CASTELNUOVO di FARFA DEGRADO E ABBANDONO AFFRESCHI EX-CHIESA DI SANTA MARIA Foto di Franco Leggeri
Franco Leggeri Fotoreportage
CASTELNUOVO di FARFA (Rieti)
Il DEGRADO E ABBANDONO DEGLI AFFRESCHI DELL’EX-CHIESA DI SANTA MARIA –
In Italia esistono luoghi, se pur carichi di storia per i Borghi dove sorgono, lasciati nel degrado e nella più completa rovina .L’Abside dell’ex-chiesa di Santa Maria di Castelnuovo non sono “pietre disperse” e senza storia , ma è sicuramente un edificio, porzione di edificio, dal passato antico che per qualche ragione sconosciuta non gode dei “diritti” di recupero e restauro come di altri luoghi simili esistenti nella provincia di Rieti. L’Abside è forse condannata a una fine ignobile, soffocata dai suoi stessi calcinacci?
Foto reportage di Franco Leggeri, castelnuovese
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La Società Dante Alighieri di Mosca e la Società dell’Amicizia Italia-Russia sono liete di presentare all’attenzione dell’edizione italiana RussiaPrivet un articolo di Laman Baghirova sul celebre poeta, politico, personaggio pubblico, personaggio unico italiano Gabriele d’Annunzio (1863-1938) , che è stato recentemente pubblicato nell’edizione russa “Klausura”. Siamo lieti di promuovere la collaborazione tra queste due grandi edizioni. Da parte nostra voremmo dire che abbiamo incontrato per la prima volta il nome Gabriele d’Annunzio durante la nostra traduzione del romanzo di Felice Trojani (1897-1971) “La Coda di Minosse”, in cui l’autore del libro, contemporaneo di d’Annunzio, che prese parte alla famosa spedizione al Polo Nord sul dirigibile “Italia” sotto la guida di Umberto Nobile, descrisse sia la spedizione stessa che presentò anche un quadro realistico del mondo dell’aviazione italiana del primo Novecento. In quest’opera storica il nome Gabriele d’Annunzio è citato molto spesso.
Così Felice Trojani descrive quel momento difficile nello sviluppo dell’aviazione dopo la prima guerra mondiale nel suo romanzo, e in quale contesto cita D’Annunzio: «Fra i piloti e il personale tecnico smobilitato erano grandi la disoccupazione e il disagio material e morale; di aviazione civile non esisteva che qualche misero embrione dovuto alla loro iniziatva.
Luigi Garrone, il pilota ‘del mio bel SIA 9 B sparvierato” aveva fondato la Cooperativa Nazionale Aeronautica fra piloti, osservatori, tecnici, motoristi e montatori d’aviazione, ala quale d’Annunzio aveva aderito dando cinquemila lire e il motto “Col Nostro Ardore”.
Ma Garrone era morto cadendo “in vista di quell’Isonzo che piu’ non trascina al mare corpi d’uccisi ma speranze disfatte” mentre portava in Russia un bombardiere monomotore FIAT.” (pp.120 “La Coda di Minosse”)
Il motto “Col nostro ardore” è stato inventato da Gabriele d’Annunzio – il miglior inventore di marchi commerciali e motti dell’epoca. D’Annunzio ha ideato questo motto per un gruppo di giovani pieni di sentimento, determinati a superare tutti i divieti e gli ostacoli nei mesi più difficili dopo la tregua. E il verso riportato nel romanzo ” in vista di quell’Isonzo che piu’ non trascina al mare corpi d’uccisi ma speranze disfatte” è tratto dalla raccolta di Gabriele d’Annunzio “Noturno” , una raccolta di appunti sulla Prima Guerra Mondiale (https://it.wikisource.org/wiki/Notturno_(D’Annunzio)).
Senza dubbio, l’articolo su Gabriele d’Annunzio interesserà sia i lettori russi che quelli italiani. Era una persona davvero unica e insolita che rimarrà per sempre nella nostra memoria.
La poesia di Gabriele d’Annunzio e’ unica, bella, filosofica attirerà sempre l’attenzione dei traduttori di poesie di diversi paesi, e la sua stessa vita è un esempio della vita di una persona che l’ha amata follemente e ha amato il paese in cui è nato, l’Italia!
Gabriele D’Annunzio
Gabriele D’Annunzio “O Pisa, o Pisa, per la fluviale melodia”
O Pisa, o Pisa, per la fluviale
melodìa che fa sì dolce il tuo riposo
ti loderò come colui che vide
immemore del suo male
fluirti in cuore
il sangue dell’aurore
e la fiamma dei vespri
e il pianto delle stelle adamantino
e il filtro della luna oblivioso.
Quale una donna presso il davanzale,
socchiusa i cigli, tiepida nella sua vesta
di biondo lino,
che non è desta ed il suo sogno muore;
tale su le bell’acque pallido sorride
il tuo sopore.
E i santi marmi ascendono leggeri,
quasi lungi da te, come se gli echi
li animassero d’anime canore.
Ma il tuo segreto è forse tra i due neri
cipressi nati dal seno
de la morte, incontro alla foresta trionfale
di giovinezze e d’arbori che in festa
l’artefice creò su i sordi e ciechi
muri come su un ciel sereno.
Forse avverrà che quivi un giorno io rechi
il mio spirito, fuor della tempesta,
a mutar d’ale.
Gabriele D’Annunzio
Gabriele D’Annunzio (1863-1938)
Nataliya Nikishkina -Presidente della Società Dante Alighieri a Mosca.
Ekaterina Spirova -Presidente della Società dell’Amicizia Italia-Russia.
Un articolo su CLAUSURE su Gabriel d’Annunzio. La firma dell’autore e la sua nota sono alla fine dell’articolo. Il link alla pubblicazione in “Klauzura” è: klauzura.ru
È un poeta, è un aviatore, è…
21.07.2021 / Edizione
Il calore aleggia sulla città… Domina su tutto. Non si scioglie solo l’asfalto, ma anche il cervello. Sembra che si stia trasformando in una sostanza pigra, che ricorda le proteine mal montate. Questo è veramente – “tu, rovinando tutte le capacità mentali, tormentaci; come i campi soffriamo la siccità”. Pushkin, è Pushkin per tutte le stagioni!
Ma il pensiero è una cosa strana. Nella sostanza pigra, in cui il cervello umano si trasforma in estate, sorgono connessioni associative a volte incomprensibili. Posso garantire che pochi lo ricorderanno ora, e molti, forse, non sanno che esattamente 35 anni fa, nel 1986, uscì su un grande schermo l’ultimo film di Alexander Zarkhi “Chicherin”. Tuttavia, ora poche persone ricordano chi fosse. E per qualche ragione mi sono ricordato di questo film proprio ora. E niente affatto perché ho un interesse speciale per la biografia del primo Commissario del popolo per gli affari esteri dell’URSS. E nemmeno perché il suo ruolo nel film è stato interpretato dal meraviglioso Leonid Filatov. Ricordo questo film con una sola osservazione. Nella seconda puntata Filatov cita dei versi in italiano: “Non amarmi e io non amo te, ma c’è ancora una particella di tenerezza tra noi”.
Un verso di una poesia del poeta finora sconosciuto Gabriele d’Annunzio. Mi ha colpito con la sua assillante sincerità. La tenerezza, come una tranquilla luce del tramonto, rimane quando l’amore se ne va. O anche quando non c’era proprio amore. Bastava questa piccola riga per ricordare sia il film che il nome del poeta stesso. E saperne di più su di lui.
