Ripresa la campagna di scavo alla villa di Tito di Paterno
Castel Sant’Angelo -25 maggio 2023-Anche quest’anno sono riprese le indagini di scavo presso il sito archeologico della cosiddetta villa di Tito a Paterno di Castel Sant’Angelo. Il progetto, iniziato nel 2018, ha l’obiettivo di riportare alla luce i diversi ambienti del sontuoso complesso monumentale, con il fine di comprenderne la funzione e definirne la cronologia. Il gruppo di ricerca, formato da studenti universitari canadesi, diretto dal prof. Myles McCallum dell’Università Saint Mary di Halifax e dal prof. Martin Beckmann della McMaster University di Hamilton, coordinato dal prof. Simone Nardelli, sarà impegnato nelle attività di scavo e ricerca fino alla fine di giugno. L’équipe, grazie al fattivo supporto del Comune di Castel Sant’Angelo e della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e per la Provincia di Rieti, sta portando avanti uno studio che consentirà di valorizzare degnamente molte delle straordinarie emergenze archeologiche che insistono nell’area dell’antica Cutilia, luogo strettamente legato alle origini del popolo sabino e centro d’Italia di varroniana memoria.
Castel Sant’Angelo(Ri) villa di Tito di PaternoCastel Sant’Angelo(Ri) villa di Tito di Paterno
MOMPEO(Rieti)-Scavi archeologici nella Villa Romana in “Località Monte”
COMUNE DI MOMPEO(Rieti)
-Scavi archeologici nella Villa Romana in “Località Monte”-
MOMPEO- 22 maggio 2023-Iniziano nuovi scavi archeologici presso la villa romana di Località Monte a Mompeo grazie a una campagna di indagini promossa dal Comune di Mompeo in collaborazione con l’Università della Lorena.
L’équipe coinvolta è composta da studenti e laureandi dell’Université de Lorraine- HisCAnt-MA -Nancy-France, guidati dalla Professoressa Elisabetta Interdonato, esperta di Archeologia Mediterranea, e dal dott. Federico Giletti. Questa sinergia internazionale offre un’opportunità di formazione accademica e di scambio culturale tra Italia e Francia e contribuisce a promuovere la collaborazione scientifica e a creare una rete di conoscenze che arricchisce entrambe le parti coinvolte.
La partecipazione di specialisti dell’Istituto di Scienze per il Patrimonio Culturale del Consiglio Nazionale delle Ricerche sottolinea l’importanza e il valore attribuiti a questa ricerca anche a livello nazionale.
MOMPEO(Rieti)-Scavi archeologici nella Villa Romana in “Località Monte”
La Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e la provincia di Rieti ha autorizzato e sostenuto attivamente queste indagini, riconoscendo l’importanza di proteggere e valorizzare le vestigia presenti.
Va sottolineato che il rinvenimento dei resti dell’antico acquedotto scorso anno ha già offerto preziose informazioni sulla struttura e la funzionalità di questa sontuosa villa rustica. Questi nuovi scavi promettono di rivelare ulteriori dettagli sulla vita quotidiana degli antichi romani e sulle loro pratiche architettoniche e culturali.
Non possiamo che lodare la visione e l’impegno di Stefano Fassone, il proprietario del terreno su cui si trova il sito archeologico, che ha dimostrato una straordinaria sensibilità verso la conservazione del patrimonio storico-culturale.
La scoperta e la valorizzazione di siti archeologici come la villa romana di Località Monte a Mompeo non solo arricchiscono la nostra comprensione del passato, ma offrono anche opportunità di sviluppo turistico e culturale per la comunità locale. È un motivo di orgoglio poter essere protagonisti di un progetto che contribuisce in modo significativo alla conservazione e alla diffusione della nostra eredità storica e culturale.
MOMPEO(Rieti)-Scavi archeologici nella Villa Romana in “Località Monte”MOMPEO(Rieti)-Scavi archeologici nella Villa Romana in “Località Monte”
Ad Annita, con due enne, piace essere definita vecchia, non anziana. È una donna generosa e attenta, che vive la sua vita in una penombra piena di solitudine e di assenze. Il romanzo racconta di occhi appannati, di memorie perdute, di vuoti indelebili, ma anche di amicizie e di affetti che non perdono vigore con l’avanzare dell’età. Il tempo che rimane è il tempo dei vecchi, pieno di ore, ma privo di futuro. Annita ribalta gli schemi restituendo a ogni istante la sua eternità.
