Esule a San Godenzo, a Pulicciano e nei due versanti dell’Appennino Uno studio questo che ha lo scopo di cercare gli itinerari, le difficoltà, i luoghi, che Dante visse nel suo peregrinare nel Mugello e sull’Appennino, che avevano a quel tempo molti dei connotati e delle caratteristiche riportate nella Commedia; luoghi caratterizzati da cascate, torrenti, boschi fitti e impenetrabili, selve popolate da animali selvatici che lambivano le mura dei castelli.
CASTELNUOVO di FARFA La statua della Madonna del Rosario
CASTELNUOVO di FARFA(Rieti)- La statua della Madonna del Rosario-
Foto e nota di Franco Leggeri, Castelnuovese
Chiesa parrocchiale San Nicola di Bari. La statua della Madonna del Rosario è sicuramente l’emblema che meglio rappresenta la religiosità del popolo castelnuovese.
Il giudizio di Ario Miller sulla statua della Madonna “La Gloria è di un bel barocco, magari un po’ pesante, ma sempre ben lavorato e di pregio. La figura della Madonna e del Bambino, sfuggono essendo troppo vestiti. Non so dire solo dalla foto, se sono una statua (solo le parti visibili) in tiglio verniciato a gesso e vernici color carneo del Sei-settecento, o una più remota “statua vestita” fatta di cartonato verniciato, di scuola umbra.”.
Foto e nota di Franco Leggeri, Castelnuovese
CASTELNUOVO di FARFA La statua della Madonna del RosarioCASTELNUOVO di FARFA La statua della Madonna del RosarioCASTELNUOVO di FARFA(Rieti)- Chiesa parrocchiale San Nicola di BariCASTELNUOVO di FARFA- Processione -Foto Storica-con la statua della Madonna del RosarioCASTELNUOVO di FARFA(Rieti)- Chiesa parrocchiale San Nicola di BariCASTELNUOVO di FARFA Manifesto per i festeggiamenti della Madonna del RosarioCASTELNUOVO di FARFA(Rieti)- Chiesa parrocchiale San Nicola di BariCASTELNUOVO di FARFA(Rieti)-
ROCCA di TANCIA o “ Rocca Tanciae”. NOTA STORICA dal CHRONICON(II-Pagina 134)- “GROTTA DI SAN MICHELE ARCANGELO”. Foto inviata da ELIO MERCURI-Ricerca bibliografica e trascrizione di FRANCO LEGGERI-
La Rocca si trova vicino al Castello di Fatucchio, sono visibili ancora pochi ruderi.La Rocca, come Fatucchio, aveva la sua chiesa che, credo , siano ancora visibili i ruderi, in verità pochi ruderi. La Rocca è costruita sopra una rupe scoscesa molto elevata sita di fronte al vicino Castello di Fatucchio, questa posizione alcuni studiosi, la interpretano come un atto di sfida al vicino Castello. La Rocca ha una Storia molto interessante ed è per questo che se ne occupò anche il Cardinale SCHUSTER nella sua opera sull’Abbazia di Farfa. Documenti-
Documento 158-II- anno 802- pag. 132: è riportato un elenco dei beni donati (cita il documento 157 )dai fratelli Probato e Piccone di Urso Al monastero (Farfa?) tra cui si evidenziano la porzione della chiesa di Sant’Angelo in Tancia con tutta la sua “dote” e con il Gualdo ch’è nello stesso Monte Tancia assieme ad una porzione di Casale Paterno e con la relativa Chiesa di Santa Cecilia con corredo di Coloni, terre, vigne ed uliveti e bestiame;
Documento 410-III- anno 991 –pag. 119: l’Abate Giovanni cede a Guimaro figlio di Barone una terra sul monte Tancia (permuta) “…dove è lo stesso Castello…”. Qui Castello si vuol intendere la Rocca di Tancia o Futucchio? Non si hanno elementi sufficienti per dare un giudizio definitivo;
Documento 1318-anno 1118-pag.305: L’Imperatore Enrico V conferma al Monastero dell’Abbazia di Farfa il possesso , i benefici e privilegi e trai beni viene citata la “ROCCA TANCIE””;
Documento 975 (relativo anche alla Rocca della Forcella sita nel territorio di Poggio Ciciliano). Con questo Documento vi è anche:Doc. 1324- dell’anno 1119-1126- citati alla pagina 317 e Documento (non numerato) dell’anno 1119-1125 alla pagina 319. Ancora si ha il Documento 948 dell’Anno 1067- della pagina 342 in cui risulta che oggetto di di vendita, da parte di Dono e Rogata la loro posizione :”… de Rocca quae vocxatur TANCIA, et de ecclesias quae in ipsa Rocca modo stare videtur…..”;
Documento 158 dell’anno 802-pag. 132 in cui è stilato elenco dei beni donati col precedente documento 157 dai fratelli Probato e Piccone di Urso al monastero di Farfa tra cui: “… la loro porzione della Chiesa di Sant’Angelo in TANCIA, con la sua dote e con il gualdo(gualdo=bosco piccolo) che è nello stesso monte nonché la loro porzione del Casale Paterno con la chiesa di Santa Cecilia e con coloni, terre, vigne e oliveti ecc…”;
Documento 883 -anno 1049-1053 pag.279-Il Vescovo sabinense Giovanni(1011-1060) accusa l’Abate Berardo innanzi a Papa Leone IX (1049-1054) e ad un Sinodo romano di avere attentato alla sua vita e di aver subito “grandi violenze”;
Documento 935 dell’anno 1063 pag. 329: Ridolfo, Stefano e Pietro figli di Giovanni donano alla Chiesa di San Michele Arcangelo in TANCIA , appartenente al Monastero di Farfa alcuni beni situati nel territorio sabinense;
Documento 1012 anno 1073 alla pag. 15: ..breve memoria di un patto concluso tra Berardo , Abate di Farfa, e Farolfo e Pietro di Lictone, Giovanni e Leone di Rainiero e Umberto d’Ingizone, relativamente ai possessi del Monastero di Farfa nei Castelli di Catino e di Luco e nella ROCCA di TANCIA. Patto stipulato e definito dinanzi alla Chiesa di San Pietro Apostolo di Poggio Catino, al tempo di Papa Gregorio (1073-1085) nel mese di maggio;
Documento 1318 anno 11118 pag. 305: L’Imperatore Enrico V conferma al Monastero di Farfa il possesso e i privilegi e tutti i beni , tra cui il gualdo(bosco) e la ROCCA di TANCIA e la Chiesa di Sant’Angelo in TANCIA;
Nell’appendice al volume I del Registro Farfense alla pagina 34 si legge:”….nell’anno 1217 l’Arciprete Rustico di TANCIA la scia al Monastero (Abbazia di Farfa) per la sua anima la metà della Chiesa di San Donato e delle sue decime e offerte mortuarie…”;
NOTA STORICA dal CHRONICON(II-Pagina 134)- “GROTTA DI SAN MICHELE ARCANGELO”.
