faccio domande, frugo ovunque, specie
nei materassi. Quando esco, è passato un ladro.
Ma non la dimentico, la ripenso. Dove mettono
l’amore gli altri? Che non sia visibile, un oggetto
ad esempio, mi terrorizza. Odore c’è, quasi
sale a volte fumo o cemento rigido, o quel
senso di lavato che dà le vertigini.
Mi porterei
dietro un cane se l’amore non dovesse essere
concreto. Come io credo.
IL BELLO E IL TRISTE
C’è un uomo che sta al mondo
così alla grande. In un momento
si siede per Nikolà Tesla, kitsch
ad esempio a Zagabria o piazza Veceslao con gambe
più tristi del diavolo sul Rude Pravo giù
a destra. Complessivamente
il mondo non è ingrato, ha strane facilità, e lui
dice “non sono di pietra”. Però
non vede mai il vuoto e non è cieco, pesa
il bello ed il triste. Anche
il mare lascia in pace un atlante e il tondo
diventa quadrato, appare a nord il corpo d’un animale.
Così
sul ponte Carlo IV a Praga
pensa a lei molto poco, cinque volte, mentre
di lì passa mesi interi.
In effetti accade
che si abbia di colpo un’età, dei limiti, si sia
non soli ma fermi, geografici esatto quanto
la geografia. Voglio dire che allora
neppure la guerra può più e se guarda
lui incontra a terra non uomini. All’amore
ci va ma si stacca
come ombra da monumento. Così
il fuoco anche lascia in pace un atlante. Non è
certo di pietra; è
che esiste al suo luogo già fatto e non può
perciò comandarsi né mutarsi o avere certezze.
IL TALENTO SPIEGA ALL’AMORE QUALCOSA DI DIFFICILE
Questo almeno: non voglio
finire a proverbi. Ventotto
anni ci mantiene il padre, poi caffé,
libri, un brodo in solitudine. Ma più
triste è spiegare ch’è il tuo, questo, modo
giusto di stare al mondo. E devi
farcela, col duro elastico della lingua. Lei
il baule del viso lo posò, gli occhi due
schiavi, nel profondo. Si concentrava per
combattere e insieme
moriva un nucleo sodo. Il vecchio
destino va trattato bene, è delicato. Dove
guarderò, avendola davanti? Mi cambierò
camicia e sposterò con la mano
il muro, quasi fosse una tenda. Poteva
insolitamente darmi di più un trasloco.
Ma lei lì, bianca e floscia
di ragione, ed era proprio la casa dappertutto
che casca con radici più ossa d’una persona.
Ventotto anni per un brodo, in questo
sporco posto piccolo della gente. Impari
solo così che si è
grandi diventando altro da sé, come niente
di sé è un mostro. Resti dura
la crosta, tesoro, nei cieli. Se poi
non riesci, riprovi. E tale
tentativo è l’angoscia.
L’AEREOFAGO
Curioso, che non comprenda mai bene
chi fabbrica. Ne ho vista
di gente che lascia a metà il pesce
del torace e cambia registro, s’empie
e s’alza. Qualità
delle qualità andare finalmente invece
giù dalle stelle.
Così l’areofago che ama
male una donna non scende per delusioni
alla verità, se la prende col vuoto e al volo cresce
nell’aria. È molto poca la terra per lui
uomo: “e che faccio io quaggiù solo, dove
finisce l’Europa?”. Sagres.
I calzoni a montagna in Portogallo; ha da fare
daccapo anche il mondo creando
alberi, poi l’asciutto di qualcosa quasi
sabbia: il luogo, e di lato vagoni che possono
essere tutto. Girato
l’amore gli sta negli occhi come un essere
al vespasiano. Teniamolo a bada un poco parlando,
che non si volti.
LA CASA ADDOSSO
Ci sono volgarità anche qui da pagare. Non si può
mica aspettare ore, papavero, che un evento
ci tocchi il cervello, la sua coscienza, i nervi
ottici e il resto. Bisogna capire
svelto come una bomba senza consigli, e scendere
dal tetto. Anni luce essere felici, quasi fosse
una cosa pratica, e noi utili al mondo. Per bene.