Chi è la scrittrice Daniela Tozzi
Daniela Tozzi
Daniela Tozzi vive a Roma.Organizza eventi e tiene corsi di scrittura. Ha pubblicato il romanzo Bianco. Nel 2019 pubblica il libro Il tempo che rimane con l’editore Merlino Edizioni.Il tempo che rimane -Vincitore del concorso letterario nazionale “Un libro per l’inverno” edizione 2020, il secondo libro di Daniela Tozzi è una gemma dell’editoria indipendente italiana.
CASCIA-Santa Rita “laureata nell’amore”, modello di gioia per tutti
CASCIA 22 maggio 2023-L’omelia del cardinale Semeraro prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi nel solenne pontificale per la festa liturgica della santa di Cascia: “Diffuse la pace amata e perseguita come bene supremo, l’amore fraterno e sincero, la fiducia in Dio”
Una donna, una santa, segnata dalla sofferenza ma che ancora oggi, dopo secoli, è modello di gioia per tutti i credenti. Così il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, ricorda Rita da Cascia, santa “universalmente nota, amata e invocata”, di cui oggi 22 maggio la Chiesa celebra la memoria liturgica. Il porporato presiede il solenne pontificale al Santuario, seguito dalla Supplica e dalla Benedizione delle rose.
Parole dolci come miele
All’inizio della sua omelia, il cardinale rivela di essersi preparato alla celebrazione prendendo dall’Archivio del Dicastero il volume della Positio super virtutibus stampata nel 1897 per la canonizzazione di Santa Rita che ne percorre in sintesi la storia a cominciare dal richiamo alle api, fin dall’inizio presente nella tradizione ritiana. “Le api, ruotandole sulla bocca preannunciano che le sue parole sarebbero state dolci come il miele. Subito dopo l’Inno richiama come ella sia entrata, esemplarmente, nei diversi stati di vita cristiana: coniugale, vedovile e di vita consacrata”. C’è poi il ricordo del miracolo della stigmatizzazione: “Il Crocifisso risponde alla sua preghiera donandole una delle spine della sua corona”, ricorda Semeraro. Rita, disse un testimone, “concepì un vero desiderio di essere a parte di quelle pene che Gesù ha voluto soffrire per amore nostro…”.
Le parole di Giovanni Paolo II
Il cardinale rammenta poi quanto scrisse Giovanni Paolo II per il VI centenario della nascita della Santa: “Il segno della spina, al di là della sofferenza fisica che le procurava, fu in Santa Rita come il sigillo delle sue pene interiori; più ancora, però, fu la prova della sua diretta partecipazione alla Passione del Cristo”, affermava il Pontefice polacco. E ancora: “La stigmata che brilla sulla sua fronte è l’autenticazione della sua maturità cristiana. Sulla Croce con Gesù, ella si è in certo modo laureata in quell’amore, che aveva già conosciuto ed espresso in modo eroico tra le mura di casa e nella partecipazione alle vicende della sua città”, come disse ai devoti di Santa Rita ricevuti nel maggio 2000.
Sofferenza per amore
“Laureata nell’amore!”, un’immagine davvero efficace: “Il Signore ha conferito a Santa Rita la grazia di portare nel cuore e sulla fronte i segno dell’amore e della passione di Cristo”, afferma Semeraro. Cita poi un libro del padre Agostino Trapè, in cui l’agostiniano scriveva che la stigmatizzazione “fu il vertice della vita mistica di Santa Rita e la sua contemplazione ci introduce nell’aspetto più sublime e insieme più difficile del suo messaggio, quello della sofferenza: la sofferenza chiesta ed ottenuta per amore di ‘compassione’”. Parole confermate dalla testimonianza di un teste del processo per la canonizzazione, il quale disse che Santa Rita “attingeva la carità verso il prossimo dal cuore di Gesù, cui voleva assomigliarsi in tutto”. Mentre in un’altra testimonianza si leggeva: “L’amore di Dio della nostra Beata non era ozioso, ma operativo e modellato sulla carità di Gesù Cristo”.
