La Rosa Bianca, giovani contro Hitler- di Lorenzo Tibaldo
Articolo di Debora Michelin Salomon-Il libro di Tibaldo ripercorre il sacrificio dei giovani resistenti cristiani
Lorenzo Tibaldo, attraverso lettere, diari e un’attenta ricostruzione storica, racconta la storia del gruppo di studenti dell’Università di Monaco di Baviera che si oppose al regime nazista diffondendo, tra l’estate del 1942 e il febbraio del 1943, volantini che incitavano il popolo tedesco alla ribellione al nazionalsocialismo. Gli autori di questi manifesti si firmavano Weisse Rose, «Rosa bianca» ed erano un gruppo di giovani resistenti cristiani formato dai fratelli Sophie e Hans Scholl, da Alexander Schmorell, Willi Graff, Christoph Probst e dal professor Kurt Huber. Provenienti da famiglie borghesi, educati alla lettura dei classici letterari e filosofici e dotati di una profonda coscienza etica, essi decisero di rischiare la propria vita per cercare di risvegliare il popolo tedesco dal torpore in cui il regime hitleriano sembrava averlo fatto sprofondare.
L’opera della «Rosa bianca» fu «un incitamento al popolo tedesco a lottare per la libertà, ma anche un messaggio per la futura Europa che nascerà sulle rovine della guerra»1. Non si trattò di una lotta armata, ma di una forma di Resistenza svolta attraverso le parole e gli scritti, per difendere i principi di libertà e giustizia cancellati dall’ascesa al potere del nazismo. I volantini, stampati in casa e distribuiti dagli stessi membri del gruppo, riportavano la preghiera di ricopiarli e diffonderli. In alcuni casi questo invito venne ascoltato e i manifestini trovarono così una diffusione più ampia, in altri casi invece vennero consegnati alla Gestapo per paura di essere coinvolti e accusati di svolgere propaganda ostile al nazismo.
Il 22 febbraio 1943 Sophie e Hans Scholl trovarono la morte, condannati alla ghigliottina dal tribunale speciale, e nello stesso anno vennero ghigliottinati tutti i principali esponenti della «Rosa bianca». Il loro coraggio e la loro dedizione alla difesa degli ideali di libertà, uguaglianza e giustizia fanno di loro, ancora oggi, uno degli esempi più nobili di abnegazione personale e di lotta contro una realtà che imprigiona gli individui e nega i diritti fondamentali. Come ricorda Tibaldo, infatti: «I regimi oppressivi sono frutto non solo e non tanto delle colpe di un capo e dei suoi adepti, e delle circostanze storiche che ne possono favorire l’ascesa, ma anche di un’estesa complicità indiretta fondata sulla passività e sull’indifferenza. Manca quell’etica del dovere che spinge l’individuo ad agire, comunque, per affermare e difendere la verità, fonte ultima della libertà e della giustizia» (p. 206).
* L. Tibaldo, La Rosa Bianca, giovani contro Hitler, Torino, Claudiana, 2014, pp. 215, euro 14,90.
Nacque a Bologna nel 1900 e a soli 12 anni, nel 1912, esordì con la sua prima raccolta di poesie dal titolo Ginestra in fiore, seguita, dopo tre anni, da Piccola Fiamma.
Ma oltre alla poesia, la Viganò si dedicò anche alla prosa e raggiunse l’apice del suo successo con L’Agnese va a morire, pubblicato da Einaudi nel 1949, un romanzo neorealistico ispirato alla Resistenza che ottenne il Premio Viareggio. La scrittrice partecipò, infatti, alla lotta partigiana collaborando come infermiera e scrivendo per la stampa clandestina.
Vogliamo ricordarla con voi pubblicando alcune sue poesie:
Cantata di una giovane mondina-
Mondine, mondine,
cuore della risaia.
Mio caro padre, mia cara madre,
io sono quaggiù per trenta giorni.
Appena arrivata mi sento già stanca;
chi sa come sarò al ritorno.
Si mangia poco, si beve a stento,
l’acqua fresca la troviamo di rado.
Eppure, mamma, son tanto contenta
d’esser venuta per questa strada.
Mondine, mondine,
amore della risaia.
Con le gambe sempre nell’acqua,
non so perché, vien sete in bocca.
Sono, al tramonto, una bestia stracca,
che si butta dove te tocca.
Paglia nuda e fitti respiri
nel camerone con tante zanzare.
Se per stanchezza non possiamo dormire,
qualche volta ci mettiamo a cantare.
Mondine, mondine,
fiore della risaia.