In merito alla proprietà del Santuario era intervenuto un accordo tra UGO I da Farfa (997-1038) e il Vescovo Giovanni di Sabina . L’accordo riguardava la ..”divisione delle decime e le offerte mortuarie…”. Dieci anni dopo, con il pretesto che Berardo I aveva ceduto i suoi diritti a” due monache”, cercò di impedirgli di compiere lavori di “… decorazioni del piccolo Tabernacolo…”. Ma l’Abate non si scompose e, quindi, si scatenarono le ire del Vescovo sabino , sempre in relazione alla questione all’Altare, così si legge nel CHRONICON, sembra che l’Altare fosse consacrato da San Silvestro I Papa dal 314 al 335 e, forse si potrebbe ipotizzare che , appunto il Santo fosse sul Tancia per sottrarsi alle persecuzioni di Costantino Magno, ricordiamo che ancora non era cristiano, nel gennaio del 314 , San Silvestro, dovette rifugiarsi sul monte Soratte. Dobbiamo anche evidenziare e ricordare che sulla vita di San Silvestro sono “fioriti” tanti episodi “fantasiosi e pittoreschi” specialmente nei secolo XIV e XV, alimentati come ad esempi la resurrezione del toro e la vittoria sul drago pestifero , ma tutti da ritenersi assolutamente leggendari. Ma proseguendo nella lettura si legge che una schiera di “Scherani” (Uomini violenti al servizio di un potente) guidati da Giovanni i quali piombarono improvvisamente sul Monte TANCIA e fecero scempio del luogo sacro, distrussero , incendiandola, il piccolo cenobio scavo e con esso la Chiesa sulla rupe. La piccola comunità di monaci che qui viveva dovette, per salvarsi, fuggire. Ma l’Abate non si diede per vinto che scortato e protetto dall’esercito dell’abbazia riconsacrò l’altare per mezzo di un Vescovo che era ospite dell’Abbazia di Farfa. Ricorda il Cardinale Schuster nella sua Opera :”…i monaci della prepositura riprendevano la loro consueta vita di penitenza e di preghiera…”.
Seguirono altri episodi incresciosi e scandalosi sul Monte Tancia. L’Abate Giovanni , benché vecchio, si recò ”armato” ed attaccò nuovamente e distrusse , per la seconda volta, l’altare. A Roma giunsero le notizie “scandalose dei fatti del Monte TANCIA” i quali provocarono grande scalpore e commozione . L’accusa di Giovanni presentata a Papa Leone IX , che in quel tempo era di ritorna da Augusta,ottenne , infine, risultati di buon senso e mediazione e conciliante tra i due contendenti. Tutto si risolse al meglio :” …quell’auri sacra fames…”. Ricordiamo che a quei tempi il popolo sabino era molto devoto a San Michele Arcangelo. Da quel periodo la “GROTTA DI SAN MICHELE ARCANGELO” divenne meta di continui pellegrinaggi.
ALBA(CN)-Domenica 24 settembre 2023, nei luoghi più significativi per la relazione tra la narrativa fenogliana e la Resistenza albese, eravamo in tantissime e tantissimi a dare voce alle parole di Beppe.
La scelta di diventare partigiano o partigiana, le conseguenze della scelta e la volontà forte e cristallina di seguirla fino alla fine.
Grazie a chi ha partecipato, ai lettori e alle lettrici che hanno letto con passione e grazie sopra tutto a Giorgio Fontana, ai Contratto Sociale Gnu-Folk e a Alberto Visconti per averci accompagnato in questa decima maratona di letture!
ALBA (CN)-Centro studi Beppe FenoglioALBA (CN)-Centro studi Beppe FenoglioALBA (CN)-Centro studi Beppe FenoglioALBA (CN)-Centro studi Beppe FenoglioALBA (CN)-Centro studi Beppe Fenoglio
BRANO dal libro di Franco Leggeri :Castelnuovo , la riva sinistra del Farfa.
-LA VITA NEL BORGO –nel 1889
Castelnuovo di Farfa: dalla fine del 1800 fino agli anni 1960, come si può ricostruire o immaginare la vita nel Borgo? Se fossi stato un cronista del diciannovesimo secolo ,inviato da un giornale, questo sarebbe stato il “pezzo” che avrei inviato alla redazione .
Castelnuovo di Farfa- 1889- (la data è stampata sulla foto)- Castelnuovo , la vita tranquilla del Borgo, il silenzio di piccole piazze (la piazzetta) e delle vie strette tra muri di pietra sono animate dai rumori “di una vita tranquilla”. La gente impegnata nel lavoro, svolge le proprie faccende “con ritmi non affrettati ”. Il tempo nel Borgo è segnato dalle stagioni che hanno inizio con feste religiose come, ad esempio, la festa di ottobre, LA FESTA DELLA QUINDICINA , oppure la festa di San Filippo in primavera ed ancora la Festa della Madonna degli Angeli in agosto. La fiera è un appuntamento importante per l’economia agricola degli abitanti, oggi diremo :“Si capitalizza e trasforma in liquidità , moneta, il lavoro.” La Fiera-Mercato era un appuntamento molto importante per i castelnuovesi; infatti la compravendita del bestiame o il commercio minuto dei generi di prima necessità, non prodotti dall’economia locale, diventano “scorte strategiche” da immagazzinare sia per le attività agricole sia per la vita domestica .
Al report per completezza avrei allegato la foto della TORRE DELL’OROLOGIO , in cui si vedono le case con le facciate annerite dal tempo, e anche dall’abbandono . Al Centro si è riunito un gruppo di donne, bambini e anche due ciclisti;le biciclette, probabilmente con le gomme piene, perché le strade non erano asfaltate, ma pavimentate con un misto di cava . Tutti i castelnuovesi erano incuriositi dalla complessa attrezzatura del fotografo: cavalletto di legno che sosteneva l’enorme macchina fotografica , spettacolo inconsueto per l’epoca , specialmente per i borghi agricoli tagliati fuori dai processi di industrializzazione e, quindi, dal progresso.
Oggi il centro storico di Castelnuovo è pressoché immutato, salvo la casa parrocchiale (orrenda) costruita negli anni ’50 o primi anni ’60. Per la realizzazione di questo edificio si è dovuto demolire l’antica bottega del falegname Asterio . La bottega demolita, io la ricordo con affaccio su di un piccolo piazzale, antistante palazzo Perelli, con al centro una vecchia macina di un mulino ad olio. BRANO dal libro di Franco Leggeri :Castelnuovo , la riva sinistra del Farfa.
Castelnuovo , la riva sinistra del Farfa.
Foto archivio privato Franco Leggeri
Castelnuovo di Farfa-Disegno di Tatiana Concas
Castelnuovo di Farfa
Castelnuovo di Farfa-Disegno di Tatiana Concas
CASTELNUOVO DI FARFA –La bottega del Fabbro :“GIUVANNINU U FERRARU”-Foto di Franco Leggeri
La FONTANELLA della PIAZZETTA-Disegno di Tatiana CONCAS
Castelnuovo di Farfa
Castelnuovo di Farfa
Castelnuovo di Farfa
La nascita dell’ESTATE CASTELNUOVESE
LA FONTANA-
Noi vecchi Castelnuovesi nella storia? Lo siamo già, l’abbiamo già scritta .