Gabriele D’Annunzio
Allora, Gabriele d’Annunzio. 1863-1938. Poeta, e non solo… Parigi non vedeva una cosa del genere dai tempi della Comune! Persone di diversa età e condizione sociale si sono riversate per le strade! La gioia genuina brillava nei loro occhi! Sventolavano bandiere, cantavano, ballavano, si abbracciavano. L’11 novembre 1918 iniziò a operare una tregua che fermò la prima guerra mondiale. La capitale della Francia, che fino a poco tempo fa era bombardata dall’artiglieria tedesca, celebrava l’avvento della pace. Rappresentanti di diversi paesi sono venuti a Parigi per concordare finalmente un nuovo ordine mondiale. Negli uffici di Versailles, le mappe raffiguravano i nuovi confini di vecchi e nuovi stati. Il mondo è stato rimodellato (per l’ennesima volta!). L’Italia faceva parte dei cosiddetti Big Four, insieme a Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Era la più debole di tutte, ma aveva un’ambizione tremenda. Bene, bene… Come si dice, un soldato che non sogna di diventare un generale è cattivo.
Le controversie sulla redistribuzione del Vecchio Continente si diffusero in Italia. Alcuni paesi volevano ampliare i propri possedimenti a scapito di terre che un tempo appartenevano alla Repubblica di Venezia. Le migliori sono la costa adriatica orientale. Ma sono sorte polemiche. Inoltre, i membri della delegazione italiana hanno litigato tra loro. Hanno lasciato le trattative, poi sono tornati di nuovo. Nella stessa Italia questa situazione ha suscitato un’ondata di indignazione. La società raccolse facilmente il termine “vittoria mutilata”. Il suo autore fu il poeta, soldato e romantico Gabriele d’Annunzio.
È stata una delle figure più importanti in Italia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Ha fatto parte di quei venti di cambiamento che hanno creato l’arte della decadenza. Inoltre uno stile di vita incredibilmente brillante, persino scioccante. E per favore, una persona che ha avuto un enorme impatto sull’Italia in quel momento.
La sua vocazione era l’arte. Soprattutto per come l’ha visto lui. La vita ruotava attorno alla ricerca del piacere, che cercò di trovare anche durante la guerra. Gabriele d’Annunzio nacque il 12 marzo 1863 nella città italiana di Pescara. Il padre portava il doppio cognome Rapanetta d’Annunzio, ma, fortunatamente per il figlio, abbandonò la prima parte. “Rapanetta” nella traduzione dall’italiano significa “rapa”. “Annunzio” – “messaggio”. La seconda parte del cognome era più adatta al poeta e al politico.
Gabriele d’Annunzio ha ereditato dalla madre la reattività e i tratti delicati del viso in gioventù, dal padre – un carattere irascibile e un amore indomito per le donne. Ha iniziato a scrivere a scuola. Il processo con la penna non ha avuto molto successo. Il collegio dei gesuiti disapprovava i sospiri del giovane poeta sugli “eteri persiani” e il “calore barbarico dei baci”.
All’età di 16 anni Gabriele pubblica la sua prima raccolta di poesie “La Primavera” con i soldi del padre. Un anno dopo, il libro è stato ristampato. Per attirare l’interesse su di lei, il giovane inviò un telegramma al giornale informandolo che l’autore era morto dopo essere caduto da cavallo. Ha trovato la sua strada. La collezione vendette molto bene e anche i critici letterari se ne accorsero. Ben presto, anche a Roma, iniziarono a parlare del giovane poeta. Si trasferì lì in cerca di lavoro, entrò nella facoltà di filologia dell’università e trovò lavoro come corrispondente per un giornale.
Aveva una fantastica capacità di lavoro e ha scritto centinaia di articoli sotto vari pseudonimi. La nuova raccolta di poesie “Intermezzo di rime” ha scioccato il pubblico con rivelazioni erotiche. L’erotismo è presente nella maggior parte delle opere di D’Annunzio, a cominciare da quelle scritte a 16 anni delle prime poesie. E i libri nella sua biblioteca di casa erano contrassegnati da un ex libris erotico. Ho provato la mia mano con la prosa – è andata altrettanto bene. Pubblicato nel 1889, il romanzo “Piacere” rese celebre d’Annunzio. Hanno iniziato a parlare del personaggio principale del romanzo come di un eroe del loro tempo. Il prototipo del protagonista era l’autore, e il nome era una delle parole principali della visione del mondo di D’Annunzio. La vita per lui era un placare la sete di lusso e piacere, in primo luogo l’amore. La passione e la tenerezza nel romanzo di d’Annunzio hanno conquistato la routine, ed è proprio questo che sognavano segretamente abitanti abbastanza perbene. (A proposito, se parliamo dei romanzi dello scrittore, sarà utile notare che anche il film sensazionale di Luchino Visconti “Innocenzo” è stato girato sulla base delle opere di D’Annunzio).
Il talento letterario del giovane d’Annunzio è molto brillante. Spende quasi tutti i suoi soldi in scarpe alla moda e cravatte lussuose e cerca di essere come quelli di cui scrive: salvavita. Il lavoro crea condizioni eccellenti per la divulgazione di un altro talento di Gabriele: la capacità di compiacere le donne. Il suo primo matrimonio fu con la duchessa Maria Harduin di Gallese. Si potrebbe definire un matrimonio di convenienza: la duchessa era già incinta. La loro vicinanza a Gabriele si immortalerà nelle poesie “IL PECCATO DI MAGGIO”. Grazie a questo matrimonio, Gabriele riceverà un altro scandalo che gli darà fama.
Alla ricerca della fama e delle donne, Gabriele lascerà la moglie. Cominciarono a circolare leggende sulle innumerevoli amanti del poeta. Tra i suoi prescelti c’era la grande attrice italiana di fama mondiale Eleanor Duse. Era l’incarnazione delle donne, simile alle eroine delle opere di d’Annunzio – una natura nevrotica emancipata. Ha cercato di esporre le bugie di una vita coniugale misurata, lottando per la libera scelta e il diritto alla passione.
Eleonora lo trascinò a Firenze e lo aiutò a pagare grossi prestiti. E scrisse per lei le sue migliori commedie. Ma il romanzo è andato in pezzi dopo che l’attrice ha scoperto che il poeta lo tradiva. Gabriele ha flirtato con ogni donna lungo la strada. Ha sedotto i più ricchi. Così è stato con la moglie del conte Mancini, la figlia dell’ex presidente del Consiglio italiano Alessandro de Rudini, la scioccante socialiste marchesa Luisa Casatti, così come con una delle prime interpreti di danze erotiche sul grande palcoscenico – Ida Rubinstein. La descrizione di d’Annunzio sta in due parole: genio e sconvolgente.
Le storie d’amore vivide si intrecciavano con i duelli. Il poeta ribelle si lasciava facilmente coinvolgere nei conflitti. Una delle scaramucce si è conclusa con un fallimento. Il poeta fu ferito e le droghe che avrebbero dovuto mettere in piedi il duellante provocarono la calvizie. Ma questo non ha intaccato l’arte della seduzione di Gabriele. Un uomo calvo, basso e poco appariscente, è rimasto il sex symbol dell’Italia. Dava alle donne ciò che più desideravano: in sua compagnia, si sentivano al centro dell’universo. Sapeva convincere chiunque di qualunque cosa, tanto era grande il suo fascino.