Ma non le voglio
bene mai, mai bene; c’è da dirlo, nel più
semplice modo, che poi sarà una bomba che passa
sul capo, una vergogna non so per chi, forse
storica, quella calma di lasciarla andare con la sua
crocchia fatta a rotonda
cassa armonica. Così è dare
tempo al tempo, un fischio quasi, peggio, si toglie
speranza alla gente. Pensando
così obliquo da labbropesce, la terra
è più d’un tramonto col piombo, da spezzare
il capello in due. Una piena. Lei
m’ha fatto venire qui, son venuto; m’ha ordinato
di sedermi, m’ha dato le spalle, è
volata via. Al principio credevo d’essermi portata
la casa addosso tanto il peso era inutile. Poi
ho detto “è così che si toglie la speranza”.
ADESSO
L’abbiamo detto in cucina. Lo dice col muso riccio, dalla
testa al piede liscia invece quanto un capello: Sarenco
le esce di dietro, sborra. Dolce,
tanto. Comincia
l’inverno in cui
le mosche intrecciano le zampe, vanno di lato come
granchi, si mettono a vomitare. La sanno già
tutta, la vita, e quella anche dei
capelli, dove cascano per errore. C’è
da preoccuparsi che diventano umane, per non
pestarle. Così lei, pura di vino, ride, ma nel collo
casca: una casa storica del centro, la
buttano giù. Finita. Tutto
ciò che ci tortura è piccolo, freddo, andante. Però
su lui non sa mica scherzare. Gli
perdona ogni giorno che passa.
Nel grande mondo non sa più
stare bene. Si capisce
che arriva l’inverno. Forse
ai salmoni piace il dolore, alla saliva ai
piatti, ai Russi. Spostano il tempo come un bicchiere
e le nere foreste di sborra quanto un’oliva nell’olio
l’hanno davanti, nel secolo d’ora in cui
parlano. Ma le mosche loro
adesso muoiono. Io
me le porto via, al mio indirizzo, sediamo e domani ci
porterà il più bel giorno diverso.
da “Gemello carnivoro”, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2002)
INTERVISTA AL POETA
A domanda rispondo: chiedo
d’essere scemo; che almeno mi si tolga
coscienza, veleno e storie dalla testa. Quelle
bianche venendo senza mani in cerca di me, con
noia e fede spesso le lavo. Ebbene, per
piacere non vengano più. Vorrei
vuoto assoluto per farci
il morto, e non mi guardi più niente. Elencherò: la
gente, pasti, libri, cellule
occhiute delle porte.
Mi pesano
molto i muri, le travi soprattutto c’han fatto
carriera. Poi il talco
degli orologi, il faro del letto, la carne come
un cow boy. Che io
finalmente sia freddo, invivente, con solo
un albero accanto e mia madre tra le altre piante.
METAFISICO
Il fatto è questo: sogno
tutte le notti la coltivazione del mais, e al
centro, il mio pensoso canissimo Cane soffia
sorridendo l’universo da sé: ventoso sulle
zampe come due albe.
Poi, così fanno le nuvole e i cavoli di panna
bollente, anche vedo:
va e viene odorando sempre più, l’assoluto,
esplodendo
nel colore, gonfio di luce come lampade, in
dentro. Credo, senza vantarmi, d’essere davanti
al poco eterno concesso. Ringrazio
questo nel sogno, anche
morendo e il collo non vuol
farlo; i
polmoni tengon duro con pupille
di vita, una per ognuno. Muore
con me un esercito di maiali, giardino zoologico, la
giungla, l’intera stirpe animale.
L’ARTE DI RICOMPORRE COSE SCONNESSE
Basterebbe il piombo
d’una sola parola. Ma nel giorno dell’anno di nome
Annino, ruffiani rozzi vocaboli ventisette
giocano a poker. Troppi. Che bella
scienza in rotondo: una birra agli ignoti! Tanto
la grazia svelta del cinismo li prenderà come
topi al tramonto. Io arrivo su
strada più acciuga di ieri; si lascia
mangiar viva dai piedi che non la rivedi se anche
ti giri subito. Quante
bestie ci dà la natura, a essere intuitivi! dentro
corpo, fuori lo stesso. Finora
ho fatto cose ben fatte. Detto, son stata mattina
presto e narici. M’ha invidiato
il destino più d’una volta, poi
sono esploso. Ma si
romperanno dopo la schiena a leggermi.
