-Maria Luisa Fehr-Romanzo APRILE- Mondadori editore Milano 1934-
-Articolo di Guido Piovene per la Rivista PAN n°5 del 1934-
Guido Piovene-Scrittore e giornalista italiano (Vicenza 1907 – Londra 1974). Formatosi all’incrocio di un cattolicesimo sensuale con un illuminismo attinto ai moralisti francesi del Sei-Settecento, aperto alle influenze del freudismo e dell’esistenzialismo, P. indagò le passioni e i vizi umani. Tra i romanzi più noti: Le furie (1963), in cui ha tentato di applicare la tecnica del nouveau roman, dando particolare rilievo alla memoria di un mondo in decadenza di fronte al quale lo scrittore subisce rimorsi e inibizioni, non senza però lasciare nel lettore un sapore di ambiguità; e Le stelle fredde (1970, premio Strega), in cui ritorna con gli stessi simboli la materia autobiografica.
Vita e opere
Nel 1935 entrò a far parte del Corriere della sera per poi passare a La Stampa, della quale fu collaboratore fino alla fondazione, con I. Montanelli e altri, del quotidiano milanese Il Giornale (1974). La sua opera, che varia dalla corrispondenza e dai servizi di giornalismo d’alto livello alle pagine di viaggio e di riflessione, al racconto, al romanzo, è quella di un saggista formatosi all’incrocio di un cattolicesimo morbido e sensuale, di tradizione vicentino-fogazzariana, con un illuminismo attinto soprattutto ai moralisti e romanzieri francesi del Sei-Settecento; ma aperto alle suggestioni del freudismo e dell’esistenzialismo. Un saggista inteso all’esplorazione lenta, minuta delle passioni, dei vizi umani, colti nel loro sinuoso trasformarsi o dissimularsi in virtù (a cominciare dall’egoismo così spesso atteggiato a pietà); un osservatore e descrittore di «caratteri», il quale, come narratore, rivela, sotto il lucido intellettualismo della sua indagine e delle sue invenzioni, l’ansia di una ricerca soggettiva, di un personale riscatto. Ne è testimonianza, nei suoi racconti (La vedova allegra, 1931; Inverno di un uomo felice, post., 1977; Spettacolo di mezzanotte, post., 1984) e nei romanzi (Lettere di una novizia, 1941; La gazzetta nera, 1943; Pietà contro pietà, 1946; I falsi redentori, 1949; Le furie, 1963; Le stelle fredde, 1970; Verità e menzogna, post., 1975; Romanzo americano, post., 1979), quel procedere della narrazione, entro una cornice apparentemente oggettiva, per monologhi – in forma epistolare, di diario, di confessione, ecc. – dei protagonisti, che permette allo scrittore di eludere, come in un gioco o finzione scenica, quanto di troppo autobiografico urge al fondo della sua arte. Accanto alla produzione saggistica (Lo scrittore tra la tirannide e la libertà, 1952; Idoli e ragione, post., 1975), poi raccolta in Saggi (2 voll., post., 1986-90), e ai notevoli libri di reportage, di viaggio e di costume (De America, 1953; Viaggio in Italia, 1957; Madame la France, 1966; L’Europa semilibera, 1973; ecc.) è da ricordare il discusso La coda di paglia (1962), in cui P. rievocò i propri rapporti col fascismo. Al genere fiabesco appartiene Il Nonno Tigre (1972).
Poesie di Akiko Yosano -Poetessa e scrittrice giapponese-
Akiko Yosano-(1878-1942)- Poetessa e scrittrice giapponese. Profonda conoscitrice della letteratura classica giapponese, manifestò interesse per le nuove correnti letterarie ispirate a modelli occidentali, rinnovando uno dei più tradizionali generi poetici grazie a una grande forza immaginativa, tesa all’esaltazione della passione amorosa.
poesie di Akiko Yosano
SE QUI ADESSO
*
Se qui adesso
ripenso al percorso
della mia passione
somigliavo a un cieco
senza paura del buio.
—————————————————–
Sebbene così fragile
e così breve l’amore,
ha sangue troppo giovane
questa ragazza, per bruciare
poesie di primavera.
*
Ho sentito, non so perché
che tu mi aspettavi
e sono uscita – Nella notte
improvvisa spuntò la luna
sui campi in fiore.
*
Appoggio il mio corpo al cancello
e mi perdo in pensieri
infiniti
guardo il vento autunnale
passare sui fiori rossi.
*
Capelli neri arruffati in mille trecce. Arruffati i miei capelli e arruffati i miei arruffati ricordi delle nostre lunghe notti d’amanti
*
Via Lattea:
a letto, con lui,
apro la tenda
e guardo come, all’alba,
si separano due stelle.
*
La mia giovinezza è presso a finire simile a una pianura docile che, subita, spiombi nel mare
*
Amore o sangue?
tutta la primavera
è in questa peonia che mi ossessiona,
scende la notte, sono sola,
sola senza una poesia.
*
Se qui adesso
ripenso al percorso
della mia passione,
somigliavo a un cieco
senza paura del buio.
*
Mi piace questo alto cantare di vento. L’alba quando cammino sotto l’albero di hi dal vecchio tronco…
Nel 1904, Akiko Yosano scrisse e pubblicò quella che è probabilmente la sua più celebre poesia, Kimi shinitamou koto nakare (“Ti prego, fratello, non morire”). Suo fratello minore, Chuzaburo, era stato mobilitato per la guerra russo-giapponese (che si concluse con la famosa disfatta russa di Port Arthur, o Lüshun); nella poesia, Akiko espresse tutte le sue preoccupazioni. Musicata poco tempo dopo, la poesia è diventata una delle più classiche canzoni contro la guerra in lingua giapponese, dato che così è sentita da tutti nonostante sia molto “lieve” e non contenga espressioni antimilitariste. In particolare, la poesia fu pubblicata su Myōjō proprio quando il numero delle vittime della battaglia di Port Arthur fu reso noto pubblicamente, ed il carattere antibellico della composizione risultò chiaro. Va da sé che piovvero le accuse di disfattismo sulla poetessa. Non sono purtroppo riuscito a determinare chi sia stato l’autore della musica, ed è possibile anche che esistano più versioni musicate della poesia (che in Giappone è davvero famosissima: è arrivata, manco a dirlo, anche alle sigle dei cartoni animati). Il testo giapponese, le note originali e tradotte e la traduzione inglese le ho trovate invece su questa pagina, e così le riproduco. [RV]
君死にたまふことなかれ
La versione inglese. English Translation
Port Arthur, 1904/05.
Le note alla traduzione contenute nella pagina di provenienza sono state fedelmente riprodotte. L’autore della traduzione non è indicato.
PRITHEE DO NOT DIE
Lamenting my younger brother in combat as one
of the troops besieged at Lüshun(Port Arthur)
Yosano Akiko
Oh, younger brother mine, for thee I weep,
Prithee do not die,
For you were born the very last,
And our parents loved you all the more,
Yet they made thee grasp a blade in hand,
Taught thee kill a man you shall,
Kill a man, and die you too,
groomed you thus to age twenty-four.
Master now of the proud old house,
The merchant-house of Sakai1, our town,
You must now carry on our name,
So I prithee, do not die,
Though Lüshun’s2 fortress should perish,
Should it be saved, what of that?
Thou ought know, it nowhere commands
On the familial codes3 of our merchant house.
I prithee do not die,
The Heavenly-Prince does not himself
Lead by his own august presence his troop to battle.
For to command that men shed blood of men,
And die following the beastly path4,
And tell us death be the glory of men,
If his Highness’ heart be compassionate,
How could he truly think it so?
Oh young brother mine in battle,
I prithee you mustn’t die.
Our mother who has lagged behind father
In the passing of the autumn years of life,
It sores me to watch her lament,
Deprived of son to guard the home,
And though she hears our Highness hale and safe,
Our mother’s gray hair grows.
Stooping in the shade of the noren5 she weeps,
The frail young wife of yours,
Or have you forgotten? Or do you think of her?
Think on her maidenly feeling,
Together ere ten months, then parted,
And there’s none another the likes of you,
Oh once again I ask,
Prithee do not die.
— pub. in Myōjō Sept. 1904.
Translation’s Notes / Note alla traduzione
Notes:
1 Sakai is a merchant town with a rich history, which prospered by foreign trade in the age of Warring-States, and its merchants were proud and independent-minded. The famous tea ceremony master Sen-no-Rikyū (1522-1591) who committed harakiri was a Sakai merchant.
2 Lüshun (Port Arthur), pronounced “Ryojun” in Japanese, was a naval port for Russia’s Eastern Fleet.
3 An “old family” often has something called kakun or lessons — do’s and don’ts that are passed down generation to generation. The poetess is saying that since they are merchant family, dying to defend a castle is certainly not one of those lessons.
4 “Beastly path” is a reference to a course of conduct without morality or discipline; In Buddhism, if your conduct in this life is poor, you are said to be relegated to chikushōdō “way of beasts” in the next life.
5Noren is the shop curtain, the drape of cloth hanging at the shop entrance. There is also such a curtain between the storefront and the back area.
Breve biografia di Akiko Yosano-(1878-1942)-Nata come Sho Ho il 7 dicembre 1878 nel villaggio di Sakai, presso Osaka, Akiko Yosano è stata una delle più famose e controverse poetesse giapponesi del primo’900. E’ considerata una delle prime pacifiste e femministe attive nel Giappone dell’epoca Meiji: il suo anno cruciale può essere considerato il 1901. In quell’anno, all’età di 23 anni, sposò Tekkan Yosano, il responsabile editoriale della rivista Myōjō (“Stella lucente”), sulla quale aveva cominciato a pubblicare le proprie poesie. Tekkan era regolarmente sposato e divorziò dalla prima moglie per sposare Akiko, ma in pieno accordo con essa continuò a frequentarla ( oggi si definirebbe famiglia allargata). Nello stesso anno, Akiko Yosano pubblicò Midaregami (“Capelli arruffati”), una raccolta di 400 poesie ritenuta il faro del libero pensiero nel Giappone dell’epoca; come è lecito attendersi, la critica ufficiale stroncò la raccolta e la definì scandalosa. Ciò nonostante, Midaregami riscosse un successo clamoroso, e la fama di Akiko Yosano eclissò quella del marito, anch’egli comunque valente poeta. Akiko morì d’infarto il 29 maggio 1942, in piena guerra; la notizia della sua morte passò inosservata, dopo che per tutta la vita si era spesa contro il crescente militarismo giapponese ed aveva combattuto per la condizione delle donne in una società del tutto oppressiva nei loro confronti. Le sue opere non erano state messe al bando, ma comunque ignorate; solo negli ultimi due decenni è stata riscoperta, tornando a godere del successo di un tempo.
Lo Studio di Pirandello ha sede in via Antonio Bosio in un villino costruito intorno agli anni Dieci nell’allora Via Alessandro Torlonia in una zona di Roma immersa nel verde e che ritorna in numerose pagine pirandelliane.
Corrado Alvaro così ricorda il verde che circondava la casa:“Nel mezzo dello studio c’era un divano con le spalle a una grande vetrata che dava, a destra, in un giardino. Il giardino era uno scenario vicino di lauri e di cipressi. Ma oltre a questo verde perenne e grave, che appena imbiondiva al sole di primavera, ci doveva essere qualche grande albero che perdeva le foglie, un platano o una magnolia; ricordo bene a certe stagioni quel fruscìo … È strano che questo fruscìo faccia parte dei miei ricordi su quello studio, e questo sfogliare sia trasferito in un parco anziché fra le carte del letterato”.
L’appartamento è costituito da un ampio soggiorno-studio, da una camera da letto e da una terrazza. L’arredo è quello originale: risale al 1933, quando lo scrittore vi si trasferì al suo rientro in Italia, dopo gli anni trascorsi a Berlino e a Parigi. Parte della mobilia, in stile fiorentino, risale al 1910 e proviene da precedenti abitazioni dello scrittore (una scrivania, due librerie a vetrine, due savonarola). Acquisti successivi furono invece il grande divano, le poltrone, una seconda scrivania, alcune scaffalature e l’intera camera da letto, in stile razionale.
La biblioteca comprende circa 2.000 volumi appartenuti allo scrittore. Lo studio conserva inoltre gli oggetti d’uso, compresa la piccola macchina da scrivere portatile divenuta un inseparabile strumento di lavoro. Tra i quadri figurano quattro opere del figlio Fausto. Numerosi i manoscritti relativi a poesie, romanzi e drammi.
Lo Studio, oltre ad essere il luogo della scrittura (nei primi anni della permanenza in via Bosio, Luigi Pirandello portava a compimento Pensaci Giacomino! e Così è (se vi pare), era anche luogo di conversazione e ritrovo: il divano e le poltrone accoglievano i suoi incontri con i familiari e con le personalità a lui vicine; ricordiamo, tra gli altri, i nomi di Lucio d’Ambra, Silvio d’Amico, Eduardo De Filippo.