È bello, mamma, mondare il riso,
chè il riso è bianco e i padroni son neri.
Essi hanno in terra il paradiso,
noi camminiamo per bruschi sentieri.
Ma i nostri sentieri ci portano avanti,
e andiamo incontro a più dolce stagione.
Essi son pochi e noi siamo tanti,
e poco giova sentirsi padroni.
Mondine, mondine,
dolore della risaia.
Di sera guardo sulla pianura
quando si aprono in alto le stelle.
Non è il lavoro che fa paura,
chè, di questo, son figlia e sorella.
Mio caro padre, mia cara madre,
io vi ringrazio di essere forte.
Andiamo insieme su un’unica strada,
e la bandiera la portano i morti.
Mondine, mondine,
onore della risaia.
L’usignolo-
L’usignolo solo
canta triste fra i rami,
e pare che richiami
un sogno già svanito
un sogno già sfiorito.
Canta pian l’usignolo.
La ginestra-
Nasce sul brullo monte,
fra i roveti ed i sassi,
fragile come un bimbo
che muove i primi passi.
La sua fragil corolla
rallegra il senteruolo,
rallegra il pastorello
colle caprette, solo.
Oh! Ginestra ignorata
è breve la sua vita,
ella nasce in estate,
d’autunno è già sfiorita.
E uno strano contrasto
lo stelo col fior fa;
quello forte, robusto,
questo fragilità.
Renata Viganò si appassionò fin da piccola alla letteratura e coltivava un sogno: fare da grande il medico. Tuttavia le difficoltà economiche subentrate in famiglia la indussero ad interrompere il liceo e, con senso del sacrificio e una maturazione affrettata e non voluta, ad entrare nel mondo del lavoro come inserviente e poi infermiera negli ospedali bolognesi.
Questo suo impegno al servizio dei bisognosi non le impedì di scrivere per quotidianie periodici, elzeviri, poesie, racconti sino all’8 settembre 1943.
Con la firma dell’armistizio la sua vita ebbe una svolta esistenziale: assieme al marito Antonio Meluschi e il figlio, l’infermiera-scrittrice partecipò alla lotta partigianacome staffetta, infermiera e collaborando alla stampa clandestina.
Di questo periodo disagiato ma intriso di sano idealismo esistenziale fu pervasa la susseguente produzione letteraria. L’Agnese va a morire (1949), romanzo tradotto in quattordici lingue, rappresentò il punto più alto; vinse il secondo premio al Viareggio[2]e costituì il soggetto per il film omonimo diretto da Giuliano Montaldo.
Il romanzo racconta vicende partigiane con onesta semplicità da cronista e spirito di sincera adesione agli eventi, e fu considerato negli anni del dopoguerra un esempio, una testimonianza della narrativaneorealista.
Vale la pena di ricordare, tra le opere della Viganò, almeno altri due libri sul tema della Guerra di liberazione: Donne della Resistenza (1955), ventotto affettuosi ritratti di antifasciste bolognesi cadute, e Matrimonio in brigata (1976), una raccolta di efficaci racconti partigiani, uscito proprio l’anno in cui la scrittrice è scomparsa.
Due mesi prima della morte, a Renata Viganò fu assegnato il premio giornalistico Bolognese del mese, per il suo stretto rapporto con la realtà popolare della città.
Renata Viganò
Opere
Ginestra in fiore. Liriche, Bologna, Beltrami, 1913.
Piccola fiamma. Liriche (1913-1915), Milano, Alfieri & Lacroix, 1916.
Il lume spento, Milano, Quaderni di poesia, 1933.
L’Agnese va a morire, Torino, Einaudi, 1949.
Mondine, Modena, Tip. Modenesi, 1952.
Arriva la cicogna, Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1954.
Donne della Resistenza, Bologna, STEB, 1955. [Ritratti di donne partigiane pubblicato in occasione della Festa dell’Unità di Bologna 1955]
Ho conosciuto Ciro, Bologna, Tecnografica emiliana, 1959.
Una storia di ragazze, Milano, Del Duca, 1962.
Matrimonio in brigata, Milano, Vangelista, 1976.
Rosario. Libera interpretazione dei quindici misteri del rosario scritta da me, non credente, per puro amore di leggenda e poesia, Bologna, A.N.P.I., 1984. [poesie pubblicate dall’ANPI Bologna in 100 copie, con incisioni di Guttuso, Covili].
Sonetti inediti, Bologna, A.N.P.I., 1984.