Il cosmo avaro; il lavoro cosmico d’una
Parola. Non la mette lì a caso. Pesa.
Sollevo
la bilancia quanto
possono farlo i piedi mai pari e i vestiti. Guardo
l’ago salire a braccio di treno sul mio
sin fonicamente Io che schiaccia
il sottosuolo dei verbi di topo. Declinando
troppo al poker si perde.
ANDANTE PESANTE CON ABBANDONO
per Daniela Marcheschi
Il piatto
filippino preferito è la scimmia. La portano in
ginocchio, il viso sulla tovaglia poi
il cervello lo segano vivo. Ci facciamo
un’idea del mondo mangiando, del modo
di fare ordine della vita, radio, giornale, d’un
patito giallista. Io
mai m’abituo; ma l’auto
sul viadotto s’allontana simile al viso ben diviso
della barista, nel mattino: triste, ben
triste, in due. Come si va
semisoli insieme giù per la strada.
Danì
capisce il chiodo nel cervello: lo batte un solo
uomo, certo, e l’inferno detto la vita. Lei ha
un diverso rapporto con la carne; ma stan
piegando la sua natura, così dentro il letto. La
stan mettendo sotto spirito: i piedi sul lato
del vetro e testa al contrario. Una foce. Leggi
fato. Anche il Nilo
si guarda da ragazzi e per primo ci prende in giro.
O quando
uno di noi s’alzò nel sonno dicendo “lo zio ama i negri!”.
Per legge
di gravità il tempo è passato. Siamo ormai
diventati, con moto
che allontana dal posto, e dai negri ci importa
poco. Ora c’è
un comportarsi da zie e tutto il resto. C’è non essere
più capaci del colmo. NOI
digeriamo QUEL piatto. Insomma oramai del sonno
c’appartiene l’insonnia.
Di lei. Che si strappa
di dosso l’io semifuso dal corto circuito d’uno
sbalzo da pressione nel sangue.
Sviene
indietro come l’acqua del Nilo va in su. Colpito
in un lampo in viso il centro della memoria. Dati.
Mentre
dal toporagno arboricolo a noi, il tempo evolutivo
è settantacinque milioni d’anni. Dice la radio.
FINE
La porta parlò – io stavo
dietro e disse ch’ero un poeta. Non l’avevo
mai ammesso ad ombra cinese, o alla casa, i
corridoi camerieri tuttalpiù li pestavo.
Son sempre
volato così: mai stato dovunque stessi. Volavo senza
parlare di me finché ero davvero
l’idea che gli altri si fanno. La
porta evaporò dietro, dopo che
mi sedei più solo che offeso, col Ministero
della Difesa alle spalle, tutto il muro e la strada sirena che
rimava come una bestia, lei, coi
piedi, i reni e con le
mani sulla faccia sudata. Ero un
poeta: attraversavo muri
cinesi seduto sull’acqua non dicendo
un’h di me. Mai. M’accendevo
da entrambi i lati senza
pensare a niente. Com’il
cammello può entrare nella cruna dell’ago.
da “Casa d’aquila” Levante, Bari 2008)
E QUESTA TRISTEZZA CHI LA FABBRICA
Lo guarda con compressione, con
stato morale, fisico, di mente, con suo
padre, madre, gente della vita. Col
macello dell’ansia e gli eventi del viso,
i suoi tic. Somiglia
lentissimamente a un Dürer, così solo
pelle, o una lancia; il codice
fiscale tra le ciglia.
S’acquatta sulle gambe e la Storia è
lì, con Darwin e le scimmie (Dio ora
e sempre salvi dell’universo quelle!).
Gli dà
stanze solo, non libri che a
guardarli peggiora.
CONNIVENTI
La pesca ovunque, fosse
sotto le mattonelle, poi alza
la chiave e l’ingoia piangendo.
Mai
pensando al cervello. Mai. La
fotografa con se
stesso, sezionare, compiangere e
calarsi le braghe e avere
tormento. La sua
vita torta ficcandole dentro
a pistolettate.