Castelnuovo di Farfa- Castelnuovo è , a volte, un romanzo, un noir, ma anche un documentato reportage giornalistico. Ritrovarsi un detective story che entra dentro i fatti recenti e antichi della vita delle persone, oppure, narrare Castelnuovo alla vigilia della grande speranza del dopo guerra e poi gli anni della corsa verso Roma. Raccontare e ricordare le partenze delle famiglie per realizzare il sogno di una vita migliore, sognando un lavoro sicuro. E’ la cronaca di una navigazione verso la grande città, leggere questo “libro dei ricordi” scritto da lacrime ,rimpianti, amori sopiti , delusioni e speranze cresciute con i figli nati a Roma . Noi Castelnuovesi eravamo radici trapiantate in terra nuova, Roma come terra promessa. Da Castelnuovo eravamo partiti verso la periferia romana, sì quella narrata da Pasolini , dagli uliveti tranquilli alle vie trafficate della Roma del boom edilizio , della speculazione selvaggia , la Roma dei palazzinari. E’ questa la trama , il filo del racconto che fa scorrere la narrazione di un mese di agosto di tanti anni fa , un giorno lungo, inciso nella memoria dei Castelnuovesi, quello della festa della Madonna degli Angeli. Si tornava a Castelnuovo con lo “stordimento della modernità” e ci si immergeva con i racconti, magari seduti sui bordi della Fontana ,nella narrazione , dopo un prologo carico di nostalgia mal mascherata. Il racconto e i racconti a più voci, per rivivere e parlare con la tua gente, riascoltare e dialogare parlando il dialetto e gustando il caro vecchio sapore della “madrelingua”. Si raccontava di Roma , con la descrizione delle sue strade e dei suoi quartieri . Noi ci sentivamo, inconsapevolmente, reporter di viaggi e si snocciolava una narrazione da cronista della vita metropolitana, “navigatori” esperti della Capitale. A tratti i racconti erano interrotti dal passaggio della “ragazzina” che ora era diventata donna. Seduti sulla Fontana , con i nostri racconti , si percorrevano sentieri nascosti, riscoprendo la cultura e l’antica storia del nostro paese. Noi ragazzi eravamo le contraddizioni del nostro Castelnuovo e del suo futuro. Eravamo, inconsapevolmente, il contrasto, tuttora irrisolto, tra l’antico e il moderno. Eravamo stati partoriti da un dolore antico che aveva cercato, con la partenza, fortemente il riscatto, e la voglia di salire su quell’ascensore che portava ai piani alti di un grattacielo, forse, podio dove si ammirava un orizzonte lontano e impensabile, oltre la fantasia. In quei pomeriggi di agosto si smaltiva lo “stordimento della modernità” e si tornava ad essere cronisti di storie antiche, cronisti del passato dove ognuno di noi arricchiva il racconto con dettagli e incisi a volte piacevoli a volte tristi. Così era l’Estate di noi Castelnuovesi , carica e desiderosa di avvenire. Erano storie che cercavano anche il volto di un amore intenso. Castelnuovo era ed è il nostro paese, dove tutto è visibile affacciandosi, oppure restando dietro i vetri delle finestre per vivere i racconti corali di una piazza amica e fraterna. Cosa è rimasto, mi chiedo scrivendo questo articolo, di quelle Estati Castelnuovesi? Castelnuovo è forse morto? Non nei racconti, ma sicuramente è stato “ucciso” da un’arroganza bigotta, sì quella del perbenismo di facciata che ostenta e maschera la propria ignoranza e l’affoga , appunto,“nell’arroganza spocchiosa ” che dopo decenni è ancora in essere. Scrivo questa riflessione perché ho voglia di riaccendere la fiamma dei ricordi, non un ritorno al passato, ma un forte desiderio di modernizzare una stagione e ritrovare il pentagramma dov’è scritta la melodia che tutti, noi veri Castelnuovesi, abbiamo amato e amiamo e che , forse, molti, come me, rimpiangono .
Poesia dedicata a noi Castelnuovesi senza volto e senza diritto di parola –Dalla raccolta
MURALES CASTELNUOVESI
Sulla vecchia cote dei ricordi affiliamo lame di impossibili rivolte. Abbiamo grattato terre incolte con il chiodo del primitivo, seminando speranze di poveri. Spartendo i raccolti con il padrone è rimasta la rabbia dei figli e l’aia deserta.
Anche in noi, questo furore taciuto riporta a scelte lontane, quando vita, giovinezza e volti di ragazzi inebriati di troppa ingenuità tutto bruciammo. Solo per amore. Bastasse questo pugno di anni (paura e speranza della sera) per ritoccare quella bilancia e non imbastire cupi silenzi su mani stanche, ma golose di sole.
A Castelnuovo mattini uguali e incerti come aste sul quaderno di stagioni incolori, quando il silenzio diventa eresia, e l’antico ripetersi scava sentieri tra le pietre scritte, e il rito del ritrovarsi tra il vuoto di assenze che pesano – già affiora il dire: questa è l’ultima volta – resta, ancora, da capire la somma dei perché, mentre la nebbia nasconde l’oblio.
Non ha senso la Storia . Anche quella che si scrive nel bronzo e le stagioni rigano di una patina verde (ora, che dissolti i cristalli di lacrime, alza soltanto steli di pietra e grovigli di lamiere), anche quello che è stato, e furono parole e musica e canti nati nei bivacchi e folla e bandiere, e tutti a premere l’erba sul cuore dei morti: anche l’amore di allora e le schegge di verità ( forse, anche i giuramenti), adesso, non hanno più senso.
Il tempo, con il volto di rigattiere, ha raccolto le cose vecchie districando dai rami brandelli incolori, lembi di aquiloni e frammenti di foglie stinte di speranza. Castelnuovo nel cuore, i ricordi, le speranze, le lotte vecchie e nuove e ancora giorni senza tregua ,bivacchi per nuove battaglie e strategie per nuovi obiettivi.
Brano da ” Il vecchio e il giovane nella storia , Castelnuovo per sempre. Castelnuovo nel cuore.”dalla raccolta di Poesie – “MURALES CASTELNUOVESI” di Franco Leggeri .
Castelnuovo di Farfa il corrosivo “VERBA”
– Ai castelnuovesi della mia generazione come dice Pasolini :”non era concesso sperimentare il conformismo dei giovani ribelli”. Noi che siamo nati solo come “carne” siamo dovuti nascere anche come “spirito” poi, nel distacco adolescenziale, abbiamo anche sperimentato la ribellione, ma fu difficile ribellarsi contro il “vuoto”. Noi giovani castelnuovesi riuscimmo a schiuderci e da larve ci ritrovammo a volare , ci fu chi atterrò lontano e chi vicino; chi ebbe la forza di tornare e chi si è invece disperso nell’infinito cielo.
Sono tornato , molto spesso, nel mio Dedalo, nei miei vicoli e nelle mie vie circolari , raggi che partono dal totem che è la “Fontanella della Piazzetta” .
La FONTANELLA della PIAZZETTA-Disegno di Tatiana CONCAS
CASTELNUOVO DI FARFA La FONTANELLA della PIAZZETTA
Castelnuovo di Farfa (Rieti)
nei disegni di Francesca Vanoncini-
La Fontanella della Piazzetta
Ho vissuto e camminato nella notte castelnuovese, quando i veli del silenzio mostrano i disegni, tratti di pennellate di colore indefinito che sono lasciati dal pianto della terra. I miei vicoli di Castelnuovo sono per me arterie che alimentano i pensieri per poi arrivare alle radici del tempo passato. Allora i ricordi diventano , a volte, il mio pane della tristezza, ma anche l’humus dove sboccia la tenerezza , la fragilità, della mia poesia.
