domenica 3 settembre 2023 ore 17:30 la presentazione del libro
nello Spazio Italia in Piazza Cesare Battisti.
Rieti-31 agosto 2023- I curatori Archeologo Carlo Virili e il Lion Vincenzo Silvi delegato del Governatore del Distretto 108 L, dopo il successo di pubblico dello scorso ottobre a Largo San Giorgio a Rieti e nella primavera di quest’anno al Museo Cicolano a Corvaro di Borgorose, grazie al Lions Club Rieti Host ripresentano, in occasione della dodicesima Fiera Mondiale Campionaria del Peperoncino di Rieti (domenica 3 settembre, ore 17.30, Spazio Italia, Piazza Cesare Battisti), il volume “Rieti Città delle Acque – Studi e ricerche di geologia, archeologia e storia dell’agro reatino“. Con ciò si propone alla città e al territorio una riflessione di ampio respiro sulle acque, la nostra più grande risorsa, presenza intimamente impressa nella nostra stessa identità, sin dai miti ancestrali delle origini. Il volume – a cura dell’archeologo Carlo Virili, in collaborazione con il Lion Vincenzo Silvi – riproduce gli atti del convegno svolto a Rieti nel 2015. Nel ripercorrere gli Atti del Convegno, scopriamo così come i primi abitatori abbiano popolato una valle ricca di risorse e si siano adattati alla vita sullo scomparso lacus Velinus e come il suo ritirarsi ed estendersi abbia condizionato e plasmato la cultura delle nostre genti nei secoli. Gli autori ringraziano gli esperti che appassionatamente hanno accompagnato, regalando occhi nuovi per il passato, il presente ed il futuro di una città, di un fiume, di una fertile pianura.
Il momento epico della Resistenza ha oscurato nella memoria civile collettiva l’esperienza precedente della lotta non armata e sulla storia dell’antifascismo tra le due guerre è calata una coltre di silenzio. Eppure furono oltre 5000 i dissidenti condannati per le loro idee nel corso del Ventennio e proprio nelle prigioni prese forma quell’idea embrionale di democrazia che poi, attraverso le ferite della guerra e della lotta di Liberazione, si sostanziò nella Costituzione italiana, firmata, per una nemesi della storia, proprio da un detenuto politico come Umberto Terracini, che aveva subito una delle condanne più pesanti del Tribunale Speciale fascista. Attraverso la ricostruzione della vita dei dissidenti all’interno dei luoghi di detenzione del regime, il volume in venti capitoli, uno per ogni anno della dittatura fascista, ci riconsegna uno spaccato significativo dell’antifascismo in galera e le storie di un centinaio di loro, scelti tra detenute e detenuti, celebri e meno noti, di diverso orientamento politico e origine geografica, in modo da coprire tutto il territorio nazionale. Tra le cento storie raccontate, a fianco di quelle di detenuti illustri, riemergono storie ignote che intrecciano aspetti politici e sentimentali, come la lunga storia d’amore ‘separata’ dal carcere tra Sandro Pertini e Matilde Ferrari; il triangolo sentimentale che intrecciò le vite di Tina Pizzardo, Altiero Spinelli e Cesare Pavese; la tragica storia della coppia di comunisti Anita Pusterla e Natale Premoli, perseguitati prima da Mussolini e poi da Stalin; le disgraziate vicende di un’altra coppia separata dal fascismo, Paolo Betti e Lea Giaccaglia, e quella tormentata di Iside Viana, morta in galera di stenti e sola, o dei due fratelli Mellone, deceduti entrambi in carcere, e di tutti coloro che soffrirono per quella drammatica esperienza.
