
Storia

Trattoria Sabatino- ” i sapori della cucina povera in San Frediano” –
Biblioteca DEA SABINA
Trattoria Sabatino, un libro dedicato ai sapori della cucina povera in San Frediano a Firenze-
Il libro, edito da Maschietto Editore, racconta la storia della Trattoria Sabatino, da 60 anni anima e memoria del mitico quartiere fiorentino di San Frediano in Oltrarno, già celebrato da Vasco Pratolini, da artisti, poeti e musicisti: un luogo di incontro e di conversazione, di pasti quotidiani e di feste memorabili, ma soprattutto di buona cucina popolare.
La Trattoria Sabatino non è solo uno storico locale fiorentino: è un mondo pieno di storie, fortemente identificato con la vicenda della famiglia Buccioni che, con le sue diramazioni, la gestisce dal 1956. È una storia avvincente come un romanzo, quella che parte da Sabatino, con la sua iniziativa nell’immediato Dopoguerra, e che continua per tre generazioni, passando per Valerio e Laura, per arrivare fino agli attuali gestori Ilaria, Letizia e Massimo.
Il libro gioca con i generi letterari e ogni capitolo ha uno stile diverso, dando vita a un affresco dove si susseguono gioie, dolori, speranze, addii, molto lavoro, molta passione, nuovi arrivi, uno sfratto e una nuova apertura, celebrata dalla gente del rione (e non solo) come un evento epocale. In queste pagine osserviamo un intero quartiere che si riversa e si rispecchia in questa ‘mensa’ quotidiana, accogliente ed eccezionale, crocevia di operai e artigiani, intellettuali e principesse, marchesi e baroni, politici e perdigiorno, attori e musicisti, artisti e sacerdoti, studenti e senzatetto. Il libro è illustrato dalle fotografie storiche della trattoria, della famiglia Buccioni e del quartiere di San Frediano, oltre a testimonianze artistiche di avventori eccellenti e ai disegni delle più amate ricette.
Con un racconto inedito di Marco Vichi: il Commissario Bordelli incontra Sabatino. Postfazione di Tomaso Montanari.
ROMA-Motel Agip Aurelia- Aspettando le MILLE MIGLIA
Biblioteca DEA SABINA
Tutto avviene in un lungo e incredibile week end dal 18 al 21 di Maggio.Tappa a ROMA e ritorno a Brescia .La 35esima edizione rievocativa partirà da Brescia il 18 maggio: quattro tappe, passaggio da Roma e ritorno. In forte crescita le domande di iscrizioni.
La Mille Miglia compie 90 anni dalla prima edizione del 1927 e si appresta a disputare la trentacinquesima edizione rievocativa. La manifestazione è stata presentata ieri a Palazzo Loggia, sede del Comune di Brescia. Sono in forte crescita le iscrizioni: 695 sono le domande di partecipazione e 440 saranno le vetture accettate (tutte costruite tra il 1927 e il 1957), provenienti da 41 Paesi di cinque Continenti. Per il quinto anno consecutivo, a curare la corsa su strada più celebre di ogni tempo, sarà 1000 Miglia Srl, società totalmente partecipata dall’Automobile Club di Brescia. Il percorso della Mille Miglia 2017 presenta alcune varianti rispetto al 2016. Da giovedì 18 a domenica 21 maggio saranno attraversati più di 200 comuni, 7 regioni e la Repubblica di San Marino. Tra le novità, spiccano le “prove spettacolo” che le vetture in gara disputeranno in alcune piazze storiche italiane. Le prove cronometrate salgono a 112, più 18 rilevamenti in 7 prove a media imposta. La classifica finale, dopo l’applicazione dei coefficienti sarà così costituita da un totale di 130 tratti a cronometro. Le “prove spettacolo” si correranno nelle piazze di Verona, Castelfranco Veneto, Ferrara, Pistoia, Busseto e Canneto sull’Oglio. Le ultime prove cronometrate della Mille Miglia 2017, decisive per la classifica, saranno disputate in un contesto suggestivo: le piste dei Tornado del 6 Stormo dell’Aeroporto Militare di Ghedi. La Mille Miglia 2017 continuerà a essere disputata in quattro tappe. Il prologo, martedì 16 maggio, sarà il Trofeo Roberto Gaburri, gara di regolarità alla quale prenderanno parte un centinaio di vetture. La partenza avverrà da Viale Venezia, alle ore 14.30 di giovedì 18 maggio. Rispettando la tradizione nata nel 1927 e la prima tappa si concluderà a Padova. Il giorno dopo, venerdì 19 maggio, la seconda tappa porterà i concorrenti a Roma, con la passerella in Via Veneto. Sabato 20, con start alle 6.30, il percorso dalla Capitale resterà invariato fino alla Toscana e si concluderà a Parma da dove ripartirà la domenica per far ritorno a Brescia.
Abbazia di San Galgano-Chiusdino(Si)
Biblioteca DE A SABINA
ABBAZIA DI SAN GALGANO- CHIUSDINO (SIENA)
Fotoreportage della Signora Meris Corni
Meris Corni:”SAN GALGANO è un’abbazia cistercense. Inizio costruzione 1218,consacrata nel 1288.In stile gotico Il tetto crollo ‘ nel 1786 quando un fulmine colpi’ il campanile dell’Abbazia.Sorge vicino al fiume Merse,ad una trentina di chilometri da Siena.La chiesa ha una pianta a croce latina e lo spazio interno è diviso in tre navate.Nelle vicinanze anche EREMO di Montesiepi,dove Galgano si ritirò e visse da eremita fino alla morte.San Galgano (Galgano Guidotti)nacque a Chiusdino 1148(o 1152)e vi morì il 30 novembre 1181.E’ stato un cavaliere medievale che visse in Toscana, che scelse una vita da eremita.Canonizzato nel 1185 (forse da Papa Lucio III).Ricorrenza 30 novembre e 3 dicembre. Informazioni dal web. Foto mie cellulare 19 settembre 2022”.
RIETI- Valle del Primo Presepe 2023, si parte con il Convegno di Greccio
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RIETI- Valle del Primo Presepe 2023, si parte con il Convegno di Greccio
Antonio Gramsci moriva Il 27 aprile 1937-
Antonio Gramsci moriva Il 27 aprile 1937-
L’ANPI PROVINCIALE DI ROMA RENDE OMAGGIO AD ANTONIO GRAMSCI NELL’83° ANNIVERSARIO DELLA MORTE.
Il più grande politico italiano dell’era moderna. Teorico dei Consigli di Fabbrica. Fondatore del Partito Comunista d’Italia. Maestro di Palmiro Togliatti. Il grande uomo che affrontò eroicamente e consapevolmente il martirio inflittogli dai fascisti perché il suo cervello doveva “…smettere di pensare per almeno venti anni…”. Il capo dei lavoratori italiani, nel cui ufficio la porta rimase sempre aperta per discutere spesso tutta la notte per convincere anche un solo operaio in più. L’uomo che voleva costruire il suo partito individuandolo nella parte migliore della classe operaia, dei lavoratori, degli studenti e degli intellettuali. L’immortale incitamento ai giovani: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza.“
Riportiamo di seguito un bellissimo articolo di Lelio La Porta (docente nei licei, membro della International Gramsci Society, collaboratore di Critica marxista, saggista) scritto per Patria Indipendente nell’80° della scomparsa
Gramsci, la condizione umana e l’indifferenza
L’esperienza in una scuola. Cos’è la politica. Amare una persona e amare una collettività. Le storpiature volute degli intellettuali di destra
di Lelio La Porta su Patria Indipendente
L’80° anniversario della morte di Antonio Gramsci è alle nostre spalle. Ma può essere alle nostre spalle il pensiero di un uomo che vanta più di 20.000 saggi sulla propria opera pubblicati in ogni parte del mondo e traduzioni dei propri scritti in molte lingue? Oppure, ci si può ricordare di lui soltanto in occasione delle commemorazioni e degli anniversari (in verità più della morte che della nascita secondo un “modus operandi” consolidato per cui sembra che i grandi da ricordare siano soltanto morti senza aver mai visto la luce)? Non basta la cerimonia che, ormai da tre anni, si tiene ogni 27 aprile (giorno e mese del 1937 in cui Gramsci spirò in una clinica romana) presso l’urna che contiene le sue ceneri nel Cimitero della Piramide Cestia, a Roma. Se dopo il 2017, anno in cui si sono susseguiti convegni in ogni parte d’Italia e del mondo, seminari, presentazioni di volumi, ci si accomodasse nella ripetitività di attività già viste, magari dirette soltanto al solito gruppetto di studiose/i, l’eredità gramsciana perderebbe il suo senso culturale, politico, pedagogico e ne verrebbe sminuita anche la classicità da più parti rivendicata. Credo che si debba tenere viva la presenza gramsciana soprattutto in quei luoghi in cui o non c’è mai stata o è necessario che cominci ad esserci, perché sono i luoghi a cui Gramsci stesso pensava come fondamentali per la conquista dell’egemonia e del consenso da parte dei gruppi subalterni. Per chiarire il senso del ragionamento, si propone il passaggio dei Quaderni del carcere in cui Gramsci sottolinea la diversità fra la società russa conquistata con la Rivoluzione di Ottobre e quella italiana o, in genere, occidentale:
In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale [1].
Usando una terminologia militare, Gramsci fa capire che in Italia la conquista dell’egemonia passa attraverso l’occupazione delle fortezze e delle casematte che costituiscono la società civile; e fra queste casematte ce n’è una a cui Gramsci attribuisce un’importanza particolare: la scuola. Questo è uno dei luoghi in cui Gramsci, che di essa si è interessato in mille modi, mai è entrato, o, comunque, ha una presenza molto limitata.