Ora che sono al crepuscolo della mia vita devo riordinare le parole, i segni e, con saggezza, dividerli dalle “chiacchere” e dal rumore interiore prodotto dai veli che si agitano all’alito della luna castelnuovese.
La luna che illumina via Coronari e via Garibaldi sino al totem della Piazzetta dove dalla Fontanella sgorgano fiumi di Ricordi e la “grammatica” che alimentava il sogno di un “posto” diverso .
Noi ragazzi di allora avevamo le unghie forti che si conficcavano nell’anima per trovare la forza di annullare il distacco.
Abitare le parole è diventato un esercizio , anche testimonianza, per trasformare il pensiero in immagine e i paradossi in “profili” di letture.
Se i ricordi diventano racconti estrapolati dai colori macinati e prodotti da meccanismi che non rispettano le regole ecco, allora, che la forza dirompente dei personaggi iniziano a muoversi e a intravedersi nella rete di Dedalo. Escono allora dal letargo le barche cariche di pensieri è così che la penna entra nell’inchiostro della navigazione e il contesto innovativo esce dall’esperimento e e il viaggio della penna prosegue, naviga, nelle motivazioni degli “abissi profondi” in questo mare aperto che offre la visione “larga” necessaria per scrivere e descrivere “l’Orgoglio Castelnuovese”. L’Orgoglio è la volontà libera racchiusa nell’irrazionale dove le azioni non sono trappole, ma pluralità costruttiva all’interno di spazi di libertà “liquida”. Noi castelnuovesi riusciamo a scoprire il vero volto del nemico, il vigliacco dietro le quinte , verme serpente nascosto nel letame dei suoi residui organici.L’Orgoglio dei castelnuovesi è stata la forza di cancellarsi dal volto quella atavica paura e con coraggio hanno saputo attraversare le frontiere del servilismo.
Si può leggere ancora il racconto di intere generazioni che hanno inciso i frammenti dei loro racconti nei campi arati , fertili, ma protetti dall’oro del silenzio.
Nelle notti si possono ascoltare le voci dei contadini di Castelnuovo:“………I sospiri, le vibrazioni e il ritmo della vita umile dei contadini che attendono una nuova alba. Sogni soffocati dalla stanchezza, attimi di gioia strappati all’impossibile. Gli assoli di note fuggite a cavallo di onde distese sul pentagramma, dove le note sono gocce di sudore di una vita che si consuma nel breve segmento di un riposo povero , dopo una cena avara…….”
Brano dalla raccolta Muralese Castelnuovesi di Franco Leggeri.
Castelnuovo di Farfa-Metti un pomeriggio di ricordi.
Castelnuovo di Farfa-“Se un Castelnuovese abita a Roma, ve ne sono moltissimi, nei fine settimana o per qualsiasi altro motivo decide di lasciarsi alle spalle rumori, stress e cemento dove andare se non in Sabina . E innegabile che la mente e il corpo si distendono immergendosi nel “morbido” paesaggio collinare , ma come descrivere , trovare le parole, il piacere di “affogare” gli occhi e l’anima tra gli uliveti . Tornando in Sabina , a Castelnuovo, ritrovi sepolti sotto uno strato spesso di fogli polverosi, migliaia di immagini archiviate nella memoria. Questi fogli si sono stratificati e appiccicati l’uno all’altro, ma è ancora leggibile lo scritto. Qui a Castelnuovo ritrovi i volti del passato vedendo i giovani che corrono per la piazza. Certo a Castelnuovo , tappa intermedia tra passato e futuro, scopri che puoi ancora incontrare un sorriso e chi crede ancora nella stretta di mano. Si , qui a Castelnuovo puoi incontrare ancora un sorriso che si allarga e ti viene incontro per una stretta di mano per dimostrare , a me, che esistono ancora ricordi e voci che hanno segnato , inciso, le notti castelnuovesi senza lampioni. Disperdi l’ansia quotidiana, ma ricordi e rivivi l’ansia di guadagnarsi il futuro , proprio qui dove hai costruito il timbro della rabbia e lo slancio per la lotta. E’ qui che mi chiedevo cosa ci fosse oltre l’orizzonte, ma non è questo il giorno, oggi, per essere l’archeologo del ricordo. Ormai, forse, solo la Poesia ha un effetto tellurico e carnale che sa trasformare il mio tempo. Il “tempo differente” in tempo di Poesia; di salvezza e di recupero di tutto ciò che l’uomo perde nel suo allontanarsi dall’infanzia, beata età dell’innocenza, che nella memoria poetica diventa un luogo di simboliche appartenenze. Qui a Castelnuovo, le fragili figure dei sogni rivivono , sono ferite, le più insanabili ferite, fatte di carne e di sangue. Ferite, sogni feriti che incontro nei vicoli di Dedalo (Castelnuovo) con un destino , un tragico destino di dolore, ma forse questa è una storia di ordinaria follia dove il pathos si genera in stigmatiche narrazioni che, poi, riesco sempre a diluirsi nella “retorica dei sentimenti”. Ai primi segni di pioggia va in frantumi, nel mio ricordo, il mondo arcadico, bucolico, ma fragile come un presepe di cartapesta. Ora a Castelnuovo regna la stirpe della “razza carnefici”, a Castelnuovo sono escluso, sono l’intellettuale-poeta, con la testa tra le nuvole e nel cuore i versi di una poesia. Si, è vero riesco ancora a sentire tra i vicoli di Dedalo le canzoni ingenue e sentimentali dell’anteguerra. E’ ora di andare ,ma resterò sempre col cuore castelnuovese. E ora lancio lo sguardo verso questo cielo carico di nubi e di spazi azzurri , sembra un cielo di Raffaello, dove le leggi della natura mescolano la vita e morte anche nel misto colore di un pomeriggio qualunque passato qui a Castelnuovo”.
Brano da Murales Castelnuovesi – Franco Leggeri
CASTELNUOVO DI FARFA – PALAZZO SIMONETTI-ora EREDI SALUSTRI GALLI-Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Foto inizio 1900-Castelnuovo di Farfa (Rieti) Via Roma Est- foto inizio ‘900Castelnuovo di Farfa (Rieti) Via Roma Est- foto inizio ‘900Castelnuovo di Farfa (Rieti) nei disegni di Francesca Vanoncini- Palazzo Eredi Salustri GalliCastelnuovo di Farfa (Rieti) Palazzo Salustri-GalliCastelnuovo di Farfa (Rieti) Panorama (prima del 1935)Castelnuovo di Farfa (Rieti) Palazzo Eredi Salustri-GalliCastelnuovo di Farfa (Rieti) Foto del 1889Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Foto inizio 1900-Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Programma festa Madonna del Rosario anno 10 ottobre 1933Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Foto inizio 1900-Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Foto inizio 1900-Castelnuovo di Farfa (Rieti) Palazzo Eredi Salustri-GalliCastelnuovo di Farfa (Rieti) nei disegni di Francesca Vanoncini- La Fontanella della PiazzettaCastelnuovo di Farfa (Rieti) nei disegni di Francesca Vanoncini- Porta Fonte CisternaCastelnuovo di Farfa (Rieti) nei disegni di Francesca Vanoncini-La Torre dell’OrologioCastelnuovo di Farfa -40simoPremio letterario “LA TORRE D’ARGENTO”-1982-2022CASTELNUOVO DI FARFA: Foto degli anni’30 interno chiesa parrocchiale.Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Castello, Torre dell’OrologioCastelnuovo di Farfa-Porta CastelloCastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECASTELNUOVO DI FARFA – Palazzo Eredi Salustri GalliCASTELNUOVO DI FARFA – Palazzo Eredi Salustri Galli
A cura di Giovanni Battimelli, Michelangelo De Maria e Adele La Rana.