Ad Ovest di Boccea , a circa 2500 m. di distanza , dal Castello di Boccea-Laghetti dei Salici, è conservato il Casale di Testa di Lepre di sopra. Nel secolo XII il Casale apparteneva alla Basilica di Santa Maria Maggiore , alla quale il possedimento fu confermato dal Papa Celestino III nell’anno 1192. Tutta la tenuta , compreso il Casale, entrò, poi, a far parte dei beni del Patrimonio della Basilica di San Pietro. Vi subentrarono, poi, come proprietari gli Orsini e nel 1453 il Principe Francesco Orsini vendette tutta la tenuta di Testa di Lepre, insieme al Castrum dirutm (Castello di Boccea-Laghetti dei Salici) al nobile Pandolfo Anquillara.Il Casale di Testa di Lepre di sopra (Casale di Testa di Lepre di sotto si trova a circa 4 km a Sud, è invece completamente moderno), anche se notevolmente rimaneggiato, mostra ancora la caratteristica forma di Casale Torre con alta Torretta centrale incorporata in altri fabbricati.
Una Torretta doveva esistere nel posto ove è ora il Casale di Malvicino, circa 2 km a Nord di Testa di Lepre. L’esistenza della Torre è indicata in un disegno del Catasto Alessandrino di Papa Alessandro VII, in cui è raffigurata una costruzione a tre piani munita di merlatura.
Testa di Lepre e Malvicino dovevano costituire due importantissimi posti di vedetta per il controllo della via che univa i due Castelli di Boccea (Laghetti dei Salici) e di Tragliata.
Su di un picco , , circa a 5 km ad Ovest di Boccea, sorge il Castello di Tragliata ora rimaneggiato e trasformato in un Casale. Il Castello di Tragliata è ricordato sin dal tempo di papa Leone I con il nome fundus Talianum. Il fortilizio , anche se mancano i documenti a conferma , dovette probabilmente essere stato costruito contemporaneamente, coevo, a quello di Boccea (Laghetti dei Salici). Da un documento del 1201 si apprende che un certo Giacomo padrone del Castello di Tragliata:non si hanno notizie sul Casato di tal Giacomo.Alla fine del XIV secolo Tragliata , insieme al castello di Boccea, appartenevano alla famiglia dei Crescenzi. Il Castello è stato ora incorporato in un grande Casale e solo in alcuni tratti delle pareti della collina si notano avanzi di murature appartenenti alle opere di sostegno del fortilizio. (Giovanna Maria De Rossi)
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Nuraghi e pascolo arborato: alla scoperta del paesaggio culturale sardo-
Articolo di Elena Colombo per greenreport.it
Una nuova ricerca mostra come 4.000 anni fa la civiltà nuragica abbia contribuito a plasmare i servizi ecosistemici della Sardegna di oggi
[19 Maggio 2023]-Natura e cultura: quante volte le abbiamo pensate separate? Eppure, questa dicotomia non riflette né il mondo di oggi, né quello di ieri. Viviamo nella natura e siamo parte di essa, anche se non abbiamo una casa in campagna e non sappiamo distinguere una primula da un gelsomino. Lo sa bene la rivista People and nature – il cui nome stesso ci ricorda che le persone sono allo stesso livello della natura –, che di recente ha pubblicato una ricerca sui legami tra la civiltà nuragica e la vegetazione nel territorio sardo.
Vanno prima chiariti alcuni punti. Il nostro legame con la natura è in primo luogo dato dai servizi ecosistemici, cioè tutti quei benefici che l’umanità trae dal sistema naturale. Un esempio? La legna che viene poi usata per il camino.
Ogni ecosistema offre diversi tipi di risorse, che l’umanità sfrutta con maggiore o minore intensità. La situazione ideale per noi umani si crea quando siamo in grado di trarre dei vantaggi da un ecosistema senza alterarne l’equilibrio; non è così che ci siamo comportati negli ultimi decenni, ed eccoci qui, con una grave crisi climatica in corso.
Come rispondere per progettare un futuro migliore? Può essere utile dare uno sguardo al passato. La ricerca firmata da Marco Malavasi, Manuele Bazzichetto, Stefania Bagella, VojtěchBarták, Anna Depalmas, Antonello Gregorini, Marta Gaia Sperandii, Alicia T. R. Acosta e Simonetta Bagella fa un salto indietro e approfondisce la conoscenza della civiltà nuragica e di come sfruttava le numerose risorse del territorio sardo.
Lo studio, reso possibile dalla collaborazione con l’Università degli studi di Sassari, parte da una mappa, quella dei nuraghi, le antiche costruzioni in pietra che hanno dato il nome al popolo vissuto sull’isola nell’età del Bronzo.