Dalla luminosità e dall’ampiezza dello Studio si passa alla sobrietà di una stanza da letto dalle linee essenziali con un terrazzo dal quale, allora, si potevano scorgere i pini di Villa Torlonia. Gli abiti, i cappelli, il bastone, la divisa della Reale Accademia d’Italia sono ancora conservati nell’armadio.
È in questa stanza che il 10 dicembre del 1936 Pirandello muore.
Di quel giorno, Corrado Alvaro ha tracciato pagine indimenticabili:
Noi entrammo in quel suo studio, ed era pieno di gente, ma di gente agitata, in piedi, convulsa, curiosa, che fumava, si chiamava, parlava ad alta voce, come se il padrone di casa l’avesse invitata a un ricevimento e tardasse a entrare. … Entrai nella camera dove egli giaceva. Era come abbandonata, c’era quel silenzio sterminato sul lenzuolo che lo copriva delineando quel corpo di “povero cristo” … E di là, nello studio, quel chiacchiericcio da ricevimento, come aspettando che egli apparisse. … Il giorno seguente, la nebbia infradiciava gli ultimi fiori secchi di quel giardinetto dietro a quel cancello di via Antonio Bosio. Un povero cavallo attaccato al carro dei poveri era fermo sulla strada bagnata .. La bara di abete tinto da poco con una mano di terra bruna, fu collocata sul carro, e i pochi amici rimasero fermi davanti al cancello a vederla partire verso gli alberi brumosi in fondo al viale.
[Le citazioni di Corrado Alvaro sono tratte dalla Prefazione a Novelle per un anno, Arnoldo Mondadori Editore, 1956, pp. 6-41]
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Biografia di Luigi Pirandello
Luigi Pirandello nasce il 28 giugno 1867 nella contrada Caos nei pressi di Girgenti (oggi Agrigento) da Caterina Ricci-Gramitto e Stefano Pirandello. La famiglia, di tradizione garibaldina e antiborbonica, è proprietaria di alcune miniere di zolfo. Nel 1886 dopo gli studi liceali compiuti a Palermo, Luigi Pirandello rientra a Girgenti, per lavorare con il padre nella gestione di una miniera di zolfo. Nel 1886 si iscrive all’Università di Palermo, per poi trasferirsi nel 1887 a Roma dove frequenta la Facoltà di Lettere, nel 1889, a causa di un contrasto con Onorato Occioni, professore di Lingua e Letteratura Latina, si trasferisce all’Università di Bonn, dove nel 1891 si laurea in Filologia romanza con la tesi Suoni e sviluppo dei suoni nella parlata di Girgenti.
Intanto ha già esordito come poeta con Mal giocondo (1889) e con Pasqua di Gea (1891), raccolta che dedica a Jenny Schulz-Länder, di cui a Bonn si è innamorato.
Nel 1892, fermamente deciso a dedicarsi alla sua vocazione letteraria, si stabilisce a Roma, dove vive grazie ad un assegno mensile del padre. Nell’ambiente letterario della capitale conosce e stringe amicizia con il conterraneo Luigi Capuana che lo esorta a scrivere narrativa. Compone così le prime novelle e il suo primo romanzo, uscito nel 1901 con il titolo L’esclusa. Non abbandona comunque la poesia: escono nel 1895 le Elegie renane, nel 1901 Zampogna, e nel 1912 Fuori di chiave, la sua ultima raccolta poetica. Nel 1894 sposa a Girgenti, con matrimonio combinato tra le famiglie, Maria Antonietta Portolano, figlia di un ricco socio del padre. Si stabilisce definitivamente a Roma, dove nascono i tre figli Stefano (1895), Rosalia (detta Lietta, 1897) e Fausto (1899).
La vita familiare scorre abbastanza tranquillamente ma a partire dal 1903 l’allagamento della miniera di Aragona condiziona negativamente il tenore di vita familiare, e i disturbi nervosi di Maria Antonietta, fino ad allora latenti, si aggravano. Lo stato di alterazione psichica di Maria Antonietta si riverserà sempre più spesso sulla famiglia. Luigi assiste la moglie fino al 1919, anno in cui la donna verrà ricoverata in una casa di cura (dove resterà fino alla morte nel 1959).
Luigi modifica il rapporto fino ad allora totalmente disinteressato con la letteratura ed inizia una fitta collaborazione con diversi giornali e riviste letterarie. Scrive il romanzo Il turno (edito nel 1902) e lavora ai suoi primi testi teatrali. In opposizione all’estetismo dominante, fonda con Ugo Fleres ed altri amici il settimanale letterario «Ariel», dove tra l’altro pubblica il testo teatrale L’epilogo (poi La morsa). Dal 1898 al 1922 insegna Stilistica presso l’Istituto Superiore Femminile di Magistero di Roma.
Nel 1904 esce a puntate sulla «Nuova Antologia» il romanzo Il fu Mattia Pascal; Pirandello riscuote un tale successo che uno dei più importanti editori di Milano, Emilio Treves, decide di occuparsi della pubblicazione delle sue opere.
Nel 1908 pubblica due saggi, Arte e scienza e L’umorismo, grazie ai quali ottiene la nomina a professore universitario ordinario. L’anno successivo pubblica la prima parte del romanzo I vecchi e i giovani che ripercorre la storia del fallimento e della repressione dei Fasci; la seconda parte uscirà in volume nel 1913. Del 1911 è anche il romanzo Suo marito. Nel 1915 pubblicherà il romanzo Si gira …, ristampato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Nel 1915 l’Italia entra in guerra e il figlio Stefano parte volontario, presto viene fatto prigioniero nel campo di Mauthausen prima e in quello di Plan poi. La prigionia di Stefano durerà tre anni, il periodo è testimoniato da un intenso scambio epistolare tra padre e figlio.
Gli anni della Grande Guerra, sono vissuti da Luigi ancora più dolorosamente per la perdita, nel 1915, dell’amata madre Caterina.
Nel 1916 e nel 1917 scrive alcune delle più celebri opere in dialetto siciliano poi tradotte in italiano: Pensaci, Giacuminu!, ‘A birritta cu’ i ciancianeddi, Liolà, ‘A giarra; Cappiddazzu paga tuttu, ‘A vilanza, La patente; sempre nel 1917 scrive Così è (se vi pare), Il piacere dell’onestà, L’innesto, Ma non è una cosa seria; nel 1918 – anno in cui viene rappresentato Il giuoco delle parti – esce il primo volume di Maschere nude, titolo sotto cui Pirandello raccoglie i suoi testi teatrali.
Nel 1920 vengono pubblicate Tutto per bene, La Signora Morli, una e due, Come prima, meglio di prima.
Il 1921 è un anno fondamentale per il suo teatro: il 10 maggio la compagnia Dario Niccodemi mette in scena al Teatro Valle di Roma Sei personaggi in cerca d’autore: mentre a Roma la commedia da fare viene accolta tra contrasti, Pirandello raggiunge il grande successo internazionale.
Nel 1921 inizia la stesura di Enrico IV che in una lettera a Ruggero Ruggeri egli stesso definisce una delle sue opere più originali; la tragedia di Enrico IV rappresenta il primo incontrastato successo di Luigi Pirandello. Nel 1922 esce il primo volume della raccolta Novelle per un anno. La sua produzione teatrale prosegue con Vestire gli ignudi (1922), L’uomo dal fiore in bocca (1923), La vita che ti diedi (1923), Ciascuno a suo modo (1924).
Nel 1923 Adriano Tilgher pubblica Studi sul teatro contemporaneo con cui offre la prima interpretazione del teatro pirandelliano in cui chiarisce la presenza nell’opera di Luigi Pirandello del contrasto tra la vita e la forma. A Pirandello inizialmente piacque l’analisi tilgheriana ma nel tempo la ritenne troppo limitante e qualche anno dopo il rapporto tra i due si interruppe.
Nel 1924 Pirandello si iscrive formalmente al partito fascista; l’anno seguente inizia l’esperienza del capocomicato con l’avventura del Teatro d’Arte che durò tre stagioni teatrali, dal 1925 al 1928, prima nella sede stabile del Teatro Odescalchi a Roma poi con l’esperienza della Compagnia nomade che portò nel mondo le innovazioni teatrali dell’autore-regista. Per la serata inaugurale del Teatro d’Arte (2 aprile 1925), Pirandello scelse l’atto unico La Sagra del Signore della Nave composto nel 1924. L’interprete per eccellenza delle sue scene è l’attrice Marta Abba, conosciuta nel 1924 a cui Pirandello resterà legato tutta la vita.
Nonostante l’adesione formale di Pirandello al Partito Fascista, il suo stile di vita ed il pensiero espresso dalla sua arte non erano certo allineati alla “filosofia” fascista, tanto meno lo erano i suoi personaggi; non si può infatti definire Pirandello un intellettuale fascista.
Nel 1926 esce in volume il romanzo Uno, nessuno e centomila al quale l’autore aveva lavorato per molti anni; nel 1926 e nel 1927 scrive Diana e la Tuda, L’amica delle mogli, Bellavita.
Nel 1928, sciolta la sua Compagnia, Pirandello inizia gli anni del suo volontario esilio, Berlino prima, Parigi poi.
La nuova colonia (1928) inaugura l’ultima stagione pirandelliana, quella fondata sui «miti» moderni, che prosegue con Lazzaro (1929) e culmina nell’opera incompiuta I giganti della montagna. Nel 1929, mentre si trova a Berlino, è nominato membro della Reale Accademia d’Italia, parteciperà all’inaugurazione dell’Accademia alla presenza di Mussolini.
Sempre nel 1929 termina la stesura di O di uno o di nessuno e dell’atto unico Sogno (ma forse no), che verrà rappresentato la prima volta a Lisbona nel 1931; nel gennaio del 1930 a Königsberg avrà invece luogo la prima rappresentazione di Questa sera si recita a soggetto; seguono Sgombero (1931), Trovarsi (1932), nel Quando si è qualcuno (1933). Nell’aprile del 1933 prima proiezione a Roma del film Acciajo, tratto dal regista tedesco Walter Ruttmann dallo scenario di Pirandello Gioca, Pietro! (musiche di Gian Francesco Malipiero). Alla fine del 1933 si stabilisce a Roma in un appartamento in via Antonio Bosio, nella stesso villino alloggia il figlio Stefano con la famiglia. Una volta rientrato in Italia, ritorna ad occuparsi del suo progetto di fondare il Teatro di Stato, un teatro d’arte con una sede stabile; fino alla fine dei suoi giorni sperò – invano – che il Partito lo aiutasse concretamente a realizzare il suo grande sogno.
Nel gennaio 1934, a Braunschweig, va in scena l’opera di Malipiero su libretto di Pirandello La favola del figlio cambiato: nonostante il successo di pubblico e di critica le autorità naziste vietano le repliche dell’opera; nel mese di marzo La favola andrà in scena al Teatro dell’Opera di Roma alla presenza del Duce il quale, irritato, ne proibisce ogni replica.
Nel mese di ottobre Pirandello presiede il IV Convegno della Fondazione Alessandro Volta dedicato al Teatro Drammatico; per l’occasione metterà in scena La figlia di Iorio di d’Annunzio al Teatro Argentina di Roma.
Il 10 dicembre 1934 a Stoccolma gli viene consegnato il Premio Nobel per la Letteratura «per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte del dramma e della scena».
Nel 1935 proseguono i suoi tentativi con il Duce per realizzare un Teatro di Stato che non si farà mai, alla fine del 1935 prima rappresentazione di Non si sa come al Teatro Argentina di Roma.
Nel 1936, deluso dal disinteresse del Partito per il suo grande progetto teatrale, Pirandello si dedica alla promozione di Marta Abba sulle scene americane. Numerosi i viaggi in Italia e all’estero, ma anche i momenti trascorsi con i familiari e gli amici più intimi. In dicembre si ammala di polmonite mentre segue le riprese del film di Pierre Chenal L’homme de nulle part tratto da Il fu Mattia Pascal. Muore nella sua casa di via Antonio Bosio il 10 dicembre 1936.
Tra le sue carte si scoprono le ultime volontà da rispettare. Il giorno dopo la morte, un carro funebre solitario si avvia verso il cimitero del Verano dove il suo corpo verrà cremato. Le ceneri sono conservate al Caos, in una roccia all’ombra del famoso pino solitario non lontano dalla casa natia di fronte al mare africano.
Dina Saponaro – Lucia Torsello, Profilo Biografico,
in Luigi Pirandello, Opere,
a cura di Franca Angelini
Illustrazioni di Mimmo Paladino
Classici Treccani,
I grandi autori delle Letteratura Italiana
Collana diretta da Carlo Maria Ossola,
Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Roma, 2012.