Si sa che esistono le mosche bianche, come quel gruppo di insegnanti che, nel corso di un recente convegno gramsciano a Bari, hanno presentato, insieme alle loro classi, dei lavori aventi come oggetto alcune categorie del pensiero gramsciano. Ma ci si è mai chiesto qual è la condizione della conoscenza di Gramsci nelle nostre scuole? Bisognerà pur rendersi conto che Gramsci non può essere soltanto argomento di dotte disquisizioni di carattere filologico o di incontri accademici quando la sostanza politica del suo pensiero, ossia la filosofia della prassi, tutto fa meno che essere prassi in quanto rimane rinchiusa nei ristretti recinti di libresche elucubrazioni? Insomma o Gramsci conquista le casematte e le occupa (proprio perché questo sembra essere il suo obiettivo quando scrive di filosofia della prassi e del ruolo degli intellettuali) oppure rimarrà uno che è diventato famoso, seppure soltanto per una sera, in quanto il senso comune (altra battaglia tipicamente gramsciana è proprio quella relativa alla trasformazione del senso comune corrente in un nuovo senso comune) ne ha sentito parlare una volta durante un’edizione del Festival di Sanremo. Per conquistare le casematte bisogna penetrare al loro interno; per diffondere Gramsci nella scuola, la prima casamatta di cui si serve il dominante per dominare il dominato, e mantenerlo nella condizione di subalternità (pensino lettrici e lettori alla Legge 107/2015 nota come “La buona scuola”, che è l’ultimo strumento di dominio utilizzato dagli attuali dominanti per imporre il consenso ad una serie di obbrobri, fra cui occupa il primo posto la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, che può essere ribattezzata la fucina del precario a vita ipersfruttato e prealienato nel senso marxiano del termine), bisogna andarci.
La scena: cittadina molto nota per alcune sue particolarità artistiche che si trova subito dopo il confine fra Lazio ed Umbria. Istituto medio-superiore del posto: bello, funzionale, moderno, in possesso di tutte le novità tecnologiche che sono all’altezza dei tempi all’interno di una scuola. Aula Magna: un anfiteatro con comodissime sedie per gli spettatori e un tavolo a disposizione dei relatori con impianto acustico e schermo. Due relatori invitati dalla dirigenza scolastica a parlare di Antonio Gramsci, questo sconosciuto. Non servono discorsi troppo articolati sulle categorie gramsciane; necesse est parlare di lui: di un figlio, di un marito, di un padre, di un detenuto politico, di un uomo, soltanto di un uomo che ha, però, con i suoi scritti, acquisito un prestigio tale da collocarlo fra i cinque italiani dopo il XVI secolo più citati nella letteratura mondiale di arte ed umanità. Mentre è facile far capire ai giovani che Gramsci era stato bravissimo alle elementari, bravo al liceo, che lo sarebbe stato all’università, più complicato è far capire loro che lasciò l’università per il giornalismo e, poi, soprattutto, per la politica. La politica (si scorge scorrere un brivido lungo la schiena dei giovani ascoltatori) cos’è? Questa è la domanda che si coglie dagli sguardi degli astanti che ritengono che la politica sia gioco di potere, conquista e mantenimento di scranni in Parlamento a qualsiasi condizione, corruzione, malaffare e altro del genere. Quando si fa capir loro che la politica è cosa di tutte/i, che essa è la stessa aria che respiriamo, che non è approfittare di una posizione di privilegio per goderne ogni beneficio; quando si fa capir loro che la politica deriva da una passione profonda, da un amore profondo, per il mondo e i suoi abitanti e che per essa si può rinunciare anche ad una comoda e gratificante carriera dal punto di vista economico; allora gli sguardi, da corrucciati, diventano attenti ed interessati e vogliono saper qualcosa in più. E allora non si può fare altro che leggere una lettera famosa (ovviamente per chi ha qualche frequentazione gramsciana, ma che diventa una scoperta per chi sente parlare per la prima volta del grande sardo) che Gramsci scrisse alla sua compagna Giulia da Vienna il 6 marzo del 1924 (un mese dopo sarebbe stato eletto deputato):
Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato? L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso 10 in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione: «Al mare i continentali!» Quante volte ho ripetuto queste parole. Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la lotta, per la classe operaia. Ma quante volte mi sono domandato se legarsi a una massa era possibile quando non si era mai voluto bene a nessuno, neppure ai propri parenti, se era possibile amare una collettività se non si era amato profondamente delle singole creature umane. Non avrebbe ciò avuto un riflesso sulla mia vita di militante, non avrebbe ciò isterilito e ridotto a un puro fatto intellettuale, a un puro calcolo matematico la mia qualità di rivoluzionario? Ho pensato molto a tutto ciò e ci ho ripensato in questi giorni, perché ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi hai dato l’amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso cattivo e torbido [2].
L’amore è una delle molle che spinge Gramsci verso la politica: amare una persona vuol dire scoprire la capacità per amare una collettività. Il vero rivoluzionario, diceva Che Guevara, “è guidato da grandi sentimenti d’amore” [3]. Ecco un motivo di ulteriore attenzione da parte della gioventù presente che scopre che Guevara non è una fabbrica di magliette, come spiritoseggiavano Checco Zalone, da un lato, e Ficarra e Picone, dall’altro, in due film, ma è stato un uomo in carne ed ossa che ha combattuto duramente per gli altri rimettendoci la vita. Proprio come Gramsci che è stato ucciso dal fascismo (e non possono essere accettate, in quanto false e menzognere, versioni diverse che rendono corresponsabile della sua morte il suo partito che, anzi, come ha recentemente ricordato il nipote di Gramsci, cioè il figlio del secondogenito Giuliano, che porta il nome del nonno, il partito provvide a pagare le spese delle cliniche nelle quali Gramsci fu ricoverato dopo aver lasciato Turi, tacitando anche l’ulteriore motivo di discredito e di insopportabile sciatteria di chi ha sostenuto che i ricoveri nelle cliniche fossero una sorta di benevola concessione del regime fascista nei confronti del prigioniero).
Lampi negli occhi della gioventù presente (una parte non minima di essa aveva preferito la proiezione del film di Tarantino Bastardi senza gloria, in occasione del Giorno della Memoria; cosa c’entrasse un film del genere con il motivo per cui veniva proiettato, resta e resterà un insolubile mistero, almeno per chi scrive!). L’amore, invece, c’entra qualcosa, molto più di qualcosa, con la politica. Gli sguardi incrociavano gli sguardi. Si perveniva alla conclusione che questo insegnamento derivava dalla lettura di una lettera di Gramsci alla sua compagna. A questo punto la richiesta inattesa per chi parlava: un nuovo incontro, ma questa volta per leggere Gramsci, per entrare nel merito delle sue scelte attraverso la lettura dei suoi articoli giovanili e delle sue lettere prima del carcere. Magari con l’aggiunta di qualche lettera carceraria visto che è stato ricordato che le Lettere dal carcere vinsero, alla loro prima uscita nel 1947, il Premio Viareggio con voto unanime della giuria, presieduta da Leonida Répaci; la motivazione dell’assegnazione del premio a Gramsci che concorreva con Moravia, Berto, Pavese, Natalia Ginsburg, Quasimodo e Luzi: “La condizione umana non ha avuto in questi tempi confusi un più lucido assertore e testimone”. Che i nostri tempi, seppure non oltraggiati da abominevoli dittature, almeno per il nostro Paese, siano ancora confusi è un dato di fatto. Per combattere questa confusione, anticamera dell’indifferenza che tutto uccide e ammorba, Gramsci è un ottimo antidoto, soprattutto se somministrato in dosi massicce nella scuola; una casamatta che va conquistata assolutamente per non perdere in modo definitivo la possibilità futura che i governati diventino governanti e che, perciò, nella prospettiva gramsciana, si attui la democrazia politica:
(…) la «democrazia politica» tende a far coincidere governanti e governati, assicurando a ogni governato l’apprendimento più o meno gratuito della preparazione «tecnica» generale necessaria [4].
Comunque, va eretta una barricata a protezione di Gramsci e dei suoi scritti. Bisogna prendere la parte di Gramsci, essere partigiani in modo sincero ed autentico a difesa di un patrimonio della nostra cultura libera e democratica. E questo erigere le barricate e resistere contro l’inganno e la menzogna, va insegnato nelle scuole a partire, appunto, dalla difesa di Gramsci e dal contrattacco nei confronti di chi non si perita neanche per un momento di gettare confusione usandolo. Infatti, si deve stare molto attenti a fargli dire quello che non ha mai detto intervenendo sui suoi testi in modo illecito e assolutamente poco appropriato. Ce lo ricorda proprio lui:
“Sollecitare i testi”. Cioè far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche all’infuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità da quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l’incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria? [5]
Dunque: è in circolazione nelle italiche librerie un testo (si tratta di Imperdonabili di Marcello Veneziani) nel quale si scrive di Gramsci in un capitolo intitolato Tra Lenin e Mussolini. Voglio soffermarmi sul riferimento abbastanza esplicito dell’autore agli insegnanti, soprattutto a quelle/i che vengono da lui definiti di “formazione gramsciana” ma inconsapevoli, loro malgrado, che di essi Gramsci scriveva “noiosissima caterva di saputelli” e, in più, “professori canagliuzze, insaccatori di leggiadra pula e di perle, venditori di cianfrusaglie”.
Bene: la prima citazione è tratta da un articolo del 29 dicembre 1916, comparso sull’Avanti!, intitolato “L’Università popolare” [6]. Gramsci, ricordando il suo “garzonato universitario”, si compiaceva di avere avuto insegnanti notevoli che gli avevano trasmesso la serietà e il rigore negli studi, oltre al metodo, all’applicazione nella ricerca, alla passione filologica, alla dimensione civile dell’insegnamento:
“L’insegnamento, svolto in tal modo, diventa un atto di liberazione (…). È una lezione di modestia, che evita il formarsi della noiosissima caterva di saputelli, di quelli che credono aver dato fondo all’universo quando la loro memoria felice è riuscita a incasellare nelle sue rubriche un certo numero di date e nozioni particolari”.
Quindi, a ben leggere, possiamo invitare le/gli insegnanti italiane/i a tener ben stretta la loro formazione gramsciana in quanto Gramsci proprio non ce l’aveva con loro. Così come, contrariamente a quanto sostenuto nel libro di cui si sta scrivendo, non era per nulla contro il latino e il greco, anzi esattamente il contrario.