Con una premessa di Ugo Amaldi.
DESCRIZIONE-
Questo testo scritto verosimilmente negli anni Settanta, doveva costituire nelle intenzioni di Amaldi il nucleo di un libro sulla storia della fisica a Roma. In esso Amaldi ricostruì le drammatiche vicissitudini della comunità dei fisici italiani nel periodo che va dalle leggi razziali, promulgate dal regime fascista nell’autunno del 1938, alla fine della seconda guerra mondiale. In un racconto fitto di episodi in gran parte sconosciuti, rivivono le vicende legate all’emigrazione di Enrico Fermi, Franco Rasetti, Emilio Segré, Bruno Rossi e di molti altri scienziati, e le strategie per la “sopravvivenza scientifica” accettate dai colleghi rimasti in Italia, che permetteranno loro di conseguire importanti risultati negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra.
Il volume è completato da lettere e documenti inediti che fanno luce sui rapporti fra i fisici italiani costretti all’emigrazione e quelli rimasti in patria, sulle diverse posizioni assunte dai vari scienziati sul problema della bomba atomica e sulla politica della ricerca che i fisici italiani adottarono negli anni della ricostruzione.
Pubblicato a giugno 2022.
INDICE
Premessa di Ugo Amaldi
Nota introduttiva alla seconda edizione di Giovanni Battimelli, Michelangelo De Maria, Adele La Rana
Prefazione alla prima edizione di Giovanni Battimelli, Michelangelo De Maria
Nota al manoscritto
Il collasso e la ricostruzione di Edoardo Amaldi
Lettere scelte 1939-1946
Note biografiche
Indice delle lettere
Indice dei nomi
Edoardo Amaldi
Breve biografia di Edoardo Amaldi
Edoardo Amaldi (1908-1989), fisico nucleare, fu dapprima allievo, poi amico e stretto collaboratore di Enrico Fermi a Roma negli anni Trenta. È stato una figura chiave nella rinascita della scienza italiana ed europea nel dopoguerra. Fu tra i padri fondatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e del Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire (CERN, Ginevra), oltre che promotore della nascita dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Operoso sostenitore del disarmo nucleare e della cooperazione scientifica internazionale, accanto ai numerosi impegni politici proseguì per tutta la vita la ricerca attiva e di frontiera. Fu tra i pionieri nella ricerca sperimentale delle onde gravitazionali.
Gertrud Kathe Sara Chodziesner nasce a Berlino nel 1894, in una famiglia ebrea.Lavora come insegnante in una scuola femminile e coi bambini disabili e, nel mentre, scrive varie poesie con lo pseudonimo di Gertrud Kolmar.La poetessa esprime, nelle opere, il suo modo di essere e la struggente richiesta di essere ascoltata dagli altri, lontana da qualsiasi ambizione mondana.Le sue poesie giungono al grande pubblico nel 1938, ma vengono subito cancellate dalle leggi razziali. Gertrud le consegna a familiari emigrati, poi è costretta a prendere la dimora, con il padre, nella “Casa degli Ebrei”.Il padre nel 1941 viene inviato al campo di Theresienstadt, Gertrud il 2 marzo 1943 viene caricata sul treno senza ritorno con Auschwitz come destinazione finale.
L’animale
Vieni qui. E vedi la mia morte e vedi questo
eterno patire,
L’ultima onda che tremando si perde sul mio
pelo,
E sappi che il mio piede con gli artigli fu
debole e sfuggente,
E non chiedere se sono lepre, scoiattolo, o
topo.
Perché non importa. Sempre ti voglio male
o bene;
Sei il tiranno che inventa la legge,
E la misura secondo le sue membra, come fosse il suo mantello,
il suo cappello.
E tra le mura della sua città lo straniero
stringe e offende.
Muto ti adagi sulle tombe degli uomini
Fatti a pezzi da te;
Soffrendo, diventarono santi, cinti d’oro.
Porti la pelle della madre morta e la metti addosso
a tuo figlio,
Regali giochi sbocciati dalla fronte insanguinata
dei martiri.
Perché in vita siamo bestiame e selvaggina; cadiamo:
preda, carne e pasto –
Non rugiada di mare, né raccolto di terra che voi senza riserva
concedete.
Con l’inferno ed il cielo vi addormentate; quando
crepiamo siamo carogne,
Ma il vostro cruccio è che non ci potete più
ammazzare.
A chi un tempo pregasti, io diedi le mie
immagini,
Finché riconoscesti il dio dell’uomo, non più
il dio degli animali,
Ed estirpasti la mia prole e chiudesti tra pietre
la mia fonte
E ciò che scrisse la tua brama chiamasti
una frase dell’Altissimo.
E tu hai la speranza e l’orgoglio, l’al di là, e ancora hai
del soffrire la ricompensa
Che si rifugia inviolabile nella tua anima;
Ma in una veste di piume e squame, io sopporto
mille volte,
E se tu piangi, sono il tappeto, sopra cui s’inginocchia
la tua pena.
Gertrud Kolmar – Das Tier
(Traduzione di Adelmina Albini e Stefanie Golish)
Das Tier
Komm her. Und siehe meinen Tod, und siehe dieses
ewige Ach,
Die letzte Welle, die verläuft, durchzitternd meinen
Flaus,
Und wisse, daß mein Fuß bekrallt und daß er flüchtig
war und schwach,
Und frag nicht, ob ich Hase sei, das Eichhorn, eine
Maus.
Denn dies ist gleich. Wohl bin ich dir nur immer böse
oder gut;
Der Willkürherrscher heißest du, der das Gesetz erdenkt,
Der das nach seinen Gliedern mißt wie seinen Mantel,
seinen Hut.
Und in den Mauern seiner Stadt den Fremdling drückt
und kränkt.
Die Menschen, die du einst zerfetzt: an ihren Gräbern
liegst du stumm;
Sie wurden leidend Heilige, die goldnes Mal verschloß,
Du trägst der toten Mutter Haut und hängst sie deinem
Kinde um,
Schenkst Spielwerk, das der blutigen Stirn Gemarteter
entsproß.
Denn lebend sind wir Vieh und Wild; wir fallen:
Beute, Fleisch und Fraß –
Kein Meerestau, kein Erdenkorn, das rückhaltlos ihr
gönnt.
Mit Höll und Himmel schlaft ihr ein; wenn wir
verrecken , sind wir Aas,
Ihr aber klagt den Gram, daß ihr uns nicht mehr
morden könnt.
Einst gab ich meine Bilder her, zu denen du gebetet
hast,
Bis du den Menschengott erkannt, der nicht mehr
Tiergott blieb,
Und meinen Nachwuchs ausgemerzt und meinem Quell
in Stein gefaßt
Und eines Höchsten Satz genannt, was deine Gierde
schrieb.