MUSEI GRATUITI A ROMA
ROMA- La città eterna offre delle perle di storia e arte senza chiedervi di mettere mano al portafogli. Sono almeno 20 i musei di Roma che prevedono ingresso gratuito tutto l’anno tra cui la collezione privata di Carlo Bilotti, l’imprenditore che ha donato al comune di Roma il proprio “bottino” di opere di DeChirico, Warhol, Rotella e Severini. Anche il museo Napoleonico e della MemoriaGaribaldina, a Roma, sono gratis. Noi però vi consigliamo di visitare lo studio di Pirandello, visto che di arte a cielo aperto farete indigestione a Roma, e considerato che sicuramente avrete scelto di visitare le cose imperdibili come la Cappella Sistina o il Colosseo. E quindi in una Roma “letteraria” e meno iconica e simbolica della sua stessa storia, potete andare a vedere lo studio, che si trova sulla Nomentana, di uno dei maggiori artisti della parola. La casa è stata trasformata in museo e conserva arredi, biblioteca e cimeli originali, così come sono stati lasciati dal Pirandello.
Yolanda Bedregal ((21 September 1916 – 21 May 1999))-Poetessa e scrittrice boliviana, nota anche come Yolanda di Bolivia. La sua poesia, affine agli inizi al Simbolismo, esalta i sentimenti comuni agli esseri umani con linguaggio chiaro e preciso, virando verso una visione più religiosa.
L’AUTUNNO DEI TUOI PARCHI, NEW YORK
*
Chi ha cantato, New York, la dolcezza dei tuoi parchi in autunno?
Chi ha sentito il fruscio dei tuoi baci d’oro
quando l’albero ossuto ha lasciato cadere le foglie
brune nella fucina del ventre della roccia?
Ogni foglia che cade non è forse un tuo pensiero?
Città, perché la gente ti guarda con stupore
come se fossi un mostro dagli occhi milionari?
Perché tutti ti cercano nell’elevazione dell’acciaio
e nessuno nella dolcezza dei tuoi parchi in autunno?
Ho percorso da sola i tuoi grandi viali,
dimenticando la tua severa struttura metallica,
sottomessa solo alla terra su cui posi;
avevi tanta nostalgia di uno sguardo umano
che la terra sorrideva sentendo che la amavo.
Forse è per questo, città di New York,
che ti ho sentito mia, come una fata madrina
quando, attraversando i tuoi parchi, le foglie mi seguivano
con un mormorio profondo, muto tra i rumori,
mettendo a tacere la loro angoscia di soli infranti.
Ho amato la tua erba secca quando soffiava il vento
dei primi freddi in caduta verticale.
Ho amato i secchi filari di tronchi spogli
che sembravano bambini affamati in casa
di un avaro magnate, o lavoratori congelati
nello sciopero forzato da giorni senza pane.
Città, quanto ti amo pensando alla tua nebbia!
È così che sei più intima e più tu,
con gli occhi chiusi davanti a un cielo arancione,
inviando il tuo messaggio al fiume in cui si culla
la commovente lacrima dell’esistenza umana.
Città, ti conosco perché ti ho baciato i piedi
nell’erba gialla del tuo parco muto.
Città, ho visto i tuoi alberi scrivere geroglifici
sulla pagina aperta del cielo biancastro
fini tracce scure di segno terreno
e poi ho udito il canto liturgico degli esseri
che in solenne processione dimorarono nelle tue viscere.
Ho visto sulle tue fredde banchine galleggiare le grandi navi,
e anche la vela più alta a stelle e strisce,
dall’acqua sorgeva il tuo cuore nascosto;
ed era solo l’ombra della mia mano nell’addio
che accarezzava la carena gravida dei tuoi viaggi.
Ho visto i tuoi ponti scavalcare il tumulto della gente,
ragnatele giganti di meditazione.
Ho sentito nella notte la tua voce intima gonfia
di un respiro caldo come un seno sognante.
Mi sono sentita piccola nella tua rete di luci
(ma c’era Aladino a guidare i miei passi)
e mi hai dato ombre, riflessi, folla, solitudine.
New York, città intima, come ho saputo amarti
negli angoli lontani dove sei più tu!
Chi ha cantato, New York, la dolcezza
autunnale dei tuoi parchi?
Dammi quella voce amica per continuare a chiamarti
forte nel nobile flusso del tuo Hudson.
Dammi quella voce amica per continuare a chiamarti
nell’erba arida che i tuoi sandali dorano.
Dammi il vento dei moli, la mano dei tuoi ponti.
New York, continuo ad amarti nei tuoi parchi
come un’altra foglia bruna nel tuo vento d’autunno.
—————————————————–
Me llegaré al altar del hombre
en ofrenda de huída y rebeldía.
Hombre de ahora y de siempre,
abre tu mano a recibirme
y levántame al cielo como una hostia
aunque soy sólo pétalo de lágrima.
Hombre nuevo y eterno,
escúchame.
Sobre tu pecho roto
llamo y clamo.
Mi palabra golpea
-obsesionante ala obsesionada-
contra las sienes.
Mi palabra del grito
te taladra la frente,
sangre de luz de la herida
bautizará por un instante,
hombre frágil,
a la mujer eterna.
Eterna como el sueño fugaz.
Yo te miro sin ojos desde siempre.
tú me llevas en ti desde que existes.
Si antes no lo sabías,
ahora
ya no lo puedes olvidar.
Yo he crecido en el mar
sobre una ola que se alargó
para volverse tallo.
En ese tallo de agua limpia
he subido a mirar a los ojos de Dios.
Ahora me inclina un hálito a tu mano,
y estoy en ti como la mujer muerta
por la que todos los hombres han llorado.
Tú también has llorado
por tu hija, por tu madre,
por la mujer eterna de cuya muerte vives.
Ya no lo puedes olvidar.
Cuando tus ojos caminen en la sombra,
sentirás todavía por el cuerpo
una dulzura amarga y tibia:
beso en las palmas juntas
y una paloma que huye de tus dedos.
Con mi cara de piedra
yo estoy en la otra orilla.
Existo para ti en este momento;
y para mí no existo
porque soy más que eterna en cinco letras.
En el altar de Hombre fuerte como la vida,
hombre de hierro y hielo,
metal, sangre y espíritu,
cae la ofrenda íntegra
de la mujer lejana.
Mujer de canto y llanto
eterna como el sueño.
Alegato inútil
Cada día tenemos más salobre la saliva.
La migaja se crispa
ante la entornada puerta del perdón.
Cada día se saltan a las uñas
los dos niños morenos de los ojos
que fueron ángeles despiertos
a celestes honduras.
¿Con qué habrá de rematar el alegato
que está y en el tope del sollozo?
Cada hora se ha hecho voraz
como engranaje de colmillos;
los pasos se han desacostumbrado
a la caricia de la grama húmeda;
el aire avanza granizado de saetas.
Conduélete, Señor, a ti clamamos.
¡Así tu mundo tambalea!
No somos Job, oh Padre; ¡no te tornes padrastro!
¿Acaso estás enfermo, o te pudres
con este vaho que te sube desde nos?
No te tornes padrastro, buen Dios.
Sonríe una vez sobre tu Hechura.
Regresa a tu niñez de Primer Día
cuando soplabas burbujas de color
y te brotaba de las sienes
boscaje y pleamar.
Eras entonces sin arrugas,
y era tu barba de cristal
lira entre los dedos de la luz.
Sonríe, Padre, sobre el Libro mancillado,
y todos en Tu nombre
escribiremos PAZ.
La simple trinidad de una palabra:
bandera universal para soñar;
hostia de comunión para construir;
extramaunción para vivir.
Perdona, Dios, esta mi turbia arena…
Canción de la esperanza
Canción de la esperanza
en el camino inútil
de mi vida, tus manos
cruzan como dos alas
cargadas de ternura
Elegía humilde
Un auto ha arrollado a la vieja sirvienta
¡La pisó como una hoja!
Era una flor del campo, toronjil, yerbabuena.
En la casa hubo duelo
por su muerte de plata.
Esta mujer oscura de noble cepa aymara
endulzaba la vida de seres y de cosas.
Llena está nuestra infancia de su imagen
de Mamita Copacabana;
debajo de su manta de castilla
siempre traía la sorpresa
de frutas, empanadas o juguetes.
¡Ay dulce abuela nuestra
de las macetas y del canario!
Tendida en su mortaja,
con unción le besamos las santas manos toscas
quietas por fin del cotidiano afán.
Parecían avergonzadas del reposo;
dos angelitos blancos bajaron a cubrirlas.
Su nombre era Mama-Usta, y nada más.
Las hadas humildes sólo tienen un nombre
pero es varita mágica de gracia y bendición.
De la mano llevaba a mi padre a la misa;
la conocieron los abuelos y bisabuelos.
Era lazo entre el ahora y lo perdido.
Todo lo daba, todo, su bondad y su alegría,
el cobre de la dádiva, el óleo del consuelo.
Cual sombra milagrosa
colmaba de manjares la olla de cada día,
y con agua y con sol daba celajes
a los visillos y manteles.
Ella prendía el fuego del hogar.
Un auto la ha matado. ¡Ay, Dios mío!
Su frente estaba herida
y su cuerpo, nunca tocado,
salpicado de barro.
Cuando llegaba al cielo,
con un solo zapato, la falda desgarrada
un coro de jilgueros le cantaba aleluyas.
Con humilde inocencia, debió de imaginar
que era fiesta pascual para nosotros.
-¿Como para ella el aleluya?
¿Como para ella nuestro llanto?-
Sencilla y limpia entró en la gloria
cuidando todavía la canasta
para la cena de hoy.
Nuestra Mama Usta ha muerto.
¡Ay canario, ay macetas, patio y agua!
Final
(Fragmento)
Ansiosa, ansiosa, ansiosa
como los cuerpos jóvenes,
allí donde quiebra la inquietud de los hombres,
allí donde diluyen su anhelo las mujeres,
en ese mismo límite
yo soy la curva flecha
que se lanza a sí misma.
Salí del duro sueño
que se rompió la quilla
contra la fina arista de mi primer naufragio.
Era mi nave nueva,
era mi sueño intacto.
Eras tú, marinero, un marinero abstracto
que me echaba en sus hombros -San Cristóbal enorme-
y yo un rosado peso: pétalo sin historia.
¿Ahora qué? Yo me digo.
El amor sólo existe en el borde del beso.
¿Y después? En el borde del sueño.
¿Y después? En el borde del mundo,
donde los hombres trizan su propia vida trunca
y donde las mujeres se alegran con las lágrimas.
En ese mismo borde
me detuve de súbito.
Me desnudaba el aire.
Por mis piernas subían suaves hilos rosados,
los senos me brotaron como pequeñas lunas.
Mi voz era la muda
rugiente voz de todas las mujeres del mundo.
Tres pinceladas ágiles
escribieron tres puntos en cruz sobre mi cuerpo.
En ese mismo borde
se me quedaron quietos
los breves pies errantes.
Mis brazos levantados
hacían señas largas
a los astros maduros.
Nieblas, nubes en polvo y líquidos arcoiris,
sangre de estrellas rotas, harapos de los mares
todo estaba caído en mis ojos cerrados
porque unos raros pájaros me arrancaron los ojos.
Ahora qué ¡Yo me dije!
Amor para mis quietos pequeños pies clavados.
Amor para mis ojos en el pico de un ave.
Para aquellos que saben desenterrar un sueño.
Los hombres están tristes porque el amor es eso.
Ya no te llamo ahora.
Ahora mi carne joven
tiene pequeñas lunas
y es más fácil hundirse
en el mar que en la tierra.
Holocausto
Oh Cristo, yo quisiera de tu augusta cabeza
desclavar los espinos; endulzar tu martirio;
darte mi adolescencia como incienso en delirio;
alabándose en salmos, restañar tu tristeza.
Te volcaría en mi alma con la dulce certeza
de corporal expolio a cabezal de lirio.
Me inmolaría entera como ala sobre cirio.
El humo, en holocausto de mi cuerpo ofrendado
empapada en perfume la esponja de la hiel
y, unida entre llaga, mi vida en tu costado.
La culpa redimida y el mundo sin pecado
a la ultima palabra de Dios crucificado,
urgiría con rosa de amor tu humana piel.
Juan Gert
Mi sueño se hizo dulcemente cal.
La bóveda perfecta de tu cráneo
enclavada en la mariposa de mis huesos
es frágil tulipán
coronando las alas abiertas de la pelvis.
Sacas el molde al mundo
en mi cintura breve;
recogido y devoto como un rezo,
hilas con mi sangre el Universo,
hijo mío.
Creces dentro de mí
como en vaso ritual.
Por ti conozco
la humildad de ser la tierra fértil,
por ti el orgullo del vital milagro;
por ti soy urna bíblica,
por ti soy comunión y penitencia.
Por ti la muerte en su medalla acuna
perfil de piedra en querubín de niebla.
El vivo tulipán de tu cabeza
saca de nuevo el molde al Universo.
Nacimiento
Ultimo día del invierno y primero de la primavera.
Ultimo día de la tibia tiniebla de la entraña
para entrar en la fría luz del mundo.
Yo estaría madura de la sombra, de la nada,
del amor: madura de la carne en que crecía.
Y asomo mi cabeza con un grito:
flor de sangrante herida
cúspide lúcida del dolor mas hondo
jubiloso momento de tragedia!
Mi madre habrá tenido sus ojos, lacrimosa,
a la semilla de las cruces.
Nadie pensaba entonces que relojes
de cuarzo o girasol la esperarían.