Una testimonianza unanime, dunque, per la Santa che è simbolo di sofferenza, di carità ma anche di gioia. Quella gioia che, sottolinea Semeraro, è stata per molto tempo tagliata fuori della predicazione cristiana.
Piena di gioia
Nonostante “l’aspra sofferenza” provocatale dalla stigmatizzazione, Rita da Cascia “fu sempre piena di gioia. Non parlo solo della sofferenza fisica, ma pure di altre umiliazioni legate al segno della ferita della passione”, dice il capo Dicastero, citando ancora la Positio che spiega come la ferita si convertì in piaga nauseante per cui “la Beata divenne il disprezzo delle altre Monache, che col linguaggio dei Contadini la chiamavano Rita lercia che vuol dire sudicia e sporca e la schifavano”. “Ma la Beata tutta accesa da amore di Dio, e desiderosa di essere simile a Gesù Crocifisso, non solo soffriva tutto con pazienza, ma amava ancora i patimenti e i disprezzi”, afferma il porporato.
“Spina spes gloriae”: secondo padre Trapè, questa è la frase che sintetizza la vita di Santa Rita. “Nonostante i drammi e i dolori che accompagnarono le vicende della sua vita, ella ebbe nel cuore la gioia e la diffuse intorno a sé… Diffuse, infatti, la gioia del perdono pronto e generoso, della pace amata e perseguita come bene supremo, dell’amore fraterno e sincero, della fiducia in Dio piena e filiale, della croce portata con Cristo e per Cristo”, conclude Semeraro.
L’avvio dei lavori del nuovo ospedale
Subito dopo il Solenne Pontificale sono stati avviati i lavori per il nuovo ospedale “Santa Rita da Cascia”. “Concludiamo oggi la Festa di Santa Rita, che è stato un rinnovato momento di fratellanza e preghiera per la famiglia della santa degli impossibili, facendo insieme il primo passo di uno dei più significativi traguardi per la ricostruzione dei territori colpiti dal sisma del 2016″, commenta suor Maria Rosa Bernardinis, madre priora del Monastero Santa Rita da Cascia. “La posa della prima pietra del nuovo ospedale, rappresentata dalla targa che si trovava nella vecchia struttura, per commemorarne l’edificazione da parte del monastero, racchiude una grande sfida, che non ci chiama solo alla ricostruzione dei muri ma anche a quella di una vera tutela della salute, in seguito alle gravi conseguenze della pandemia, che hanno messo in luce la crisi del sistema sanitario”.
Le monache in preghiera per Ucraina ed Emilia Romagna
-Articolo di Tiziana Campisi-
Nella cittadina umbra un ampio programma di celebrazioni ed eventi. Il 22 maggio, giorno della memoria liturgica, presiede il solenne pontificale il cardinale Semeraro. “Siamo al fianco del Papa nella costruzione di una speranza di pace, in Ucraina e in ogni Paese martoriato dalla guerra” dice in un messaggio la badessa del monastero in cui ha vissuto la santa dei casi impossibili, assicurando anche vicinanza e preghiere per gli emiliani colpiti dall’alluvione
Città del Vaticano-21 maggio 2023-Sarà il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, a presiedere il 22 maggio, alle 10.30 a Cascia, il solenne pontificale per la memoria liturgica di santa Rita. La celebrazione si svolgerà nella Sala della Pace e al termine i celebranti e i fedeli si recheranno in processione sul sagrato della basilica che custodisce le spoglie della taumaturga agostiniana per la recita della supplica e la tradizionale benedizione delle rose. E sempre nel giorno della festa della santa dei casi impossibili, come segnale di speranza, si darà uffialmente il via alla ricostruzione dell’ospedale cittadino, reso inagibile dal sisma del 2016, che era stato edificato negli anni ’60 dal Monastero di Santa Rita e donato al comune.