Eppure,
con pallore geloso ogni volta,
lei ritira a sé quelle
foto come reti da pesca.
da “Magnificat” 200
CORALE
Abbiamo presto le vostre
scorie, abbiamo sofferto per
farcele
entrare dentro; c’avete fatto più
male di quanto credete. Lo
dicono gli
alberi, mica noi. Eppure questo
panorama scortese, coi
gradini da un lato, mostra a
voi fermi, il Transito. Con
salto strusceremo la
terra. Siamo
stati quel che si poteva.
Soli, nel
senso magari di vera
fagocità; ci s’è
scappati di mano, può
darsi, per ansito forte
di sogni. Ora,
lividi di lingua, zitti, si
siede sopra noi come
tromba, l’aria e lo spazio.
poesie di Cristina Annino tratte da “Magnificat” (Poesie 1969-2009), Puntoacapo.
Bio-bibliografia (tratta dal sito della stessa poetessa)
Sono nata ad Arezzo, attualmente vivo e lavoro a Roma. Nel 1968 pubblico il primo libro Non me lo dire, non posso crederci, edito da Tèchne a Firenze, città nella quale mi laureo in Lettere Moderne, con una tesi sul poeta peruviano César Vallejo.
La raccolta fu pubblicato da Eugenio Miccini, fondatore nel ‘60 insieme a Lamberto Pignotti, del Gruppo 70. A tale movimento aderivano musicisti, pittori (A. Bueno, Chiari ed altri) attenti ai fenomeni delle comunicazioni di massa e che miravano ad inserire le proprie creazioni in un linguaggio definito all’epoca “tecnologico”. Anche se non volli mai aderire al Gruppo, tale frequentazione fu importante soprattutto per la profonda amicizia che da allora si instaurò tra me ed Eugenio.
Nel 1977 esce Ritratto di un amico paziente, Roma, Gabrieli. Nel 1979 Boiter, con Forum, Forlì (romanzo). Nel 1980 Il Cane dei miracoli, Foggia, Bastogi. Nel 1984 L’udito cronico, in Nuovi Poeti Italiani n°3, a cura di Walter Siti, Torino, Einaudi.
Nel 1987 Madrid, Corpo 10, Milano, libro al quale Giovanni Giudici assegnò il premio Russo Pozzale nel 1989.
Questo libro ha il suo motore emotivo in quel sentimento iberico che già da prima costituiva una sorta di coscienza, memoria, attrazione geografico-spaziale. Negli anni anteriori all’87 ho avuto infatti rapporti culturali con varie città spagnole, soprattutto con Salamanca (Cattedra Poetica) e con Siviglia e Madrid. A quell’epoca Leopoldo Maria Panero mi tradusse una raccolta di poesie intitolata La Casa del loco su richiesta dell’editore madrileno Antonio Huerga, Edicione Libertarias.
Alla fine degli anni ottanta abbandonai l’ambiente letterario per dedicarmi al secondo matrimonio.
Dopo la vedovanza – 2000 – ripresi la mia attività, pubblicando Gemello Carnivoro, Faenza, 2002, con i quaderni del circolo degli artisti. A seguito, Macrolotto, Canopo, Prato, in collaborazione con il pittore Ronaldo Fiesoli. All’inizio del 2008 Casa d’ Aquila, edito da Levante Editore, Bari.
Inoltre, proprio in quegli anni iniziai a dipingere ed ho all’attivo svariate mostre collettive e alcune personali.
Il mio ultimo libro si intitola Magnificat (poesie 1969-2009) edito da Puntoacapo editore, a cura di Luca Benassi, con introduzione di Stefano Guglielmin, raccolta antologica di tutti i miei libri di poesia pubblicato dal 1968 al 2009, che ripropone antologicamente il lavoro poetico di quarant’anni e comprendente una silloge inedita che dà appunto il titolo al volume.
Fin da sempre collaboro a riviste letterarie sia italiane che straniere, sono compresa in molte antologie della poesia italiana, numerosi testi sono stati tradotti in alcune lingue straniere, soprattutto spagnole, sud americane, tedesche e di lingua inglese.
Resta inedito il dattiloscritto di racconti intitolato Una Magnifica Giovinezza, molto “amato” da Guido Almanzi che tentò inutilmente di farlo pubblicare da qualche importante casa editrice. Parte di questi racconti compaiono in antologie e riviste, anche online.