Al vórtice de esta hora, cuantos muertos
habrá resucitado en el vagido
que tenia la alcoba de luz verde.
Yo habría de cumplir cuantos designios,
tendría que repetir la mascara de algún antepasado
quién sabe la ponzoña de su alma, o su nobleza;
realizar sus venganzas, restañar sus fracasos.
Venir de la resaca de unos seres lejanos
que se amaron un día
que se encadenaron con la vida
ser argolla mas de esa condena.
Saber que somos frutos de un punto de alegría
y ese germen, ¡Dios mío!
desde qué grietas sube, de qué simas?
De la tibia tiniebla a la luz fría
hendiendo vida y muerte
la frágil levadura su eternidad mordida.
Rebelión
Miraba yo la pampa inmensa soñando con el mar.
Miraba yo la pampa tensa, tan alta, tan serena,
tocando con el cielo su frente de cristal;
un acorde de grises y violetas su manto,
que altura en la belleza!
que altura en la belleza!
que majestad estática en el día altiplánico!
De pronto un niño llora.
Entre la paja brava, con su ponchito viejo
llora un niño. Por que?
Quien sabe…
El indio aymará se lleva el grito en su raza,
y su clamor innato
desgarra la serena nobleza del paisaje.
Un niño, un llanto humano es una herida abierta
que ensangrienta este mundo.
Tiemblan y se estremecen los monolitos míticos:
se rompen y entreveran los caminos de paz.
Hay maldad en la tierra.
Arde lo que era de hielo.
Las palabras suaves se crispan en los puños
desafiando al relámpago.
Corro sobre la pampa desaforadamente;
me quema el corazón como una brasa.
Hay maldad en la tierra, hay injusticia.
Quizás mas lejos halle la bandera que busco.
Quiero la gleba abierta con sus labios de surcos
como un libro de música.
Quiero que se calme este llanto de niño
que es llanto del mundo.
Resaca
Cuando ya la resaca deje mi alma en la playa,
y del arco agobiado de mi espalda se vaya
el ala cercenada, cual vela desafiante,
en cicatriz y estela prolongará el instante.
Quedarán vigilando, símbolo intrascendente,
dos pobres ojos pródigos y una mendiga frente.
¡Catacumba de agua, amor! ¡No me conoces!
Ni nadie nos conoce. Sólo hay fugaces roces,
desencuentros, en la prieta mudez de encrucijadas.
Expían su demora presencias nunca halladas.
No son cruz ya los brazos ni altar para holocausto
de salvajes ternuras. Con su claror exhausto,
un sol desalentado ahonda los abismos.
Somos polvo y lucero, todo en nosotros mismos.
Para esta elemental ceniza taciturna
sea la inmensa lágrima del Mar celeste urna.
Salada savia
Padre mío, el invierno -espada de tu muerte-
sus varillas de hielo sobre mi pecho inclina.
Crujen las hojas secas en desolada sombra
al filo del minuto que te arrancó a la luz.
Ya no hablaremos nunca del verdeciente pino
aunque giren los meses hacia la primavera;
yo veré conmovida hundirse contra el cielo
la erguida copa oscura, y ya estarán tus ojos
perennemente mudos en el carbón azul.
Se esponjarán los días, descenderán las noches
hacia asoladas playas del Siempre y del Después,
mas la salada savia del amor está herida
al filo el minuto que te quitó de mí.
Contigo platicamos del trino y la gavilla,
del papel y el amigo, la reja y la parábola,
del agridulce zumo en el cristal humano.
Fraternales rondaban por tu voz de maestro
San Francisco de Asís, Don Quijote y Jesús.
Padre mío, en las horas del hogar apacible
devanamos la lana del cotidiano afán;
y siempre tu sonrisa tendía el hilo de oro
que bendecía el agua y suavizaba el pan.
Presagio de ventura, flotaban nuestros nombres
con halo de alegría si los decías tú.
Hoy me duele hasta el nombre que tú ya no pronuncias
y me pesan las manos tendidas hacia ti.
Tus ojos amparaban la senda de mi verso.
Mi infancia en tus rodillas todavía mecía
la muñeca de trapo que el tiempo sepultó.
Ahora me llueven años por cada hora que faltas.
Nuestro pino ha llorado hasta su último espino.
Aúlla la madera de su sillón vacío;
los platos en la mesa tienen sonido a roto;
las pisadas resuenas indagando algún eco.
Esta salada savia del amor se hace niebla
al filo del minuto que te llevó a la luz.
Tus manos
Canción de la esperanza
en el camino inútil
de mi vida, tus manos
cruzan como dos alas
cargadas de ternura.
Viaje inútil
Para qué el mar?
Para qué el sol?
Para qué el cielo?
Estoy de viaje hoy día
en viaje de retorno
hacia aquella palabra sin orillas
que es el mar de mi misma
y de tu olvido.
Después de que te he dado mar y cielo
me quedo con la tierra de mi vida
que es dulce como arcilla
mojada en sangre y leche.
Ahora me sobra todo lo que tuve
porque soy como acuario y como roca.
Por mi sangre navegan peces ágiles
y en mi cuerpo se enredan las raíces
de unas plantas violetas y amarillas.
Tengo en la espalda herida
cicatrices de alas inservibles,
y un poquito en mis ojos todavía
hay humedad inútil de recuerdos.
Pero, que importa todo esto ahora?
cuanto estiro los brazos y no hay nada
que no sea yo misma repetida.
Acaso no soy mar y no soy roca?
Misterios de colores en mi vida
suben y bajan en mareas altas
y extraños animales y demonios
se fingen ángeles y helechos en mis grutas.
Están además el mar, el sol, la tierra.
Ahora que he vuelto de un amor inmenso,
tengo ya en la palabra sin orillas
lo que pudo caber entre sus manos.
Origine e diffusione-Franco Leggeri Fotoreportage-La Maremmana è conosciuta come la razza della maremma toscana e laziale, e discende dal Bos Taurus Macroceros, il bovino dalle grandi corna (razza grigia della steppa) che dalle steppe asiatiche si è diffuso in Europa. I reperti archeologici di Caere (Cerveteri) e la testa taurina del museo di Vetulonia sono la conferma che la razza Maremmana occupava le attuali aree di allevamento (maremma toscana e laziale) fin dai tempi degli Etruschi. Nel tempo i bovini sono stati poi esportati in varie zone e diversi Paesi. Ad esempio, i Granduchi di Toscana esportavano i tori maremmani nei loro possedimenti in Ungheria per rinsanguare la razza Pustza. Con la progressiva bonifica dei terreni paludosi, la razza ebbe un notevole impulso tra le due guerre mondiali, grazie anche ad una intensa opera di selezione. La Maremmana in passato era una razza “da lavoro” e “da carne” ed il secondo dopoguerra, contraddistinto dalla meccanizzazione agricola e dalla riforma agraria, è stato l’evento che ha portato alla sua diminuzione in termini numerici. Oltre ciò, anche gli incroci hanno ulteriormente ridotto il numero dei capi in purezza.
Oggi continua il mantenimento e la valorizzazione della razza Maremmana che è conosciuta come “razza da carne”, ma anche come simbolo di biodiversità.
Questa razza è diffusa maggiormente nella sua culla d’origine, ovvero nelle regioni Lazio e Toscana, in particolare nelle province di Grosseto, Viterbo, Roma, Terni, Latina, Pisa, Livorno e Arezzo, ma possiamo trovare bovini maremmani, in minor numero, anche in altre regioni, come Marche, Umbria, Basilicata e Puglia. L’interesse verso questa razza è cresciuto anche da parte di operatori stranieri, in particolare spagnoli e centro americani, che vedono nella Maremmana il mezzo ideale per la valorizzazione di ambienti particolarmente difficili.
L’allevamento è di tipo brado: gli animali vivono all’aperto per tutto l’anno, riparandosi nelle macchie durante l’inverno. Le mandrie al pascolo vengono gestite, ancora oggi, dai butteri in sella ai cavalli maremmani. In primavera avviene la marcatura a fuoco dei soggetti di 1 anno e le vacche vengono imbrancate con i tori. La stagione delle monte dura circa 3 mesi: vengono formati dei gruppi di monta in cui il toro viene inserito con un rapporto di 1:20/30. Riguardo l’alimentazione, oltre all’erba di pascolo e ghiande dei boschi, vengono integrati fieno e granaglie; i bovini maremmani può essere somministrato anche foraggio di qualità inferiore.
Associazione allevatori
Nel 1957 è stata fondata l’Associazione Nazionale Allevatori Bovini da Carne (ANABIC) con sede a S. Martino in Colle (PG), che promuove il miglioramento genetico, valorizza e diffonde le razze bovine autoctone italiane (Marchigiana, Chianina, Romagnola, Maremmana e Podolica) e detiene il Libro Genealogico Nazionale unico delle Razze Bovine Italiane da Carne, il cui Regolamento fu approvato nel 1969. L’associazione partecipa anche alle iniziative di carattere promozionale e divulgative, collabora ai programmi di ricerca degli Organismi statali competenti ed Università, e fornisce l’assistenza tecnica agli operatori stranieri interessati ad allevare le Razze Italiane.
Consistenza
I capi di razza maremmana iscritti all’ANABIC* sono 11593. Le regioni più rappresentative della razza sono quelle d’origine: il Lazio (con 8844 capi e 168 allevamenti) e la Toscana (con 2543 capi e 65 allevamenti). E’ diffusa anche in altre regioni italiane come Basilicata (con 93 capi e 5 allevamenti) e Puglia 8con 86 capi e 3 allevamenti).
Secondo i dati della BDN – Anagrafe Nazionale Zootecnica (aggiornati al 31/12/2020), che include anche i capi iscritti, in Italia sono allevati 14785 bovini di razza Maremmana. Nel dettaglio, in base alla categoria di animali sono così suddivisi in: 809 da 0 a 6 mesi, 2059 da 6 a 12 mesi, 1715 da 12 a 24 mesi, e 10202 da 24 mesi in su. In particolare, nel Lazio sono presenti 10269 capi ed in Toscana 3468, in totale.
Caratteristiche morfologiche
I bovini maremmani sono di taglia grande e sono caratterizzati da elevata rusticità, solidità, robustezza scheletrica e tonicità muscolare. Inoltre, sono longevi e raggiungono anche i 15-16 anni di età.
Di seguito sono riportate le caratteristiche morfologiche indicate dallo “standard di razza”.
La grande struttura ossea è leggera, gli arti sono molto solidi, gli unghioni sono duri, gli appiombi sono generalmente perfetti ed i piedi sono forti e ben serrati, con talloni alti. La capacità addominale è idonea a contenere alimenti a bassa digeribilità, e il dorso è lungo e largo. La pigmentazione è nera nelle parti del musello, fondo dello scroto, nappa della coda ed unghioni. La persistenza di peli rossi è limitata alla regione del sincipite, la coda è grigia e la depigmentazione è parziale nelle aperture naturali. La cute è fine, elastica e nera. La testa è leggera, con musello ampio.
Il dimorfismo sessuale in questa razza è rappresentato dal colore del mantello e dalla forma delle corna. Il mantello è di colore grigio, più scuro nei tori e più chiaro nelle vacche. Le corna sono un tratto caratteristico della razza: a forma di semiluna nei maschi ed a forma di lira nelle femmine; negli adulti il colore delle corna è bianco-giallastro alla base e nero in punta.
Maschi: per i tori il peso medio è di 10-12 quintali e l’altezza media è di 150 cm. Hanno il mantello grigio scuro. Il collo è ben proporzionato e muscoloso con giogaia sviluppata; il profilo superiore è marcatamente convesso.
Femmine: per le vacche adulte il peso medio è di 6 – 8 quintali e l’altezza media è di 145 cm. Le bovine hanno il mantello grigio chiaro, il collo è lungo e leggero con giogaia sviluppata, e il profilo superiore è più rettilineo. La mammella appare sviluppata e vascolarizzata, con tessuto elastico e spugnoso, quarti regolari e con capezzoli ben diretti e di giuste dimensioni per l’allattamento. I parti sono spontanei e sono concentrati in primavera. Le vacche possiedono una spiccata attitudine materna ed assicurano una produzione di latte abbondante per l’accrescimento giornaliero del vitello ( > 1 kg).
I vitelli nascono con i mantello color fromentino che, dopo 3 mesi d’età, diventa grigio. Alla nascita pesano 30-40 kg e rimangono con la madre fino ai 6/7 mesi d’età. Vengono poi svezzati e venduti, oppure rimangono in azienda per l’ingrasso.
*(dati ANABIC aggiornati al 31/12/2020): le consistenze del Libro Genealogico includono sia gli animali iscritti ai Registri Principali Vacche e Tori, che hanno almeno due generazioni di ascendenti note (definiti dalla normativa comunitaria “di razza pura”), sia quelli iscritti al Registro Supplementare Vacche ed al Registro del Giovane Bestiame, che, pur appartenendo alla razza ed essendo iscritti al Libro, non possiedono una genealogia completa fino alla seconda generazione.