«Osservando la mappa, abbiamo notato che la distribuzione dei nuraghi non è uniforme, ma è molto densa in alcune zone e meno in altre – spiega Marco Malavasi, ecologo e autore dell’articolo – perciò ci siamo chiesti come mai. I nuragici avevano delle preferenze? Abbiamo quindi testato in termini geostatistici la loro distribuzione nel territorio sardo e non è risultata casuale. Questa è la prova che ci sono dei criteri dietro le scelte nell’edificazione dei nuraghi. E se tra questi ci fosse anche la vegetazione?».
Perciò, sono state sovrapposte le mappe della biodiversità con le mappe che illustrano la presenza dei nuraghi in Sardegna. Ne sono risultate alcune corrispondenze interessanti: i nuraghi si trovano soprattutto all’interno di alcune “serie di vegetazione”, quelle delle querce da sughero e roverelle. Se ne deduce che la civiltà nuragica prediligeva questo tipo di flora per situare i propri insediamenti.
Secondo la ricerca, inoltre, sarebbe stato lo stesso popolo nuragico a plasmare il paesaggio sardo, creando il “pascolo arborato”, una condizione ambientale di alternanza tra strati erbacei e arborei.
«I nuragici – argomenta Malavasi – facevano agricoltura, pastorizia e raccolta della legna e dei frutti in un unico luogo, il pascolo arborato, senza fare agricoltura intensiva. Hanno quindi contribuito alla formazione di questo habitat, che è estremamente sostenibile in termini ambientali ed ecologici».
In altre parole, il sistema agrosilvo-pastorale oggi presente in Sardegna è stato quindi influenzato dalle scelte fatte dal dei nuraghi 4.000 anni fa.
L’impronta nuragica è pertanto visibile tuttora nel paesaggio sardo: il pascolo arborato è infatti un ambiente familiare a ogni abitante della Sardegna. “Quando il sardo vede il pascolo arborato, o dehesa, si sente a casa”: queste le parole usate da Marco Malavasi per spiegare l’importanza di un “paesaggio culturale”, così definito perché fornisce un senso di identità e connessione con l’ambiente. La differenza tra cultura e natura si fa quindi sempre più sottile, fino a diventare quasi invisibile.
La scoperta è rilevante anche perché, purtroppo, del popolo nuragico si sa ben poco, poiché non disponevano di un sistema di scrittura. Molto di ciò che conosciamo relativamente alle loro abitudini di vita sono deduzioni fatte a partire da scoperte archeologiche. In questo caso, è stata la collocazione dei nuraghi a testimoniare il ruolo essenziale delle sugherete come servizio ecosistemico per gli antichi abitanti sardi.
Il popolo dei nuraghi infatti traeva la legna dai sughereti, la usava come combustibile e pare che la sfruttasse anche per isolare i muri dei nuraghi e per conservare il cibo. Le aree naturali che circondano i nuraghi sono tra le migliori per l’agricoltura e venivano inoltre usate per la raccolta dei frutti e per la pastorizia, fondamentale risorsa per il popolo sardo – di ieri e di oggi.
Il pascolo arborato era ed è tuttora un sistema sostenibile con un alto livello di biodiversità. In queste aree coesistono moltissime specie, non c’è erosione del suolo né desertificazione, le falde acquifere rimangono ricche di nutrienti.
Negli ultimi anni, però, il pascolo arborato sta progressivamente scomparendo, minacciato dai cambiamenti climatici, culturali e sociali. I pascoli vengono abbandonati e il rischio è che si perda una preziosa interazione di uomini e animali. La ricerca ha tra i suoi obiettivi quello di ampliare la prospettiva dei decisori politici, per stimolare una visione più sostenibile sul lungo termine.
In questa ricerca troviamo uno dei primi esempi di un uso non convenzionale delle mappe della biodiversità, nato dall’idea di un “ecologo annoiato dagli approcci settoriali”, come si autodefinisce Malavasi, e di Simonetta Bagella, anch’essa ecologa e autrice dell’articolo.