Dalle liriche erotiche, d’Annunzio è passato ai poemi patriottici, la rinascita dell’antica gloria dell’antica Roma nell’Italia moderna. Alla vigilia della prima guerra mondiale, glorifica le imprese degli italiani nella guerra contro gli ottomani per la Libia, chiede l’uso della guerra come un’opportunità per espandere i confini. Quando il Regno d’Italia entrò in guerra nel 1915, il poeta si offrì volontario senza esitazione. Ha anche usato la guerra per le sue pubbliche relazioni. Si arruolò nell’élite – solo le forze aeree create. Durante la prima guerra mondiale, era difficile trovare qualcosa di più onorevole dell’essere un cavaliere celeste. Dopo un breve corso, il poeta nel 52 ° anno divenne il pilota più adulto dell’aviazione italiana. E poi è nato il suo aforisma: “Mai dire:” È troppo tardi per me per iniziare … “”
Tutta l’Italia lo seguì. Nella parte anteriore, è stato molto sentito. Ha ispirato i soldati solo con il suo coraggio, glorificando la grandezza di Roma e l’eroismo di Giuseppe Garibaldi. Durante una delle battaglie, il suo aereo è stato messo fuori combattimento. L’atterraggio è stato duro. Gabriele si è battuto violentemente al viso e si è ferito all’occhio. Tutta l’Italia applaudì quando, pochi mesi dopo, tornò in servizio. L’applauso è stato assordante quando il poeta-soldato ha organizzato il primo bombardamento ibrido. Lo squadrone di D’Annunzio percorse mille chilometri e lanciò 4.000 proclami su Vienna. Hanno predetto la sconfitta dell’Austria-Ungheria nello scontro con gli italiani e si sono conclusi pateticamente, dicono, potremmo sganciarvi bombe sulla testa, ma finora solo volantini!
D’Annunzio pose fine alla guerra con grande autorità alle spalle. E… si è buttato a capofitto nella vita pubblica! L’obiettivo principale del suo scherno erano i politici responsabili del fallimento dei negoziati sui nuovi confini del paese. La città portuale di Rijeka sul territorio dell’attuale Croazia (tra l’altro, Rijeka è chiamata così perché sorge sul fiume) era un pomo della contesa tra il regno d’Italia e il nuovo stato di serbi e croati. La città era abitata principalmente da italiani, che la chiamarono Fiume. Ma nelle terre circostanti vivevano per lo più croati, e non intendevano dare nulla agli italiani.
I negoziati a Parigi per Rijeka dovevano recidere. Tutti erano scioccati dal fatto che l’Italia non potesse fare nulla con la sua gente, che ha issato le bandiere italiane a Fiume. Fiume sembrava cercare qualcuno che avesse il coraggio di prendersi le proprie responsabilità e fosse il primo a proclamare la città italiana. Uno dei ricorsi è stato accolto da d’Annunzio. Ha accettato felicemente di guidare i temerari che hanno rifiutato l’accordo internazionale. Vedeva il ritorno di Fiume come una rinascita dell’antica potenza italiana.
A Fiume iniziò una sorta di rivoluzione, che avrebbe dovuto cambiare nella sostanza il potere in Italia. È emerso un movimento di camicie nere, combattenti per la giustizia per l’Italia. Il loro slogan era l’antico grido di battaglia greco: “Ay-ya, ah-ya, a-la-la-la!” Né la polizia né i militari potevano fermarli. Impossibile fermare D’Annunzio, che guidava il movimento delle camicie nere. Fu un eroe di guerra e un famoso poeta.
Fiume era controllata dal mare dalla flotta austro-ungarica. Era una posizione strategica. Fino a quando il destino di Fiume non fu deciso a Parigi, gli austro-ungarici cercarono di mantenere lo status quo. Nel febbraio 1918 d’Annunzio iniziò la sua campagna. Tre velieri italiani sfondarono le difese austro-ungariche nei pressi di Capo Bokar, ritenuto inespugnabile. Quando si avvicinarono alle navi nemiche, il sito del siluro inviò agli austro-ungarici delle bottiglie, nelle quali c’erano messaggi con scherno. D’Annunzio amava infastidire i nemici e scioccare il pubblico. Sapeva che la propaganda a volte sembra una bomba.
Per evitare inutili spargimenti di sangue, le truppe dell’Intesa lasciarono Fiume. La popolazione italiana salutò d’Annunzio con gioia, e il poeta si dilettava al potere. Uscito sul balcone tra una standing ovation, baciò teatralmente la bandiera italiana, la gettò a terra e proclamò solennemente Fiume una città italiana. La folla in basso ruggì di gioia! La Conferenza di pace di Parigi è in stallo. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra sono rimasti scioccati. Hanno invitato l’Italia a fermare la cattura di Fiume.
D’Annunzio era molto arrabbiato con la risposta di Roma. Già non gli piacevano né il re né i suoi rappresentanti alla conferenza, e dopo l’ordine di lasciare Fiume perse le staffe e definì tale decisione antipopolare. Roma rifiutò di accettare Fiume. D’Annunzio ha perso tutto. Nel 1920, scioccò gli italiani locali, che stavano semplicemente cercando di unirsi alla maggior parte del paese, e proclamò una Repubblica popolare di Fiume separata. I piani dei suoi governanti erano di aspettare il nuovo potere a Roma, che non avrebbe avuto paura di prendere Fiume in loro possesso.
Fiume fu riconosciuta solo dalla Catalogna e dalla Russia sovietica. E Fiume fu la prima a riconoscere la Russia sovietica. Gabriele d’Annunzio si proclama dittatore. Ha redatto in versi la costituzione dello stato autoproclamato! C’erano molte cose interessanti in esso. Ad esempio – educazione musicale obbligatoria per tutti i cittadini di Fiume. C’erano molte persone strane nel suo governo. Ad esempio, il ministro delle finanze è un uomo con più condanne per frode! Ha nominato il suo caro amico, direttore d’orchestra Arturo Toscanini, ministro della cultura.
La gioia generale è stata rafforzata da innumerevoli sfilate, celebrazioni festive, lunghi discorsi patetici dal palazzo. C’era nell’aria uno strano miscuglio di decadenza, anarchia e dittatura. C’erano droghe in libera circolazione. Il divieto è stato revocato da molti argomenti precedentemente tabù. Ciò riguardava la libertà delle relazioni intime, la legalizzazione della prostituzione, i problemi dell’emancipazione delle donne: tutto ciò risvegliava febbrilmente l’immaginazione.
La cocaina era ufficialmente legale a Fiume. Divenne un’abitudine per d’Annunzio. Gli era stato troppo affezionato sin dalla guerra. Questo spiega in parte la sua incessante storia d’amore e l’ossessione per il lato sensuale della vita. (Interessante! Sherlock Holmes di Conan Doyle era anche un cocainomane, ma non aveva romanzi e non era interessato al lato sensuale della vita. Fatta eccezione per la fugace passione di Irene Adler. Anche se… forse suonare il violino era una sublimazione di sensualità per lui?! – LB) Nel dicembre 1920, l’Intesa e gli Stati Uniti ordinarono all’Italia di porre fine all’autoproclamata Fiume. In cambio, all’Italia è stato promesso sostegno e generosi investimenti. Cominciarono a bloccare la città da terra e mare. In risposta alle azioni di Roma, d’Annunzio dichiarò guerra all’Italia e inviò diverse navi semplicemente pirata. (di V. Zhabotinsky)
Gabriele D’Annunzio
Laman Bagirova. Durante la stesura del saggio, sono stati utilizzati materiali dall’articolo di Ilya Kormiltsev “Le tre vite di Gabriel D. Annunzio e estratti dal libro di E. Schwartz” Il ciclope alato “, nonché da altre fonti. Ulteriori informazioni su questo testo di origine. Per avere ulteriori informazioni sulla traduzione è necessario il testo di origine dato la città e la residenza del poeta-soldato. D’Annunzio era a pezzi. Si sentiva tradito. Un altro suo aforisma, triste in sostanza, appartiene a questo periodo: “Controlla attentamente tutti quelli che ti lodano e ti chiamano maestro. Tra loro potrebbe esserci non solo il tuo Giuda, ma anche il tuo Mussolini».