La seconda citazione è in realtà, nonostante sia riportata fra virgolette nel libro, un assemblaggio di frasi prese qua e là da un articolo del 27 novembre 1917 intitolato La difesa dello Schultz [7]. Si tratta di un testo in cui Gramsci difende l’uso della grammatica latina dello studioso tedesco Schultz dagli attacchi di Arnaldo Monti (presidente del “Fascio studentesco per la guerra e per l’idea nazionale”), motivati, soprattutto, dal fatto che si era in guerra contro i tedeschi e da questo fatto si prendeva lo spunto per criticare l’opera di un tedesco (si tratta di una forma di nazionalismo becera e odiosa oltremodo in quanto andava a toccare la cultura). In realtà, gli epiteti gramsciani riportati nel libro in circolazione, ora nelle nostre librerie, non sono affatto rivolti contro i docenti bensì contro Monti che, attaccando lo Schultz, vorrebbe fare dei giovani studiosi di latino degli “eleganti umanisti” quando, invece, lo studio della scuola classica, ossia quella fondata sul latino e sul greco, “deve preparare dei giovani che abbiano un cervello completo, pronto a cogliere della realtà tutti gli aspetti, abituato alla critica, all’analisi e alla sintesi”.
Introdurre Gramsci, quello vero e non storpiato da letture ideologicamente interessate, nelle scuole, non come semplice oggetto di assemblee di istituto, in quanto curiosità da sottoporre momentaneamente all’attenzione, ma come momento fondamentale del percorso formativo, dovrebbe essere compito primario, se non del Ministero (che ha ricordato l’anniversario con una circolare con la quale si invitavano le scuole a riflettere sul suo pensiero, circolare inosservata, forse perché le scuole sono troppo impegnate ad insegnare alla nostra gioventù la prassi del lavoro non pagato con l’alternanza scuola-lavoro), di ogni singola/o insegnante in quanto Gramsci e la scuola si identificano e possono, insieme, indicare una strada per resistere allo strapotere dei dominanti.
Lelio La Porta, docente nei licei, membro della International Gramsci Society, collaboratore di Critica marxista, saggista
[1] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 866.
[2] A. Gramsci, Lettere 1908-1926, a cura di Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino 1992, pp. 271-272; ora anche in A. Gramsci, Un Gramsci per le nostre scuole, a cura di L. La Porta, Editori Riuniti, Roma 2016, pp. 210-211.
[3] E. Che Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba in ID., Scritti scelti, a cura di R. Massari, erre emme, Roma 1993, v. II, p. 711.
[4] A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 501.
[5] Ivi, p. 838.
[6] A. Gramsci, Cronache torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1980, pp. 673-676.
[7] A. Gramsci, La Città Futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1982, pp. 458-461. Sono, peraltro, le stesse frasi proposte nella replica all’interrogazione parlamentare del 27 maggio 1997 da Fortunato Aloi, insegnante, uno dei leaders della Rivolta di Reggio nel 1970, deputato del Msi, poi di Alleanza Nazionale, sottosegretario all’Istruzione nel governo Berlusconi I, rieletto parlamentare nel 1996.
Fonte- Enciclopedia TRECCANI on line-
Biografia di ANTONIO GRAMSCI– Uomo politico e pensatore (Ales, Cagliari, 1891 – Roma 1937). Membro del PSI e fondatore de L’Ordine Nuovo (1919), fece parte dell’esecutivo dell’Internazionale comunista (1923). Divenuto segretario del Partito comunista d’Italia e deputato (1924), affrontò la questione meridionale, indirizzando la politica dei comunisti verso l’unione con i socialisti massimalisti. Nel 1924 fondò il quotidiano politico l’Unità, organo del PCd’I. Per la sua attività e per le sue idee fu condannato a venti anni di carcere (1928). Il suo pensiero politico, espresso anche nei numerosi scritti, si articolò in una rilettura globale dei fenomeni sociali e politici internazionali dal Risorgimento in poi, che lo portò a criticare per la prima volta lo stalinismo, a teorizzare il passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”, a formulare i concetti di “egemonia” e di “rivoluzione passiva”. Per la statura del suo impegno intellettuale e politico è considerato una tra le maggiori figure della prima metà del Novecento italiano.
Vita e attivitàVicino in gioventù all’autonomismo sardo, frequentò l’univ. di Torino dal 1911, avvicinandosi alla milizia socialista e rivoluzionaria. Iscritto al PSI dal 1913, fu redattore del Grido del popolo e dell’Avanti!; dopo la sommossa popolare dell’ag. 1917 divenne segretario della sezione socialista torinese. Nel maggio 1919 fondò L’Ordine Nuovo, settimanale di cultura socialista diretto soprattutto alla classe operaia, che militava in favore dell’adesione del Partito socialista all’Internazionale comunista e a sostegno del movimento dei consigli di fabbrica; nel 1920 le posizioni de L’Ordine Nuovo ebbero l’approvazione di Lenin e nello scontro interno al PSI G. si avvicinò all’ala astensionista guidata da A. Bordiga, che auspicava la costituzione del Partito comunista d’Italia (PCd’I), sezione italiana dell’Internazionale comunista. Membro del comitato centrale del nuovo partito (genn. 1921), fu a Mosca dal giugno 1922 al nov. 1923 ed entrò nell’esecutivo dell’Internazionale. Dal 1923 G. maturò il distacco dalle posizioni di Bordiga (che si trovava in polemica con l’Internazionale), per cui, rientrato in Italia nel maggio 1924, divenuto segretario del partito (nel 1924 era stato anche eletto deputato) e avendo fondato già a gennaio dello stesso anno il quotidiano politico l’Unità come organo del PCd’I, indirizzò, sfidando la dura linea di repressione perseguita dal governo fascista, la politica comunista verso l’unità con i socialisti massimalisti e verso un radicamento nella società italiana che aveva come fine l’alleanza tra gli operai e le masse contadine del Mezzogiorno (la “questione meridionale”), linea che ebbe la definitiva sanzione nel III congresso del PCd’I (Lione, 1926). Arrestato nel nov. 1926 con altri dirigenti del partito, nel 1928 G. fu condannato dal Tribunale speciale a venti anni di reclusione per attività cospirativa, incitamento all’odio di classe, ecc., e trascorse il periodo detentivo prevalentemente nel carcere di Turi e, dal 1934, in una clinica di Formia. Le condizioni di salute, già incerte, si aggravarono durante la reclusione e G. morì poco dopo la scarcerazione, avvenuta per amnistia.
Opere e pensiero -Sia la pubblicazione degli scritti politici, sia le Lettere dal carcere (postumo, 1947; ed. ampliate 1965, 1988), sia, e soprattutto, i Quaderni del carcere (postumo, 1948-51; ed. critica 1975) hanno avuto grande rilevanza nella cultura italiana del dopoguerra. Sul terreno politico, risale infatti a G. una delle prime e più incisive critiche politiche allo stalinismo (1926), nonché l’abbozzo, nei Quaderni, di una strategia rivoluzionaria fondata su un’idea non repressiva del potere (egemonia), in grado di tener conto della complessità e delle articolazioni della moderna società industriale (passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”). Prevalentemente ispirati da esigenze ermeneutiche e dunque solo indirettamente militanti, i Quaderni iniziano un’indagine di ampio respiro critico su molti aspetti della società, della storia e della cultura moderna: attraverso il concetto di “rivoluzione passiva” G. tenta, per es., di unificare una serie di fenomeni attuali legati al coinvolgimento e al ruolo delle masse nella società moderna, quali l'”americanismo”, la pianificazione sovietica e persino il fascismo; lo stesso concetto viene utilizzato anche su un piano storiografico, rispetto al quale hanno avuto particolare risonanza le considerazioni sui limiti democratici dello stato nazionale unitario, alla cui base vi è la lettura del risorgimento italiano come rivoluzione popolare mancata. Rilevanti gli approfondimenti su altri temi quali la storia degli intellettuali italiani, il pensiero politico di Machiavelli e il rapporto tra letteratura e società; sul terreno propriamente filosofico, il serrato confronto con B. Croce, la cui elaborazione viene complessivamente valutata come ritraduzione nel linguaggio speculativo idealistico del materialismo storico, si accompagna con un’interpretazione del marxismo in chiave storicistica e antideterministica (“filosofia della praxis”), lettura che pone al centro della riflessione l’attività umana come è storicamente determinata e l’insieme dei concreti rapporti (economici, sociali, ideologici, giuridici, ecc.) che legano gli uomini tra di loro.
Fonte- Enciclopedia TRECCANI on line-
Ordine nuovo, L’ Testata fondata a Torino da A. Gramsci. Uscì come settimanale di cultura socialista dal maggio 1919 al dicembre 1920, rappresentando le istanze del movimento dei consigli di fabbrica e, più in generale, le posizioni della tendenza comunista torinese. Quotidiano del partito comunista dal gennaio 1921 al dicembre 1922, uscì infine a Roma come quindicinale dal marzo 1924 all’aprile 1925. Vi collaborarono tra gli altri P. Togliatti, A. Tasca, U. Terracini.
Storia del popolo armeno
Biblioteca DEA SABINA
Pillole di Storia del popolo armeno
Pillole di Storia- Circa 3.500 anni fa gli antenati degli armeni, le tribù Hayasa-Azzi, abitavano le alture dell’Anatolia, ma la lingua armena (e il popolo che la parlava), secondo alcuni studiosi, si sarebbe infatti differenziata dall’indoeuropeo oltre 8.000 anni fa. Il primo grande regno degli antichi armeni (che chiamavano loro stessi Hay) fu quello di Urartu, fondato intorno all’835 a.C. dal re Sarduri I. Fino al 585 a.C. dominò la regione del monte Ararat e del lago Van, nel cuore dell’attuale Turchia asiatica. I re della dinastia degli Orontidi, nel V secolo a.C., si allearono con i persiani, di cui diventarono potenti satrapi (governatori delle province, chiamate satrapie). Passata la dominazione romana, l’Armenia fu tra i primi regni a convertirsi al cristianesimo e il primo in assoluto ad adottare il nuovo credo come religione di Stato, nel 301. – Oggi nel mondo gli armeni sono tra i 9 e i 10 milioni. Solo 3,5 milioni di loro vivono nella Repubblica Armena (nel Caucaso), nata dal crollo dell’Urss e indipendente dal 1991. Gli altri si trovano in Russia (oltre 1 milione e mezzo), in Francia, Stati Uniti, Grecia, Libano e altri Paesi, Italia compresa. Tra le comunità nate nel nostro Paese in seguito alla persecuzione turca, la più importante fu quella di Nor Arax (Nuova Armenia), alla periferia di Bari, dove negli Anni ’20 approdarono centinaia di profughi. Oggi la più numerosa è invece quella di Milano (oltre un migliaio di persone), dove nel 1958 fu costituita l’unica parrocchia italiana della Chiesa Armena. Gli armeni in Italia c’erano però anche prima del 1915: in Calabria furono deportati dai Bizantini fra il V e il X secolo; nel 1717, invece, la Serenissima donò l’isola di San Lazzaro, nella laguna di Venezia, all’abate cattolico armeno Pietro Mechitar, in fuga dal Peloponneso.