Mescolare le mappe richiede cautela, perché «tutte le mappe hanno dei rischi, contengono degli errori. La mappa è un testo e in quanto tale è retorico: implica una selezione dei contenuti, che non è neutrale», ci ricorda Malavasi.
Per raccogliere questi dati, dunque, l’archeologia ha avuto un ruolo di primo piano. Si tratta di una novità importante, perché legare archeologia e servizi ecosistemici non è impresa facile. «Per scrivere il paper ho dovuto studiare: per sei mesi sono diventato un po’ un archeologo», sottolinea Malavasi. La comunicazione tra ecologi e archeologi non è sempre stata semplice: questi ultimi hanno collaborato come garanti, dando conferme e smentite laddove necessario.
L’approccio transdisciplinare può essere un percorso in salita: «Nel processo di revisione ci sono state alcune critiche che denotavano una scarsa conoscenza dell’ecologia. Per capirle ho dovuto fare un passo indietro: è stato faticoso, ma il paper finale ne è uscito molto arricchito. Essere tolleranti per capire il punto di vista dell’altro: questa è la transdisciplinarietà», osserva Malavasi.
Per chi ha la fortuna di conoscere la lingua sarda, e vuole approfondire l’argomento, c’è qualcosa in più. Per la prima volta, l’abstract dell’articolo di ricerca, ovvero la breve sintesi dei contenuti che accompagna l’articolo stesso, non è riportato solo in inglese, ma è stato tradotto in Limba Sarda Comuna. Perché anche la lingua è un’espressione della biodiversità, questa volta in ambito (bio)culturale: e come dice Malavasi, «tutto ciò che è biodiverso è sempre sano».
Articolo di Elena Colombo per greenreport.it
Rielaborazione del research article: Malavasi, M., Bazzichetto, M., Bagella, S., Barták, V., Depalmas, A., Gregorini, A., Sperandii, M. G., Acosta, A. T. R., &Bagella, S. (2023). Ecology meets archaeology: Past, present and future vegetation-derived ecosystems services from the Nuragic Sardinia (1700–580 BCE). People and Nature, 00, 1– 12. https://doi.org/10.1002/pan3.10461
Un poeta più vicino alla morte che non alla filosofia, più vicino al dolore che all’intelligenza, più vicino al sangue che all’inchiostro.” Continua così un lettore straordinario come García Lorca, che già nel 1934 aveva descritto perfettamente le qualità peculiari e l’unicità di Neruda: “Un poeta pieno di voci misteriose che per fortuna lui stesso non sa decifrare: un uomo vero che ormai sa che il giunco e la rondine sono più eterni della guancia dura della pietra… In Pablo Neruda crepita la luce ampia, romantica, crudele, esorbitante, misteriosa dell’America”. L’antologia, curata e tradotta da Roberto Paoli, offre una selezione delle più belle poesie di Neruda e ne inquadra criticamente l’intera produzione.
Salvador Allende e Pablo Neruda-Santiago- 1970.Pablo Neruda-
Breve biografia di Pablo Neruda (pseudonimo di Ricardo Eliezer Neftalì Reyes Basoalto) è un poeta cileno, tra le figure più importanti della letteratura sudamericana del Novecento. Il suo pseudonimo fu scelto in onore dello scrittore e poeta cecoslovacco Jan Neruda. Nel 1971 è stato insignito del Premio Nobel per la letteratura.
A soli 19 anni Neruda pubblica il suo primo libro, Crepuscolario, e già nel 1924 riscuote un notevole successo con Venti poesie d’amore e una canzone disperata. A partire dal 1925 dirige la rivista «Caballo de bastos». Nel 1927 intraprende la carriera diplomatica: nel 1933 è console a Buenos Aires, nel 1936, allo scoppio della guerra civile, parteggia per la Repubblica e viene destituito dall’incarico consolare, nel 1939, a Parigi, è console per l’emigrazione dei profughi cileni repubblicani e nel 1940 viene nominato console per il Messico.