Il messaggio della badessa del monastero di santa Rita
santa Rita
“Alla vigilia del 22 maggio, siamo al fianco del Papa nella costruzione di una speranza di pace, in Ucraina e in ogni Paese martoriato dalla guerra. Pregheremo chiedendo l’intercessione di santa Rita – afferma madre Maria Rosa Bernardinis, badessa del monastero di Cascia, nel messaggio in occasione della festa – perché, secondo il suo esempio, converta i cuori dei leader coinvolti affinché cerchino la strada del dialogo, per costruire una pace che sappia di giustizia, piuttosto che continuare con la via delle armi, che innesca la spirale dell’odio”. A santa Rita saranno anche rivolte preghiere perché le popolazioni dell’Emilia Romagna colpite dall’impressionante trovino conforto, aggiunge madre Maria Rosa, esprimendo a nome di tutte le monache agostiniane vicinanza alle terre emiliane. “Costruire una pace giusta – continua, poi, il messaggio della religiosa – significa aprire le porte all’ altro, cercando di mediare e ricostruire il dialogo. “E aprire, anzi spalancare le porte, per permettere a chi ha bisogno di sperimentare l’Amore del Signore” è quello che fanno le donne alle quali viene consegnato il Riconoscimento Internazionale Santa Rita 2023, spiega la badessa, “accomunate dal loro ‘essere servizio al prossimo’” e che “hanno saputo fiorire nonostante le spine delle loro vite, confidando in Dio, e facendo della carità, propria di Santa Rita, e della devozione come partecipazione, la loro missione di vita, a partire dal vicino della porta accanto, per arrivare a chi è più lontano o diverso”.
Il Riconoscimento Internazionale a tre donne
santa Rita
Il “Riconoscimento Internazionale Santa Rita 2023” viene consegnato oggi, alle 17.30, nella basilica di Cascia. Il premio, istituito nel 1988, per volontà delle monache agostiniane, dei padri agostiniani e dell’amministrazione comunale, viene conferito a donne di ogni Paese e religione che incarnano i valori alla radice del messaggio della santa di Cascia. Quest’anno le donne che si sono distinte per la forza del perdono o per aver vissuto come una missione l’impegno in difesa della dignità delle persona, sono Luciana Daqua, calabrese, assistente sociale e docente universitaria, per essere stata al fianco di extracomunitari, prostitute, donne violentate, omosessuali non accettati dalla famiglia, persone con disagio psichico, accompagnandoli verso un futuro migliore; Antonella Dirella, molisana, insegnante, che ha perso il marito e si è consacrata come laica nell’associazione San Giuseppe, fondata da don Giussani, per essersi saputa affidare a Dio nelle prove della vita, facendosi dono per gli altri; Franca Pedrini, veneta, moglie, madre e nonna, presidente della cooperativa sociale “I Piosi”, da 33 anni centro diurno e casa di accoglienza per persone con disabilità, per aver accettato con fede i tanti lutti vissuti in famiglia ed averli trasformati in occasioni per amare il prossimo nelle sue fragilità, impegnandosi senza riserve.
L’arrivo della Fiaccola della pace e del perdono
Il ricco programma del 21 maggio prevede, tra i diversi appuntamenti, sempre nella basilica dedicata a santa Rita, alle 10, la rievocazione del transito della santa dei casi impossibili, quindi alle 21.30 l’arrivo della Fiaccola della pace e del perdono accesa il 23 marzo scorso a Verona, che quest’anno è gemellata con Cascia per divulgare insieme alla cittadina umbra i valori ritiani, e lo scambio dei doni tra i comuni gemellati. Alle 22.00, poi, con l’accensione del tripode, verrà dato ufficialmente il via ai festeggiamenti ritiani 2023. Nella basilica verrà consegnato alla badessa del monastero dell’olio votivo per l’urna che contiene le reliquie di santa Rita e sarà recitata una preghiera di affidamento alla taumaturga.