Il genocidio del popolo armeno 1894/1896 – 1915/1918
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Il genocidio del popolo armeno 1894/1896 – 1915/1918
Articolo di Luigi Rigazzi
Occuparsi del genocidio del popolo armeno – a un secolo dalla tragedia immane che si è perpetrata ai confini della nostra realtà europea – è una necessità non meno dell’interesse di documentare e fare memoria che ha mosso gli studiosi e l’opinione pubblica nei confronti della Sho’à. In particolare è sentito come dovere dalla redazione della rivista Qol, che da trent’anni si occupa di ebraismo e dello sterminio degli ebrei: un modo di allargare l’orizzonte della sua ricerca e soprattutto di sensibilizzare l’opinione pubblica sia italiana che internazionale sull’argomento, ancora poco conosciuto e studiato. Si tratta del secondo evento che ha avuto questa denominazione, dopo il genocidio degli Herero per mano dell’esercito tedesco al comando del Generale Lothar von Trotha tra il 1904 e il 1907 in Namibia. Ma il termine genocidio[1] è stato coniato per la prima volta da un giurista ebreo polacco, Raphael Lemkin nel 1944 (che nella Sho’à aveva perso 49 familiari), per designare il massacro del Popolo Armeno.[2] Esso riguarda una popolazione dalla lunga storia e civiltà, cristiana dai primi secoli dell’era volgare: gli Armeni hanno popolato l’Anatolia e il sud del Caucaso per oltre 3.500 anni e la loro nazione nel 301 d.C. fu la prima ad adottare il Cristianesimo come religione di Stato. Nel 451 d.C., dopo il Concilio di Calcedonia a cui non partecipò, costituì una propria chiesa, indipendente dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa, la Chiesa Apostolica Armena. Sin dall’antichità la storia di quest’ultima coincide con quella dell’Armenia.
Più o meno tutti hanno sentito parlare dei “Giusti per Israele”, cioè quanti vengono riconosciuti tali, perché si sono prodigati a rischio della loro vita per salvare gli Ebrei durante il regime nazi-fascista: essi vengono ricordati allo Yad Vashem di Gerusalemme con la posa di un albero. A pochissimi è noto che dal 1996 esiste a Yerevan, capitale dell’Armenia, il Muro della Memoria, sulla “Collina delle rondini,” dove vengono poste le lapidi con i nomi dei “Giusti per gli Armeni” e tumulate le ceneri o la terra delle tombe di tutti coloro che hanno testimoniato o denunciato la pianificazione e l’esecuzione del genocidio del Popolo Armeno da parte dei Giovani Turchi. E’ stata istituita anche la Giornata della Memoria che cade il 24 Aprile di ogni anno, a ricordare la stessa data del 1915 legata al cosiddetto “Grande Male / Metz Yeghèrn.”
In verità lo sterminio del Popolo Armeno ha avuto luogo in due fasi, di cui la prima tra il 1894 e il 1896 sotto l’ultimo sovrano della Sacra Porta, ‘Abd ul-Hamid. Egli decise di scaricare sugli Armeni la colpa dei fallimenti dell’ operato suo e dei suoi predecessori, ed emanò alcune leggi per isolarli dalla vita civile e renderli reietti dell’impero, un’anticipazione di quello che avrebbero fatto con gli Ebrei negli anni ’30 del ‘900 i nazisti in Germania e i fascisti in Italia. L’immane carneficina, iniziata alla fine dell’Ottocento, diventò il problema principale dei Giovani Turchi, un movimento politico nato alla fine del XIX secolo con il nome di Giovani Ottomani, che si ispiravano alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, desiderosi di trasformare l’Impero Ottomano ormai in decomposizione in una monarchia costituzionale moderna. I loro primi obbiettivi erano liberali e costituzionali, infatti collaborarono alla stesura della Costituzione del 1876. Ma nella volontà di creare uno stato nazionale turco, che comprendesse tutte le popolazioni turcofone, sul modello degli stati europei, il problema delle varie etnie (l’armena, la greca, la curda, e quella assira), fu da loro risolto con la decisione di sterminarle.
L’8 ottobre del 1912, quando il Montenegro dichiarò guerra all’Impero Ottomano, ebbe inizio la Prima Guerra balcanica, che in pochi giorni coinvolse altri paesi della Lega balcanica, Grecia, Bulgaria, Serbia. In pochissimi mesi il potente esercito ottomano fu costretto alla resa e col trattato di Londra (30 maggio 1913) una gran parte dei territori balcanici facenti parte dell’impero furono spartiti tra Grecia, Bulgaria, Serbia, Montenegro e Macedonia. Timorosi di un‘adesione al conflitto da parte degli Armeni, che già da diversi anni chiedevano l’indipendenza, i Giovani Turchi trovarono l’occasione per un ulteriore sterminio (peraltro già deciso in un congresso segreto tenutosi a Salonicco nel 1911[3]) nello scoppio della prima guerra mondiale. Essa vide la Turchia alleata degli Imperi Centrali, mentre la Russia loro confinante si schierò sul fronte opposto, a fianco delle Potenze Alleate. I Giovani Turchi iniziarono a mezzo stampa una campagna sistematica di diffamazione e di odio, considerando la popolazione armena come una quinta colonna al servizio del nemico, perciò una minaccia per la sicurezza nazionale. Ancora una volta dopo quelli di fine ‘800 vi furono massacri sistematici, fatti passare come condanne per alto tradimento. L’inizio del massacro iniziò la notte del 24 aprile del 1915, a Costantinopoli, con l’arresto e l’uccisione di 500 intellettuali armeni. Quel giorno a Costantinopoli 500 esponenti del Movimento armeno vennero incarcerati e poi strangolati col filo di ferro[4]. Il piano fu ben escogitato, colpendo prima gli intellettuali, i politici, i giornalisti, poi reclutando nell’esercito i giovani che, dopo aver prestato servizio nella campagna del Caucaso, vennero disarmati dai turchi e spediti in catene a Kharput col pretesto di utilizzarli per la costruzione di una strada. Ma appena giunti vennero giustiziati a colpi di arma da fuoco, e tutti i cadaveri vennero gettati in una grotta. Il fatto fu confermato e descritto nel luglio del 1915 dal Console statunitense di Ankara. Infine la località di Deir al-Zor, desolata e desertica regione della Siria, vide la deportazione di oltre 1.200.000 persone: vecchi, donne e bambini, che con marce forzate, senza acqua, senza viveri, iniziarono a morire di stenti, di malattie e i cui sopravvissuti alla fine vennero trucidati. Lo sterminio era stato pianificato, con uno studio puntuale e una programmazione in ogni sua fase, a partire dalla primavera del 1914. Allo scopo fu istituita una Commissione di tre elementi composta dal Segretario Nazim, da Behaettin Shakir e dal Ministro della Pubblica Istruzione Shoukri, sotto il controllo di Taalat Pascià. E’ interessante ascoltare cosa scrive il Segretario Nazim, nella sua relazione che chiude una riunione segreta del Comitato di Unione e Progresso: “Siamo in guerra; e non potrebbe verificarsi un’occasione migliore per sterminare tutta la popolazione armena. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa; e se anche ciò accadesse tutti si troverebbero di fronte ad un fatto compiuto.” Un altro membro della Commissione, Hassan Fehmin, affermò: “Siamo nelle condizioni ideali per spedire sul fronte caucasico tutti i giovani armeni ancora in grado di imbracciare un fucile. E una volta là, possiamo intrappolarli e annientarli con facilità, chiusi come saranno tra le forze russe che si troveranno davanti e le forze speciali che piazzeremo alle loro spalle” [5].
Da una stima approssimativa, si presume che nel massacro morirono circa 1.500.000 persone, ma il governo turco non ha mai voluto riconoscere il misfatto e nega che sia mai stato perpetrato un simile delitto. Durante il suo mandato come Presidente della Turchia, Sami Suleyman Demirel, non ricordando quanto avevano accertato e documentato le commissioni d’inchiesta del 1918, ha sostenuto che gli Armeni non hanno mai subito un genocidio, ma che sono stati vittime di una punizione meritata.[6] Questa presa di posizione ebbe conseguenze nefaste anche in tempi successivi.