Fonte-Rivista online: RUMINANTIA®Web Magazine del mondo dei Ruminanti
Carlo Levi- “Cristo si è fermato a Eboli”-Articolo di Luana Favaretto-
Carlo Levi- “Cristo si è fermato a Eboli” e “Le parole sono pietre”-Articolo di Luana Favaretto-Il primo titolo è un capolavoro della letteratura italiana che tutti conoscono, almeno per notorietà, ed è quello che è capitato anche a me, conoscerlo per “sentito dire”, tanto che l’ho lasciato lungamente languire sugli scaffali di casa. La trama bene o male l’avevo intuita, trattarsi di un romanzo autobiografico dove Carlo Levi, scrittore e pittore antifascista, racconta il periodo di confino, dovuto alle sue idee politiche per l’appunto, in un poverissimo paesino della Basilicata, dove per miseria, malattia, arretratezza, si è rimasti indietro nel progresso, per la maggior parte degli abitanti, quasi ai livelli dei tempi della schiavitù. Cristo si è fermato ad Eboli perché ad Aliano (Gagliano come viene citato nel libro nella versione dialettale) la civiltà non è mai arrivata. Sia che si tratti di mezzadri, sfruttati all’estremo, o di piccolissimi proprietari terrieri, la terra non rende, soprattutto se le disposizioni che vengono dalla lontanissima, in tutti i sensi, Roma, impongono di piantare grano dove al massino si potrebbero coltivare degli olivi. La religione non aiuta, anzi i suoi rappresentanti sono spesso mal visti in quanto esigono a loro volta offerte e derrate alimentari. La sanità è inesistente, i medici del paese non svolgono con responsabilità il loro lavoro, i poveri che non possono pagare non vengono curati, e le farmacie vendono a caro prezzo prodotti alterati e pressoché inutili. La gente ignorante si imbroglia meglio. Carlo Levi si trova ad affrontare situazioni, in cui viene coinvolto suo malgrado, inumani e tali da provocare una grande indignazione. Ma le persone sono abituate al giogo della povertà, c’è una rassegnazione di fondo terribile, anche se qualche volta “il popolo alza la testa”, non sempre con i risultati sperati.
Tutto il romanzo è scritto in modo impeccabile, con uno stile e contenuti di altri tempi certamente, ma sempre molto scorrevole e soprattutto si legge tra le righe lo sguardo del pittore. Sia che ci faccia vedere, attraverso la scrittura, un paesaggio, o gli occhi delle persone che incontra per strada, o la bellezza di un volto, il suo è un guardare e un sentire in modo intensissimo. Ovviamente il pregio maggiore del romanzo è dato dalla denuncia sociale della degradazione di un popolo.
Letto questo cosa ci si può aspettare da “Le parole sono pietre” cronache dei viaggi di Carlo Levi in Sicilia, questa volta, durante La Riforma Agraria, se non altrettanta fascinazione e nello stesso tempo indignazione? Sarà che leggendo le tappe raccontate da Levi nella splendida terra di Sicilia ho ripercorso l’itinerario di una mia lontana vacanza alla scoperta di quest’isola meravigliosa ma non ho potuto non rimanere incantata. Nello stesso tempo non si può non arrabbiarsi per i soprusi che come sempre colpiscono i più deboli. Ci si rende anche conto che poco o nulla cambia nel tempo, una politica lontana che spesso è solo propaganda e autoincensamento cala sulle teste dei contadini iniziative e aiuti non concordati con chi ne necessita. Basti pensare alla mucca “Bellavita” affidata dallo Stato ad un agricoltore, bellissima, bianca, imponete in mezzo alla stalla con una coroncina di fiori in testa. Lui racconta a Carlo Levi che è l’unica a fare bella vita in famiglia! Loro avevano chiesto mucche da latte, gli hanno dato questa, da lavoro, che non può essere venduta né macellata, ma che non può essere utilizzata per il lavoro dei campi in quanto essendo questi lontani 4 ore di cammino la mucca ci arriverebbe esausta. Così la devono pure mantenere.
Roma lontana, lontanissima.
Lettura consigliata, sicuramente, per i ritardatari che come me che avessero rimandato l’immersione in questo capolavoro.
Biografia di Carlo Levi-Nacque a Torino il 29 nov. 1902 da Ercole e da Annetta Treves.
I genitori appartenevano entrambi alla media borghesia ebraica: il padre era rappresentante di una ditta inglese di tessuti; la madre era sorella del leader socialista riformista Claudio Treves.
Nel 1904 la famiglia si stabilì nella villa costruita al n. 11 di via Bezzecca, destinata a diventare il cuore degli affetti infantili e adolescenziali del L.; le frequentazioni maschili (A. Lucca, F.M. Bongioanni, N. Sapegno) e femminili (le sorelle Nella, Ada e, particolarmente, Maria Marchesini), gli studi al liceo Alfieri e l’iscrizione alla facoltà di medicina dell’Università di Torino scandiscono le tappe di un percorso di formazione illuminato dall’incontro, avvenuto nel novembre 1918, con P. Gobetti: “Scrivere di Piero Gobetti, significa, per noi della nostra generazione, fare della autobiografia”, si legge nell’incipit del saggio su Piero Gobetti e la “Rivoluzione liberale” (in Quaderni di Giustizia e libertà, giugno 1933, n. 7).
Il 27 ag. 1922 il L. aveva affidato a La Rivoluzione liberale un articolo su Antonio Salandra, inaugurando una non lunga né sistematica serie di interventi che al modello gobettiano rendono esplicito omaggio sul terreno della scrittura non meno che su quello delle categorie concettuali.
La laurea in medicina, conseguita dal L. nel 1924, e la collaborazione presso la clinica medica dell’Università parrebbero alludere alla possibilità di un impegno professionale in realtà destinato a un radicale refoulement. Il servizio militare, prestato a Torino, a Firenze e successivamente, tra la fine del 1924 e il 1926, al Moncenisio, valse a distogliere solo temporaneamente il L. dai due poli fondamentali del suo lavoro: la pittura, la politica.
La lezione di F. Casorati, le prime esperienze parigine (propiziate, anche, dalla storia sentimentale con Vitia Gurevič), il dialogo con E. Persico e con L. Venturi, da una parte, l’amicizia con C. e N. Rosselli, l’elaborazione del lutto per la morte di P. Gobetti, il fraterno compagnonnage con A. Garosci, la ricerca di nuovi spazi all’interno dello schieramento antifascista, dall’altra, non sono senza rapporto con il respiro sovranazionale, consapevolmente europeo che nella seconda metà degli anni Venti sostenne gli orientamenti del L. nel campo delle arti figurative e le ragioni profonde della sua opposizione al fascismo.
A onta dell’effimera durata dell’impresa (un numero unico, datato aprile 1929), il progetto de La Lotta politica, che il L. condivise con N. Rosselli e R. Bauer, sembra prefigurare la strategia politica teorizzata e perseguita dal movimento di Giustizia e libertà, che C. Rosselli avrebbe fondato qualche mese dopo a Parigi, e nelle cui posizioni il L. si riconobbe.
I ripetuti soggiorni parigini del L. (1931-33) gli consentirono di stabilire un collegamento non episodico tra gli avversari del regime clandestinamente operanti a Torino (specialmente il gruppo che compilava e diffondeva Voci d’officina) e la galassia dei fuorusciti italiani in Francia, partecipando alla fase preparatoria del programma di Giustizia e libertà, redigendo, insieme con L. Ginzburg, Il concetto di autonomia nel programma di “Giustizia e libertà” (Quaderni di Giustizia e libertà, settembre 1932, n. 4) e finendo con l’assumere, a Torino, una sorta di leadership di fatto nella cospirazione antifascista.
Arrestato il 13 marzo 1934 ad Alassio, il 9 maggio fu rilasciato e ammonito. A un anno di distanza, il 15 maggio 1935, fu nuovamente arrestato; condannato a tre anni di confino, il 3 agosto arrivò a Grassano, dove il 20 lo raggiunse Paola Levi, moglie di A. Olivetti e fino a quel punto sua segreta compagna di vita; il 30 agosto il prefetto di Matera propose al ministro degli Interni il trasferimento del L. ad Aliano, che ebbe luogo il 18 settembre. Vi rimase otto mesi: i provvedimenti di clemenza adottati dal governo fascista per celebrare la conquista dell’Impero lo rimisero in libertà il 20 maggio 1936 e, il 26 successivo, il L. ripartì per Torino.
L’assassinio dei fratelli Rosselli (9 giugno) e la nascita di Anna, figlia del L. e di Paola Levi, segnarono indelebilmente l’anno 1937. Le leggi razziali del 1938 indussero il L. a riprendere la via della Francia, che non poté lasciare neppure in occasione della morte del padre, avvenuta ad Alassio il 24 sett. 1939. “La Baule, settembre-dicembre 1939” è la sintomatica indicazione di tempo e di luogo che sigilla gli otto “capitoli” di Paura della libertà (Roma 1946; ora in Scritti politici, a cura di D. Bidussa, Torino 2001, pp. 132-204; a pp. 216-219 la prefazione).
Il saggio, insieme politico e psicoantropologico, a specchio della instante minaccia della finis Europae, prossima a sprofondare nel rogo della guerra, offre un originale ripensamento di sollecitazioni e motivi derivati da La ribellione delle masse di J. Ortega y Gasset e da La crisi della civiltà di J. Huizinga. A vent’anni dalla sua pubblicazione, I. Calvino parlò di Paura della libertà come del “libro da cui deve cominciare ogni discorso su Carlo Levi scrittore”, “un tipo di libro raro nella nostra letteratura, inteso a proporre le grandi linee d’una concezione del mondo, d’una reinterpretazione della storia”.
Rinunciando a partire per gli Stati Uniti, come avrebbe desiderato Paola Levi, che dalla fine dell’estate del 1940 si era intanto trasferita, con la figlia Anna, a San Domenico di Fiesole, nella primavera del 1941 il L. fece ritorno in Italia: dai primi di giugno, e per quattro anni ancora, fu soprattutto Firenze il teatro di una quotidianità ora paradossalmente serena ora minacciata e ansiosa, trascorsa dapprima nello studio di piazza Donatello, poi (varcato il discrimine dell’8 sett. 1943) nelle abitazioni di amici affettuosamente solidali e, più stabilmente, nell’appartamento-pensione di Anna Maria Ichino: la fine dei “giochi di vita, d’amore e di guerra” (Benaim Sarfatti) che coinvolsero il L. e Anna Maria nei mesi che precedettero la liberazione di Firenze (10-11 ag. 1944) avrebbe impresso un sigillo funesto all’esistenza della donna.
La militanza nelle file del Partito d’azione (Pd’A) e la partecipazione alla lotta clandestina dopo l’arresto e la detenzione, alle Nuove di Torino e alle Murate di Firenze, dal 26 giugno al 26 luglio 1943 non avevano impedito al L. di attendere alla stesura della sua opera capitale nella quale liberamente rielabora, interiorizzandola, l’esperienza del confino.
Cristo si è fermato a Eboli rivela una singolarissima capacità di ibridazione dei codici che governano i generi letterari ai quali è più o meno strettamente apparentabile (romanzo, saggio, prosa d’arte, mémoire, “cosa vista”, corrispondenza di viaggio); edito a Roma da Einaudi nel settembre 1945, ottenne da subito un eccezionale successo di pubblico e di critica (dal Cristo F. Rosi trasse un film, abbastanza infedele, distribuito nel febbraio 1979) anche in forza dell’equivoco ermeneutico, diventato presto vulgata, che precipitosamente ne accreditò l’appartenenza all’area del neorealismo (le tangenze, semmai, sono con le parallele investigazioni del “mondo magico” del Sud d’Italia condotte da E. De Martino).
Cristo si è fermato a Eboli è letteralmente, per il L., il libro della vita: “In quell’arso cuore della Lucania”, ha scritto Montale, “Levi ha incontrato l’inferno di una umanità irredimibile, insospettata che vive fuori del tempo o almeno tutta al di fuori del nostro tempo”; un libro che, se si deve prestar fede alle indicazioni dell’autore, fu scritto tra il dicembre 1943 e il luglio 1944, ma che costituisce il punto di approdo di un più complicato processo di metabolizzazione e formalizzazione di un repertorio ideologico, mitografico, iconologico che il L. ha amministrato nel corso degli anni ricorrendo, di volta in volta, agli strumenti “tecnici” più vari: disegni, poesie, racconti orali, scritti politici. Non a caso la discussione intorno ai tempi di composizione di Cristo si è fermato a Eboli, che è stata, in anni recenti, al centro della riflessione critica sul L., e ha opposto i sostenitori della tesi di una redazione del testo chiusa nell’arco cronologico 1943-44 (M.A. e M.C. Grignani, Vitelli) a quanti (Wells, De Donato, Falaschi) hanno sottolineato la presenza nel manoscritto di tre date, comprese tra il 1940 e il 1941, apparentemente incompatibili con l’attestazione del L., si è progressivamente spostata dall’ambito della biografia, della filologia, della variantistica a quello dell’intertestualità e dei rapporti tra letteratura e arti figurative.