Und hast die Hoffnung und den Stolz, das Jenseits, hast
noch Lohn zum Leid,
Der, unantastbar dazusein, in deine Seele flieht;
Ich aber dulde tausendfach, im Federhemd, im
Schuppenkleid,
Und bin der Teppich, wenn du weinst, darauf dein
Jammer kniet.
“La città è per me un vino colorato in un levigato
calice di pietra
che sta e brilla
davanti alla mia bocca
e specchia la mia immagine nella sua cavità.
Esso riflette il suo cerchio
più profondo che ognuno conosce, ma nessuno sa perché, ciechi,
ci colpiscono tutte le cose
a noi quotidiane e usuali.
Davanti a me
la rigida parete
delle sagge case con il suo «Qui da noi…» sicuro di sè;
il volto di vetro
della piccola bottega
si chiude riservato:
«Io non t’ho chiamata.»
II selciato ascolta
e cerca a tentoni
il mio passo
pieno di sospetto e di curiosità
e dove il legno
si unisce con la colla,
là si parla una lingua
che non è mia.
La luna palpita rossastra
come un assassinio
sopra il corpo lontano,
sopra la parola smarrita, quando, la notte,
contro il mio petto
s’infrange il respiro
d’un mondo straniero.”
L’ABBANDONATA
A K. J.
Ti sbagli. Credi di esser lontano,
e che ti cerchi ansiosamente e non riesca più a trovarti?
Ti tocco con i miei occhi,
con questi occhi, che sono buio e una stella.
Ti trascinai sotto questa palpebra,
la chiusi e sei per sempre prigioniero.
Come credi di poter fuggire ai miei sensi,
alla rete del cacciatore, a cui mai sfuggì una preda?
Non mi lasci più cadere dalle tue mani
come un mazzo di appassiti fiori,
per strada gettati, e sulle soglie
calpestati e da tutti infangati.
Ti ho voluto bene. Tanto bene.
Ho pianto tanto…con preghiere ardenti…
E ti amo ancora di più, perché per te soffrii,
quando la tua penna non scrisse più lettere, non più lettere per me.
Ti chiamavo amico e signore e guardiano del faro
sul sottile tratto d’isola,
tu, il giardiniere del mio frutteto,
e ce n’erano mille buoni, e nessuno era quello giusto.
Non mi accorsi che mi si infranse il vaso
che conteneva la mia giovinezza – e piccoli soli,
gocce ch’essa stillava, si dispersero nella sabbia.
Ero in piedi e ti fissavo.
Il tuo passaggio rimase nei miei giorni,
come profumo sta attaccato ad un abito,
che inconsapevolmente lo accoglie solo
per portarlo sempre addosso.
*
DIE VERLASSENE
Du irrst dich. Glaubst du, dass du fern bist
Und dass ich dürste und dich nicht mehr finden kann?
Ich fasse dich mit meinen Augen an,
Mit diesen Augen, deren jedes finster und ein Stern ist.
Ich zieh dich unter dieses Lid
Und schliess es zu und du bist ganz darinnen.
Wie willst du gehen aus meinen Sinnen,
Dem Jägergarn, dem nie ein Wild entflieht?
Du lässt mich nicht aus deiner Hand mehr fallen
Wie einen welken Strauss,
Der auf die Strasse niederweht, vorm Haus
Zertreten und bestäubt von allen.
Ich hab dich liebgehabt. So lieb.
Ich habe so geweint…mit heissen Bitten…
Und liebe dich noch mehr, weil ich um dich gelitten,
Als deine Feder keinen Brief, mir keinen Brief mehr schrieb.
Ich nannte Freund und Herr und Leuchtwächter
Auf schmalen Inselstrich,
Den Gärtner meines Früchtegartens dich,
Und waren tausend weiser, keiner war gerechter.
Ich spürte kaum, dass mir der Hafem brach,
Der meine Jugend hielt – und kleine Sonnen,
Dass sie vertropft, in Sand verronnen.
Ich stand und sah dir nach.
Dein Durchgang blieb in meinen Tagen,
Wie Wohlgeruch in einem Kleide hängt,
Den es nicht kennt, nicht rechnet, nur empfängt,
Um immer ihn zu tragen.
NOI EBREI
Solo la notte è in ascolto: ti amo, ti amo popolo mio,
voglio abbracciarti forte,
come una donna fa col suo compagno alla gogna, nella fossa,
la madre non lascia il suo figlio ingiuriato precipitare da solo.
E se un bavaglio ti soffoca in gola il grido straziato,
e – crudeli – ti legano le braccia tremanti,
lasciami essere la voce che cade nell’abisso dell’eternità,
la mano che si tende a toccare Dio in cielo.
Dalle rocce delle montagne il Greco trascinò giù i suoi pallidi dei,
e Roma lanciò sulla terra uno scudo di ferro,
un turbinio vorticoso dal cuore dell’Asia, orde di mongoli si sollevarono,
gli imperatori da Aquisgrana seguivano il sud con lo sguardo.
E la Germania e la Francia portano un libro e una spada fiammeggiante,
sulle navi l’Inghilterra percorre un sentiero d’argento e d’azzurro,
e la Russia è un’ombra che incombe, una fiamma arde sul suo focolare,
e noi, noi siamo nati dal patibolo e dalla forca!
Questo cuore che scoppia, trasudare di morte, senza lacrime gli occhi,
e al palo della tortura il gemito eterno che il vento, ululando, consuma,
e la mano scarna – le vene come vipere verdi – la povera mano
che lotta contro la morte fra roghi e capestri.
L’inferno ha bruciato la barba canuta, gli artigli del diavolo l’han fatta a brandelli,
l’orecchio mutilato, le ciglia strappate; gli occhi, velati, si offuscano:
Oh, voi ‘ Quando giunge l’ora fatale, qui ed ora, io voglio alzarmi,
voglio essere il vostro arco trionfale attraverso il quale passano le pene e i tormenti!
Non bacerò la mano che agita il turgido scettro dei pieni poteri,
non bacerò il ginocchio di bronzo, ne il piede d’argilla del dio d’un tempo crudele;
Oh, potessi – io, fiaccola ardente – levare la voce
nell’oscuro deserto del mondo: giustizia! giustizia! giustizia!
Caviglie. Ho trascinato catene, risuona il mio passo di prigioniero.
Labbra. Serrate, sigillate da cera incandescente.
Cuore. Una rondine in gabbia che supplica di volare.
E sento la mano che trascina su un mucchio di cenere il mio viso piangente.
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio, vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre,
tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!
15.9.1933
Traduzione Germana Carlino
Tratta dall’opuscolo GERTRUD KOLMAR. LA STRANIERA 1894 – 1943 che trovate qui
Wir Juden
Nur Nacht hört zu. Ich liebe dich, ich liebe dich, mein Volk,
Und will dich ganz mit Armen umschlingen heiß und fest,
So wie ein Weib den Gatten, der am Pranger steht, am Kolk
Die Mutter den geschmähten Sohn nicht einsam sinken lässt.
Und wenn ein Knebel dir im Mund den blutenden Schrei verhält,
Wenn deine zitternden Arme nun grausam eingeschnürt,
So lass mich Ruf, der in den Schacht der Ewigkeiten fällt,
Die Hand mich sein, die aufgereckt an Gottes hohen Himmel rührt.
Denn der Grieche schlug aus Berggestein seine weißen Götter hervor,
Und Rom warf über die Erde einen ehernen Schild,
Mongolische Horden wirbelten aus Asiens Tiefen empor,
Und die Kaiser in Aachen schauten ein südwärts gaukelndes Bild.