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, col decreto imperiale del 16 dicembre 1918, il sultano Mehmed VI, per paura di rappresaglie da parte delle potenze vincitrici, insediò due commissioni d’inchiesta, una parlamentare per ascoltare e giudicare ministri, funzionari e alti dignitari dello stato coinvolti nel massacro del Popolo Armeno, l’altra con un decreto del gennaio 1919 consentì alla Corte Marziale di giudicare gli autori di “disposizioni e massacri”. Ci furono diversi processi in quasi tutte le città dove erano avvenuti i massacri: Yozgad, Tresibonda, Baibourt, Erzindjan, Moussoul. I processi si svolsero dal febbraio 1919 al giugno del 1920. Le condanne più eclatanti furono quelle emesse contro i Ministri Enveret, Djemal, Talaat e il dr. Nazim che, giudicati colpevoli per “ L’organizzazione e l’attuazione del crimine di massacro”, furono condannati a morte in contumacia.[7] Il 13 gennaio 1921 le Corti Marziali furono sciolte senza che avessero terminato i loro lavori. Lo stato turco smise di perseguitare i massacratori degli armeni facendo cadere il silenzio su tutta la storia, con un negazionismo ad oltranza sui fatti che avevano portato alla quasi totale eliminazione del Popolo Armeno. I tre principali imputati condannati in contumacia furono raggiunti da sicari del Partito Federazione Rivoluzionaria Armena, conosciuto anche come Dashnak. Il 15 marzo del 1921 Soghomon Tehlirian a Berlino in pieno centro assassinò Talaat Pasha, ma, dopo essere stato arrestato e processato, fu assolto dal giudice tedesco. Dal 1927 in Turchia è ancora in vigore una legge che vieta l’ingresso nel paese degli armeni e soprattutto l’Art. 301 del Codice Penale che riguarda “l’attentato all’integrità turca”. Ne ha fatto le spese per primo lo storico e sociologo turco Altug Taner Akcam, uno dei primi accademici turchi a riconoscere e a discutere apertamente il genocidio armeno del 1915: arrestato nel 1976, fu condannato a dieci anni di reclusione per i suoi scritti. Poi toccò al grande saggista e scrittore turco premio Nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, che venne incriminato nel 2005, in base al medesimo Art. 301, a seguito di alcune dichiarazioni fatte a una rivista svizzera riguardanti il massacro, da parte dei turchi, di un milione di armeni e trentamila curdi in Anatolia durante la Prima Guerra Mondiale. Il processo, che ha attirato l’attenzione della stampa internazionale, è iniziato il 16 dicembre 2005 ma è stato successivamente sospeso in attesa dell’approvazione del ministro della giustizia turco. Va notato che gran parte dell’opinione pubblica turca si schierò contro il poeta. Altro martire è stato il giornalista e scrittore turco di origine armena Harant Dink. Nel 2005 fu condannato a sei mesi di reclusione per suoi articoli dove descriveva i fatti avvenuti tra il 1890 e il 1917, apparsi sul suo giornale bilingue Agos. I tribunali avevano ritenuto i suoi scritti un insulto all’identità turca secondo l’articolo 301 del codice penale turco. Nonostante questa condanna fosse fortemente criticata dall’Unione europea, H. Dink venne a più riprese minacciato di morte per le sue prese di posizione su quanto subito dagli armeni negli ultimi anni dell’Impero Ottomano. Infine fu assassinato il 19 gennaio del 2007 a Istanbul, davanti alla sede del suo giornale, con tre colpi di pistola alla gola.
Oltre al negazionismo assoluto del governo Turco, quello che è più grave è stato il silenzio assordante di tutte le diplomazie occidentali, che per puri interessi di geopolitica hanno girato la testa dall’altra parte, nonostante conoscessero sin dall’inizio ciò che stava succedendo e ciò che alla fine fu realizzato. Infatti le testimonianze di eminenti personaggi erano già a disposizione di tutte le Cancellerie. Ecco quanto scriveva il 24 luglio del 1915 Leslee Davis, Console USA: “Non è un segreto che il piano previsto consisteva nel distruggere la razza armena in quanto razza”; Winston Churchill: “Non vi è alcun dubbio che questo crimine sia stato pianificato ed eseguito per ragioni politiche”; ed infine l’Ambasciatore Aericano in Turchia, Henry Morghentau: “Credo che la storia della razza umana non comprenda un episodio terrificante come questo. Il grande massacro e le persecuzioni del passato sembrano insignificanti se comparate a quella della razza armena nel 1915.” Un’altra voce importante fu quella del Console italiano a Trebisonda: “…gli armeni furono sospettati e sorvegliati dovunque, essi subirono una vera strage, peggiore del massacro… Fu una strage e carneficina d’innocenti, cosa inaudita, una pagina nera, con la violazione fragrante dei più sacrosanti diritti di umanità, di cristianità e di nazionalità… La questione armena non è morta. Anzi essa sorge e si mantiene viva, perché la giustizia internazionale, anche se ritardi…”.[8] Ma, come abbiamo visto, l’auspicio del Console italiano non si è avverato, se ancora oggi, nell’anno di grazia 2014, solo 21 paesi hanno ufficialmente riconosciuto il genocidio: Argentina, Belgio, Canada, Cile, Cipro, Francia, Grecia, Italia, Lituania, Libano, Paesi Bassi, Polonia, Russia, Slovacchia, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera, Uruguay, Vaticano, Venezuela.
Tanti furono i testimoni oculari dell’immane eccidio: uno dei primi a denunciare all’opinione pubblica mondiale quanto aveva visto fu Rafael de Nogales Mendez (1879 – 1936), ufficiale di origine venezuelana, che aveva prestato servizio nell’esercito ottomano, e al rientro in patria pubblicò il libro “Quattro anni sotto la mezzaluna”. Secondo Mendez l’ordine dei massacri fu dato dal Ministro degli Interni Taalat Pascia direttamente ai governatori delle provincie, e scrive: “ …. di oltre 10.000 tra armeni, cristiani nestoriani e giacobiti, lasciarono i corpi ignudi in pasto agli avvoltoi e ai cani randagi”[9] Si conosce pure il dispaccio inviato da Taalat Pascia al Governatore di Aleppo il 15 settembre 1915: “Siete già stato informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l’intera popolazione armena….Occorre la vostra massima collaborazione…. Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi…. Per quanto tragici possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità e efficienza”.[10] Un altro teste importante, come già detto, fu il Console Italiano a Trebisonda, Giovanni Gorrini, che si è battuto molto per far riconosce i diritti di indipendenza dei sopravvissuti per la costituzione di un nuovo Stato Armeno dopo il genocidio. In un suo scritto, apparso sul Messaggero di Roma in data 25 agosto 1915, dichiarò: “…. dal 24 Giugno non ho più dormito né mangiato. Ero preso da crisi di nervi e da nausea al tormento di dover assistere all’esecuzione di massa di quelle innocenti ed inermi persone. Le crudeli cacce all’uomo, le centinaia di cadaveri sulle strade, le donne e i bambini,…quasi fanno perdere la ragione….. degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915, il 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati infatti deportarti dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati.” Una toccante testimonianza è stata quella di Mesrop Minassian, che all’epoca dei fatti aveva quattro anni ed è uno dei pochi sopravvissuti al genocidio: “Nel 1914, quando ebbe inizio la prima Guerra Mondiale, i turchi vennero nel nostro villaggio, radunarono gli uomini armeni e li portarono via per arruolarli nell’esercito ottomano. Ma ci fu poi chi portò la notizia che, lungo la strada, li avevano uccisi tutti a colpi di accetta. Tra quegli uomini c’era anche mio padre….Arrivarono – continua Mesrop – e ci fecero uscire tutti dalle case. Ragazze, donne, bambini: ci portarono tutti nel deserto. Così, come un agnellino, mi hanno strappato da mia madre. Mi misero sottoterra, mi seppellirono lasciando fuori solo la testa e si allontanarono dicendo “Domani uccidiamo anche questo qui”. Poi se ne andarono a scegliersi le ragazze più belle: quelle brutte le uccidevano o le gettavano nel fiume. Aprivano la pancia alle donne incinte, per vedere se il figlio era maschio o femmina. Alle ragazze vergini tagliavano i capezzoli, mentre alle donne tagliavano i seni e glieli mettevano sulle spalle. Io, dal buco dove ero interrato, vedevo tutto con i miei occhi”. Il piccolo Mesrop, dopo aver assistito alla carneficina, fu salvato grazie a un rapimento: “ Un turco che passava da quelle parti sentì i miei lamenti. Venne, mi tirò fuori e mi portò a casa sua: Poi mi condusse dal mullah e mi fece circoncidere. Mi fecero stendere per strada, in mezzo al paese, in modo che chi passava vedeva che c’era un musulmano in più. Io rimasi con il mio padrone turco, badavo alle sue pecore…. e mi utilizzava come servo. Ogni giorno mi diceva: “Infedele! Porta le pecore al pascolo e torna!”[11]. Un altro grande divulgatore del genocidio armeno fu lo scrittore ebreo Franz Werfel,[12] che con il suo romanzo: “I quaranta giorni di Musa Dagh” scritto nel 1929 a Damasco e pubblicato nel 1933, affronta e racconta dello sterminio degli Armeni da parte dei Turchi. Il libro poi ispirò la resistenza e la rivolta del ghetto di Varsavia, ed è ancora oggi una delle migliori testimonianze sul genocidio del popolo armeno. Il testimone oculare più importante del genocidio fu senz’altro Armin Theolphil Wegner (Wuppertal 1886 – Roma 1978). Ufficiale del Servizio Sanitario dell’esercito Tedesco, fu inviato allo scoppio del Prima Guerra Mondiale in seguito all’alleanza militare tra la Germania e la Turchia in Medio Oriente, come rappresentante del Servizio Sanitario Tedesco al seguito del Generale Von der Golz. Al giovane Wegner giunge voce di deportazioni e di massacri nei confronti della popolazione armena stanziata in Anatolia: notizie non nuove per lui, che ha sentito raccontare dal padre Gustav dei massacri degli Armeni avvenuti sul finire dell’Ottocento. Volendo accertarsi di persona di cosa stia succedendo, si procura una macchina fotografica, e approfittando dei giorni di permesso raggiunge le zone della carneficina ed inizia a scattare fotografie, a raccogliere testimonianze, sapendo di trasgredire e venir meno ai suoi doveri di ufficiale dell’esercito tedesco, alleato dell’esercito turco. Tutto quello che ha visto e documentato sulle sofferenze del Popolo Ameno viene da lui descritto nelle lettere alla madre, che poi saranno raccolte nel libro “La via senza ritorno”. Il giovane ufficiale, incurante del divieto di avvicinarsi ai luoghi della deportazione e dell’eccidio, non solo prosegue la sua opera di documentazione ma la invia agli amici e alle autorità di tutta Europa. Scoperto, viene rimpatriato in Germania, dove continua la sua attività di divulgatore. Nel 1919 indirizza una lettera al Presidente degli Stati Uniti d’America, dove descrive gli orrori a cui ha assistito: “Non chiuda le orecchie perché è uno sconosciuto che le parla…se Lei sfoglierà quei terribili scritti che hanno raccolto su questi avvenimenti Lord Bryce in Inghilterra e Johannes Lepsuis in Germania, Lei vedrà che non esagero…faccio questo con il diritto della comunità umana, con il diritto di promessa sacra. La voce della coscienza non potrà mai placarsi in me…”. La lettera non ha avuto nessun esito.[13] Nel 1933, dopo la salita al potere di Hitler, e memore della sorte toccata agli Armeni in Turchia, conoscendo la politica del Fuhrer nei confronti degli Ebrei, indirizza una lettera a Adolf Hitler e al popolo tedesco per denunciare i comportamenti antiumani che il regime nazista ha iniziato ad attuare contro gli Ebrei, denunciando tutta la sua indignazione con queste parole: “ … Signor Cancelliere del Reich, non si tratta solo del destino dei nostri fratelli Ebrei. Si tratta del destino dell’intera Germania! In nome di quel popolo per il quale ho diritto non meno che il dovere di parlare, come qualsiasi altro che viene dal suo sangue, come tedesco a cui non è stato dato il dono della parola per rendersi complice col silenzio quando il suo cuore freme di sdegno, mi rivolgo a Lei: fermate tutto questo! L’ebraismo è sopravvissuto alla prigionia babilonese, alla schiavitù in Egitto, ai tribunali dell’Inquisizione spagnola, alla calamità delle Crociate e alle persecuzioni del Seicento in Russia, con la tenacia che ha permesso a questo popolo di diventare antico. Gli Ebrei riusciranno a superare anche questo pericolo, ma la vergogna e la sciagura che a causa di ciò si abbatterà sulla Germania non saranno dimenticate per lungo tempo! Infatti, su chi cadrà un giorno lo stesso colpo che ora si vuole assestare agli Ebrei, se non su noi stessi?”. La risposta fu immediata: fu arrestato, torturato e internato in vari campi di concentramento a Orannienburg, Börgermoor e Lichtenburg, in fine venne scarcerato e si recò volontariamente in esilio, prima in Inghilterra, poi in Palestina con la moglie, la poetessa ebrea Lola Landau (1892 – 1990). Infine nel 1936 venne in Italia e visse prima a Positano, poi tra Stromboli e Roma, dove morì nel 1978. Il Wegner, nonostante soffrisse la lontananza dalle cose che aveva amato, non volle mai far ritorno in Germania, di cui lasciò scritto: “La Germania mi ha preso tutto: la mia casa, il mio successo, la mia libertà, il mio lavoro, i miei amici, la mia casa natale, e tutto quanto avevo di più caro. In ultimo la Germania mi ha tolto mia moglie (divorziarono nel 1939, n.d.a.); e questo è il paese che io continuo ad amare, nonostante tutto.”[14] Per il ruolo che ha avuto nel diffondere e far conoscere la tragedia del Popolo Armeno, il 21 aprile del 1996 Pietro Kuciukian (Fondatore del Comitato Internazionale dei Giusti per gli Armeni) e il figlio di Wegner, Mischa, hanno trasportato le sue ceneri per tumularle sulla “ Collina delle rondini” a Yerevan. Egli è stato dichiarato “Giusto per gli Armeni”, insignito dell’Ordine di San Gregorio e gli viene inoltre intitolata una strada. Wegner è stato il primo “giusto testimone” che ha ottenuto questo riconoscimento. Israele nel 1968 lo aveva insignito del titolo di “Giusto per Israele”, per l’impegno preso in tempi non sospetti a sostegno della causa degli Ebrei. Bellissima la frase che Armin aveva inciso a Stromboli, nel soffitto della sua stanza: “Ci è stato affidato un compito di lavorare ad un’opera, ma non ci è dato di compierla”.