Avendo cominciato a comporre poesie nella prima infanzia, posso vantare la stima dell’allora vecchissimo Corrado Govoni, Giuseppe Ungaretti poi, nel tempo, di tutto il più significativo ambiente letterario fiorentino da Mario Luzi a Carlo Betocchi, Luigi Baldacci, Oreste Macrì frequentando i caffè letterari Pavskoski, e il caffè San Marco sede allora dei giovani del Gruppo 70. Ricordo con grande affetto la fortissima stima di Franco Fortini, di Giovanni Giudici ed altri. Fino ad arrivare a Giovanni Roboni, Elio Pagliarani, Walter Siti, Remo Pagnanelli, Mario Lunetta, Donato Di Stasi, Marco Ercolani, etc.
Devo aggiungere l’interesse critico molto importante di studiosi della letteratura italiana quali Stefano Guglielmin, il quale ripropose nel suo blog, a mia insaputa, poesie comprese nell’antologia enaudiana, appoggiando così, a livello di web, il mio ritorno nell’ambiente letterario. Sono compresa in alcune sue antologie sullo studio del panorama poetico contemporaneo, quali Divagazioni di Rotta, e Poesia senza riparo.
Compaio (dal 2000) assiduamente soprattutto nei blog di Guglielmin, “Blanc de ta nuque”, di Francesco Marotta, “Dimora del Tempo sospeso”, “Nazione Indiana” e “La poesia e lo spirito”. In tali siti sono archiviati recensioni, mie su altri poeti, testi critici sulla mia poesia, pittura e altri materiali.
Il libro Madrid è consultabile nel sito di Biagio Cepollaro, comprendente i libri introvabili.
Dovessi rivolgermi delle domande in una ipotetica intervista, me ne farei solo due: perché da sempre l’io maschile come soggetto poetico, e perchè la Spagna. Risponderei: perchè la poesia, come ogni arte, rappresenta le nostre infinite possibilità di essere. Uso l’io maschile per sfuggire ad un autobiografismo troppo diretto o insostenibile o retorico in alcuni casi; per una maggiore oggettivazione e discorsività, e chissà per quanti altri motivi. Pur essendo venuto fuori incosciamente durante l’infanzia. Ciò non toglie che i problemi connessi alla condizione femminile mi siano estranei. Verosimilmente maschile, il mio “io” poetico, non ha mai fatto sottrazioni di verità. Ciò che invece ho sempre cercato di sottrarre è l’idea- tempo, evitandola con la sostituzione di luogo-tempo. Anche per questo non ho mai messo date alle mie poesie e in alcuni libri utilizzo composizioni distanti tra loro di dieci o vent’anni. Ritengo che se questo disinteresse temporale regge, ciò sia il segno di una qualità poetica indubbiamente vincente.
Lo “spirito iberico” è spiegabile allo stesso modo dell’io maschile. Rappresenta un altrove d’elezione, la fuga realizzata, la consolazione, così come la musica può esserlo per un pittore o la matematica per un musicista. Con la sola differenza, rispetto alla prima domanda, che qui si ha aggiunta di reale alla verosimiglianza dell’ operazione poetica, la quale non coniuga mai vero con verità.
In ogni trascrizione poetica del reale, credo sia importante osservare tutto con l’intenzione di osservare della poesia, e che si arrivi a due conclusioni: a capire che ogni parola è degna di un’operazione creativa, e che la poesia si compie solo se l’autore dispone “naturalmente” di una forma nuova di scrittura. La responsabilità che ci compete non è altro né di più. Inoltre così come la prosa ha il compito di semplificare il complesso, la poesia ha la speciale libertà di complicarlo. Beninteso al di fuori di un simbolismo o cripticismo, e dando per scontato che la metafora non deve essere un paragone.
Quindi, ogni volta che avvicineremo due situazioni normalmente distanti (metafora), si opererà una sintesi, ma senza intasare intellettualmente il percorso, o abbassarne la soglia o diluirlo ecc.
Ricordo che dettavo a mia madre poesie sognate. Avevo cinque o sei anni, lei non si stupì mai di simili sogni, né della loro frequenza. Devo pertanto a lei la continuità del mio sentimento creativo e il riuscire a crearci dentro, pian piano, un senso profondo di me.