Condirettore della fiorentina La Nazione del popolo, in quota al Pd’A, dall’agosto 1944, direttore dell’edizione romana del quotidiano del partito, L’Italia libera, dal settembre 1945, il L. abbandonò il Pd’A al congresso di Roma (4-8 febbr. 1946). Spostato definitivamente nella capitale il proprio baricentro, accettò di candidarsi all’Assemblea costituente, nella circoscrizione di Potenza-Matera, nelle liste di Alleanza repubblicana; nel corso di una campagna elettorale puramente testimoniale, il cui esito negativo era scontato, il L. incontrò per la prima volta R. Scotellaro, poeta e militante socialista: la loro amicizia fu interrotta, il 15 dic. 1953, dalla prematura morte di Scotellaro.
Il L. aveva iniziato una relazione con la figlia di U. Saba, Linuccia: malgrado i risvolti conflittuali ora latenti ora flagranti del loro ménage, a Linuccia Saba rimase legato fino alla morte. Nell’aprile 1947 partì, con F. Parri, per gli Stati Uniti; tra l’ottobre 1947 e il febbraio 1949, collaborò regolarmente al quotidiano L’Italia socialista, diretto da A. Garosci, con una serie di disegni satirici.
Il successivo volume del L., L’orologio (Torino 1950), non fu soltanto la postuma certificazione di una lacerazione politica immedicabile indotta dalla crisi del governo Parri che l’immagine del presidente del Consiglio “crisantemo sopra un letamaio” memorabilmente riassume.
Con più acutezza di altri, F. Fortini ha osservato che “ogni capitolo” de L’orologio “è una scatola che ne contiene cento altre, ogni motivo frondeggia a creare l’impressione dominante, che è di fecondità, di larghezza e generazione costante, a getto continuo” (per cui non senza ragione, otto anni dopo, nella prefazione al Tristram Shandy einaudiano, il L. poté rivendicare le ascendenze sterniane del “romanzo”); ma, di là dalla non infondata registrazione della polifonia de L’orologio, Fortini pare aver toccato il cuore del libro e dell’intera esperienza inventiva del L., segnalandone “l’attrazione verso il tellurico, l’angoscioso, il tragico del popolare e del primitivo o sacro, il fascino etnografico […] o psicanalitico alla Jung”.
Le prefazioni – al Viaggio in Italia. Lettere familiari di Ch. de Brosses ([Firenze] 1957), al citato Tristram Shandy di L. Sterne (Torino 1958), a Roma Napoli e Firenze di Stendhal (Milano-Firenze 1960) – e i libri “di viaggio” che il L. dette alle stampe dopo aver pubblicato L’orologio sono certo meno perturbanti.
Il sapiente e talora callido mestiere acquisito attraverso l’assidua collaborazione a La Stampa o a L’Illustrazione italiana è messo a frutto dal L., di preferenza, entro lo spazio, in qualche misura predeterminato, del reportage: l’eleganza della scrittura e del tratto, non necessariamente accompagnata da un pungente rovello conoscitivo, trova di regola un simmetrico “equivalente” ideologico in un’ottica ante litteram politicamente corretta.
Questi libri si intitolano Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia (Torino 1955), Il futuro ha un cuore antico. Viaggio nell’Unione Sovietica (ibid. 1956), La doppia notte dei tigli (ibid. 1959), Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia (ibid. 1960, con 120 fotografie di J. Reismann), Tutto il miele è finito (ibid. 1964).
Scontate le differenze dei casi, e degli oggetti (la Sicilia, l’URSS, la Germania, l’Italia, la Sardegna; di altri viaggi importanti, in India nel 1956, in Cina nel 1959, si astenne dal raccogliere in volume le corrispondenze), l’impatto bruciante con la storia, percepibile in Le parole sono pietre, è riassorbito e esorcizzato dal L. in una sorta di perpetua circolarità-ciclicità, di eterno ritorno dell’identico che dissolve il Vecchio e il Nuovo, l’Arcaico e il Contemporaneo.
Ma non fu all’insegna di una proverbialmente olimpica solarità che l’estrema fase della vicenda del L. si svolse e terminò. I fatti di Genova del luglio 1960 videro il L., alla vigilia dei sessant’anni, impegnato in prima fila nella battaglia antifascista. Eletto senatore nel 1963 nel collegio di Civitavecchia come indipendente nelle liste del Partito comunista italiano (PCI), aderì al gruppo misto; riconfermato nel 1968 nel collegio di Velletri nelle liste del PCI – Partito socialista di unità proletaria (PSIUP), entrò nel gruppo parlamentare della Sinistra indipendente.
Nei nove anni del suo duplice mandato parlamentare intervenne su argomenti di politica interna (il centrosinistra – che lealmente contrastò -, i problemi del Sud, l’emigrazione, la programmazione economica, la contestazione studentesca) ed estera (la guerra del Vietnam, la “primavera di Praga”) o su questioni più squisitamente “culturali” (le celebrazioni del settimo centenario della nascita di Dante, la tutela dei beni artistici e paesaggistici, la morte di G. Morandi).
Candidato nel 1972 nel collegio di Caltagirone, non venne rieletto. Al punto più alto della sua “esposizione” pubblica tenne dietro, quasi senza soluzione di continuità, la fase più accusata del ripiegamento su sé. Il distacco della retina, a fine dicembre 1972, e la temporanea perdita della vista indussero il L. a servirsi di “una sorta di scrittoio” da lui stesso ideato: e Quaderno a cancelli (Torino 1979) si sarebbe intitolato il suo libro postumo per dir così involontario – aperto da una testimonianza di Linuccia Saba e chiuso da una nota di A. Marcovecchio -, del quale Calvino ha sottolineato l’inedito “senso di sconforto, di vulnerabilità, di corrosione” che sembra aver colpito il L., fino ad atterrarlo.
Nel lungo articolo (Con l’occhio della lumaca) che a Quaderno a cancelli dedicò nel Corriere della sera del 24 giugno 1979, Calvino insiste con forza sull’opposizione stabilita dal L. tra Diabetici ed Allergici (replica flagrante dell’antica antinomia tra Luigini e Contadini fissata in Cristo si è fermato a Eboli e ne L’orologio), ma curiosamente sorvola sulla struttura franta, slogata, disarticolata del Quaderno. Il rilievo dei temi escussi (a cominciare dal repêchage dei territori dell’infanzia) è obiettivamente inseparabile da un assetto formale così inconsueto per l’autore.
Il L. morì a Roma il 4 genn. 1975 e fu sepolto ad Aliano.
Se si pensa al numero relativamente esiguo di libri pubblicati dal L. tra il 1945 e il 1964, appare impressionante la fluviale sequenza delle opere postume che si collocano ai limiti, o totalmente fuori, della giurisdizione del L. (il caso estremo è rappresentato dalle semiclandestine “raccolte” di versi pubblicate nel triennio 1990-93, allestite con inaudita disinvoltura, mentre si inscrive in un orizzonte del tutto diverso la magmatica inventio di Quaderno a cancelli, il cui attuale assetto è verosimilmente passibile di un difficile lavoro di restauro): Coraggio dei miti. Scritti contemporanei 1922-1974, a cura di G. De Donato, Bari 1975; Contadini e Luigini. Testi e disegni, a cura di L. Sacco, Roma-Matera 1975 (poi, con il titolo L’altro mondo e il Mezzogiorno, Reggio Calabria 1980); Quaderno a cancelli, cit.; Poesie inedite (1934-1946), prefazioni di G. Spadolini e R. Levi Montalcini, Roma 1990; Noi esistiamo. Poesie inedite, prefaz. di F. De Lorenzo, ibid. 1991; Bosco di Eva (Poesie inedite 1931-1972), introd. di P. Perilli, postfaz. di G. Spadolini, ibid. 1993; L’invenzione della verità, a cura di V. Barani – M.C. Grignani, introd. di M.A. Grignani, San Salvatore Monferrato 1995; Il bambino del 7 luglio. Dal neofascismo ai fatti di Reggio Emilia (1952-61), a cura di S. Gerbi, introd. di G. De Luna, Cava de’ Tirreni 1997; G. Biondillo, C. L. e E. Vittorini. Scritti di architettura, Torino 1997 (antologia di scritti del L. a pp. 7-58); Discorsi del sen. Carlo Levi, a cura di G. Volpe, presentazione di N. Mancino, Avellino 1997; L’invenzione della verità. Testi e intertesti per Cristo si è fermato a Eboli, introd. di M.A. Grignani, testi a cura di V. Barani – M.C. Grignani, Alessandria 1998; Scritti politici, cit.; Discorsi parlamentari, a cura di E. Campochiaro – F. Marcelli, introd. di M. Isnenghi, Bologna 2003.
A far data dall’ottobre 2000 hanno visto la luce a Roma, per iniziativa della Fondazione C. Levi, otto volumi (è annunciato il nono: Il dovere dei tempi. Prose politico-civili) compresi nel progetto – obbediente a criteri eminentemente tematici – delle Opere in prosa di Carlo Levi: Le mille patrie. Uomini, fatti, paesi d’Italia, a cura di G. De Donato, presentazione di G. De Donato – L. Montevecchi, introduzione di L.M. Lombardi Satriani (2000); Lo specchio. Scritti di critica d’arte, a cura di P. Vivarelli (2001); Prima e dopo le parole. Scritti e discorsi sulla letteratura, a cura di G. De Donato – R. Galvagno (2001); Le tracce della memoria, a cura di M. Pagliara, prefaz. di M. Guglielminetti (2002); Roma fuggitiva. Una città e i suoi dintorni, introd. di G. Ferroni, a cura di G. De Donato (2002); Il pianeta senza confini. Prose di viaggio, a cura di V. Zaccaro, presentazione di G. Russo – P. Santangelo (2003); Un dolente amore per la vita. Conversazioni radiofoniche e interviste, a cura di L.M. Lombardi Satriani – L. Bindi (2003); Le ragioni dei topi. Storie di animali, a cura di G. De Donato, introd. di F. Cassano, postfaz. di G. Sacerdoti (2004).
Non esiste un inventario completo e attendibile degli scritti “dispersi” del Levi. Per un catalogo degli articoli e degli interventi politici si può tener conto (con cautela) di G. Sirovich, Bibliografia, in L’azione politica di C. L., prefaz. di C. Vallauri, testimonianze di L. Anderlini, F. Ferrarotti, A. Garosci, P. Vittorelli, Roma 1988, pp. 117-123, e di D. Ward, Antifascisms. Cultural politics in Italy, 1943-46. Benedetto Croce and the liberals, C. L. and the “actionists”, Madison, NJ, 1996, pp. 192 ss. Una inadeguata selezione delle molte interviste al L. nel citato Un dolente amore per la vita.
Fonti e Bibl.: Sono in possesso di carte del L.: la famiglia Levi (Torino-Venezia); la signora R. Acetoso (Roma); l’Archivio centrale dello Stato (il fondo Carlo Levi); lo Harry Ransom Humanities Research Center della University of Texas (Austin); l’Università di Pavia (il fondo Manoscritti); la famiglia Colacicchi (Firenze); il dott. A. Ricci (Alassio). Qualche generica notizia, intorno al presente stato dell’Archivio Levi da lei detenuto, la signora Acetoso ha fornito ad A. Debenedetti (C. L.: i segreti nascosti in una Bibbia, in Corriere della sera, 17 giugno 2004). Sul complesso dei documenti depositati dalla Fondazione C. Levi presso l’Archivio centrale dello Stato, v. M. Martelli, L’archivio C. L., in Il “tempo”e la “durata”in “Cristo si è fermato a Eboli”, a cura di G. De Donato, Roma 1999, pp. 251-257, e L. Montevecchi, Laboratorio di scrittura e percorsi della memoria: l’archivio di C. L., in C. L. e il Mezzogiorno. Atti della Giornata nazionale di studi, Torremaggiore… 2001, a cura di G. De Donato – S. D’Amaro, Foggia 2003, pp. 49-57. Un rapido cenno all’acquisizione del manoscritto di Cristo si è fermato a Eboli (donato dal L. ad A.M. Ichino) da parte della University of Texas in M.X. Wells, Italian post-1600 manuscripts and family archives in North American libraries, Ravenna 1992, p. 104 (riproduzioni fotografiche a pp. 136 ss.). Le carte pavesi sono descritte da L. Bernini – D. Ferraro, Prime notizie sul “Fondo Carlo Levi”, in Autografo, III (1986), 8, pp. 77-85. Un’ampia scelta di lettere, documenti, manoscritti e disegni lasciati dal L., al momento del congedo da Firenze, all’amico pittore G. Colacicchi è stata esposta a Firenze, all’Accademia delle arti del disegno, dal 4 luglio al 29 ag. 2003, nella mostra C. L.: gli anni fiorentini 1941-1945 (catal.), a cura di B. Brunello – P. Vivarelli, Roma 2003 (F. Benfante ha selezionato i materiali di archivio; di quelle carte e delle lettere familiari che gli eredi Colacicchi hanno restituito al nipote del L., Giovanni Levi, lo stesso Benfante si è avvalso per il saggio “Risiede sempre a Firenze”. Quattro anni della vita di C. L. (1941-1945), ibid., pp. 11-103). L’ultimo dei sette “blocchi” in questione, originariamente di proprietà della signora Acetoso, è stato aggiudicato nel corso dell’asta del 17 giugno 2004 (Roma, Christie’s; cfr. il catal. Libri, autografi, carte geografiche. Ricordi familiari dei duchi di Windsor, Roma 2004, scheda n. 82, pp. 20-23, e l’articolo di G. Tesio, C. L. ritorna tra i carrubi di Alassio, in TTL, suppl. de La Stampa, 6 nov. 2004).