La città-stato di Fiume cessò di esistere dopo 15 mesi. I legionari in camicia nera hanno lasciato la città sotto tutela. Insieme a loro, D’Annunzio ha portato nella sua patria i sogni dell’Italia. Ma non è mai tornato alla politica seria. Il leader del nuovo partito, Benito Mussolini, lo mise in una gabbia d’oro. Era desideroso di potere e non aveva bisogno di un vecchio leader carismatico. Il governo ha assegnato un terreno a d’Annunzio, un’antica fattoria. Lo ha trasformato in un complesso artistico. Ben presto Villa Vittoriale divenne un monumento d’arte.
Ulteriori informazioni su questo testo di origine Per avere ulteriori informazioni sulla traduzione è necessario il testo di origine il campeggio divenne una nave da guerra nel parco vicino all’edificio. Uscendo sul ponte, il poeta amava scrivere le sue memorie.
In questa villa terminarono le giornate terrene del poeta. Morì nella primavera del 1938. L’eredità della vita colorata di un poeta, amante, aviatore, soldato e politico ha avuto un enorme impatto sull’Italia. Il simbolo principale, sua idea, la città-stato di Fiume, emigrò al partito di Mussolini. Inoltre i soldati di d’Annunzio insegnarono ai nazisti a salutare. Mussolini, e poi Hitler, raccolsero di buon grado il gesto dei legionari romani, che sollevò dall’oblio proprio Gabriele d’Annunzio – poeta, critico d’arte, soldato, politico… Un uomo di oltraggio. Teatrale in tutto e per tutto e allo stesso tempo estremamente sincero. Credeva davvero in quello che stava facendo. È bene anche se la sincerità è diretta al bene.
Sono come un pescatore stanco di pescare. Si sdraiò all’ombra sotto un melo. La giornata è vissuta: non disturberà i cervi sensibili e non tirerà più la corda dell’arco. – I frutti invitano attraverso il fogliame luminoso – è pigro per loro di cadere, non aiuterà: solleverà solo quello (e potrebbe essere), che il ramo cadrà liberamente sull’erba. – Ma anche per immergersi profondamente nella dolcezza non lo darà ai denti: quello che c’è in fondo è veleno. Bevendo il profumo, beve le gocce di rugiada del succo senza fretta, non triste e non felice, alimentato dal mondo della luce morente. – La sua canzone era breve e cantata.
Laman Bagirova
Durante la stesura del saggio, sono stati utilizzati materiali dall’articolo di Ilya Kormiltsev “Le tre vite di Gabriel D. Annunzio e estratti dal libro di E. Schwartz” Il ciclope alato “, nonché da altre fonti.
Il libro di Ludovico Quaroni, l’architetto che fotografava Roma
By Angela Madesani
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Ludovico Quaroni
È stato uno dei protagonisti della ricostruzione postbellica, uno dei più noti docenti della facoltà di Architettura della Capitale, Ludovico Quaroni (Roma, 1911-1987), al quale Humboldt Books dedica un volumetto delizioso, Roma 1968. Il libro contiene le immagini che Ludovico e il nipote Livio hanno dedicato a Roma, ma, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, non ci troviamo di fronte a un libro di immagini di architettura, piuttosto a una serie di fotografie di documentazione della città, dove accanto agli edifici ci sono le persone, anch’esse protagoniste delle immagini. Quella del grande architetto è una lettura libera, che ha un precedente nel bel volume pubblicato da Laterza nel 1969, Immagine di Roma. LE FOTOGRAFIE ROMANE DI LUDOVICO QUARONI
Ludovico Quaroni
Il libro è accompagnato da un prezioso testo di un allievo di Quaroni, Francesco Pecoraro, introdotto da una frase dell’architetto che ci fa comprendere il senso di tale lavoro: “Vogliamo che si sviluppi una critica delle città, accanto alla critica letteraria, alla critica delle arti plastiche, del cinematografo e della musica”. Le sue non sono delle semplici immagini, ma un autentico strumento di lavoro: “Per lui fotografare Roma” ‒ spiega Pecoraro ‒ “significava coglierne qui e là, con un solo scatto, la complessità e la manomissione, la contraddizione e la sovrapposizione degli elementi che la compongono (che la componevano negli anni Sessanta), il lascito, le ferite indelebili, le effrazioni, le profanazioni, le distruzioni, su cui, se davvero ce ne importasse qualcosa, piangeremmo”. In quelle foto sono poste accanto tante città diverse, quella dei poveri, della piccola borghesia, degli accattoni. Una città complessa, che potrebbe somigliare, per certi punti di vista, a quella che Pasolini ci ha raccontato in Mamma Roma, uno dei suoi capolavori cinematografici.
Ludovico Quaroni
ROMA VISTA DA QUARONI
Ci troviamo proprio, secondo il pensiero di Quaroni, di fronte a un continuum, di case, cose, persone, alberi, fiume. Non c’è soluzione di continuità. Uno spazio particolare hanno le automobili spesso presenti, simbolo di conquista negli Anni del boom. La sua è un’indagine di matrice sociale di notevole importanza, che ci aiuta a comprendere la situazione romana di quel periodo, assai diversa da quella milanese. I casermoni popolari sono accanto ai campi e alle baraccopoli nella prima periferia della città, in un insieme in cui è la tristezza a dominare.
Chiude il libro un bel testo di Ludovico Quaroni accompagnato dai provini annotati a mano dall’architetto, che ci fanno comprendere la sua metodologia lavorativa.
‒ Angela Madesani
Ludovico Quaroni – Roma 1968
Humboldt Books, Milano 2021
Pagg. 112, € 20
ISBN 9788899385873 www.humboldtbooks.com
Ludovico QuaroniLudovico QuaroniLudovico QuaroniLudovico QuaroniLudovico QuaroniLudovico QuaroniLudovico QuaroniLudovico Quaroni
A Sergej Aleksandrovič Esenin – Poesia di Vladimir Majakovskij
Nella notte tra il 27 e il 28 dicembre Sergej Aleksandrovič Esenin morì impiccato nella sua stanza d’albergo, all’età di 30 anni.
[ Chi devo chiamare? Con chi posso dividere la triste gioia di essere vivo?]
Arrivederci, amico mio, arrivederci.
Mio caro, sei nel mio cuore.
Questa partenza predestinata
Promette che ci incontreremo ancora.
Arrivederci, amico mio, senza mano, senza parola
Nessun dolore e nessuna tristezza dei sopraccigli.
In questa vita, morire non è una novità,
ma, di certo, non lo è nemmeno vivere.
Per tutta la sua breve vita si era tenuto in bilico tra euforia, malinconia, stati depressivi. Il suo suicidio, un secondo e riuscito tentativo succeduto a poche ore dal primo, è avvolto nel mistero e così anche la genesi e il ritrovamento di quella che si ritiene essere la sua ultima poesia. Si narra infatti che la notte del 27 dicembre del 1925 Esenin scrisse col proprio sangue una poesia d’addio: Arrivederci, amico mio, arrivederci (До свиданья, друг мой, до свиданья). La poesia, non chiara, sarebbe stata da Esenin consegnata ad un amico, con la promessa di leggerla solo il giorno dopo; nel frattempo, Esenin si sarebbe impiccato. Probabilmente è una poesia d’amore e d’addio per il poeta Anatoli Marienhof (o Anatolij Mariengof) che era stato suo amante (e per un certo tempo anche convivente) negli ultimi quattro anni della sua vita.
Che il tempo
esploda dietro a noi
come una selva di proiettili.
Ai vecchi giorni
il vento
riporti
solo
un garbuglio di capelli.
Per allegria
il pianeta nostro
è poco attrezzato.
Bisogna
strappare
la gioia
ai giorni futuri.
In questa vita
non è difficile
morire.
Vivere
è di gran lunga più difficile.