La bambola brutta. Storia di Eloisa partigiana, illustrazioni Viola Niccolai, a cura di “Brigata Viganò”: Dafne Carletti, Sofia Fiore, Margherita Occhilupo, Marta Selleri, Elena Sofia Tarozzi e Tiziana Roversi, Bologna, Tipografia Negri, 2017. [Nuova edizione del racconto pubblicato la prima volta in “Pioniere”, 1960]
Franco Leggeri Fotoreportage Il Borgo di TRAGLIATA
Associazione CORNELIA ANTIQUA
BORGO di TRAGLIATA
Il Borgo di TRAGLIATA e la sua Storia in pillole
Al km 29 della Via Aurelia, tra Torrimpietra e Palidoro, sulla destra, in direzione delle colline, si dirama la Via del Casale Sant’Angelo, che porta verso Bracciano.Percorrendo questa strada che si snoda in aperta campagna tra i grandi poderi coltivati o lasciati a pascolo per bovini e ovini, sulla destra al km 8,5 si diparte la via di Tragliata che porta al castello omonimo per terminare dopo pochi chilometri al crocevia con la Via di Santa Maria di Galeria, Via dell’Arrone e la Via di Boccea. Il toponimo di Tragliata, riportato in antichi documenti come Talianum o Taliata, sembra derivare da “tagliata”, nome dato ai sentieri scavati nel tufo di origine etrusca. Il Castello di Tragliata-Località molto suggestiva, abitata fin dall’antichità più remota, come testimoniato da ritrovamenti etruschi e romani inglobati nelle costruzioni successive. Il castello, eretto tra il IX e il X secolo, aveva una funzione di difesa e di avvistamento ed era collegato visivamente con altre torri circostanti, come la vicina Torre del Pascolaro; trasformato successivamente in un grande casale ad uso abitativo ed agricolo, in alcuni tratti si possono notare avanzi di muratura precedente appartenenti alle opere di sostegno del fortilizio. Allo stato attuale, Tragliata si presenta come un borgo in magnifica posizione elevata, situato com’è su di una specie di rocca isolata in mezzo alla vallata del Rio Maggiore, ed è costituito da vari fabbricati che si affacciano su di un grande spazio erboso.I fianchi della collina sono scavati in più parti dalle tipiche grotte, utilizzate nel corso dei secoli come magazzini o ricovero di animali. Di proprietà privata, il castello è stato recentemente convertito in azienda agrituristica adibita a ricezione. Interessanti i grandi silos sotterranei di epoca etrusca utilizzati per la conservazione dei cereali.
BORGO di TRAGLIATAAssociazione CORNELIA ANTIQUA-Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali.Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo !Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–BORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATAPietra miliare Via di TRAGLIATAAssociazione CORNELIA ANTIQUA-Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali.Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo !Per informazioni – e.mail.:cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–BORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATAAssociazione CORNELIA ANTIQUA-Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali.Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo !Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–
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Articolo di Lelio La Porta-A quasi 85 anni di distanza, ormai, dalla sua morte Antonio Gramsci resta l’intellettuale comunista di più grande rilievo che l’Italia abbia mai conosciuto, preso a modello e studiato a fondo anche in America Latina. Mentre in Italia, invece, l’élite intellettuale delle classi dominanti lavora alla lenta disintegrazione del pensiero che il grande comunista di Ales ci ha lasciato in eredità.
Erano le 4,10 del 27 aprile del 1937. Ricordava Tatiana Schucht, cognata di Antonio Gramsci, che “…venne un ultimo respiro rumoroso e sopravvenne il silenzio senza rimedio”. Così moriva, per emorragia cerebrale a quarantasei anni, il comunista sardo. Aveva ottenuto la libertà il 21 aprile. In Sardegna, il padre Francesco attendeva con ansia di poter riabbracciare il figlio, almeno uno dei quattro figli maschi, visto che Gennaro combatteva in Spagna al fianco dei repubblicani, Mario era ufficiale in Africa e Carlo si trovava a Milano. Antonio aveva scritto a casa; voleva tornare in Sardegna; lo attendevano proprio il 27 aprile. Poi arrivò la notizia della morte e la scena del padre che, in preda alla disperazione, cominciò ad urlare: “Assassini, me l’hanno ammazzato”. Francesco Gramsci sopravvisse al dolore appena due settimane: morì il 16 maggio. A Mosca c’erano gli altri affetti privati di Gramsci. Ricordava il suo secondogenito Giuliano che, insieme al fratello Delio, fu accompagnato da Togliatti in una località fuori Mosca, dove li raggiunse la notizia della morte di Gramsci; soprattutto per Giuliano ciò significava che “moriva in me la speranza di conoscerlo, e dal mio subcosciente per la prima volta emerse la certezza di non averlo mai visto” [1].