Solo dopo tanti anni ho capito che i versi erano già un preciso modo di pensare, che questo era antisociale, e che mi opponevo a ciò che vedevo tentando di sostituirlo con ciò che sentivo. La mia educazione poetica è quindi stata un’ infanzia solitaria, dentro una casa rigorosamente priva di libri, e con la frequentazione, all’ esterno, di persone vecchie per la mia età. Avevo, in quelle occasioni, l’idea di imparare la vita al “rovescio”. Non mi sono mai preoccupata di scrivere, veniva come se parlassi e gli altri bambini giustamente mi evitavano. In seguito si interessarono a me maestri, poi professori, presidi, ecc. Non posso perciò parlare di letture importanti o decisive per la mia formazione.
In seguito fui una pessima studentessa e una buona universitaria in materie però che niente avevano a che fare con la letteratura italiana. I libri della mia giovinezza furono esclusivamente letteratura americana o libri di storia naturale; anche lettere di poeti. Riesco a leggere solo prosa. Non ho mai amato le parole “versi” e “poesia”. Avevano ed hanno, per me, il sapore della camomilla o di odori deboli. Penso che la parola “poesia”, se nominata, diventa retorica, se definita dall’ autore, diventa tautologica. Sarebbe preferibile chiedere a una persona la sua idea del mondo e cosa pensa di farci vivendo. Tutto questo per dire che se un essere umano, nella sua prima percezione cosciente della realtà, ha di questa una visione ostile; se egli la esprime a suo modo, e se tale modo convince qualcuno, poi molti. Se continua negli anni sostituendo quel suo mondo iniziale ad altri mondi “scontenti” e produce libri restando sempre fedele a se stesso, questi è un artista.
Parola ai Poeti: Cristina Annino
by Redazione
Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?
Sono due problemi nello stesso corpo. C’è confusione di termini, massificazione, perdita di controllo e faciloneria. Non esistendo quasi più una critica “forte”, emergono poeti “deboli” da questa appoggiati, e “mode” letterarie si sviluppano all’interno delle maggiori case editrici. Ho riassunto frettolosamente una realtà assai complessa. Potremmo parlarne molto ma molto a lungo.
Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?
Già nella preadolescenza rendevo pubbliche (annuari scolastici, riviste di sottobosco, libricini di poesia verdissima) testi miei. Si era creato un piccolo circuito intorno a me, ma non ne ero scioccamente orgogliosa. Inviavo o consegnavo poesie perché mi venivano chieste. Non prevedevo nemmeno un futuro poetico organizzato, vale a dire non davo un peso di necessità esterna a quel che facevo, bensì cercavo di crescere in un dato modo seguendo i “comandamenti” del mio mondo. Poi, trasferitami, a Firenze entrai nel cuore di una “fabbrica poetica”, diciamo, e allora cominciarono le domande più importanti e un certa consapevolezza collaborativa anche da parte mia. Sempre però con quella autocritica o mancanza di reale ambizione che mi fece aspettare parecchio prima di dire sì, nel 69, ad Eugenio Miccini e collaborare (solo in quell’occasione) con il Gruppo 70. Non mi aspettavo niente al di là di quel che accadde, e niente mi deluse. Ma erano altri tempi.
Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?
La piccola e media editoria già svolge un lavoro di recupero rispetto alla grande editoria. Avessi potere in quest’ultima, riserverei uno spazio separato ai testi di autori improvvisati ed extra “comunitari” (il mercato va tenuto in piedi, certo, ma non si confondano le orme e i nomi!).
Abolirei la scelta dei lavori in base alle fasce d’età, in quanto il nuovo si trova ovunque e nessuna casa editrice dovrebbe imitare il festival di Castrocaro. La futuribilità di certe opere non dipende chiaramente dal dato anagrafico, bensì è garantita dalla tenuta nel tempo. Il grosso limite di questa situazione mi sembra dipenda, con un azzardo di similitudine, dalla visibilità che egualmente invade Case Editrici e Case di Moda, col risultato che non si fa cultura ma tendenza. Credo fermamente che bisognerebbe tornare ai parametri di decenni addietro, quando editori importanti avevano l’orgoglio e il dovere di capire la poesia. Sono esistiti critici con il potere di influenzare scelte editoriali, nonostante le difficoltà politiche esistenti anche allora. Ma queste venivano affrontate. Nell’oggi, genericamente, manca orgoglio, coraggio, identità e cultura. Considerare le eccezioni, che pure esistono, aprirebbe un’ altra, ben più ampia discussione.