Voglio ricordare che, oltre alla Sho’à e al Genocidio del Popolo Armeno, il mondo ha assistito inerme e distratto a molti altri genocidi, che meritano un’uguale volontà di farne memoria:
- Le guerre Herero, sono ricordate come il primo genocidio perpetrato nel XX secolo, ebbero luogo nell’Africa tedesca del Sud-Ovest, l’odierna Nubibia, tra il 1904 e il 1907 ad opera dell’esercito tedesco al comando del Generale Lothar von Trotha. Il numero delle vittime fu di circa 70.000 persone. Il 16 agosto del 2004 nel centesimo anniversario del genocidio, il Ministro tedesco, Heidemarie Wieczorek-Zeul affermò: “che i tedeschi accettavano la propria responsabilità storica e morale e riconoscevano la propria colpa, e ammise anche che quanto avvenuto nel Damaraland rispondeva alla definizione di genocidio”.[15]
- Ucraina. La strage che prende nome di Holodomor, letteralmente in russo “infliggere la morte per fame”, fu ideata e realizzata negli anni trenta da Stalin. Morirono di fame più di 10.000.000 di persone. Anche l’Holodomor è stato riconosciuto come crimine contro l’umanità dal Parlamento Europeo nel 2008.
- Nigeria. La guerra civile che iniziò nel 1967 e finì nel 1970, tra le popolazioni Igbo e il governo della Nigeria, dopo la proclamazione della Repubblica del Biafra, costò la vita a più di 2.000.000 di persone. I lieder del Biafra lottano affinché i crimini commessi durante la guerra siano riconosciuti come genocidio.
- Cambogia. I khmer rossi sterminarono circa 2.000.000 di cambogiani, su una popolazione di 7.000.000 circa di abitanti. Per una distrazione totale di tutti i paesi del mondo, il genocidio non è ancora stato riconosciuto.
- Ruanda. Nel genocidio che si perpetrò nel 1994, tra le milizie locali e le bande di etnia Hutu contro la minoranza Tutsi, vennero trucidate a colpi di machete più di 1.000.000 di persone perlopiù di etnia Tutsi, ma anche Hutu sospettati di collaborazionismo. A tutt’oggi i tribunali internazionali sono riusciti a condannare una ventina di persone.
- Bosnia. Il massacro di Srebrenica è considerato uno degli stermini di massa più sanguinosi avvenuti in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Morirono circa 8.372 persone. La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja nel 2007 ha riconosciuto il genocidio.
- Darfur. Dal 2003 il Darfur, regione nel sud-ovest del Sudan, è sconvolto da una guerra civile tra la maggioranza nera e la minoranza araba, costata già più di 400.000 morti. Nonostante ciò, il massacro ancora oggi non è riconosciuto come tentativo di voler sterminare una minoranza etnica.[16]
Dopo tutto questo, penso che sia cosa importante far memoria di questi misfatti e vigilare, perché ciò che è accaduto non si ripeta più.
Bibliografia consigliata:
- David Marshall Lang, Armeni un popolo in esilio, Edizioni Calderini, Bologna, 1989;
- Franz Werfel, I quaranta giorni di Musa Dagh,Corbaccio, Milano, 2000:
- Pietro Kuciukian, Voci nel deserto dei Giusti e testimoni per gli armeni, Guerini e Associati, Milano, 2000;
- Emanuele Aliprandi, 1915, cronaca di un genocidio. La tragedia del popolo armeno raccontata dai giornali italiani dell’epoca, & My Book, 2009;
- Antonia Arslan, La masseria delle allodole, Rizzoli, Milano, 2004;
- Claude Mutafian, Metz Yeghèrn: breve storia del genocidio degli armeni, Guerini e Associati, Milano, 1995;
- Maria Immacolata Maciotti, Il genocidio armeno nella storia e nella memoria, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2011;
- Henry Morgenthau, Diario, 1913–1916, Guerini e Associati, Milano, 2010;
- Ajemian Ahnert Margaret, Le rose di Ester – Una madre racconta il genocidio armeno, Rizzoli, Milano, 2008;
- Marcello Flores, Il genocidio degli armeni, Il Mulino, Bologna, 2007;
- Alberto Rosselli, L’olocausto armeno, Edizioni Solfanelli, Chieti, 2007;
- Paolo Cossi, Medz Yeghern, Il Grande Male, Edizioni Hazard, Milano, 2007;
- Diego Cimara, Il genocidio turco degli armeni, Edizioni Editing, Treviso, 2006;
- Marco Impagliazzo, Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915–1916), Edizioni Guerini e Associati, 2000;
- Hrand Nazariantz, L’Armenia, il suo martirio e le sue rivendicazioni, F. Battiato, Catania, 1916.
[1] Genocidio, dal greco genos – famiglia, tribù o razza e dal suffisso latino cidio- uccisione.
[2] www.treccani.it/enciclopedia/genocidio
[3] Il riconoscimento del genocidio armeno, www.vietatoparlare.it
[4] Rosselli Alberto, L’Olocausto Armeno, digilander.libero.it/atticciati/storia/olocausto armeno.htm
[5] Rosselli Alberto, L’Olocausto Armeno, digilander.libero.it/atticciati/storia/olocausto armeno.htm
[6] B. Di Spigna, Il genocidio armeno: una tragedia dimenticata. http://studenti.liceobeccaria.it/ilbeccariota
[7] V. N. Dadrian, I responsabili di fronte alla Corte Marziale, www.pavonerisorse.it/storia900
[8] Testimonianze del genocidio degli Armeni, www.iisbachelet.it/documenti/TESTIMONIANZE
[9] Rosselli Alberto, L’Olocausto Armeno, digilander.libero.it/atticciati/storia/Olocausto Armeno.htm
[10] Rosselli Alberto, L’Olocausto Armeno, digilander.libero.it/atticciati/storia/OlocaustoArmeno.htm
[11] Testimonianze del genocidio degli Armeni, www.iisbachelet.it/documenti/TESTIMONIANZE
[12] Pietro Kuciukian, I Testimoni del Genocidio e I Giusti, www.vittorininet.it
[13] Armin Theophil Wegner, www.itiservi.it/biblioteca/armeni
[14] Armin T. Wegner. Si appello ai leader del suo tempo per fermare i genocidi contro gli armeni e gli ebrei. www.gariwo.net
[15] 1904 1907 guerre Herero, WikipediA.
[16] Il Giorno della Memoria e i genocidi dimenticati, www.dirittodicritica.com
Fonte-Confronti – Coop Com Nuovi Tempi S.r.l.
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Il Grande Male: la Turchia e gli armeni – Il primo genocidio del XX secolo-Biblioteca DEA SABINA
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Il Grande Male: la Turchia e gli armeni – Il primo genocidio del XX secolo
Nel 1915 la Turchia pianificò il genocidio di oltre un milione e mezzo di armeni, “tutti traditori” quanto oggi i curdi sono “tutti terroristi”: quell’olocausto fu poi una fonte di ispirazione per i nazisti.
Aksor! Gridavano le donne. Questa parola – deportazione – suscitò in mia madre un urlo di disperazione. Lei sapeva. Era il luglio del 1915 e a ricordare è Varvar, che allora aveva 6 anni e che in seguito raccontò alla figlia, giornalista e scrittrice, la sua storia di sopravvissuta al genocidio degli armeni. Una tragedia e un crimine contro l’umanità che fino al 1973 il mondo ha finto di ignorare. Solamente allora, infatti, la Commissione dell’Onu per i diritti umani ha riconosciuto ufficialmente lo sterminio di circa 1 milione e mezzo di armeni – da parte dell’Impero ottomano – come il primo genocidio del XX secolo.