A Roma, la cognata Tatiana e il fratello Carlo provvidero al funerale che si svolse sotto il temporale. Ora le ceneri di Gramsci si trovano al cimitero acattolico della Piramide Cestia in Roma e ogni 27 aprile quante e quanti vogliono si ritrovano lì per depositare un fiore rosso su quell’urna. Così è stato anche il 27 aprile appena trascorso; fra il canto dell’Internazionale e chi, quasi sommessamente, ma non per questo in modo meno appassionato, si raccoglieva in preghiera, si è celebrata la cerimonia laica della memoria. C’erano dei giovani, pochi, ma c’erano; e chi si è recato in quel luogo nel pomeriggio ha riferito che altri giovani, anche non italiani, sono andati a deporre un fiore. Qualcuno dei presenti ha affrontato il discorso sull’assoluta mancanza di conoscenza di Gramsci da parte dei nostri giovani: è noto, si sta lavorando (va riconosciuto su questo terreno l’impegno costante sia della International Gramsci Society sia della Università popolare “Antonio Gramsci”), ma è difficile fare breccia nel conformismo dell’indifferenza che giunge a proporci persone (questo risulta da diverse indagini rese pubbliche da alcune trasmissioni televisive) che non sanno neanche cosa sia il 25 aprile.
Di fronte a quell’urna non può non tornare alla mente l’immagine di Pasolini, raccolto in una riflessione politico-ideologica che fu l’ispirazione di uno dei canti più alti della poesia italiana del Novecento, in lode dell’impegno civile: “Le ceneri di Gramsci” (1954). Vi si legge:
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci…
Anche la televisione di Stato si è ricordata di Gramsci trasmettendo dapprima su Rai 3 e, in serata e in replica, su Rai Storia un programma su Gramsci nell’ambito de “Il Tempo e la Storia”. Ospite del conduttore Massimo Bernardini, il professor Mauro Canali. Del professore ci siamo già occupati su queste colonne [2] inserendolo nella cerchia sempre più ampia, purtroppo e a dire il vero, degli edificatori di storie romanzate e a base thriller aventi come oggetto Gramsci e i suoi rapporti con il Partito Comunista e, in specie, con Togliatti. Nel corso della trasmissione del 27 è arrivato a definire la prima edizione dei Quaderni del carcere (tanto per intenderci, quella edita da Einaudi in sei volumi tematici a partire dal 1948) una sorta di silloge delle note carcerarie senza senso; non sfugge l’acredine dell’affermazione dietro la quale si nasconde, neanche tanto velatamente, l’antitogliattismo come metodo di ricerca e di interpretazione storica. Sa il professor Canali in quali condizioni Togliatti intraprese l’opera di lettura e di interpretazione delle note gramsciane? Risposta: “Palmiro Togliatti è in Spagna, dove nell’estate del 1936 era scoppiata la guerra civile (…) Ricevute le prime fotocopie, a Barcellona, sotto i bombardamenti degli aerei fascisti, al lume di candela, Togliatti e alcuni collaboratori iniziano il lavoro di interpretazione dei quaderni” [3]. L’esito di lungo periodo di questo lavoro fu l’edizione einaudiana che, pure, suscitò perplessità sia circa la correttezza sia circa la legittimità dei criteri prescelti; in ogni caso è fuor di dubbio che la frammentarietà dei materiali e lo stesso modo di stesura adottato da Gramsci autorizzavano la scelta togliattiana che non era segnata da pregiudiziali politico-ideologiche ma dalla necessità di diffondere il più possibile il pensiero gramsciano. D’altronde lo stesso Valentino Gerratana, a cui, come ricordato dal professor Canali, va attribuita la realizzazione dell’edizione critica dei Quaderni pubblicata da Einaudi nel 1975, ricordava i meriti dell’edizione tematica che non doveva assolutamente essere demonizzata [4]. Il professor Canali ha avuto modo di soffermarsi anche sulle Lettere dal carcere sostenendo che, a causa della scelta togliattiana, non erano in grado di fornire alla loro prima apparizione un’immagine adeguata del rivoluzionario sardo. Questo parere cozza con la realtà del Premio Viareggio assegnato alle epistole gramsciane nel 1947 e con le recensioni autorevolissime di Garin [5] e di Croce [6] , la prima delle quali già metteva in evidenza la forte umanità dell’autore di quelle missive. Inoltre, come non prendere in considerazione le dodicimila copie delle Lettere vendute ancor prima dell’assegnazione del Premio?