La fitta trama dei rapporti epistolari del L. è ricostruibile sulla base delle seguenti “voci”: U. Saba, L’adolescenza del “Canzoniere” e undici lettere, Torino 1975, p. 93; Id., Amicizia. Storia di un vecchio poeta e di un giovane canarino (Quasi un racconto) 1951, a cura di C. Levi, Milano 1976, pp. 29 ss., 82 s., (157 s.), 174, 176 s.; La fraterna amicizia dei gobettiani C. L. e N. Sapegno e L’unità e l’impegno di una generazione, a cura di L. Sacco, in Basilicata, XXVIII (1986), 1, pp. 13-20; 2, pp. 17-24; C. L. e la Lucania. Dipinti del confino 1935-1936 (catal., Matera), Roma 1990, pp. 100-104; Lettere di C. L. da Grassano, a cura di M.M. L.[amberti] e Una lettera di C. L. da Aliano e lettere a L. di familiari ed amici, a cura di P. V.[ivarelli]; Lettere e disegni 1922-1936, allegato a Linea d’ombra, dicembre 1990, n. 55; È questo il “carcer tetro”? Lettere dal carcere 1934-1935, a cura di D. Ferraro, Genova 1991; C. Levi – L. Saba, Carissimo Puck. Lettere d’amore e di vita (1945-1969), a cura di S. D’Amaro, Roma 1994; Lettere ai famigliari, in L’invenzione della verità. Testi e intertesti…, cit., pp. 103-131; N. Micoli Pasino, Linuccia, nel volume collettaneo U. Saba. Sei donne per un poeta, Empoli 2003, pp. 73-134. Sulla corrispondenza edita e inedita tra il L. e U. Saba si veda S. Ghiazza, C. L. e U. Saba. Storia di un’amicizia, Bari 2002. Due fotografie di Saba, una con la moglie Lina e l’altra con la figlia Linuccia, postillate da Saba e indirizzate al L., sono riprodotte fuori testo in U. Saba, Quante rose a nascondere un abisso. Carteggio con la moglie (1905-1956). Album fotografico, a cura di R. Acetoso, Lecce 2004 (a p. 51 un “ritratto” di Lina scritto dal L.).
La più articolata ricostruzione della vita del L. (tuttavia emendabile e integrabile in più di un luogo) si deve a G. De Donato – S. D’Amaro, Un torinese del Sud, C. L.: una biografia, Milano 2001; prima e dopo la pubblicazione di questo volume le indagini biografiche sul L. hanno soprattutto privilegiato l’arco temporale compreso tra il 1918 e il 1950 (tra la “formazione” gobettiana e L’orologio): sugli anni di apprendistato si può far riferimento, oltre che a Quaderno a cancelli, alle pagine retrospettive del fratello R. Levi, Ricordi politici di un ingegnere, Milano 1981, e della cugina G. Segre Giorgi, Piccolo memoriale antifascista, Torino 1994. Sui rapporti tra il L. e Gobetti si vedano almeno N. Bobbio, C. L. e Gobetti, in C. L.: un’esperienza culturale e politica nella Torino degli anni Trenta (catal.), a cura di E. Mongiano – I. Massabò Ricci, Torino s.d. [ma 1985], pp. 47-56; A. Radiconcini, Gobetti e L., in P. Gobetti e gli intellettuali del Sud. Atti del Seminario, Roma… 1993, a cura di P. Polito, Napoli 1995, pp. 363-382; A. d’Orsi, C. L. e l’aura gobettiana, in Il”tempo”e la”durata”, cit., pp. 31-64. Con i nomi di Enzo Bonello e Carlo Artom, P. Gobetti e il L. compaiono nel romanzo “torinese” di M. Cancogni La gioventù, Milano 1981. Per i soggiorni parigini del L. e la rete delle sue relazioni con il mondo dell’antifascismo italiano in Francia: Gli anni di Parigi. C. L. e i fuorusciti 1926-1933 (catal.), a cura di M.C. Maiocchi, Torino 2003. Altri tre importanti cataloghi consentono di mettere nitidamente a fuoco la vicenda del carcere e del confino: C. L.: disegni dal carcere 1934. Materiali per una storia, Roma 1983; C. L.: un’esperienza culturale e politica…, cit.; nonché C. L.: documenti del confino 1935/36 (mostra) e C. L. e la Basilicata. Il confino, le campagne, la sanità. Seminario di studio… 1984, in C. L. al confino da Grassano ad Aliano, Matera 1986, rispett. alle pp. 7-24 e 25-62 (è la ristampa, in forma di quaderno, del fascicolo speciale C. L. al confino 1935-36, in Basilicata, XXVIII [1986], 3). Sul cruciale quadriennio 1941-45 è fondamentale il citato C. L. Gli anni fiorentini 1941-1945, ma anche E. Benaim Sarfatti, Firenze 1943-44. Giochi di vita, d’amore e di guerra in piazza Pitti 14, in Belfagor, LV (2000), 6, pp. 689-714. Sul L. e La Nazione del popolo si veda l’antologia “La Nazione del popolo”, I-II, a cura e con introd. di P.L. Ballini, Firenze 1998, ad indicem.
Sulla redazione di Cristo si è fermato a Eboli: G. Falaschi, Cristo si è fermato a Eboli, in Letteratura italiana (Einaudi), Le opere, IV, Il Novecento, 2, La ricerca letteraria, Torino 1996, pp. 469-490; M.A. Grignani – M.C. Grignani, Il lungo silenzio del manoscritto, e M.X. Wells, C. L. e la Lucania: la parola e l’immagine, in L’invenzione della verità. Testi e intertesti…, cit., pp. 137-165 e 167-179; G. De Donato, Il manoscritto del “Cristo si è fermato a Eboli” e le sue varianti, in Il”tempo” e la “durata”…, cit., pp. 169-209. I termini della querelle sono lucidamente riassunti in modo non neutrale da F. Vitelli, Filologia per ilCristodi L., in Id., Il granchio e l’aragosta. Studi ai confini della letteratura, Lecce 2003, pp. 121-156. Sulla partecipazione del L. alla campagna elettorale della primavera 1946 appaiono inevitabilmente divaricate le rievocazioni di M. Rossi-Doria (C. L., in Gli uomini e la storia. Ricordi di contemporanei, a cura di P. Bevilacqua, Roma-Bari 1990, pp. 163-174) e di L. Sacco (L’orologio della Repubblica. C. L. e il caso Italia, Lecce 1996, pp. 107-119), da un lato, di G. Amendola (I duecento voti del candidato C. L., in L’Unità, 4 marzo 1979), dall’altro.
Una Bibliografia, aggiornata ma lacunosa, degli scritti critici sul L., curata da F. Terra Abrami, è in Il “tempo” e la “durata”…, cit., pp. 311-319. A essa si rimanda, avvertendo che nei poco più di vent’anni che precedono l’uscita del numero monografico su C. L., a cura di A. Marcovecchio, in Galleria, XVII (1967), 3-6, spiccano le recensioni a Cristo si è fermato a Eboli di E. Montale (Un pittore in esilio, in Il Mondo, 2 febbr. 1946) e di C. Muscetta (C. L. in Lucania, in La Fiera letteraria, 14 nov. 1946), ma anche la nota di F. Fortini su L’orologio (“La morte sta anniscosta in ne l’orloggi”, in Comunità, IV [1950], 8, pp. 64 s.). Nel fascicolo citato di Galleria si vedano, tra gli altri, V. Foa, C. L. “uomo politico”, pp. 203-213, e I. Calvino, La compresenza dei tempi, pp. 237-240.
Entro la sterminata bibliografia sul L. successiva al 1967 si vedano ancora almeno le monografie di G. Falaschi, C. L., Firenze 1971 (2ª ed. accr., ibid. 1978); G. De Donato, Saggio su C. L., Bari 1974; G.B. Bronzini, Il viaggio antropologico di C. L.: da eroe stendhaliano a guerriero birmano, Bari 1996; N. Carducci, Storia intellettuale di C. L., Lecce 1999; G. Russo, Lettera a C. L., Roma 2001; D. Ward, C. L. Gli Italiani e la paura della libertà, con un saggio di G. De Luna, Milano 2002.
Tra gli innumerevoli atti di convegni di studio sul L., oltre a quelli citati, meritano di essere segnalati: C. L. nella storia e nella cultura italiana, Roma… 1984, a cura di G. De Donato, Manduria-Bari-Roma 1993; L'”Orologio” di C. L. e la crisi della Repubblica, Roma… 1993, a cura di G. De Donato, Manduria-Roma 1997; C. Levi. Le parole sono pietre. Atti… 1995, a cura di G. Ioli, San Salvatore Monferrato 1997; Il germoglio sotto la scorza. C. L. vent’anni dopo, Matera… 1995, a cura di F. Vitelli, Cava de’ Tirreni 1998; C. L. e la letteratura di viaggio nel Novecento. Tra memoria, saggio e narrativa, San Marco in Lamis… 2002, a cura di S. D’Amaro – S. Ritrovato, Foggia 2003; Verso i Sud del mondo. C. L. a cento anni dalla nascita, Palermo… 2002, a cura di G. De Donato, Roma 2003. Non sono stati ancora pubblicati gli atti del convegno Nell’universo di C. L., Matera… 2002.
La formazione artistica del L. si svolse in ambito familiare, essendo il padre Ercole pittore e disegnatore dilettante. Fu però l’incontro con F. Casorati – avvenuto nel 1923 per il tramite di P. Gobetti – a orientare il giovane, laureando in medicina, a un maggiore impegno nella pittura. Arcadia (Roma, Fondazione C. Levi), esposto nel 1924 alla XIV Biennale di Venezia, documenta la suggestione dell’arte del maestro, della cui scuola di via Galliari il L. non fu mai allievo in senso stretto.
Un adolescente biondo è ripreso secondo un punto di vista fortemente rialzato mentre giace disteso su un pavimento a riquadri, un flauto alla mano. Intorno è una natura morta di richiamo classico: melograni, un libro, una collana di perle. I contorni sono ben delineati, l’atmosfera è sospesa, metafisica; l’avanzare in primo piano del soggetto e lo spazio alle sue spalle definiscono un equilibrio solido dell’immagine; mentre la luce effusa, nordica, rivela una pittura analitica, di osservazione. Il dipinto dà prova di una precoce maturità dell’artista, il quale, in pochi anni focalizzò gli aspetti tematici e di stile che informarono poi la sua intera produzione.
Il L. espose anche alla Biennale successiva, dove presentò Il fratello e la sorella (ibid.), doppio ritratto realizzato a cera su tavola, tecnica di derivazione casoratiana.
Il 1926 è un anno cruciale: dapprima la morte di Gobetti, quindi la pubblicazione del Gusto dei primitivi di L. Venturi, eventi che confermarono nel L. la necessità di un’apertura europea e di un confronto con le correnti artistiche straniere, specie francesi, per superare la crescente marginalità dell’arte italiana. Quello stesso anno il L. presentò alcune vedute torinesi alla mostra in tema, organizzata dalla Società di belle arti A. Fontanesi, presso la quale operava F. Casorati; vi esposero anche Jessie Boswell, G. Chessa, N. Galante, F. Menzio e E. Paulucci, il futuro gruppo dei Sei, la cui affinità di gusto cominciava a emergere.
In quest’epoca si intensificarono i soggiorni parigini del L., che si interessava al lessico postimpressionista di G. Seurat, ma guardava anche a J. Pascin e a H. Matisse, senza tralasciare peraltro di approfondire lo studio dei grandi impressionisti. I risultati di questi contatti sono da ricercare in un netto alleggerimento della linea a favore del colore quale si registra nelle opere del 1927 e compiutamente in quelle del 1928, come Place du Tertre, o Pittrice (Ragazza con l’ombrellino) dipinti che figurarono alla prima mostra del gruppo dei Sei, tenutasi nel gennaio 1929 alla galleria torinese Guglielmi (proprietà Fondazione C. Levi: cfr. I Sei pittori di Torino, ill. 11, 13).
Attivo sostenitore del gruppo fu E. Persico, giovane intellettuale crociano giunto da Napoli a Torino nel 1927, propugnatore dell'”unità e […] continuità ideale tra le arti” (Bandini, ibid., p. 17) e amico sincero del L.: fu lui, oltre a Venturi, a indirizzare gli artisti a un respiro internazionale come campo – sulla scia di Gobetti – di libertà intellettuale contro il nazionalismo di regime. Riscontrandovi la possibilità di un’azione culturale coerente con le proprie convinzioni politiche antifasciste, il L. fece sua, senza mai rinnegarla in seguito, l’idea della pittura come luogo di autonomia critica e di valori etici, i quali si concretavano nel racconto della realtà liricamente trasfigurata.