A Sergej Esenin – di Vladimir Majakovskij
-Biografia di Sergej Aleksandrovic Esenin
Sergej Aleksandrovič Esenin
Biografia di Sergej Aleksandrovic Esenin nacque il 3 ottobre ( 21 settembre secondo il vecchio ordinamento) del 1895 presso il villaggio Konstantinovo nella provincia di Ryazan, in una famiglia di contadini.
Sin dall’età di 12 anni, suo padre prestò servizio in un negozio di Mosca, visitando il villaggio, anche dopo il matrimonio, solo per brevi visite. Gli anni dell’infanzia (1899 – 1904), Sergej Esenin li passò con il nonno e la nonna da parte di madre – Fedor e Natalia Titovj.
Nel 1904 Esenin entrà nella scuola ( 4 anni) di Konstantinovo, dalla quale uscirà nel 1909 con il massimo dei voti.
Nel 1912 si diploma alla scuola per insegnanti “Spas-Klepikovskaya” con il titolo di insegnante di scuola di lettere.
Nell’estate del 1912 Esenin si trasferisce a Mosca, dove lavorò per qualche tempo in una macelleria, la stessa in cui lavorava suo padre. Dopo aver litigato con il padre si licenziò e lavorò prima per un editore e poi per la tipografia di Ivan Sitin negli anni 1912 – 1914. Durante questo periodo il poeta si unì ai lavoratori dal pensiero rivoluzionario ed era tenuto sotto controllo dalla polizia.
Durante il periodo del 1913 – 1915 Esenin fu volontario presso il dipartimenti storico-filosofico dell’università popolare di Mosca Shanyavskogo. A Mosca si avvicino agli scrittori del circolo Letterario – musicale Suryvskogo, composto da scrittori autodidatti provenienti dal popolo.
Esenin scrisse poesie sin dall’infanzia, principalmente sotto l’influenza di Alexey Koltsov, Ivan Nikitin e Spiridon Drozhzin. Nel 1912 aveva già scritto il poema “La leggenda di Evpatya Kolovrat, Batu Khan, l’idolo nero e il nostro salvatore gesù cristo”, oltre ad aver scritto una collezione di versi chiamata “Pensieri Malati”. Nel 1913 il poeta lavorò al poema “Tosca” e al poema drammatico “Profeta”, testi molto conosciuti.
Nel gennaio 1914 sul giornale “Mirok” ci fu la prima pubblicazione del poeta sotto lo pseudonimo “Ariston”, la poesia “Betulla”. A febbraio lo stesso giornale pubblicò “Passeri” e “Porosha”. Successivamente – “villaggio” e “vangelo pasquale”.
Nell’inverno del 1915 Esenin arrivò a Pietrogrado ( San Pietroburgo), dove si conobbe con il poeta Aleksandr Blok, Sergey Gorodetsky e Aleksey Remisov e si avvicinò a Nikolay Klyuyev, che lo influenzò molto. Le loro esibizioni congiunte, nelle quali proponevano versi scritti nello stile contadino e popolare ottennero molto successo.
Nel 1916 uscì la prima raccolta di versi di Esenin, “radunitsa”, Che la critica accolse con entusiasmo vedendo in esso un flusso giovane e fresco.
Da Marzo 1916 a marzo 1917 Esenin si arruolò nell’esercito, inizialmente nel battaglione di riserva, locato a San Pietroburgo, poi da aprile servì sul treno sanitario militare Tsarskoye Selo numero 143. Dopo la rivoluzione di febbraio si congedò spontaneamente dall’esercito.
All’inizio del 1918 Esenin si trasferì a Mosca. Sposando con entusiasmo la rivoluzione, scrisse alcuni poemi – “Colomba di Giordania”, “Inonia” e “Tamburista del cielo” – Intrisi di un gioioso presagio di trasformazione della vita.
Nel periodo 1919 – 1921 entrò a far parte del gruppo degli immaginisti, i quali sostenevano che l’obiettivò della creatività è quello di creare un’immagine.
All’inizio degli anni venti nelle composizioni di Esenin apparirono le tematiche tipiche di una vita tormentata da venti di bufera, le prodezze dettate dall’ubriachezza diventarono angoscia, e si rifletterono nelle sue raccolte “Confessioni di un teppista” (1921) e “Mosca delle bettole”(1924).
Un’importante avvenimento nella vita di Esenin fu l’incontro, nell’autunno del 1921, con l’attrice americana Isidora Dunkan, che dopo 6 mesi diventò sua moglie.
Dal 1922 al 1923 i due viaggiarono per l’Europa ( Germania, Belgio, Francia e Italia) e in America, ma subito dopo il ritorno in patria i due si separarono.
Durante gli anni venti vennero scritte le composizioni che più di ogni altra diedero fama a Esenin:
“ Ha smesso di parlare il boschetto d’orato”, “Lettera alla madre”, “Noi adesso ce ne andiamo poco a poco”, il ciclo “Motivi persiani”, il poema “Anna Snegina” e altri. Il tema della patria che occupò sempre uno dei punti cardine delle sue creazioni, in questo periodo acquisì dei toni drammatici. Quello che una volta era il mondo unito e armonico della Rus’ di Esenin si divise: “ Rus’ Sovietica” – “Rus uscente”. Nelle raccolte “Rus’ Sovietica” e “Nazione Sovietica” (entrambe del 1925). Esenin si sentì come un cantore della “capanna d’oro”, poesia la quale qui non serve a nessuno. I paesaggi autunnali e gli addii diventarono il motivo dominante dei testi.
Gli ultimi due anni di vita del poeta furono segnati dagli spostamenti, tre volte si recò nel Caucaso, in svariate occasioni andò a Leningrado ( San Pietroburgo) e 7 volte a Konstantinovo.
Alla fine del novembre 1925 il poeta finì in una clinica neuropsicologica. Una delle ultime produzioni di esenin fu il poema “L’uomo nero”, in cui la vita passata fa parte di un incubo notturno. Interrompendo il trattamento, il 23 dicembre Esenin partì per Leningrado.
Il 24 dicembre 1925 si fermò presso l’albergo Angleterre, dove il 27 dicembre scrisse la sua ultima poesia “ Arrivederci amico mio, arrivederci…”
La notte del 28 dicembre 1925, secondo la versione ufficiale Sergej Esenin si tolse la vita, suicidandosi. Il poeta fu trovato la mattina del 28 dicembre. Il suo corpo pendeva da una tubatura dell’acqua sotto il soffitto, ad un’altezza di quasi tre metri. Le autorità cittadini non condussero nessuna indagine seria, e si limitarono al rapporto di un poliziotto locale.
Una commissione formata specialmente per l’occasione nel 1913 non confermò altre varianti sulla morte del poeta, se non quella ufficiale.
Sergej Esenin giace oggi presso il cimitero di Vagankovo, a Mosca.
Il poeta fu sposato più di una volta. Nel 1917 si unì a Zinaida Reich ( 1897 – 1939), segretaria- dattilografa del giornale “Delo Naroda”. Da questo matrimonio nacquero la figlia Tatiana (19178 – 1992) e il figlio Konstantin (1920 – 1986). Nel 1922 Esenin si sposò con la ballerina americana Isidora Dunkan. Nel 1925 diventò sua compagna Sofia Tolstaja ( 1900 – 1957), nipote dello scrittore Lev Tolstoj. Il poeta ebbe un figlio Yuri ( 1914 – 1937) dal matrimonio civile con Anna Izryadnova. Nel 1924 a Esenin nasce il figlio Akeksandr dalla poetessa e traduttrice Nadezhda Volpin – matematica e attivista del momento dei dissidenti, che nel 1972 si trasferì negli USA.