In preghiera con le monache dal coro della clausura
santa Rita
In preparazione alla festa di Santa Rita, ogni giorno, dalle ore 11.50 alle 12.35, le monache agostiniane del monastero di Cascia, hanno recitato il Rosario in diretta social. Per la prima volta le religiose hanno aperto la clausura dal coro, il luogo di preghiera della comunità monastica, e a loro era possibile collegarsi sui canali Facebook, Instagram e Youtube del monastero. “Aprire la clausura, proprio dal coro che rappresenta l’anima della nostra comunità, il luogo in cui ci ritroviamo per pregare insieme, favorendo la comunione – aveva dichiarato madre Maria Rosa Bernardinis, badessa del monastero in un comunicato stampa -, è il modo in cui vogliamo testimoniare la nostra apertura e servizio al prossimo, secondo quello che è lo spirito della festa di santa Rita”.
Le iniziative solidali ritiane
L’iniziativa di preghiera ha inteso anche promuovere gesti di solidarietà e così le monache hanno proposto, a chi lo desiderava, di pregare insieme a loro utilizzando un rosario-bracciale in madreperla e legno d’ulivo, acquistabile on line, realizzato a Betlemme dal centro Piccirillo – gestito dai francescani della Custodia di Terra Santa che offrono lavoro a famiglie povere altrimenti inoccupate -, e benedetto nella Grotta della Natività. Le offerte raccolte serviranno a sostenere la Fondazione Santa Rita da Cascia nella ricostruzione dell’ospedale St. Virgilius Memorial di Namu, in Nigeria, fondato e gestito dalla Congregazione delle Sorelle di Nostra Signora di Fatima. Si potrà contribuire anche acquistando, sul portale del monastero, “Le rose di Santa Rita”, una piccola pianta di rosa, il fiore simbolo della santa dei casi impossibili che, come la rosa, ha saputo fiorire nonostante le spine che la vita le ha riservato, donando il buon profumo di Cristo.
Niccolò Capponi:”Al traditor s’uccida”editrice il Saggiatore.
“Al traditor s’uccida”, Niccolò Capponi, editrice il Saggiatore. La mattina del 26 aprile 1478, nel palazzo Medici a Firenze, famigli e inservienti sono impegnati nei preparativi per il banchetto in onore del giovane cardinale Raffaele Sansoni Riario, pronipote del pontefice Sisto IV. Nel frattempo, a poca distanza, nel palazzo Pazzi si svolgono traffici ben più loschi: i congiurati definiscono gli ultimi dettagli dell’attentato ai danni dei fratelli Lorenzo e Giuliano de’ Medici, temuti e spesso odiati dominatori della scena politica fiorentina. Poche ore dopo, al termine della messa nel duomo, al grido di “ahi, traditore!” Franceschino de’ Pazzi e Bernardo Bandini aggrediscono Giuliano e lo pugnalano a morte vicino all’altare maggiore. Ferito al collo da due preti sicari, Lorenzo si rifugia coi suoi nella sagrestia serrando la porta. La città piomba nel caos. Le radici della cospirazione si spingono oltre le mura di Firenze. Mani invisibili a Roma, Napoli e Urbino tessevano da tempo una trama sinistra, con l’obiettivo di provocare un drammatico e radicale mutamento di regime nella Repubblica fiorentina. I nomi implicati nella congiura sono molti e di prima grandezza, da Federico da Montefeltro al re di Napoli Ferrante d’Aragona. In cima alla lista, papa Sisto IV. Nel suo “Al traditor s’uccida”, editrice Il Saggiatore, lo storico Niccolò Capponi ripercorre i cinque lustri di storia italiana culminati nella celebre congiura de’ Pazzi, un affresco in cui figurano i principali protagonisti della scena politica italiana ed europea del secondo Quattrocento.
Le memorie dell’antifascismo ravennate nel libro “K1-Vertigine di ideali” di Luigi Martini
Sabato 27 novembre alle ore 17.00 presso la Sala Spadolini della Biblioteca Oriani la fondazione “Bella Ciao” di Ravenna presenta il volume: “K1-Vertigine di ideali. I comunisti nell’antifascismo ravennate 1920-1926” di Luigi Martini. Presenta l’appuntamento Alessandro Luparini Direttore della Biblioteca Oriani, seguono gli interventi di Guido Ceroni, per la Fondazione “Bella Ciao”, Natalina Menghetti, già Sindaca di Alfonsine, Francesco Giasi, Direttore della Fondazione Gramsci, e naturalmente l’autore Luigi Martini.