Comunque ritengo che non tutto sia irreversibile, credo fermamente che la grande editoria italiana alla fine abbia o si riprenda quel che merita.
Cosa si aspettino gli altri poeti, io non lo so.
La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?
Maggior respiro nel web di sicuro, quanto ai famigerati fondi di scaffale, ho già risposto con la prima domanda. Spero appunto nella loro rivolta.
Di internet è importantissima la visibilità, i commenti oserei dire in diretta e la durata di archiviazione. Penso che abbia recuperato e salvato molta poesia importante. In internet, per lo meno nei blog più significativi, c’è passione, competenza, volontà di lavoro. Questo è il suo innegabile pregio.
Il rischio può essere l’emulazione che genera. Se uno compra un libro, per esempio, non può leggerlo continuativamente fino ad assorbirlo come un medicinale. Per una semplice legge di dinamica fisica. In internet, invece, il poeta ha sempre squadernato davanti qualunque autore, senza il minimo spostamento braccio–temporale . Può capitare che si generi spontaneamente un desiderio eccessivo dell’”oggetto” contemplato, che prenda forma cioè una falsa scuola poetica all’impronta dell’emulazione spinta. Ma questa è per fortuna una conseguenza inevitabilmente effimera.
Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?
Si. Innanzitutto spiegando cosa non è poesia. Dal momento che la si fa, la poesia esiste al pari di ogni altra arte e la si può definire. Diverso è stabilire a cosa serva (ma si può fare anche questo), l’importante comunque sarebbe allontanare dalla scrittura chi pensa che sia facile, gratificante, divertente oppure curativa, una sorta di psicanalisi. Al pari di ogni situazione collettiva, i cattivi poeti sono i primi nemici della poesia e degli alberi dell’Amazzonia.
Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?
Niente costituisce un limite. Un poeta sa cosa ha davanti, dietro e di lato. Entro questo margine può esistere liberamente a suo modo, tenendo presente che, al pari della sintassi, della morfologia, ecc, il limite anche stravolto, deve creare un altro limite comprensibile. Ciascun uomo compie le stesse azioni: mangia, dorme, cammina, ha una grammatica corporea uguale a tutti gli altri, però può sistemare cronologicamente certe azioni con libertà, seguendo le proprie esigenze fisiche. Direi che il canone, fuori da una scuola di poesia o di un inquadramento didattico, per un poeta autentico sia un’astrazione.
In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?
In Italia oggi, non credo che un ministro della cultura potrebbe fare granché, dal momento che il peso creativo e i rappresentanti deputati alla “selezione colta” ( critici e anche editori) accettano, valorizzano e promuovono una poesia che per la maggior parte poesia non è. Penso che bisognerebbe cominciare dal basso, cioè dal una volontà di giudizio, se vogliamo che uno stato di cose cambi. Promuovere oggi, in Italia, una politica favorevole nei confronti dell’ attuale poesia, sarebbe legittimare un ammasso confuso di valore e dis-valore.
Quanto alla seconda domanda, la poesia dovrebbe costituire materia di studio già nelle scuole medie e a largo raggio, includendo poeti classici ma anche viventi. Tra l’altro ho esperienza di come sia molto più selettivo il giudizio dei ragazzi giovanissimi che non quello di critici affermati. Dovrebbero essere di rigore incontri con studenti e seminari di poesia. In ambito universitario, poi, sarebbe utile consigliare, più di quanto accade, tesi anche su autori dei nostri giorni: il laureando e l’autore prescelto ne trarrebbero un reciproco vantaggio. Ovviamente altre vie saranno percorribili e che io non so individuare.
Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?
Non confondere poesia con mercato, per esempio. Riappropriarsi della cultura del tempo anche. Ma credo di aver esposto sommariamente la mia idea, nella risposta precedente.
Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?