Che ci fossero divaricazioni fra Gramsci e il Partito, e quindi Togliatti, già dalla famosa lettera del 1926 al Pcus, è evidente. Ma da qui ad immaginare (di questo si tratta) un complotto ordito dai dirigenti comunisti italiani contro il leader chiuso nel carcere fascista a partire dalla lettera di Grieco del 1928 ce ne corre, sottovalutando, fino a dimenticarlo del tutto, il ruolo che nella vicenda della lettera ebbe il giudice istruttore Macis [7]. Ancora davanti alle telecamere il professor Canali ha sostenuto questa sua congettura arrivando alla spudorata proposizione del suo libro come testo da cui trarre utili riflessioni intorno a Gramsci in generale e, più in particolare, intorno ai rapporti fra Gramsci e Togliatti [8]. Non è intenzione di chi scrive ergersi a insegnante di tal maestro, ma non sarebbe stato più decente affidare al pubblico la lettura di qualche autorevole biografia gramsciana (e ce ne sono altre oltre quella di Fiori)? Così come non sarebbe stato più opportuno proporre come luogo della memoria gramsciana, invece del carcere di Turi, l’urna nel Cimitero acattolico a Roma, magari ricordando che a pochi passi c’è anche l’urna di Antonio Labriola? Oppure, invece di proporre come film lo splendido Uccellacci e uccellini di Pasolini, adducendo come motivazione il fatto che il grande regista era notoriamente gramsciano, non sarebbe stato più utile, proprio dal punto di vista della conoscenza, suggerire il film di Lino Dal Frà intitolato Antonio Gramsci. I giorni del carcere (1977), pur con tutte le sue imprecisioni?
Dato che abbiamo speso alcune parole per la perfomance televisiva del professor Canali, sembra il caso di dire altre due parole anche sul professor Francesco Perfetti, allievo di Renzo De Felice, docente di Storia contemporanea alla Luiss e direttore della rivista “Nuova storia contemporanea”, anch’egli fra i consulenti scientifici di Rai Storia. E’ comparsa sul quotidiano della Cei, “Avvenire”, in data 19 aprile u. s., un’intervista al professor Perfetti in cui si sostiene che “se la Resistenza non portò alla deriva rivoluzionaria lo si deve al ruolo decisivo delle componenti cattolica e liberale”. Quello che impressiona in costoro è la pervicace e difficilmente incrinabile tendenza ideologica che li spinge a dimenticare l’oggetto del loro stesso discorso, cioè la storia. Mi sembra di ricordare (credo che le compagne e i compagni che mi stanno leggendo vorranno supportarmi) che nell’aprile del 1944 sbarcò dalle parti di Napoli un signore, di nome Palmiro Togliatti, che, dopo anni di esilio a cui era stato costretto dal fascismo, radunò intorno a sé il suo Partito, cioè il Partito comunista, dicendo che andava costruito un ampio fronte unitario antifascista e che la questione istituzionale andava rimandata alla fine della guerra contro il fascismo e il nazismo. Il 22 aprile del 1944 si costituiva a Salerno il primo governo dell’Europa occidentale a partecipazione comunista, presieduto da Badoglio. Insomma, professor Perfetti, la svolta di Salerno è un’altra invenzione di Togliatti o è l’atto costitutivo dell’unità antifascista su cui si fondò il movimento resistenziale, che è l’unica rivoluzione che l’Italia postunitaria abbia mai avuto e che ebbe la sua acme nella Costituzione repubblicana, democratica e, appunto, antifascista scritta dai comunisti insieme alle altre forze politiche antifasciste?
Di fronte a questo scempio operato da intellettuali alla ricerca di un ubi consistam ancorato alla fin troppo abusata categoria dell’anticomunismo, a noi non resta che rivolgerci all’urna di Gramsci e riflettere. Mettere in gioco se stessi è la molla della politica, ritenere che dall’assunzione di una responsabilità da parte di un singolo possa derivare il destino del mondo: questa è la politica, la passione politica. Gramsci è il nostro maestro lungo la strada che conduce a quell’assunzione di responsabilità che è l’anticamera della trasformazione del mondo. Dal silenzio di quell’urna si deve trarre la necessità del fare politica; in modo intransigente, responsabile e convinto.