Inizia con questo volume la pubblicazione della corposa e documentatissima ricerca che Luigi Martini ha dedicato alla storia del P.C.d’I. in provincia di Ravenna dalla fondazione alla seconda guerra mondiale. La parte di gran lunga meno conosciuta. Una ricerca iniziata molti lustri fa, poco dopo il 1971. Così Martini poté attingere a preziose informazioni da militanti allora ancora viventi, e testimonianze e fonti indirette allora pienamente impegnate nella vita politica e capaci di trasmettere e interpretare quelle antiche memorie.
Antonio Gramsci: Perché studiare il latino e il greco?
[Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55].
Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità.
Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.
Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti.
Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.
Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.
Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige.
Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare.
Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale.
È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.
Ecco perchè molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato.
Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.
Antonio GramsciAntonio Gramsci- AntologiaGramsci Antonio Jr.-
Rara lettera di Leopardi in mostra alla Biblioteca di Napoli
GIACOMO LEOPARDI -lettera autografa-
RECANATI –Martedì 22 Dicembre 2020-Esposta per la prima volta alla Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli la lettera autografa di Giacomo Leopardi scritta a Bologna nel dicembre 1825 ed indirizzata all’ amico e letterato, il conte Carlo Emanuele Muzzarelli.
Lo scritto è stato acquisito dalla Biblioteca Nazionale di Napoli lo scorso 18 novembre all’asta della Finarte; si tratta di un documento di particolare interesse bibliografico e storico che richiama il clima risorgimentale di quegli anni e la sincera ammirazione dei liberali per le prime Canzoni di Leopardi e soprattutto per quella “All’Italia” dalla quale traspare l’entusiasmo patriottico di Leopardi-
FONTE-Articolo del giornale on line IL CITTADINO DI RECANATI-
Prof. Costantino Di Sante-Il Campo FARFA SABINA fu utilizzato per ospitare gli “INDESIDERABILI”-
Trasformazione delle strutture dei campi di internamento fascisti dopo la seconda guerra mondiale ,alcuni dei campi ospitarono gli “INDESIDERABILI” come nel caso del Campo di Farfa Sabina come altri centri per profughi che già all’inizio del 1944 erano stati attivati nelle Puglie.
Relazione del Prof. Costantino Di Sante
Oggetto della mia relazione è l’analisi di quelle strutture che, dopo aver ospitato, nel corso della seconda guerra mondiale, i campi di concentramento fascisti, vengono utilizzati, successivamente alla liberazione, per l’internamento degli stranieri classificati come “indesiderabili” o per ospitare gli ex internati, gli sfollati e i numerosi profughi che affluirono in Italia dall’Europa orientale e centrale.
Dopo la liberazione dell’Italia meridionale, gli Alleati si trovarono di fronte al problema dei profughi: decine di migliaia di Displaced Persons che dovevano essere assistite e sistemate. A questo fine, fu creata un speciale commissione (Internees and Displaced Persons Sub-Commission) che si occupava di trovare i profughi, soccorrerli e sistemarli nel territorio. Nell’immediato dopoguerra, ai numerosi ex internati e prigionieri che già si trovavano nella penisola, si aggiunsero ex deportati nei lager, reduci, persone rimpatriate dalle colonie e rifugiati. La maggior parte degli ex internati restarono negli stessi campi e nelle stesse località in cui erano stati coattivamente relegati dal regime fascista, in quanto la mancanza di strutture impedì, inizialmente, una diversa sistemazione. Questo accadde a Ferramonti, Campagna, Pisticci, Notaresco ed in altri campi che, strutturalmente ancora funzionati, ospitarono ancora per molti mesi soprattutto ebrei, fino al loro trasferimento in altri centri per profughi che già all’inizio del 1944 erano stati attivati nelle Puglie.