È eletto senatore nel 1945 e si iscrive al partito comunista per cui subì censure e persecuzioni politiche, come l’espatrio a causa della sua opposizione al governo autoritario di Gabriel González Videla, la rinuncia alla sua candidatura come Presidente del Cile, e il successivo sostegno al socialista Salvador Allende. A causa dell’espatrio inizia a viaggiare nell’Unione Sovietica, in Polonia, in Ungheria, in Italia (si stabilisce a Capri), in Asia e America Latina. Nel 1966 è oggetto di una violenta polemica da parte di intellettuali cubani per un suo viaggio negli Stati Uniti. Muore in un ospedale di Santiago poco dopo il golpe del generale Augusto Pinochet, ufficialmente di tumore, ma in circostanze ritenute dubbie, mentre stava per partire per un nuovo esilio.
Tra le sue opere ricordiamo, Residenza sulla terra, I versi del Capitano, Cento sonetti d’amore, Canto generale, Odi elementari, Stravagario, Le uve e il vento, il dramma Splendore e morte di Joaquin Murieta e il libro di memorie Confesso che ho vissuto.
Salvador Allende e Pablo NerudaPablo Neruda- Poesie 1924-1964Pablo Neruda
Le foto sono state scattate a Roma in via dell’Arrone (Bivio di Fregene)
Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-
Piccola nota relativa all’Asino dell’Amiata.
L’Amiata è una razza di asino molto antica originaria del grossetano, in Toscana. Asini amiatini sono stati raffigurati anche da Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova. nel ciclo di affreschi dedicato alle “Storie di Gesù e di Maria”. C’è persino una leggenda che spiegherebbe il perché del suo manto grigio con la croce nera che scende dal garrese fino alle spalle… Sarebbe il dono del Signore per averlo riscaldato da neonato nella grotta, accompagnato a Gerusalemme la Domenica delle Palme e seguito fino in cima al calvario, proprio sotto la croce. Le razze autoctone hanno un valore culturale e storico immenso, riflettono la millenaria simbiosi dell’uomo con gli animali, da ben prima che iniziassimo a distruggere la natura… Pensate che l’asino è stato addomesticato ancor prima del cavallo, tra il VI e il V millennio a.C. Nell’antico Egitto era stato addomesticato ed utilizzato per tirare l’aratro, far girare frantoi e mulini, sollevare l’acqua o trasportare merci e persone. Ma non solo… Una leggenda narra che la regina Cleopatra facesse ogni giorno il bagno nel latte di asina per esaltare il suo fascino e fosse proprio questo il segreto della sua pelle divina che tanto aveva impressionato gli antichi narratori. L’asino è stato da spesso definito come un animale testardo, stupido e poco socievole, io non conosco tutti gli asini del mondo per carità: ma quello amiatino è simpatico, tranquillo, amorevole, curioso e ha una grande capacità di apprendimento. I suoi compiti, per fortuna, nei secoli sono molto cambiati: oggi non c’è più bisogno che faccia lavori di fatica, ma finalmente può accompagnare l’uomo senza eccessivi sfruttamenti… Giocando con i bambini e facendo compagnia ai più grandi.
Fonte –GOODANDGREENGUIDES
Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-Franco Leggeri-Fotoreportage Campagna Romana – -Asino dell’Amiata-
Sopra le coltri elefantine delle aiuole
un cactus gotico fiorisce in teschi regali
e nelle cavità di malinconici organi,
nei metallici grappoli cannosi,
marciscono antiche melodie.
Palle di cannone, semi di guerra
ha disperso il vento.
Sopra ogni cosa svetta la notte,
e nel bosso di cupole sempre verdi
lo sventato imperatore in punta di piedi se ne va
ai giardini magici delle sue stòrte,
e nella bonaccia delle rosee serate
tintinna un fogliame vetroso,
che le dita degli alchimisti toccano
come vento.
Accecano i telescopi per orrore del cosmo;
e i fantastici occhi degli stellonauti
se li è bevuti la morte.
e intanto la luna ha deposto uova nelle nubi,
stelle nuove sono sgusciate a frotte come uccelli
che migrano da terre nericce
canticchiando la canzone dei destini umani,
ma nessuno c’è che li possa intendere.
Ascoltate le fanfare del silenzio,
su tappeti logori come sindoni di secoli
ci incamminiamo verso l’invisibile futuro
e Sua maestà la polvere
si adagia lieve sul trono vuoto.