AutoreLelio La Porta–Fonte Ass. La Città Futura-
Antonio Gramsci
Note:
[1] Le testimonianze riportate sono tratte da G. Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 336 e A. Gramsci, Vita attraverso le lettere, a cura di G. Fiori, Einaudi, Torino, 1994, p. 389
[3] Antonio A. Santucci, Antonio Gramsci 1891-1937, Sellerio editore, Palermo, 2005, p. 136
[4] Si veda V. Gerratana, Prefazione in A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, Einaudi, Torino, 1975
[5] E. Garin, Le Lettere di Gramsci, “Leonardo”, giugno-agosto 1947
[6] B. Croce, Recensione delle “Lettere dal carcere”, Quaderni della critica, 8, luglio 1947. Sarà il caso di ricordare la reazione di Togliatti alla recensione crociana nella quale, secondo il segretario comunista, Gramsci veniva avvicinato eccessivamente al campo idealistico marcandone la sua distanza da un certo comunismo (P. Togliatti, Antonio Gramsci e don Benedetto in Id., Scritti su Gramsci, a cura di G. Liguori, Editori Riuniti, Roma, 2001, pp. 129-130)
[7] R. Giacomini, Il giudice e il prigioniero. Il carcere di Antonio Gramsci, Castelvecchi, Roma, 2014
[8] M. Canali, Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata, Marsilio, Venezia, 2013
FIUMICINO- Borgo TESTA di LEPRE- Il Casale Doria Pamphilj
TESTA di LEPRE- Il Casale Doria Pamphilj
Cenni storici
Il Casale Doria Pamphilj a Testa di Lepre è un granaio del XVI secolo, conosciuto come luogo dove fermarsi sin dai tempi degli Etruschi, la tenuta di Testa di Lepre è fra i possedimenti della famiglia Pamphilj sin dal 1649.La fattoria Testa di Lepre nel 1649 diventa proprietà della famiglia Pamphilj, in seguito all’acquisto fatto a opera di Olimpia Maidalchini, che era amministratrice dei possedimenti di famiglia oltre che cognata del Papa Innocenzo X.
TESTA di LEPRE- Il Casale Doria PamphiljTESTA di LEPRE- Il Casale Doria Pamphilj
Questa cornice romantica e ricca di storia può essere vostra per festeggiare le vostre nozze a soli 20 chilometri da Roma.
Il casale dispone di una chiesa dove poter celebrare la funzione religiosa.
Spazi e capienza
Immerso nella suggestiva campagna romana, il casale è un luogo rilassante, con ampi spazi dedicati al vostro evento. Dispone infatti di sale interne che saranno finemente allestite in occasione del banchetto e di un grande giardino per celebrare la festa all’aperto durante la stagione estiva.
Servizi offerti
Sarete accompagnati da una squadra di professionisti che si occuperanno di organizzare il ricevimento che avete sempre sognato, con particolare attenzione alla cura degli allestimenti, alla rapidità del servizio e alla cortesia in ogni momento della giornata.
TESTA di LEPRE- Il Casale Doria Pamphilj
Ristorazione
La cucina propone i sapori della tradizione regionale e seleziona attentamente le migliori materie prime del territorio. Il menù nuziale sarà pensato e personalizzato per soddisfare tutti i presenti, con la possibilità di scegliere piatti adatti a tutti i tipi di dieta (vegetariani, vegani, celiaci).
TESTA di LEPRE- Il Casale Doria Pamphilj
Altri spazi
L’agriturismo dispone di otto eleganti alloggi per gli ospiti che scelgano di soggiornare presso il Casale. Ogni alloggio può accogliere da due a sei persone e offre tutti i più moderni comfort.
INFORMAZIONI
TESTA di LEPRE- Il Casale Doria Pamphilj
Indirizzo: Via Onorato Occioni, 12, 00050 Testa di Lepre, Fiumicino RM
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Il lancio del trattore 180-90, uno dei modelli base di quella che viene definita “la serie 90 alta” di Fiatagri, risale al 1984. Fu senza dubbio il modello di maggior successo della gamma, elegante, aggressivo e potente, grazie al motore Fiat-OM 8365.25 a 6 cilindri turbo oilcooler da 8.102 centimetri cubi.
Questo motore, tarato in fabbrica a 180 cavalli a 2.200 giri, aveva un “difetto” particolare: poteva essere facilmente manipolato e portato a potenze ben superiori ai 200 cavalli. Ne furono trovati alcuni con 220 CV alla presa di forza, che corrispondevano a circa 240 CV al volano. Chiaramente, una trasmissione tarata per un massimo di 200 CV non poteva non risentire di tale sbalzo di potenza e questo spiega perché una parte di contoterzisti non “manipolatori” non abbia mai avuto problemi di affidabilità, mentre altri sì. Anche non manipolato il 180-90 “tirava” sul serio, e non era neppure asssetato di carburante: test ufficiali attestavano un consumo di 32 kg di gasolio per ora alla potenza massima, e di 23 a coppia massima: un buon risultato per un motore di 8,1 litri con quel rendimento.