Capri espiatori. Il Metz Yeghern (grande male), come lo chiamano gli armeni della diaspora, iniziò il 24 aprile 1915 con l’arresto di 2.345 persone nella sola Istanbul, poi giustiziate o deportate.
Impantanato nella Prima guerra mondiale, il plurisecolare Impero ottomano era al tramonto. Minacciata dalla Russia, Istanbul temeva l’alleanza dei circa 2 milioni di sudditi armeni (cristiani) con gli slavi ortodossi: al governo, i Giovani Turchi del Comitato di unione e progresso gettavano benzina sul fuoco del nazionalismo.
«La premessa del genocidio fu lo smembramento dell’Impero ottomano, che tra il 1878 e il 1918 perse l’85% del suo territorio e il 75% della popolazione», spiega lo storico e dissidente turco Taner Akçam – il primo studioso del suo Paese a parlare apertamente di genocidio. Per questo, nel 1976, è stato condannato a 10 anni di carcere: rifugiato prima in Germania, oggi insegna all’Università del Minnesota (Usa).
Akçam, attraverso lunghe ricerche d’archivio, ha ricostruito come la Repubblica Turca, fondata nel 1923 sulle ceneri dell’impero da Mustafa Kemal “Atatürk” (cioè “Padre dei Turchi”), sia figlia anche della pulizia etnica. «Per costruire la nuova nazione, Kemal Atatürk si servì proprio degli organizzatori dello sterminio e di chi si era arricchito depredando gli armeni», spiega Akçam.
Era la fine della tolleranza ottomana, che, pur tra molte discriminazioni, aveva permesso per secoli la convivenza dei popoli più diversi, armeni compresi. Questi ultimi, però, erano “colpevoli” di rappresentare un’élite culturale ed economica, pur essendo una minoranza linguistica e religiosa. Il ritratto perfetto del capro espiatorio.
Innocenti oggi? Colpevoli domani! Così, quel fatidico 24 aprile (commemorato ogni anno dagli armeni di tutto il mondo), dal ministero dell’Interno partì l’ordine: arrestare i notabili e gli intellettuali armeni. L’accusa era di alto tradimento: Ristabilimento dell’ordine nella zona di guerra con misure militari, rese necessarie dalla connivenza con il nemico, il tradimento e il concorso armato della popolazione, così la burocrazia militare turca giustificò i massacri.
Quando l’ambasciatore americano Henry Morgenthau inviò una supplica in difesa degli armeni, questa fu la risposta del ministro dell’Interno ottomano, Ahmed Pascià Tal’at (poi assassinato da un “vendicatore armeno” nel 1921): «Ci è stato rimproverato di non fare alcuna distinzione tra gli armeni innocenti e quelli colpevoli; ma ciò non è possibile, per il fatto che coloro che oggi sono innocenti, potranno essere colpevoli domani». Per i nazionalisti si trattava di una “difesa preventiva”: gli armeni erano solo “microbi tubercolotici” da debellare, arricchitisi – dicevano i Giovani Turchi – sulle spalle dei “turchi onesti”.
Tragica efficienza. Per ripulire più rapidamente il sacro suolo turco, per la prima volta nella Storia fu applicata la deportazione sistematica, fredda, scientifica, ordinata da un’apposita “legge di deportazione”. Un sistema affidato alla cosiddetta Organizzazione speciale, formata per lo più da criminali ed ex detenuti. La tragica efficienza dell’Organizzazione, secondo diversi studiosi, ispirò ai nazisti i metodi della “soluzione finale” contro gli ebrei. «Per la prima volta si fece ampio uso dei moderni sistemi di trasmissione delle informazioni (telegrafo) e di trasporto (ferrovia)», spiega lo storico francese Bernard Bruneteau nel suo libro Il secolo dei genocidi (il Mulino, 2006).
Gli armeni arruolati nell’esercito furono sommariamente passati per le armi. «In alcuni vilayet – le province armene – non si procedette nemmeno alla deportazione, bensì all’uccisione sul posto. Le vittime venivano legate e gettate nei fiumi due a due. Così, per intere settimane, l’Eufrate ne trascinò i cadaveri, che si accumulavano sui banchi di sabbia per finire poi in pasto ai cani e agli avvoltoi», racconta ancora Bruneteau.
Chi non veniva ucciso sul luogo moriva nelle marce forzate, per le privazioni e le malattie. Un esempio fra tanti: dei 18.000 partiti dalla cittadina di Sivas, solo 500 superstiti giunsero, stremati, ad Aleppo (oggi in Siria), dove convergevano i convogli dall’Anatolia, dalla Tracia, dall’Asia Minore e dalla Cilicia (Turchia meridionale); e appena 213 dei 5.000 armeni di Harput arrivarono a destinazione. «Alla fine dell’estate del 1915 in Anatolia non c’erano più armeni», afferma Bruneteau. Circa 300.000 di loro si erano rifugiati in Russia, dove nel 1920 nacque l’Armenia sovietica e nel 1991 l’attuale Repubblica Armena. Almeno un milione morirono nelle “marce della morte” e in seguito alle privazioni.
Selezione naturale. Aleppo divenne il teatro della seconda fase del genocidio: i campi di concentramento. Ancora oggi, gli archivi turchi della Direzione generale dei deportati sono inaccessibili: per fare luce su ciò che accadde in quei campi bisogna affidarsi alle testimonianze dei sopravvissuti, dei diplomatici e dei tecnici stranieri (soprattutto tedeschi) che lavoravano alla costruzione delle ferrovie dell’Impero ottomano.
Emerge così il vero scopo dei campi: non quello di trasferire gli armeni fuori dal “sacro suolo” turco, bensì quello di affrettarne l’eliminazione.
«In tutto c’erano 870.000 persone distribuite in parecchie decine di campi improvvisati lungo il corso dell’Eufrate, per circa 200 chilometri», scrive Bruneteau. «La strategia adottata dai turchi consisteva innanzi tutto nel lasciare marcire per settimane i deportati nei campi di transito alla periferia di Aleppo, per poi spostarli da un campo di concentramento all’altro lungo l’Eufrate, fino alla fine di un processo di selezione naturale». Ammassati all’aperto, senza cibo né cure, morivano a migliaia. «Nel solo campo di Islayhié si calcola che fino alla primavera del 1916 siano morti di fame o di malattia in sessantamila.»
Le donne, come la madre della piccola Varvar, furono quelle che soffrirono di più: “Le più belle sono vittime della lubricità dei loro carcerieri, mentre quelle brutte soccombono alle sevizie, alla fame, alla sete, poiché, stese vicino alle fonti d’acqua, non hanno il permesso di dissetarsi. Agli europei è vietato distribuire pane agli affamati”, si legge in una lettera inviata da quattro professori della scuola tedesca di Aleppo.
La solita indifferenza. Come in Cambogia negli Anni ’70, in Ruanda negli Anni ’90, in Sudan fino a tutt’oggi, e ancora con i Turchi all’assalto dell’enclave curda in Siria, il mondo stava a guardare.
«Una particolarità del genocidio del 1915», afferma Bruneteau, «è di essere stato perpetrato sotto gli occhi dei rappresentanti della comunità internazionale: osservatori neutrali (svizzeri, americani, danesi e svedesi) e funzionari civili e militari tedeschi e austriaci».
Anche se i rapporti e le testimonianze di questi osservatori permettevano di ricostruire, sostiene Bruneteau «l’intenzione omicida del governo», nessuno fermò la macchina dello sterminio.
L’unica cosa che poterono fare, soprattutto volontari americani ed esercito francese, fu, alla fine della guerra, raccogliere i profughi e accompagnarli con le navi in Grecia, in Libano, in Francia e anche in Italia. Era l’inizio della diaspora armena.
Nel 1923, con la nascita della Repubblica Turca, furono bloccati i processi chiesti dalla comunità internazionale; dopo la Seconda guerra mondiale la Turchia divenne un alleato strategico per l’Occidente, e il primo genocidio dell’età moderna entrò nell’oblio. Per ironia della Storia, il governo turco firmò persino la Convenzione sul genocidio dell’Onu del 1948, in base alla quale la Turchia fu poi condannata, nel 1984, dal Tribunale permanente dei popoli – una istituzione che non ha però alcun potere reale.
Dissidenza pericolosa. Ancora oggi, in Turchia, l’argomento è tabù. Ufficialmente, quella armena fu una “rivolta” e le vittime non superarono le 300.000. Pochi turchi osano parlare apertamente di genocidio, anche perché l’articolo 301 del codice penale turco (introdotto nel 2005) punisce il reato di “offesa allo Stato turco”.
Lo hanno fatto il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk, incriminato e oggi costretto a vivere sotto protezione, la scrittrice Elif Shafak (poi prosciolta), Taner Akçam; ma anche il giornalista Hrant Dink, assassinato nel 2007. «La Turchia non ammette il genocidio perché quel crimine fu commesso dai “padri della patria”», spiega Akçam. «Molti membri del Comitato di unione e progresso ricoprirono posizioni importanti nella neonata Repubblica Turca. Riconoscere le loro responsabilità significa mettere in discussione l’ideologia nazionale turca e l’identità stessa della nazione», conclude lo storico dissidente. Ancora oggi, non sembra che la Turchia voglia fare i conti con il suo passato.