Da: Vestita di luce, a cura di Sergio Corduas, Einaudi, Torino 1986, p. 23
Vi sono città che sembrano fatte per la poesia. Una di queste certamente è Praga. Fu uno dei centri artistici principali dell’epoca barocca, poi della mitteleuropa (oltre a Franz Kafka vi era nato qui anche Rainer Maria Rilke nel 1875). Nel 1918 divenne capitale della Cecoslovacchia. Allora Jaroslav Seifert aveva diciassette anni (era nato a Žižkov, un sobborgo operaio di Praga). A quel tempo aiutava il padre al suo negozio di quadri, unica fonte di sostentamento della famiglia, che però chiuse i battenti nel corso della guerra per via delle dure condizioni di vita imposte dal conflitto bellico. Si diplomò come privatista nel 1919 e già allora simpatizzava per la Rivoluzione Russa e per la causa del comunismo. Quell’anno cominciò a pubblicare su riviste e nel ’21 pubblicò la sua prima raccolta di poesia, La città in lacrime. Nello stesso anno si iscrisse al Partito comunista e cominciò a lavorare per la stampa di partito (scriveva sul quotidiano «Rude pravo», collaborava con la casa editrice di partito e fece parte della redazione di alcune riviste letterarie). Conobbe in questi anni František Halas, il quale si era da qualche anno trasferito da Brno. Anche quest’ultimo simpatizzava con la causa del comunismo, frequentava gli stessi ambienti di Seifert e pubblicò sulle riviste in cui quest’ultimo lavorava. Tra i due poeti nacque un’amicizia fraterna. Seifert fu tra i fondatori del gruppo di poeti e artisti del movimento Devětsil, fondato a Praga nel 1920 e attorno a cui si erano raccolti critici e poeti di primo piano (in seno a questo gruppo nacque nel 1924 il poetismo, un movimento artistico e poetico di fondamentale importanza nel ‘900 ceco e non solo, che propugnò e attuò un impetuoso rinnovamento nella scena letteraria sotto il segno delle avanguardie letterarie europee). Figura di primo piano di questo raggruppamento fu il critico Karel Teige, col quale nel 1924 Seifert fece un memorabile viaggio in Italia proprio nel momento in cui il fascismo stava prendendo il potere. Nel 1925 fu in Unione Sovietica e l’anno successivo pubblicò la raccolta L’usignolo canta male, nella quale si avverte il passaggio da una prima fase influenzata dalla poesia proletaria a una fase più matura sotto il segno delle avanguardie europee (surrealismo, dadaismo). Notevole e profetica per quanto riguarda i futuri destini dell’Europa è la poesia dal tono espressionista Il vecchio campo di battaglia (“Il sole gira l’ombra alle cose,/ la terra è incinta di morti./ Già si spacca, andiamo e balliamo/ in tondo!// È notte, è mattino e fra le nebbie fa giorno,/ avvolti in brandelli tutti dormono./ È il mantello di Arlecchino, la terra,/ una scacchiera sfondata,/ è l’Europa”). Nel 1929 Seifert firma un manifesto contro l’affermazione della linea stalinista all’interno del Partito Comunista cecoslovacco e per questo ne venne espulso. Proprio in quell’anno pubblicò la raccolta di poesia Il piccione viaggiatore nella quale compare la citata poesia dedicata alla sua città natale. L’allontanamento dal partito fu una svolta importante nella sua biografia intellettuale e artistica. A partire da questo momento guardò l’Unione Sovietica e la causa del comunismo mondiale in modo sempre più scettico e critico. Anche dal punto di vista formale le sue poesie cambiarono: si passò da forme metriche irregolari o assenti a metri più regolari e tradizionali mentre dal punto di vista stilistico il poeta gradualmente passò a un tono più intimista e lirico. Il soggetto della sua poesia a cui rimase fedele per tutta la sua vita, fu proprio Praga, città nella quale i suoi ricordi d’infanzia si intrecciano con i riferimenti al mito di una città nella quale l’arte e la storia avevano lasciato tracce indelebili. Con lo smembramento della Cecoslovacchia del ’39 e l’occupazione di Praga da parte delle truppe naziste prevalsero nella sua poesia gli accenti di indignazione civile. Nel 1948 si espresse chiaramente contro la “sovietizzazione” del suo paese (per questo fino al 1956 fu costretto al silenzio). Nel 1968, a seguito della sua posizione fortemente critica nei confronti dell’invasione sovietica del suo paese, fu di nuovo ridotto al silenzio (anche se le sue poesie circolavano sotto forma di samizdat). Il premio Nobel assegnato nel 1984 (due anni prima della sua morte) non giovò molto alla sua fama a livello mondiale. Forse proprio perché per tutta la sua vita rimase così fedele alla sua amata città.