Nel giorno del 2 ottobre 1965, in onore del settantesimo compleanno del poeta, nel villaggio di Konstantinovo, nella casa dei suoi genitori aprì il museo S.A. Esenin – Uno dei più grandi complessi museali della Russia.
il 3 ottobre del 1995 a Mosca presso il numero 24 del Bolshoi Strochnevsky Pereulok, dove negli anni tra il 1911 e il 1918 risiedeva Esenin, venne istituito il Museo Nazionale Moscovita S. A. Esenin.
Esiste anche un ulteriore museo dedicato a Sergej Esenin dal 1981 a Tashkent ( Uzbekistan).
Materiale preparato tramite informazioni di RIA novosti e fonti aperte.
Fonte: ria.ru, 28/12/2015 – di Ria Novosti, tradotto da Axel Grieco
Axel Grieco –Nato nel 1995, appassionato di lingua e cultura russa. Ho vissuto in Russia, cercando di entrare nello strato sociale della realtà di tutti i giorni nella maniera più assoluta possibile. Adoro tutto ciò che riguarda la cultura meno conosciuta di questo paese.
Alcune Poesie di Sergej Aleksandrovic Esenin
Sul piatto azzurro del cielo
Sul piatto azzurro del cielo
C’è un fumo melato di nuvole gialle,
La notte sogna. Dormono gli uomini,
L’angoscia solo me tormenta.
Intersecato di nubi,
Il bosco respira un dolce fumo.
Dentro l’anello dei crepacci celesti
Il declivio tende le dita.
Dalla palude giunge il grido dell’airone,
Il chiaro gorgoglio dell’acqua,
E dalle nuvole occhieggia,
Come una goccia, una stella solitaria.
Potere con essa, in quel torbido fumo,
Appiccare un incendio nel bosco,
E insieme perirvi come un lampo nel cielo.
Non invano hanno soffiato i venti
Non invano hanno soffiato i venti,
non invano c’è stata la tempesta.
Un misterioso qualcuno ha colmato
i miei occhi di placida luce.
Qualcuno con primaverile dolcezza
ha placato nella nebbia azzurrina
la mia nostalgia per una bellissima,
ma straniera, arcana terra.
Non mi opprime il latteo silenzio,
non mi angoscia la paura delle stelle.
Mi sono affezionato al mondo e all’eterno
come al focolare natio.
Tutto in esso è buono e santo,
e ciò che turba è luminoso.
Schiocca sul vetro del lago
il papavero rosso del tramonto.
E senza volerlo nel mare di grano
un’immagine si strappa dalla lingua:
il cielo che ha figliato
lecca il suo rosso vitello.
Nella frescura d’autunno è bello
Nella frescura d’autunno è bello
scuotere al vento l’anima – che pare una mela –
e guardare l’aratro del sole
che solca sopra al fiume l’acqua azzurra.
È bello strapparsi dal corpo
il chiodo ardente d’una canzone
e nel bianco abito di festa
aspettare che l’ospite bussi.
Io mi studio, mi studio col cuore di serbare
negli occhi il fiore del ciliegio selvatico.
Solo nel ritegno i sentimenti si scaldano
quando una falla rompe il petto.
In silenzio rimbomba il campanile di stelle,
ogni foglia è una candela per l’alba.
Nessuno farò entrare nella stanza,
non aprirò a nessuno la porta.
Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco
Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco
verso il paese dov’è gioia e quiete.
Forse, ben presto anch’io dovrò raccogliere
le mie spoglie mortali per il viaggio.
Care foreste di betulle!
Tu, terra! E voi, sabbie delle pianure!
Dinanzi a questa folla di partenti
non ho forza di nascondere la mia malinconia.
Ho amato troppo in questo mondo
tutto ciò che veste l’anima di carne.
Pace alle betulle che, allargando i rami,
si sono specchiate nell’acqua rosea.
Molti pensieri in silenzio ho meditato,
molte canzoni entro di me ho composto.
Felice io sono sulla cupa terra
di ciò che ho respirato e che ho vissuto.
Felice di aver baciato le donne,
pestato i fiori, ruzzolato nell’erba,
di non aver mai battuto sul capo
gli animali, nostri fratelli minori.
So che là non fioriscono boscaglie,
non stormisce la segala dal collo di cigno.
Perciò dinanzi a una folla di partenti
provo sempre un brivido.
So che in quel paese non saranno
queste campagne biondeggianti nella nebbia.
Anche perciò mi sono cari gli uomini
che vivono con me su questa terra.
Arrivederci, amico mio, arrivederci
Arrivederci, amico mio, arrivederci.
Tu sei nel mio cuore.
Una predestinata separazione
Un futuro incontro promette.
Arrivederci, amico mio,
senza strette di mano, senza parole,
Non rattristarti e niente
Malinconia sulle ciglia:
Morire in questa vita non è nuovo,
Ma più nuovo non è nemmeno vivere.
A quest’ultima poesia di Esenin, come è noto scritta con il sangue e dedicata al poeta Anatoli Marienhof, rispose, poco tempo più tardi, Vladimir Majakovskij:
Alessandra Gissi, Paola Stelliferi- L’aborto-Una storia
Carocci Editore-ROMA
In breve
La legge 194 del 1978 depenalizza, entro regole precise, l’interruzione volontaria di gravidanza, abrogando il Titolo X del codice penale di matrice fascista. Approvata a pochi giorni dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, segna anch’essa una profonda cesura con il passato. È con questo passato che il volume si confronta, andando oltre la mera storia della legge. La complessità di una questione che innerva costantemente la società e la sfera del politico viene delineata a partire da una periodizzazione innovativa che, pur incentrata sull’intero arco dell’Italia repubblicana, evidenzia continuità e rotture con l’età liberale e fascista. Attraverso fonti eterogenee, fino a oggi poco valorizzate, e l’analisi di dibattiti, politiche e pratiche, il libro offre un punto di vista inedito sulla storia contemporanea, consentendo una più accorta lettura del presente.
Alessandra Gissi -Insegna Storia contemporanea all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale.
Paola Stelliferi -È ricercatrice post-doc in Storia contemporanea.
-Carocci Editore-
Viale di Villa Massimo, 47 00161 Roma -redazioneinternet@carocci.it
HALET CAMBEL, scompare a Istambul il 12 Gennaio 2014 all ‘età di 97anni, è stata un’archeologa turca, anche la prima schermitrice turca e la prima donna mussulmana della storia a partecipare ad una olimpiade, rappresentò la Turchia alle Olimpiadi di Berlino del 1936.
A lei si deve la scoperta di importanti testimonianze del regno degli Ittiti.