© Questo articolo è tratto da Il Grande Male, di Aldo Carioli, pubblicato su Focus Storia n. 20 (giugno 2008). Di Aldo Carioli, su focus.it abbiamo pubblicato La curiosa storia del nuovo populismo.-23 aprile 2021 Focus.it
Pasqua di sangue sul Monte Tancia in Sabina ( 7 aprile 1944)
Biblioteca DEA SABINA
Pasqua di sangue sul Monte Tancia in Sabina (aprile 1944)
Articolo di Rosario Bentivegna- (da Patria Indipendente, aprile 2000)
Nel 79° anniversario della “Pasqua di Sangue” che ha percosso la Sabina nell’aprile del 1944, da Poggio Mirteto a Poggio Bustone, a Leonessa, ad Amatrice, alle Fosse Reatine, e in particolare nell’anniversario della battaglia del Monte Tancia che aprì quel terribile periodo, voglio ricordare anzitutto la fermezza e il coraggio di un grande Presule, che protestò apertamente contro le stragi terroristiche e contro la “guerra ai civili” condotta dai nazisti: S.E. Benigno Luciano Migliorini, Vescovo di Rieti. Egli allora non seguì l’esempio di altri Vescovi – da Roma a Zagabria – che risposero con il “silenzio” della “prudenza” e della “paterna imparzialità” ai delitti dei nazisti, o addirittura appoggiarono e consacrarono regimi e milizie criminali che osavano definirsi “cattolici”, e che quelle stragi commettevano, talvolta perfino nel nome di Cristo: al Pontificale di Pasqua Mons. Migliorini alzò invece, e fieramente, la sua protesta contro i crimini commessi dai tedeschi e dai fascisti, e il 14 aprile del 1944 espresse il suo sdegno con una terribile lettera di condanna, inviata al prefetto repubblichino e letta nelle domeniche successive da molti dei suoi parroci nelle chiese della Sabina.
In quella lettera il Vescovo di Rieti diceva tra l’altro:
“Per parte mia vi pongo tre domande:
“1. – Perché nelle esecuzioni capitali i condannati non possono avere il Sacerdote cattolico?
“2. – Perché i bimbi furono uccisi alla stessa stregua delle persone adulte? Che forse la loro innocenza doveva esse punita?
“3. – Perché le salme di coloro che furono sottoposti alla pena capitale non possono essere sepolte nel Camposanto, secondo il rito cattolico, mentre da tutti i popoli è ammesso che “oltre il rogo non vale ira nemica”?
“Tengo poi sepolta nel cuore, versando tutte le mie lacrime innanzi l’altare di Dio, un’altra cosa che voi ben potete immaginare.”
Solo qualche settimana più tardi, verso i primi di maggio, quelle salme potranno essere inumate sulla cima della montagna, e solo dopo la Liberazione troveranno pace in una tomba. Ma di chi erano quelle salme? La “battaglia del venerdì santo” del 1944 – era il sette aprile – cominciò alle prime luci dell’alba. Il comando tedesco aveva schierato durante la notte, intorno al massiccio del Tancia, nella Bassa Sabina, 60 km. a nord di Roma, reparti delle divisioni “Goering” e “Sardinia” e un battaglione di “Camicie nere”. I nemici cominciarono a salire sulla montagna che era ancora buio, in silenzio, guidati da spie repubblichine: speravano di cogliere nel sonno quei trecento ragazzi che dormivano sulla cima, nel Capannone di Tancia e nelle altre attestazioni di Rocco Piano, Crocette, Casale Ferri e Cerreta.
Le pattuglie partigiane che vigilavano le mulattiere e le gole si accorsero dell’insidia solo quando la cima fu scossa dalle granate dei mortai, ma attaccarono subito, cogliendo a loro volta di sorpresa il nemico impegnato nell’arrampicata. Altri compagni li raggiunsero, da ogni parte della montagna si cominciò a sparare. La brigata era numerosa, era stata ben armata e addestrata dagli ufficiali dell’Esercito italiano che la guidavano e che avevano saputo preparare ottime postazioni difensive sui fianchi del Tancia. Ne facevano parte soldati sbandati e giovani dei paesi sabini che avevano rifiutato i bandi fascisti. Si era formata subito dopo l’8 settembre; l’avevano organizzata a Poggio Mirteto i comunisti appena usciti dalla clandestinità e ufficiali dell’esercito che presidiavano la zona con i loro reparti, reduci dagli scontri avvenuti a Monterotondo il 9 e il 10 settembre, contro la Divisione Paracadutisti Student, nella battaglia per la difesa di Roma.
I partigiani Monici, Michiorri e Masci si incontrarono così con gli ufficiali D’Ercole, Toschi, Piccirilli, Giorgio Labò, che diverrà più tardi l’artificiere dei gap romani e per questo sarà fucilato nel marzo a Forte Bravetta, e Giuseppe Felici, che era stato ferito nella battaglia per Roma e che con Labò porterà a termine le prime azioni di guerriglia. Felici, ferito nuovamente nella battaglia del Tancia, sarà fatto prigioniero e passato per le armi. Tutti e due sono stati insigniti della medaglia d’oro al valor militare alla memoria. La brigata aveva assunto il doppio nome “D’Ercole-Stalin”, a significare l’incontro tra gli ufficiali e i soldati dell’Esercito, guidati dal Maggiore D’Ercole, e i partigiani comunisti di Poggio Mirteto, guidati da Redento Masci. Poche settimane prima la formazione partigiana era stata rinforzata da un nutrito gruppo di partigiani superstiti dell’8° zona garibaldina di Roma, guidati da Nino Franchillucci e Luigi Forcella, che, in seguito ai rovesci subiti dalla loro formazione nei primi giorni di marzo nelle borgate di Centocelle e Torpignattara, erano stati trasferiti in montagna.
I ragazzi della brigata quella mattina del 7 aprile, e per tutta la giornata fino a sera, impegnarono il nemico in scontri durissimi e inflissero pesanti perdite agli assalitori. Ma il nemico era troppo forte, bene armato e ben equipaggiato, e i partigiani, stanchi, affamati, a corto di munizioni, dovettero cedere. Tentarono con successo di sfondare l’accerchiamento verso Poggio Catino, Roccantica e Casperia (che allora si chiamava Aspra): una squadra partigiana, che si era attestata sul Monte Arcucciola, una delle cime del massiccio, con la sua mitragliatrice tenne aperta la strada della ritirata agli altri compagni. Attraverso quel varco riuscì a passare anche Anna Mei, che era lì con il marito e i suoi quattro figli (il più piccolo aveva quattro anni) e che fungeva da staffetta, da assistente sociale, da infermiera e da vivandiera.
Quando il gruppo dell’Arcucciola tentò a sua volta di sganciarsi, uno dei ragazzi fu ferito. Gli altri cercarono di trasportarlo via, ma quel ritardo fu fatale e furono irrimediabilmente accerchiati. Resistettero ancora; esaurite le munizioni si difesero usando i fucili come clave. A sera furono finiti.
Bruno Bruni, morente, fu coperto con il cappotto da Libero Aspromonti, che, unico e ultimo sopravvissuto, riuscì a sfuggire – era ormai notte fonda – strisciando nella macchia verso Poggio Catino. Bruno Bruni, di 21 anni, medaglia d’oro alla memoria,è rimasto lassù, insieme a Franco, suo fratello, di tre anni più giovane, Giordano Sangallo, di 16 anni, che aveva già combattuto in Roma con i Gap Centrali e nell’8° zona garibaldina a Centocelle e Torpignattara, Nello Donini, di 18 anni, Domenico del Bufalo, di 20 anni, Giacomo Donati, di 36 anni, Alberto di Battista, di 22 anni.
I tedeschi e i fascisti presero quella cima dopo un’intera giornata di durissimi scontri: le armi dei partigiani, ben attestate e ben usate, avevano falciato lungo le pendici del Tancia centinaia di nemici. Il conto non gli tornava, e così, tanto per pareggiarlo, quel conto, la mattina del giorno successivo, all’alba, i soldati della Wermacht, da quei “volenterosi carnefici di Hitler” che erano, bruciarono le casupole sparse sulla montagna e massacrarono tutti i civili che trovarono sul massiccio: otto donne dai 19 ai 66 anni; quattro vecchi dai 70 ai 78 anni e sette bambini dai 2 agli 11 anni.
Sul Tancia niente rimase vivo: anche gli animali che non poterono essere asportati ebbero la stessa sorte dei bambini, delle donne, dei vecchi, dei sei partigiani dell’Arcucciola. A maggior gloria di Hittler e di Mussolini.
Il rastrellamento continuò. Il nemico, scovati altri partigiani feriti nelle macchie e per le strade lungo le pendici della montagna, li finirono sul posto o li trascinarono a Rieti e li fucilarono: tra questi Giuseppe Felici e uno studente milanese di quindici anni, Giannantonio Pellegrini Gislaghi, che qualche settimana prima era fuggito di casa per andare con i partigiani.
Intanto a Poggio Mirteto tedeschi e fascisti rastrellavano spietatamente la cittadina. Le case dei partigiani individuati dalle spie furono date alle fiamme. Trenta poggiani, tra cui il “podestà” repubblichino Giuseppe De Vito, che, pur avendo accettato quell’incarico, si era sempre rifiutato di fare il delatore, furono anche loro portati a Rieti. Il “podestà” De Vito fu torturato dai suoi “camerati”, ma non gli strapparono un nome. Fu fucilato la mattina di Pasqua, alle Fosse Reatine, insieme ai partigiani della sua città catturati sul Tancia. Solo alcuni riuscirono a fuggire corrompendo i loro aguzzini.
Ma il nemico non si sentì ancora appagato e ordinò che quei poveri corpi che erano rimasti sul monte non fossero sotterrati, pena la morte. Dovevano restare esposti ai corvi e alle intemperie, dovevano disfarsi all’aria, non trovare pace in una tomba.
È’ a questo punto che parte la straordinaria iniziativa del Vescovo di Rieti, S.E. Benigno Luciano Migliorini, che non si nascose nel silenzio ma denunciò pubblicamente e con coraggiosa fermezza l’infamia dei nazisti, i quali non osarono violare la sacralità della sua funzione. Poggio Mirteto non si fece pacificare, e i suoi partigiani, insieme a quelli dei paesi vicini, continuarono la lotta. E così la città fu punita ancora.
Il 10 giugno – gli Alleati erano ormai alle porte – una motocarrozzetta tedesca passò per le strade deserte annunciando la ritirata dell’esercito germanico e invitando la popolazione a prendersi le derrate alimentari abbandonate. La gente era affamata, uscì all’aperto, sulla piazza, ma era una trappola, e fu centrata dai mortai dei nazisti armati di granate anti-uomo. Così accadrà anche negli anni ’90, al mercato di Sarajevo: le “tecniche” della pulizia etnica, benedette nel 1944 da Mons. Aljzjie Stepinac, arcivescovo di Zagabria, di recente elevato agli onori degli altari, sono sempre le stesse.
(da Patria Indipendente, aprile 2000)