-Ass. CORNELIA ANTIQUA-APPUNTI dal LIBRETTO di CAMPAGNA
Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali.Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272-
-Esplorazione dei colombari a Santa Maria di Galeria –
Appunti e foto sono di Cristian Nicoletta
ROMA- 25 novembre 2022- APPUNTI dal LIBRETTO di CAMPAGNA -Ass. CORNELIA ANTIQUA-Abbiamo esplorato il lato opposto dell’insediamento scoperto qualche settimana fa ‘ dove c erano cave , ponte , case rupestri e forse una mola e cunicoli idraulici , i periodi vanno dall etrusco al medioevo , oggi sul lato opposto dove i due erano collegati da un ponte , abbiamo visto molte sorgenti antiche e una serie di 6 colombari purtroppo completamente usati come magazzini e le foto non rendono la bellezza che meritano … L’epoca forse romana o più tarda da studiare in maniera più dettagliata … in caso di colombari romani sarebbe e pensiamo ad un unicum nel territorio nord ovest di Roma ! Con noi oggi Mauro Intini alleghiamo lo studio fatto dal nostro amico archeologo Pietro Serra
Colombari (33TTG783571)
Respighi (RESPIGHI A. M., Galeria, Roma 1956, pp. 7-50) menziona la presenza di colombari in località Brandosa, poco distante dalla Via Clodia. Si tratta di gallerie scavate nel tufo dalla volta a botte e intercomunicanti; nelle pareti è menzionata la presenza di nicchie o loculi di forma quadrangolare piccole e poco profonde, che danno agli ambienti l’aspetto di colombari. Tomassetti ritiene che si tratti di tombe etrusche, ma la sua considerazione è errata in quanto si tratta di colombari di epoca più tarda. Osservando dall’esterno la struttura, si può ipotizzare che ci siano due fasi cronologiche, l’ultima delle quali consiste nel rifacimento dei loculi in facciata. Oggi le gallerie sono ostruite da materiale vario, praticamente utilizzate come depositi di ferrame e materiale arrugginito. Grazie alla gentile concessione di un operaio è stato possibile l’ingresso all’interno di questi colombari.
Il colombario è costituito da tre gallerie, la prima subito a destra dell’ingresso è completamente ostruita da materiale moderno, ma si possono notare nelle pareti i loculi di forma quadrangolare e semi-circolare. Si accede alla seconda galleria dopo circa 3 metri di corridoio, nel quale, nel pavimento, si apre una piccola voragine attraverso la quale si intravede una sorgente d’acqua che passa nella collina tufacea. La seconda galleria è anch’essa ostruita da materiale moderno, ma è possibile identificare i loculi nelle pareti. Alla terza galleria ci si accede camminando lungo un corridoio lungo circa 15 metri, si presenta ostruita come le altre due. Nella parete di sinistra si apre una voragine attraverso la quale si intravede la sorgente d’acqua.
Il monte del Carretto nel quale i colombari sono ricavati è utilizzato come cava di tufo e pozzolana. (P. Serra, Paesaggio e Viabilità antica, 2016)
Appunti e foto sono di Cristian Nicoletta -Presidente Associazione CORNELIA ANTIQUA
Colombari a Santa Maria di GaleriaColombari a Santa Maria di GaleriaAssociazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-Colombari a Santa Maria di GaleriaColombari a Santa Maria di GaleriaColombari a Santa Maria di Galeria
La grotta di San Michele si trova fuori paese, a circa 1000 metri di altitudine, su una montagna vicina ai campi. E’ raggiungibile tramite una mulattiera. Furono i longobardi a portare in Sabina il culto di San Michele Arcangelo. Furono i duchi di Spoleto, longobardi, a donare all’abbazia di Farfa il santuario di San Michele Arcangelo sul monte Tancia. Montorio era un possedimento dell’abbazia di Santa Maria del Piano.