trattore FIAT 180-90-
Al momento del suo lancio erano offerte due trasmissioni meccaniche a marce e gamme sincronizzate: una 24+8 con superriduttore, con velocità da 0,2 a 31 km/h, oppure una 16+16 con inversore al posto del superriduttore e velocità da 2,2 a 31 km/h. Tuttavia i concorrenti in questa fascia di potenza, quasi tutti americani, offrivano già cambi idraulici in powershift, meno efficienti ma più moderni e versatili. Per questo motivo, a due anni dal lancio, alla Fiera di Verona del 1986, la Fiatagri aggiornò la serie 90 gamma alta rendendo disponibile a richiesta il cambio in powershift, il sollevatore elettronico e la presa di forza con sollevatore anteriore. Il powershift consentiva di inserire le quattro marce di ogni gamma sotto carico, in movimento, senza l’uso della frizione, e di adattare istantaneamente il trattore alle variazioni di sforzo di trazione, con vantaggi anche per l’affidabilità del cambio e per il comfort di guida.
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Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
Philip Kwok racconta “I cinesi in Italia durante il fascismo”-
La ricerca di Philip Kwok sulle tracce dei cinesi internati in Abruzzo e Calabria durante la Seconda Guerra Mondiale
Durante la Seconda Guerra Mondiale, oltre duecento cittadini cinesi furono internati in campi di concentramento italiani. I due terzi dei cinesi residenti in Italia in quel periodo. Parla di loro, delle loro vicissitudini e delle loro storie I cinesi in Italia durante il fascismo. Il campo di concentramento di Philip Kwok, pubblicato per la prima volta nel 1984 e riproposto in una nuova edizione a fine 2018 da Phoenix Publishing.
Ricercatore e professore arrivato a Napoli negli anni Settanta del secolo scorso per un dottorato in Storia e Filosofia, Philip Kwok cominciò a dedicarsi alle vicende dei cinesi d’Italia durante il fascismo spinto dall’incontro casuale avuto con il suo connazionale Zheng Qichang, cinese originario del villaggio di Fengling, nella provincia del Zhejiang, che gli raccontò la sua esperienza. Arrivato in Italia nel 1935, cinque anni dopo fu internato nel campo di concentramento di Isola del Gran Sasso in Abruzzo e successivamente fu trasferito in quello di Ferramonti in Calabria.
Una storia che suscitò immediatamente l’interesse di Philip Kwok, che decise di svolgere un’indagine per ricostruire le vicende dei cinesi residenti in Italia allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Lo studioso ricercò luoghi, documenti e persone in grado di fornirgli elementi utili a una ricostruzione storica più dettagliata possibile. E, come scrive nella prefazione al testo il sinologo e ricercatore dell’Università dell’Insubria, Daniele Brigadoi Cologna, che si occupa da tempo di migrazioni cinesi in Italia, Kwok fu il primo a svelare una storia di cui «si sarebbe verosimilmente perduta ogni traccia».
Nel maggio del 1940, il ministero dell’Interno incaricò tutte le prefetture del Regno d’Italia di censire i cittadini stranieri che, con l’entrata in guerra dell’Italia, avrebbero potuto essere considerati sudditi di Paesi nemici. Cinesi compresi. Se ne contarono 431. Si trattò di una sorta di precauzione in vista dell’entrata in guerra dell’Italia e della stipula del Patto Tripartito con Germania e Giappone. Infatti, dopo aver dichiarato guerra a Francia e Gran Bretagna, iniziarono i fermi, che in base a una direttiva del ministero dell’Interno riportata nella prefazione furono però limitati a «quei sudditi cinesi che non hanno stabile occupazione, che non dimostrano chiaramente la fonte dei loro proventi e che sono ritenuti elementi comunque pericolosi».
Philip Kwok seguì le loro tracce ritrovando negli archivi comunali gli elenchi dei cinesi internati in Abruzzo, prima a Tossicia e poi a Isola del Gran Sasso, e in Calabria, a Ferramonti di Tarsia. Non solo ripercorse i loro spostamenti da un campo all’altro, ma cercò di capire come vivevano all’interno dei campi, quali erano le loro condizioni, come venivano trattati dal governo italiano e quale fu il loro rapporto con gli abitanti dei Paesi in cui si trovavano.