Und Deutschland trägt und Frankreich trägt ein Buch und ein blitzendes Schwert,
Und England wandelt auf Meeresschiffen bläulich silbernen Pfad,
Und Russland ward riesiger Schatten mit der Flamme auf seinem Herd.
Und wir, wir sind geworden durch den Galgen und das Rad!
Dies Herzzerspringen, der Todesschweiß, ein tränenloser Blick
Und der ewige Seufzer am Marterpfahl, den heulenden Wind verschlang.
Und die dürre Kralle, die elende Faust, die aus Scheiterhaufen und Strick,
Ihre Adern grün wie Vipernbrut dem Würger entgegenrang.
Der greise Bart, in Höllen versengt, von Teufelsgriff zerfetzt,
Verstümmelt Ohr, zerrissene Brau und dunkelnder Augen Fliehn:
Ihr! Wenn die bittere Stunde reift, so will ich aufstehn hier und jetzt,
So will ich wie ihr Triumphtor sein, durch das die Qualen ziehn!
Ich will den Arm nicht küssen, den ein strotzendes Zepter schwellt,
Nicht das erzene Knie, den tönernen Fuß des Abgotts harter Zeit;
O könnt ich wie lodernde Fackel in die finstere Wüste der Welt
Meine Stimme heben: Gerechtigkeit! Gerechtigkeit! Gerechtigkeit!
Knöchel. Ihr schleppt doch Ketten, und gefangen klirrt mein Gehn.
Lippen. Ihr seid versiegelt, in glühendes Wachs gesperrt.
Seele. In Käfiggittern einer Schwalbe flatterndes Flehn.
Und ich fühle die Faust, die das weinende Haupt auf den Aschenhügeln mir zerrt.
Nur Nacht hört zu. Ich liebe dich, mein Volk im Plunderkleid:
Wie der heidnischen Erde, Gäas Sohn entkräftet zur Mutter glitt,
So wirf dich zu dem Niederen hin, sei schwach, umarme das Leid,
Bis einst dein müder Wanderschuh auf den Nacken des Starken tritt!
(Das Lyrische Werk S.101)
Gertrud Kolmar (pseudonimo di Gertrud Käthe Chodziesner, Berlino 1894 – Auschwitz 1943?), nata in una famiglia ebrea, studiò da maestra e lavorò come insegnante e istitutrice tra Germania e Francia. Nel 1915 l’amore infelice per un militare la condusse a un aborto e a un tentativo di suicidio, esperienza che segnò profondamente la sua vita e la sua scrittura. Costretta a trasferirsi nel 1939 in una “casa per ebrei” e nel 1941 al lavoro forzato in una fabbrica di armi, nel marzo 1943 fu deportata ad Auschwitz, da dove non fece ritorno. La sua opera, già apprezzata dal cugino Walter Benjamin, fu conosciuta soprattutto a partire dagli anni Novanta del Novecento. Il 27 febbraio del 1943 a Berlino anche Gertrud Kathe Sara Chodziesner subisce l’Azione nelle fabriche: migliaia di ebrei come lei vengono prelevati dai posti di lavoro e ‘smistati’ in campi di raccolta. da qui, il 2 marzo parte il ‘ 32° trasporto all’est’: è il convoglio della deportazione finale a Auschwitz dell’autrice, nota con lo pseudonimo di ‘Gertrud Kolmar’, dove ‘Kolmar’ è la germanizzazione del polacco ‘Chodziesen’, città d’origine della famiglia paterna.
Gertrud Kolmar
Poesia. Gertrud Kolmar: il silenzio in versi salva inizio e fine
Morì ad Auschwitz nel 1943. Rimase sconosciuta ai più fino al 1947, quando uscì la raccolta “Mondi” ora tradotta in italiano: un insieme di “sinfonie” dove le pause giocano un ruolo decisivo-
Della poetessa ebrea tedesca Gertrud Kolmar, pseudonimo di Gertrud Käthe Chodziesner (1894-1943), si sono conservate solo poche tracce: alcune fotografie dell’infanzia, una fotografia ritratto del 1928, una foto con un’amica, una con la famiglia scattata nel 1937, e poco altro, oltre alle sue opere, la maggior parte delle quali edite solo dopo la sua morte. Walter Benjamin, cugino da parte di madre, ebbe molta considerazione dei suoi componimenti e tentò in più occasioni di favorirne la pubblicazione, perché le sue erano tonalità, scrisse, che «non sono più state percepite nella poesia femminile tedesca dopo Annette von Droste». Dopo che il padre nel 1917 si era speso per l’uscita di una prima raccolta, Benjamin riuscì a far pubblicare su rivista solo alcune sue poesie, perché Kolmar era aliena da qualsiasi avanguardia e nulla nei suoi componimenti era concessione ai parametri dettati da mode e sensibilità artistiche contemporanee.
Del resto l’indifferenza verso la sua opera rimase praticamente intatta anche quando nel 1947 venne pubblicata da Suhrkamp la raccolta Mondi. Un’indifferenza motivata certo dalla sua adesione alla tradizione letteraria, ma anche dalla sua decisione di rimanere accanto al padre malato, un ebreo convintamente assimilato, finché quello, nel 1942, non venne rinchiuso nel lager di Theresienstadt, dove sarebbe morto un anno dopo. Nell’estate 1941 Kolmar accettò il lavoro forzato nelle fabbriche berlinesi di Lichtenberg e Charlottenburg, perché perfettamente consapevole del suo destino. «Voglio andare incontro al mio destino, che sia alto come una torre, o che sia scuro e gravoso come una nuvola», scrisse allora alla sorella Hilde, esule in Svizzera.
Arrestata in fabbrica il 27 febbraio 1943, alcuni giorni dopo venne trasportata ad Auschwitz, dove morì. Scritto nel 1937, il ciclo poetico Mondi (Mondadori, pagine 112, euro 16,00) è una grande sinfonia di componimenti consistente ciascuno per lo più di quattro parti, nelle quali un ruolo significativo è giocato dal silenzio, proposto in forma di pausa. Kolmar apprezzava molto il silenzio, il suo come quello degli altri, anche nella vita, tanto che nelle lettere a Hilde ripete spesso che il silenzio è quanto vi è di più vicino al suo cuore.
La conclusione di ogni sinfonia è silenzio che si fa vuoto. I suoi mondi respirano una vacuità che significa inizio e fine: il mondo inizia nel vuoto e finisce in esso. Come un suono dalle profondità, da quel vuoto sorge una natura incomprensibile: le isole Mergui. Il loro potere nascosto fa nascere il desiderio di altri mondi. Meglio, di due mondi, quello dell’uomo e quello della natura, popolato da animali e piante. Le parole della poesia (ed ogni parola è per lei una scoperta) sono per Kolmar lo strumento per ricercare il primordiale dell’umanità, cioè del proprio io. Attraverso la memoria e l’evocazione dell’infanzia cerca tracce, ma è un evento vissuto da giovane donna a rappresentare la traccia evidente e dominante del suo poetare.