Il poeta è un poeta, deve essere se stesso. Non si fabbrica un poeta, non occorre trovargli un look. Magari è consigliabile che questi dimentichi se stesso (in questo forse può definirsi una specie di apolide), non considerandosi il centro del mondo ma di quello che già ha, e non preoccuparsi che questo sia gradito agli altri.
Le responsabilità di un poeta sono quelle che gli attribuisce il singolo lettore, il processo è quindi inverso. Come in un quadro astratto, la sua interpretazione dipende da chi guarda. Non dobbiamo fare del poeta un insegnante, un politico o un martire. Può tranquillamente essere tutto questo insieme senza volerlo, ma non perché così viene stabilito da altri.
Solo un’arte di regime, io credo, porrebbe queste distinzioni.
Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?
Sostengo che l’ispirazione non esiste, è una favola metropolitana o un alibi di chi vuol fare poesia a tutti i costi delegando a qualcosa, l’ispirazione, in questo caso, la responsabilità di non riuscirci sempre. Se uno è poeta lo è senza intermittenze (ammettendo che a volte preferisca giustamente fare altro che scrivere), quindi credo solo nella disciplina. Mi spiego: più si scrive meglio si scrive, il ritmo lavorativo conta; per niente invece la preoccupazione di scrivere bene –bene per chi, per cosa, come?- o l’essere innovativi rispetto ad altro –che altro?- Ritorna il discorso del canone, ma allora si è fuori dal cerchio. Se uno è poeta, ha un certo suo mondo dentro, ed è con quello che cammina, seguendo la variabile andatura di se stesso. Io non aspetto mai la scintilla, questa c’è o non c’è. Da sempre.
Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?
Beh, più di un’emozione. Intendo comunicare –ripeto- il mio personale modo di stare al mondo. Per farlo combatto ovviamente e subito con le parole che sono di tutti a cominciare dal vocabolario, quindi anch’esse definiscono in modo stabilito, canonico. Il mio messaggio, se così vogliamo chiamarlo, è la tentata sostituzione di un universo, quello in cui viviamo, con un altro, quello che io vedo. Senza alcuna pretesa di insegnamento, in quanto la didattica è altra categoria da quella creativa e presuppone un adeguamento a ciò che esiste; inoltre non mi compete.
Cosa pensano della poesia le persone che ami?
Non me ne sono mai preoccupata. Tranne mia madre, per tanti motivi (ai quali non accennerò) fattore primo della mia scrittura, chi mi ama credo sia orgoglioso di come ho saputo trasformare “violenza” in letteratura.
Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?
No (alla prima domanda). No (alla seconda). Sono nata in questa condizione, non l’ho decisa diciamo, ho cominciato a comporre versi prima di saper scrivere, il resto è andato com’è andato e spesso ne sono contenta. Vorrei aggiungere che scrivere libri di poesia non significa chiudersi a una vita piena o al senso che ognuno ha della pienezza esistenziale. Altrimenti di cosa si scrive?
Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?
Dopo tanti anni di scrittura l’unico obiettivo, per me, è quello di restare nella letteratura italiana.
Per la poesia in generale, un miracolo.
Chiarire ancora di più cosa manca alla poesia oggi, diventa ambiguo. Dovremmo –ed è impossibile- esaminare caso per caso, giacché se ne facciamo un problema generale, si corre il rischio di non vedere più il fenomeno negativo definendolo come il carattere della poesia odierna. Quindi, da un punto di vista storico, inevitabilmente accettabile.
Sono nata in Arezzo nel dicembre del 41, mi sono laureata presso l’università di Firenze in Lettere Moderne. Ho svolto un breve assistentato, sono stata ricercatrice del CNR sempre per un periodo esiguo ( motivi personali). Compongo dall’età di 4 0 5 anni circa, ho conosciuto, nel tempo, i maggiori poeti, scrittori e critici, che mi hanno sempre sostenuto e di molti sono diventata amica.
Ho abbandonato per due volte (causa matrimoni) l’ambiente letterario nel modo più assoluto, perdendo complessivamente 24 anni di attività lavorativa. Comunque non mi pento di queste scelte come non mi pento di nessun fatto della vita. Tutto è stato tradotto in poesia. Dal 2000 mi dedico anche alla pittura.