Halet era nata a Berlino nel 1916, terzogenita di Hasan Cemil Cambel, l’addetto militare turco per la Germania e un buon amico di Atatürk. In Turchia sarebbe tornata solo dopo la fondazione della Repubblica turca. E proprio la vicinanza del padre con Atatürk avrebbe modellato anche la famiglia della Cambel: Halet diventerà una donna cosmopolita, poliglotta e tollerante. Frequentò il Liceo femminile di Arnavutköy ad Istanbul. Dopo un periodo di formazione in Archeologia, Preistoria e Storia antica presso l’Università della Sorbona di Parigi, nel 1940 conseguì il dottorato. Nel 1946, insieme all’archeologo Helmuth Theodor Bossert, scoprì la cittadella fortificata di Karatepe alla quale dedicò tutta la sua vita. Sposò Nail Cakirhan, che l’aiutò a realizzare il primo museo turco all’aperto su progetto dell’ingegnere Turgut Cansever Oggi il museo si chiama: Karatepe-Aslantaş Acık Hava Müzesi. Alla Sorbona di Parigi studiò archeologia e lingue del Vicino Oriente (ittita, assiro, ebraico), all’epoca in Turchia quasi monopolio degli studiosi tedeschi. Tornata in Turchia, sposò Nail Cakirhan noto poeta di sei anni più vecchio di lei, con il quale avrebbe trascorso 70 anni della sua vita. Cominciò a lavorare come assistente alla facoltà di Lettere di Istanbul dove nel 1940 dove completò il dottorato. Nel 1947, nelle Montagne Taurus senza strade nella Turchia meridionale, è stata la co-scopritore della fortezza ittita a Karatepe. Halet Cambel è senza dubbio la più nota archeologa turca, oltre a essere stata la prima archeologa donna del Paese di Ataturk. Ha decifrato decine di iscrizioni ittite e ha diretto numerosi scavi diventando la massima specialista mondiale di ittitologia, da cui il soprannome di “signora degli Ittiti”. Insieme all’archeologo tedesco Helmuth Bossert dal 1947 diresse lo scavo di Karatepe, nel territorio di Adana (Turchia) ai confini della Cilicia orientale. Karatepe “Collina nera” ha restituito le rovine dell’antica Azatiwataya, cittadella di frontiera del regno tardoittita di Adana, Nei primi anni 1950, quando il governo ha cercato di spostare oggetti da Karatepe ad un museo, Cambel si oppose sostenendo di mantenere gli oggetti sul sito, I manufatti scavati avevano infatti bisogno di un ampio spazio coperto, dove poter essere restaurati, protetti ed esposti. Nel 1957 il governo acconsentì e nel 1960 fu completato un museo all’aperto, con alcuni rifugi progettati dal marito architetto.
Renato Caputo- Gramsci, il pacifismo e la non violenza
Fonte-Ass. La Città Futura
Il lemma pacifismo ricorre quattro volte nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, mentre tre volte s’incontra il termine “pacifista”. Solo cinque di questi testi sono degni d’interesse, dal momento che due ricorrenze sono presenti in dei testi A ripresi integralmente nei corrispondenti testi C, cioè nei quaderni tematici. Nel primo testo significativo, Gramsci critica il particolarismo nazionalista che pretende di incarnare “il vero universalista, il vero pacifista”, sulla base di una fraintesa considerazione di André Gide secondo la quale si servirebbe “meglio l’interesse generale quanto più si è particolari” [1]. A parere di Gramsci il fraintendimento è causato dal fatto che si finisce con il confondere l’“essere particolari”, con il “predicare il particolarismo. Qui – aggiunge acutamente Gramsci – è l’equivoco del nazionalismo, che in base a questo equivoco pretende spesso di essere il vero universalista, il vero pacifista” (3, 2: 284). Allo stesso modo, si finisce con il fraintendere il concetto universale di nazionale confondendolo con il particolarismo nazionalista. A tal proposito Gramsci presenta un esempio illuminante: “Goethe era «nazionale» tedesco, Stendhal «nazionale» francese, ma né l’uno né l’altro nazionalista” (ibidem).
Allo stesso modo Gramsci, nel secondo testo in cui ricorre il lemma, critica Curzio Malaparte che sosteneva essere vero pacifista il patriota “rivoluzionario”, cioè il fascista (cfr. 23, 22: 2210). In quest’ultimo caso si confonde o, anche in tal caso, si finge di confondere il rivoluzionario, con il suo esatto contrario, il controrivoluzionario e/o il reazionario, secondo un collaudato schema propagandistico fascista che, con una concezione come di consueto autocontraddittoria amava dipingersi come una rivoluzione conservatrice. D’altro canto questi aspetti contraddittori del fascismo da un lato sono tenuti insieme dal primato assolutistico di una prassi volutamente irrazionalista, sulla base della quale, a seconda del contesto storico si sarebbe stati favorevoli al progresso e addirittura alla rivoluzione o, piuttosto, alla conservazione e finanche alla reazione, in nome del più spudorato opportunismo trasformista. D’altro lato, questo apparentemente assurdo voler tenere insieme due termini palesemente in contraddizione l’uno con l’altro, per cui il primo necessariamente esclude il secondo e viceversa, corrisponde in pieno alla natura di classe del ceto sociale di riferimento del fascismo, cioè alla piccola borghesia in quanto tale socialconfusa in quanto in essa convivono e necessariamente si scontrano, al proprio interno, lo sfruttatore e lo sfruttato. Allo stesso modo nel rappresentante del ceto medio convive il lavoratore subordinato e sfruttato da quello stesso Stato di cui è esponente per antonomasia in quanto non solo cittadino, ma al contempo funzionario, quando non pubblico ufficiale.
Vi è poi un breve accenno, contenuto in un testo A e C, a una “mediocre” letteratura di guerra che si è affermata in Europa “col proposito prevalente di arginare la mentalità pacifista alla Remarque” (23, 25: 2213), prodottasi dopo il successo internazionale di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Da ciò si comprende bene il ruolo guerrafondaio dell’industria culturale, anche perché in paesi a capitalismo avanzato la guerra resta uno dei modi più efficaci per aggirare e rinviare la crisi di sovrapproduzione. Come osserva a ragione Gramsci: “questa letteratura è generalmente mediocre, sia come arte, sia come livello culturale, cioè come creazione pratica di «masse di sentimenti e di emozioni» da imporre al popolo. Molta di questa letteratura rientra perfettamente nel tipo «brescianesco»” (ibidem). Dunque, dinanzi agli attacchi guerrafondai di conservatori e reazionari occorre difendere il pacifismo democratico.
Infine vi sono da ricordare due testi nei quali Gramsci prende posizione contro due specifiche concezioni, determinazioni o accezioni del concetto di pacifismo. La prima è sorta con il cristianesimo primitivo, si è sviluppata nel Medio Evo con il francescanesimo e ha conosciuto una significativa ripresa nel mondo moderno da parte di Gandhi, sino a divenire in India una “credenza popolare”. Tale concezione raggiunge la sua massima espressione con la “non resistenza e non cooperazione” di Gandhi. A tale proposito Gramsci osserva acutamente che “il rapporto tra Gandhismo e Impero Inglese è simile a quello tra cristianesimo-ellenismo e impero romano. Paesi di antica civiltà, disarmati e tecnicamente (militarmente) inferiori, dominati da paesi tecnicamente sviluppati (i Romani avevano sviluppato la tecnica governativa e militare) sebbene come numero di abitanti trascurabili. Che molti uomini che si credono civili siano dominati da pochi uomini ritenuti meno civili ma materialmente invincibili, determina il rapporto cristianesimo primitivo – gandhismo” (6, 78: 748). La non violenza di una massa portatrice d’un principio spirituale superiore di fronte a una minoranza che la opprime “porta all’esaltazione dei valori puramente spirituali ecc., alla passività, alla non resistenza, (…) che però di fatto è una resistenza diluita e penosa, il materasso contro la pallottola” (ibidem). Analogo alle moderne lotte non-violente di ispirazione gandhiana era l’atteggiamento dei “movimenti religiosi popolari del Medio Evo, francescanesimo”. In effetti anch’essi, come la resistenza passiva degli indiani di contro al colonialismo imperialista inglese, “rientrano in uno stesso rapporto di impotenza politica delle grandi masse di fronte a oppressori poco numerosi ma agguerriti e centralizzati: gli «umiliati e offesi» si trincerano nel pacifismo evangelico primitivo, nella nuda «esposizione» della loro «natura umana» misconosciuta e calpestata nonostante le affermazioni di fraternità in dio padre e di uguaglianza ecc.” (6, 78: 748-49).