In Mondi, come anche in altri componimenti, ricorre ed è evocata con frequenza la figura di un bambino, evidentemente quel bambino desiderato e amato, ma mai partorito, abortito all’età di 21 anni per volontà dei genitori. La sua intera opera poetica palpita del desiderio di riempire quel vuoto rimasto nel suo grembo: «Con le mie piccole opere, mi sento come una madre con il suo bambino appena nato; una madre che certo è felice dell’entusiasmo del padre e dei nonni, delle congratulazioni dei parenti, ma la gioia più grande è averlo partorito ». Così scrisse alla sorella, a motivo della raccomandazione di prendersi cura dei suoi componimenti.
Articolo di Vito PUNZI –Fonte Avvenire del 14 aprile 2023-
Federico Jahier-Le scarpe di Angiolino-Una storia partigiana
Storia di un partigiano scomparso tra la Val Susa e la Val Pellice-
Graphot Editrice
Il 22 giugno del 1944 Angiolino, partigiano di quasi vent’anni, viene preso dai nazifascisti in Val Susa e incarcerato a Torino. Poi scompare e di lui non si sa più nulla. I suoi resti vengono riconosciuti in Val Pellice solo due anni dopo grazie a una serie di coincidenze. Questa è la storia di una famiglia che non si arrende, di un’amnesia e di un paio di scarpe. Una vicenda che ripercorre le tappe fondamentali della Guerra Partigiana, dall’8 settembre ’43 alla Liberazione, fino al primo dopoguerra.
DESCRIZIONE
Angiolino Primela Miero non vide mai il 25 aprile. Partigiano di Foresto di Bussoleno, giovanissimo, ancora vent’anni da compiere, fu catturato il 22 giugno del 1944 nella sua valle, la Val Susa, in un’imboscata nazifascista; e meno di due mesi più tardi, il 5 agosto, fu trucidato nella piazza di Villar Pellice, in una delle cosiddette valli valdesi del Piemonte, insieme a quattro altri partigiani.
La famiglia di Angiolino, invece, ha festeggiato due liberazioni, quella dell’aprile ’45 dai nazifascisti e quella dell’aprile del ’46, quando riuscirono a rintracciare il suo corpo, ponendo fine a una caparbia e coraggiosa ricerca a cui tutta la famiglia aveva partecipato.
Il libro di Federico Jahier“Le scarpe di Angiolino. Storia di un partigiano scomparso tra la Val Susa e la Val Pellice” (ed. Graphot) affronta quello che Nuto Revelli ha definito “l’eredità peggiore di ogni guerra”: il dramma dei dispersi, o meglio, come nel caso di Angiolino, degli scomparsi.
La famiglia, infatti, riesce a seguire le tracce della sua prigionia dalla Val Susa all’Albergo Nazionale, in pieno centro a Torino, davanti alla fontana della Dora, dove si trovavano fianco a fianco le camere di tortura della Gestapo e gli eleganti appartamenti degli ufficiali nazisti. Da lì alle carceri Nuove e poi il buio. Un funzionario tedesco nasconde il vero destino del giovane e suggerisce che Angiolino sia stato deportato in Germania, lasciando in un vuoto insostenibile l’intera famiglia che non si rassegna però al fatto che la guerra abbia semplicemente inghiottito il figlio e fratello.
Poi, un giorno del ’46, per una serie di coincidenze – il passaparola della cosiddetta “Radio Valli”, un’amnesia che d’un colpo lascia posto ai ricordi, persone solidali le une con le altre – Angiolino viene individuato tra i cinque fucilati di Villar. Uno di loro morì con un nome: si trattava di Willy Jervis, coraggioso partigiano della valle, di fede valdese, ingegnere dell’Olivetti (a Ivrea, la via dove si trovano la prima fabbrica Olivetti di inizio Novecento, quella degli anni ’50 con le mura di vetro per far entrare la luce, il Palazzo uffici, si chiama via Willy Jervis), fu riconosciuto per la sua Bibbia. Come riconoscere invece gli altri quattro, dopo quasi due anni dalla tumulazione? Tre di loro sono ignoti a tutt’oggi; Angiolino invece fu individuato per un particolare rivelatore delle scarpe che portava.
Se la famiglia è riuscita a dare un nome a un anonimo caduto; Federico Jahier è riuscito ad associare a quel nome una storia. Lo ha fatto scrivendo un romanzo, scelta più che mai felice perché ha permesso, attraverso una scrittura asciutta ma partecipata, di caratterizzare i personaggi familiari; le atmosfere del tempo; l’ansia di vedersi prelevati a casa dai nazifascisti senza nessuna ragione; la folla angosciata di madri, mogli e sorelle davanti alle Nuove di Torino; l’oscenità di funzionari che spillavano ai familiari cibo, indumenti, denaro per tenere la contabilità dei prigionieri. Ma anche l’improvviso gesto di solidarietà e di conforto che gente sconosciuta sapeva offrire con il poco che aveva e con le parole che aveva (o non aveva, perché il mondo contadino non è famoso per la sua eloquenza). La ricerca di Jahier si è anche intrecciata con i ricordi della sua famiglia. All’epoca dei fatti suo nonno era pastore a Villar, i nazisti gli spararono contro, forandogli la toga, per aver celebrato insieme al parroco cattolico, senza il loro consenso, il funerale dei cinque partigiani trucidati. Inoltre, il padre di Federico, che all’epoca aveva 13 anni, fu l’ultimo a vedere vivi i cinque partigiani.
Ridare un volto a una vittima è forse il servizio più importante che si possa rendere a chi ha combattuto per la libertà. Come altrettanto importante è mantenere il punto sul fatto che la guerra è sempre un fatto personale – cioè di persone, di umanità.
Ricordo che in una delle tante commemorazioni della Prima Guerra mondiale, il moderatore della Chiesa di Scozia, il pastore Russel Barr, affermò che se la guerra può essere vista come uno scontro di eserciti, come un evento di geopolitica, essa tuttavia rimane un fatto personale per chiunque abbia perso qualcuno. E tirò fuori una foto ingiallita e una lettera di un suo prozio caduto in Francia a età giovanissima. “Keep it personal”, disse; manteniamo la dimensione personale, umana. Quella foto ingiallita mi è venuta in mente, quando nel libro il fratello di Angiolino torna a casa da Villar con una scatola nella quale ci sono le scarpe del partigiano, e la poggia sul tavolo attorno a cui è seduta tutta la famiglia. Da Angiolino all’ultimo dei caduti la guerra è sempre una questione personale.
Stefania Portaccio- Circe di spalle. Per una dimora del femminile
Editore Mimesis
DESCRIZIONE
La complessità della figura di Circe continua a interrogare. Qui si sceglie di ascoltarla e di reagire tenendola non di fronte ma sguincia, in modo da registrare, più che domande e risposte, un campo di tensioni. Teso – tra invidia, ammirazione, polemica – è il campo della disputa tra Circe e Atena, avversario interno quanto esterno. Disputa che mostra la difficoltà del percorso della soggettività femminile, alle prese sia con l’immaginario che la definisce che con quello che la anima. A riflettere su questo percorso vengono convocati J. Joyce, V. Woolf, M. Atwood, M. Cunningham, N. Ginzburg; la filosofa E. Pulcini e la psicoanalista M.C. Barducci. A riflettere sull’anno trascorso con Circe – sospeso, ricco di altrove, di altrimenti – come metafora del tempo analitico, viene convocato lo stesso Odisseo, che però narra ai Feaci un’altra storia.
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