Per ricollocare le Displaced Persons le forze alleate crearono la “Divisione profughi e rimpatriati”, che gestiva circa 20 centri per stranieri (Bagnoli, Barletta, Bari, Trani, Fermo, Senigallia, Reggio Emilia ecc.). Questi, nella maggior parte dei casi, vennero attivati negli ex campi per prigionieri di guerra o nelle caserme dismesse. Nel 1948 passarono sotto la gestione dell’I.R.O. (International Refuge Organization), che si occupava dell’emigrazione e del rimpatrio dei profughi.
Tra di essi, molti, soprattutto i profughi croati che avevano militato nel movimento ustascia, si rifiutavano di tornare nel loro paese per il timore di subire condanne e rappresaglie dal governo di Tito. Il mancato rientro di questi profughi procurò, tra il 1946 e il 1948, nuove tensioni tra il governo jugoslavo e quello italiano. Quest’ultimo, infatti, era accusato di proteggere criminali di guerra ustascia e di ostacolare il libero rientro dei cittadini jugoslavi.
Nonostante fossero previste delle prescrizioni per i DP e una stretta vigilanza, non mancarono incidenti con la popolazione locale. Numerosi scontri si ebbero nei campi di Fermo e Trani che ospitavano i croati. Accadde spesso, inoltre, che ex deportati vennero internati insieme a criminali di guerra, come nel campo di Fossoli di Carpi, riutilizzato anche questo come “Centro raccolta profughi stranieri”, dove ebrei reduci dai campi di sterminio si trovarono a condividere le stesse baracche con i militari tedeschi.
Insieme ai campi di raccolta per stranieri, furono attivati numerosi centri per ospitare i connazionali che tornavano dalle ex colonie ed i reduci, inizialmente gestiti dalla Direzione Generale dell’Assistenza Pubblica del Ministero dell’interno e dall’A.A.I. (Assistenza per gli Aiuti Internazionali), che, dopo il 1952, subentrò nella direzione anche di quelli amministrati dall’I.R.O.
Oltre ai centri profughi, furono attivati, già dal 1944, dei veri e propri campi di concentramento gestiti dalla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’interno, dove vennero relegati quegli stranieri classificati come “indesiderabili”. Tali erano ritenuti i sudditi stranieri “ineleggibili” per l’emigrazione (ex criminali di guerra, clandestini, prostitute, sabotatori e spie), coloro che non accettavano il rimpatrio, ed in seguito quelli che si rifiutavano di emigrare che fino ad allora erano stati ospitati nei centri di raccolta Alleati e delle organizzazioni internazionali.
Vista l’impossibilità di costruire nuove strutture, vennero riutilizzati gli stessi stabili dei campi fascisti: Farfa Sabina per nuclei famigliari, Fraschette d’Alatri per gli uomini, Lipari e Ustica per i clandestini e Alberobello per le donne ed i bambini.
La misura dell’internamento, reintrodotto nell’”Italia Liberata” già dal 31 gennaio 1944 sotto forma di “residenza obbligata”, veniva decisa dal Ministero dell’interno, e poteva essere proposta, tramite i Prefetti, dall’autorità di Pubblica Sicurezza, dagli Alleati e dalle autorità militari.
Nella maggior parte dei casi la sorveglianza venne affidata ai carabinieri e la direzione a commissari di pubblica sicurezza. Le disposizioni relative ai campi erano quasi identiche a quelle previste durante la guerra, e, come in precedenza, la restrizione della libertà personale e le precarie condizioni igienico-sanitarie furono i maggiori disagi che questi nuovi internati furono costretti a subire dentro quegli stessi edifici in cui erano stati relegati i confinati politici ed i “pericolosi durante le contingenze belliche”.
Verso la fine degli anni quaranta ed i primi anni cinquanta la maggior parte degli internati fu fatta emigrare o venne sistemata in “località fuori dal campo”.
Alcuni dei campi per gli “indesiderabili”, come nel caso di Farfa Sabina e Fraschette d’Alatri, rimasero attivi anche nel corso degli anni sessanta.
Foto originali di Franco Leggeri
Campo FARFA SABINA (Rieti)Campo FARFA SABINA (Rieti)Campo FARFA SABINA (Rieti)
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