Le due abbazie benedettine di Farfa e Santa Maria del Piano ebbero, ricordiamolo, stretti legami di vita religiosa ed economica. In una grotta naturale, sulla montagna vicina ai campi, è stata edificata una chiesa dedicata a San Michele, elevando, non si sa quando ma certamente in tempi antichissimi una parete. La parete stessa è in stile romanico. All’interno della grotta di San Michele c’è un altare carolingio, con un bel mosaico.
A sinistra di quest’altare ce n’è un altro (quello principale) con una statua di San Michele Arcangelo. Il Santo nella mano destra ha una spada, mentre sotto i piedi ha un drago. A destra dei due altari, dentro una nicchia naturale vi è l’Ossario detto degli Eremiti, con molti teschi ed ossa. Da notare che la gente di Montorio venerava qui anche i propri morti, quando il cimitero ancora non c’era, e questo ancora nel 1791. Ogni anno la prima domenica di maggio dentro la grotta di San Michele
San Michele Arcangelo
si celebra una Santa Messa.
La grotta di San Michele è citata negli atti delle visite pastorali nella diocesi Sabina dei cardinali Odescalchi (1833-36) e Corsini (1779-82). Sugli “Acta S. Visitationis Monitorii in Valle” di quest’ultimo si legge: chiesa rurale di San Michele Arcangelo, sull’altare è collocata una scultura lignea dell’Arcangelo. Anche negli atti dell’Odescalchi è chiamata chiesa rurale di San Michele Arcangelo.
Nfoto di Paolo Genovesi
San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo sul monte TanciaSan Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo San Michele Arcangelo
FIUMICINO (ROMA)-Il Borgo di TRAGLIATA e la sua Storia in pillole-
Fotoreportage di FRANCO LEGGERI
IL BORGO DI TRAGLIATA –Al km 29 della Via Aurelia, tra Torrimpietra e Palidoro, sulla destra, in direzione delle colline, si dirama la Via del Casale Sant’Angelo, che porta verso Bracciano.Percorrendo questa strada che si snoda in aperta campagna tra i grandi poderi coltivati o lasciati a pascolo per bovini e ovini, sulla destra al km 8,5 si diparte la via di Tragliata che porta al castello omonimo per terminare dopo pochi chilometri al crocevia con la Via di Santa Maria di Galeria, Via dell’Arrone e la Via di Boccea. Il toponimo di Tragliata, riportato in antichi documenti come Talianum o Taliata, sembra derivare da “tagliata”, nome dato ai sentieri scavati nel tufo di origine etrusca. Il Castello di Tragliata-Località molto suggestiva, abitata fin dall’antichità più remota, come testimoniato da ritrovamenti etruschi e romani inglobati nelle costruzioni successive. Il castello, eretto tra il IX e il X secolo, aveva una funzione di difesa e di avvistamento ed era collegato visivamente con altre torri circostanti, come la vicina Torre del Pascolaro; trasformato successivamente in un grande casale ad uso abitativo ed agricolo, in alcuni tratti si possono notare avanzi di muratura precedente appartenenti alle opere di sostegno del fortilizio. Allo stato attuale, Tragliata si presenta come un borgo in magnifica posizione elevata, situato com’è su di una specie di rocca isolata in mezzo alla vallata del Rio Maggiore, ed è costituito da vari fabbricati che si affacciano su di un grande spazio erboso.I fianchi della collina sono scavati in più parti dalle tipiche grotte, utilizzate nel corso dei secoli come magazzini o ricovero di animali. Di proprietà privata, il castello è stato recentemente convertito in azienda agrituristica adibita a ricezione. Interessanti i grandi silos sotterranei di epoca etrusca utilizzati per la conservazione dei cereali.
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