Il testo, quindi, ha un grande valore storico e sociale e racconta una vicenda che Daniele Brigadoi Cologna definisce nella prefazione come «una delle tappe fondamentali della formazione di una minoranza cinese d’Italia, la cui storia si sviluppa lungo più di quattro generazioni. Dei circa trecentomila cinesi che oggi risiedono stabilmente nel nostro paese, la maggior parte appartiene ancora ai medesimi lignaggi di coloro che vi approdarono nella seconda metà degli anni Venti del secolo scorso», sottolineando che quei cinesi che «dopo la guerra scelsero di restare in Italia, in gran parte sposarono donne italiane e diedero vita alla prima generazione sino-italiana».
I cinesi in Italia durante il fascismo è, quindi, un interessante punto di partenza per comprendere la storia dei cinesi d’Italia e le origini dei sino-italiani.
Oggi che l’autore di questa ricerca non è più tra noi, sua figlia Luna Cecilia Kwok si impegna a mantenerne viva la memoria e a diffondere i risultati del lavoro di suo padre che «ha dedicato l’intera sua esistenza alla ricerca e allo studio scrupoloso di temi riguardanti i legami tra Cina e Occidente».
Philip Kwok
Lea Vendramel per Cina in Italia di novembre 2019-
RIETI- Valle del Primo Presepe, torna il concorso fotografico “Wiki Loves”
RIETI- 4 settembre 2023- Il 2023 è un anno importante per la Valle del Primo Presepe. È infatti quello in cui ricorre l’ottavo centenario del primo presepe ideato a Greccio da san Francesco, per avvicinarsi attraverso i sensi al mistero dell’Incarnazione. Dal prossimo 26 novembre avrà dunque inizio un importante ciclo di eventi attraverso i quali tornare alla notte del Natale 1223 ed entrare nel vivo di quell’esperienza umana e spirituale. Un percorso che il progetto della Valle del Primo Presepe propone attraverso eventi, esperienze, esposizioni e anche concorsi che puntano ad allargare la partecipazione e il coinvolgimento. Tra questi il concorso fotografico locale Wiki Loves Valle del Primo Presepe, incluso nel più ampio concorso nazionale Wiki Loves Monuments Italia. Un’iniziativa promossa in sinergia con Wikimedia Italia per valorizzare il patrimonio artistico e monumentale del territorio, garantendo la sua visibilità su Wikimedia Commons, Wikipedia e i progetti collaterali grazie a quanti realizzano fotografie e le concedono con licenza libera CC-BY-SA.
Come nelle edizioni passate, è possibile partecipare anche al concorso locale, caricando foto che abbiano per oggetto i “monumenti liberati” presenti nella lista aggiornata.
Per partecipare al concorso occorre registrarsi sul sito Wikimedia Commons e caricare le foto sul portale seguendo la procedura guidata. Saranno valutate dalla giuria esclusivamente le immagini caricate dal 25 novembre 2023 al 2 febbraio 2024.
Il bando completo e le indicazioni per la registrazione sono consultabili sul sito valledelprimopresepe.it.
Questi i premi del concorso locale Wiki Loves Valle del Primo Presepe:
I premi
• 1° premio | Macchina fotografica istantanea
• 2° premio | Action Camera
• 3° premio | Cornice digitale
Davide Ferella:”Il mandolino nel teatro musicale Settecentesco”
Zecchini Editore
DESCRIZIONE
È nel settecento in particolare, secolo tra i più ricchi e complessi della storia d’Europa, che questo legame, questo strano intreccio di vicende, raggiungerà il momento apicale, con sempre più opere colorite dal suono di questo piccolo strumento. Una scelta, quella di affidare al mandolino la conduzione di un’aria, spesso la più caratterizzata e ricca di pathos, mai casuale, bensì dettata da esigenze drammaturgiche finemente studiate da compositori e librettisti. Il suo pizzico, multiforme e cangiante, sarà in grado infatti di esaltare tanto l’aulico canto di Achille e Cleopatra quanto quello, ben più greve e profano, di Don Giovanni e Almaviva. Versatili e suggestive le sue corde guideranno l’ascoltatore attraverso le ambientazioni più disparate, tra le anguste vie di una qualche città campana, lungo immaginifici orizzonti mediorientali. Mozart, Vivaldi, Paisiello e Cimarosa sono alcuni dei musicisti che nel corso del secolo si lasceranno affascinare dal potere evocativo del suo suono, un suono che più d’ogni altro ci ha definiti e tutt’ora ci definisce italiani nel mondo. Conoscere queste vicende è conoscere dunque ancor un poco dell’iridescente universo musicale nostrano, in particolare quello teatrale, nonché apprezzare l’epopea di uno strumento, il mandolino, centrale nella cultura musicale europea del XVIII secolo.
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