Nel secondo caso il lemma pacifismo ricorre in una nota in cui Gramsci contesta le interpretazioni conservatrici di Georges Sorel. Sebbene Sorel, per l’“incoerenza dei suoi punti di vista”, possa “essere impiegato a giustificare i più disparati atteggiamenti pratici” – dall’estrema destra all’estrema sinistra – “tuttavia è innegabile nel Sorel un punto fondamentale e costante, il suo radicale «liberalismo» (o teoria della spontaneità) che impedisce ogni conseguenza conservatrice delle sue opinioni”. In altri termini, sebbene “bizzarrie, incongruenze, contraddizioni si trovano nel Sorel sempre e ovunque”, “egli non può essere distaccato da una tendenza costante di radicalismo popolare”. Tanto più che il sindacalismo rivoluzionario di Sorel, per Gramsci, non può esser considerato “un indistinto «associazionismo» di «tutti» gli elementi sociali” (17, 20: 1923), avendo un chiarofondamento di classe. Egualmente “la sua «violenza» non è la violenza di «chiunque» ma di un [solo] «elemento» che il pacifismo democratico tendeva a corrompere” (ibidem), cioè il proletario moderno e, in primis, la classe operaia [2].
Note:
[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, volume I, p. 284. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e – dopo i due punti – il numero di pagina di questa edizione.
[2] Gramsci conduce a termine la sua disamina critica della stumentalizzazione da parte degli oppressori, a partire dai fascisti, del pensiero di Sorel, evidenziando il “punto oscuro” di questo pensatore e uomo politico consistente nel suo “antigiacobinismo” e nel “suo economismo puro; e questo, che è, nel terreno [storico] francese, da connettersi col ricordo del Terrore e poi della repressione di Galliffet, oltre che con l’avversione ai Bonaparte, è il solo elemento della sua dottrina che può essere distorto e dar luogo a interpretazioni conservatrici” (17, 20: 1923-924).
Fonte-Ass. La Città Futura | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi
Il mistero dello “scheletro del Castello”.Lo scheletro è la testimonianza di una tragica fine di una storia d’amore?
POGGIO CATINO in SABINA- Il mistero dello “scheletro del Castello”.
Nel museo criminologico di Roma, con sede in via del Gonfalone, prima in via Giulia, si può vedere una celletta ricomposta , ricostruita, simile a quella che si trovava nel Castello di Poggio Catino. Dentro questa celletta vi è uno scheletro di una donna con ceppi di ferro ai polsi e alle gambe .
-Storia del ritrovamento-
Nel 1933 il sig. Vincenzo Biraghi , fratello e Amministratore del Dott. Prof. Umberto proprietario del Castello, era ossessionato dall’idea che nei sotterranei del Castello si trovasse il tesoro della “MADONNA di FARFA”. All’interno del Palazzo erano avvenuti dei fatti che presagivano “presenze” . Durante le notti apparivano spiriti che si materializzavano con segni inquietanti: imposte delle finestre che si aprivano e sbattevano all’improvviso pur essendo state chiuse ermeticamente, mani invisibili che tiravano le coperte e le lenzuola dei letti e si sentiva il rumore di pesanti catene che erano trascinate nei corridoi ; una signora , attratta dagli spiriti, si presentava periodicamente nel Palazzo e tentava di gettarsi nella vasca della fontana che si trovava nel giardino.
Nel 1935 il sig. Vincenzo chiese l’intervento del Vescovo ausiliare il quale mandò al Castello un preste esorcista per fare gli scongiuri rituali per allontanare gli spiriti maligni.
Un giorno del 1933, sotto i calcinacci di un torrione crollato apparve non il Tesoro della “MADONNA di FARFA”, ma una cella, intatta, con al suo interno lo scheletro della donna incatenata ai polsi e ai piedi così come si può vedere al Museo criminologico di Roma. La notizia del ritrovamento fu ampiamente documentata dal giornale IL MESSAGGERO. Da Roma il Ministero di Grazia e Giustizia inviò una commissione di esperti .
Gli esperti ministeriali ordinarono la rimozione totale della cella. Il lavoro fu eseguito da esperti in materia e fu così che l’intera cella e lo scheletro furono portati a Roma nel Museo Criminologico dove ancora si può vedere. La ricostruzione dei fatti, la più accreditata, potrebbe essere la seguente. Il fatto tragico si sarebbe verificato durante il periodo in cui i proprietari del Castello di Catino erano gli Orsini e cioè tra il 1483 e il 1558. La data certa, sembrerebbe , del tragico evento potrebbe essere tra il 1484 e il 1525 quindi tra la fine del XV sec. E l’inizio del sec. XVI, infatti è questo il periodo in cui infuriavano le lotte tra gli Orsini ed i Colonna. Questa presunta nobildonna catturata dagli Orsini oppure da essi ricevuta in ostaggio fu rinchiusa in questa cella del carcere del Castello di Catino morì condannata a spegnersi tra inedia, fame e sete.
La cella, piccola, di forma rettangolare ha infisso alla parete un grosso anello di ferro, in fondo una pietra circolare dove si trova lo scheletro con i ceppi di ferro ai polsi alle gambe e ai piedi. In mezzo al pavimento vi è un piccolo sedile di pietra un vaso e un boccale slabbrato. Vi sono macchie di sangue su davanzale dell’inferriata e su di una parete si nota un grafito , una croce incisa con oggetto metallico. Sotto, a destra della croce, di fronte alla scheletro c’è un lucernaio chiuso a mattoni. Si è appurato che la donna aveva sui trent’anni . Tra le tante ipotesi degli studiosi che si sono dedicati alla ricostruzione dell’identità della donna molti hanno scritto che lei era stata presa in ostaggio dagli Orsini quando espugnarono il Castello di Catino.
La leggenda popolare narra di una castellana sposa o compagna del potente Geppo Colonna , signore di Poggio Catino. Innamoratasi, ricambiata, del castellano di Poggio Catino, per vendetta il Colonna l’aveva fatta rinchiudere nella cella sotterranea e fatta morire d’inedia. Quale sia la vera storia, nessuno può dirlo, resta il fatto che alla donna sconosciuta fu riservata una morte davvero terribile.
Le foto allegate sono del 1938
POGGIO CATINO in SABINA- Il mistero dello “scheletro del Castello”.POGGIO CATINO in SABINA- Il mistero dello “scheletro del Castello”.POGGIO CATINO in SABINA- Il mistero dello “scheletro del Castello”.POGGIO CATINO in SABINA- Il mistero dello “scheletro del Castello”.POGGIO CATINO in SABINA- Il mistero dello “scheletro del Castello”.POGGIO CATINO in SABINA- Il mistero dello “scheletro del Castello”.POGGIO CATINO in SABINA- Il mistero dello “scheletro del Castello”.
Città del Vaticano-La necropoli di Santa Rosa, che fa parte della necropoli romana della via Triumphalis, è una necropoli romana scoperta nel 2003 nella Città del Vaticano durante i lavori per la realizzazione del parcheggio di Santa Rosa.Lo scavo, condotto dagli archeologi dei Musei Vaticani, ha portato alla luce circa quaranta edifici sepolcrali e più di duecento sepolture singole, quasi tutte in ottimo stato di conservazione, tra cui il sarcofago di Publio Cesilio Vittorino (270-290), scolpito a bassorilievo, e la tomba a camera dei Passieni, contenente due are risalenti una all’età di Nerone (54-68) e l’altra alla dinastia dei Flavi (69-96).
Dott.ssa Rosanna Marin
Città del Vaticano-Necropoli di Santa RosaCittà del Vaticano-Necropoli di Santa RosaCittà del Vaticano-Necropoli di Santa RosaCittà del Vaticano-Necropoli di Santa RosaCittà del Vaticano-Necropoli di Santa RosaCittà del Vaticano-Necropoli di Santa RosaCittà del Vaticano-Necropoli di Santa RosaCittà del Vaticano-Necropoli di Santa RosaCittà del Vaticano-Necropoli di Santa RosaCittà del Vaticano-Necropoli di Santa RosaCittà del Vaticano-Necropoli di Santa Rosa
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