Insieme con il gruppo dei Sei (da cui presto si staccarono Galante e Jessie Boswell) il L. espose per due anni, ottenendo importanti riconoscimenti dalla critica e un peso culturale crescente all’interno della cerchia, che riconobbe in lui la statura dell’intellettuale di vaglia. In questa fase la pittura del L. evolveva rapidamente, in armonia con una sempre maggiore militanza politica che imponeva frequenti trasferte parigine. Le opere databili al volgere del decennio appaiono dapprima fortemente debitrici delle istanze di astrazione, di fluidità materica e di intensità cromatica di A. Modigliani, come nel Ritratto di Alessandro Passerin d’Entrèves (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), presentato nel 1930 a Venezia, che raffigurava l’amico seduto in poltrona, reso secondo la gamma azzurrognola e le linee angolate tipiche del pittore livornese. Ben presto però, la conoscenza diretta della pittura espressionista di C. Soutine e di O. Kokoschka influenzarono in maniera duratura il L., rivelandogli, nella pennellata densa e sinuosa, un dato pregnante di espressione artistica, che si avvaleva del gesto per creare la forma plastica sulla tela. L’eroe cinese, ritratto criptico di A. Garosci (datato 1932: Roma, Fondazione C. Levi, in C. L.: gli anni di Parigi, 2003, ill. 31) è forse, sotto questo aspetto, l’opera più rappresentativa: un vortice di pennellate pastose costruisce la figura, proiettata all’indietro, ma con le mani in primo piano, come ad attirare l’osservatore all’interno della rappresentazione, dinamica e vibrante.
A questa data i temi cari al L. sono ormai chiari: il ritratto, la natura morta, il paesaggio, il nudo. Specialmente nel ritratto raggiunse momenti di grande felicità, dipingendone alcuni tra i più interessanti del Novecento figurativo italiano: l’artista opera come un interlocutore, un narratore partecipe e curioso del carattere originale e irripetibile di ogni individuo, e in questo dialogo commosso il pittore lascia fluire nozioni di sé. Tale attenzione, vigile eppure distesa, serena, contraddistingue anche – accanto alla vasta galleria di ritratti di famiglia e di personalità del mondo dell’arte e della cultura – il consistente corpus di autoritratti, dipinti lungo tutta la vita.
Dopo i successi professionali dei primi anni Trenta, il L. raggiunse una compiuta maturità artistica durante gli anni del confino ad Aliano. L’arido paesaggio lucano e il mondo rurale del Mezzogiorno, offrirono al L. l’occasione per quell’arte naturalista e di forte impegno civile e sociale, ma già ricca di umana partecipazione, che egli andava immaginando. Nel Figlio della parroccola (1936: Roma, Fondazione C. Levi), giustamente celebre anche per essere stato scelto dall’autore per la copertina di Cristo si è fermato a Eboli, un bambino è colto di profilo in basso a destra – i tratti decisi, la pelle olivastra – mentre il centro del dipinto è dedicato a una natura morta di frutta che emerge da un fondo in tono grigio, colore delle crete di quelle plaghe. Uomini, luoghi e prodotti della terra costituivano un’unità che la civiltà moderna stava spezzando: il mondo contadino era portatore di una complessa cultura che non doveva andare perduta. Le opere dal confino furono esposte nel 1936 dapprima alla galleria Il Milione di Milano e quindi a Genova, alla galleria Genova di S. Cairola, con grande consenso di critica e pubblico.
Rientrato in Italia dopo l’esilio parigino, negli anni di Firenze il L. si dedicò prevalentemente al ritratto, di cui fa fede l’Autoritratto con berretto (1945: Roma, Galleria nazionale d’arte moderna). È del 1942 il testo critico Paura della pittura, apparso dopo la guerra in appendice alla monografia dedicatagli nel 1948 da C.L. Ragghianti, dove il L. condanna la pittura astratta contemporanea in quanto si distacca dall’uomo e dalla realtà del mondo, che invece deve restare l’oggetto della creazione artistica, pena la perdita di unità spirituale e il senso di paura, di sgomento che pervade il pensiero moderno.
Negli anni del dopoguerra, anche in virtù dello straordinario successo di Cristo si è fermato a Eboli, la produzione leviana ottenne numerosi riconoscimenti mentre si susseguivano le esposizioni in tutta Italia. Nel 1954 la XXVII Biennale gli dedicò una personale, in cui figuravano molti dipinti di tema meridionalista, secondo la poetica del realismo cara ai pittori vicini al partito comunista. La critica rilevò comunque (R. Longhi in testa) uno scadimento delle qualità pittoriche e un allontanamento dai dibattiti artistici di portata europea.
Gli anni Sessanta evidenziano – anche in ragione della ormai preponderante attività di scrittore, giornalista e parlamentare – una stanchezza d’ispirazione e di resa formale; il L. intanto, andava dipingendo con rinnovato interesse i paesaggi di Alassio, ambientati nel giardino della villa di famiglia. Si tratta di grandi tele in cui gli alberi, i carrubi, sono protagonisti che vengono rappresentati singolarmente, con forti pennellate corsive, come fossero persone che raccontano una propria storia.
Il L. affiancò sempre la produzione pittorica a quella grafica: celebri i disegni realizzati durante la prima detenzione, nel carcere romano di Regina Coeli, e rinvenuti in anni recenti: nature morte connotate da quiete atemporale. I temi dei disegni leviani accompagnarono quelli della pittura (gli amanti, le maternità, il mondo rurale); ma se nei dipinti il valore dominante è quello cromatico, nella grafica si percepisce una ricerca di circolarità, quasi di armonia cosmica, ottenuta con un segno grasso, esteso.
Una menzione a parte merita la produzione di monotipi; cioè opere a stampa a tiratura unica a partire da una lastra di vetro inchiostrato, tecnica poco utilizzata dagli artisti italiani. Il L. la apprese da L. Spazzapan alla fine degli anni Venti e in seguito continuò a praticarla; particolarmente riuscita la serie degli Amanti, che risale agli anni Cinquanta (I monotipi: C.L., 1977).
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Carlo Levi (conserva un vasto corpo di stampati, recensioni, cataloghi relativi all’attività artistica del L.); Galleria nazionale d’arte moderna, Carlo Levi (particolarmente documentata la produzione giovanile); C.L. Ragghianti, C. L., Firenze 1948; A. Trombadori, Gente del Mezzogiorno di C. L., in Realismo, 1953, nn. 13-15, pp. n.n.; A. Bovero, Archivi dei Sei pittori di Torino, Roma 1965, pp. 31-37; I Sei di Torino, 1929-1932 (catal.), a cura di V. Viale, Torino 1965, pp. 133-170; C.L. Ragghianti, Incontro con C. L., in Critica d’arte, XXII (1976), 148-149, pp. 11-43; C. L. si ferma a Firenze. Cento disegni (catal.), a cura di G. Gromo, Firenze 1977; C. L.: opere grafiche, a cura di F. Fiorani – P.P. Tarasco, Matera 1977; I monotipi: C.L. (catal., Ferrara), a cura di G. Gromo, Cento 1977; C. L.: disegni dal carcere 1934. Materiali per una storia (catal.), Roma 1983; C. L.: opere dal 1923 al 1973 (catal., Umbertide), a cura di E. Boccia et al., Perugia 1988 (con bibl.); C. L. e Lucania 61 (catal., Benevento), a cura di G. Appella, Roma 1989; C. L. e la Lucania. Dipinti dal confino 1935-1936, a cura di P. Vivarelli, Roma 1990; I Sei pittori di Torino (catal., Torino), a cura di M. Bandini, Milano 1993, pp. 4, 11-13, 42-48, 62-65, 72 s., 79; C. L.: galleria di ritratti (catal.), a cura della Fondazione C. Levi, Roma 2000; G. De Donato – S. D’Amaro, Un torinese del Sud: C. L., Milano 2001; C. L.: paesaggi, 1926-1974 (catal.), a cura della Fondazione C. Levi, Roma 2002; C. L.: gli anni fiorentini 1941-1945 (catal., Firenze), a cura di P. Vivarelli, Roma 2003; Gli anni di Parigi. C. L. e i fuorusciti, 1926-1933 (catal., Torino), a cura di M.C. Maiocchi – M.M. Lamberti, Savigliano 2003.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –
On. Elettra POLLASTRINI-L’unica donna della provincia di Rieti eletta alla Costituente-
On.Elettra Pollastrini -P.C.I.Nata a Rieti il 15 luglio 1908, deceduta a Rieti il 2 febbraio 1990, operaia e parlamentare Comunista.La sua famiglia di antifascisti nel 1934 fu costretta a emigrare in Francia per sottrarsi alle persecuzioni del regime. Trovato un lavoro la giovane Elettra, che aveva aderito al Partito Comunista, fece l’operaia alla Renault e nell’azienda francese fu alla testa delle lotte di quei lavoratori. Incaricata della redazione di Noi Donne, allo scoppio della guerra civile nella penisola iberica si portò in Spagna. Al rientro in Francia fu arrestata e rinchiusa nel campo di Rieucross. Riuscita a rientrare in Italia, nel 1941 la Pollastrini tornò a Rieti dove riprese l’attività antifascista clandestina e, dopo l’annuncio dell’armistizio, entrò nella Resistenza romana. Arrestata dai tedeschi e tradotta in Germania trascorse venti mesi nel carcere di Aichach. Dopo la Liberazione, tornata in Italia, fu una delle nove donne comuniste entrate a far parte della Consulta nazionale e, nel 1948, fu eletta deputata del PCI alla Camera, dove restò per due Legislature. Nel 1958 si trasferì in Ungheria dove, per 5 anni, lavorò a Radio Budapest. A Rieti, a Elettra Pollastrini è stata intitolata una strada; porta il suo nome anche una Sezione dell’ANPI, che vi si è recentemente costituita.
Fonte- ANPI nazionale-L’On.Elettra Pollastrini , nella foto in B/N è quella seduta a dx dell’On. Nilde Jotti-(Foto Archivio Camera dei Deputati)-
Nota- A)L’On.Elettra Pollastrini , nella foto in B/N è quella seduta a dx dell’On. Nilde Jotti-(Foto Archivio Camera dei Deputati)- B)La pagina di giornale con le 21 Onorevoli elette alla Costituente è del Corriere della Sera -1946- C) Scheda della Camera dei Deputati con le coordinate anagrafiche dell’On. Elettra Pollastrini. ANPI COMITATO ANTIFASCISTA DELLA SABINA-
Quando si spegneranno i rossi falò della nostra vita ci toglieremo dalla fronte la ghirlanda delle feste con le foglie scompigliate e le rose cadenti, poi in silenzio scenderemo ai fiumi.
Al declinare del giorno ci fermeremo sulla loro sponda inseguendone con gli occhi la corsa, – loro, gli abbandonati e infinitamente orgogliosi della propria solitudine. E circonfusi dal rossore del crepuscolo commossi guarderemo, ed ecco arrivare fiori, fiori bianchi recati con tutti gli onori sul pelo dell’acqua – – rapiti dai margini di un giardino felice per scherzo a mezzogiorno.
Allora sapremo: davanti agli occhi ci è passata la nostra giovinezza. E quando il ricordo tramonterà dentro di noi s’allungherà, si scurirà una dolente ombra di salici sul nostro capo.
E tuttavia lassù sorgerà stella dopo stella sulla cima dei monti, santificando una notte grande ed estranea su di noi, e un vento serale ci toccherà gemendo come suonasse violini neri.
Avraham Ben Yitzhak
(Traduzione di Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen)
da “Avraham Ben Yitzhak, Poesie”, Portatori d’Acqua, 2018
Scritta verso la fine del 1909 e pubblicata per la prima volta in «HaShiloah» nel 1912.
SALMO
(Avraham Ben-Yitzhak, all’anagrafe Avraham Sonne)
Per pochissimi istanti capita che porti
in te l’anima come una goccia di cristallo:
un mondo pieno del suo sole e di sfumature rifratte,
un’orda di visioni e di parole tremanti;
là volgi gli occhi
come alla goccia di cristallo,
e tuttavia quel mondo teme di versarsi
non sopporta di essere riempito
e trema fino ai margini estremi…
ed ecco sei consegnato a tutta l’eternità.
LA NOSTRA NOSTALGIA
Così fu l’inizio della nostra nostalgia
come un ramo che fiorisce di fronte all’aurora
come fiori
come la vergogna di una terra intrisa di sale.
QUANDO IMPALLIDISCONO LE NOTTI
In queste bianche notti di sogno
sognate da un mondo stanco
il tempo silente ascolta il suo battito,
mentre le fonti giubilano
celebrando la propria essenza.
Passato e futuro si pacificano
una quiete eterna nel presente –
nel silenzio della tua vita
tacciono le stelle,
e un vento sgorga dall’eternità –
–e i tuoi occhi si spalancano.
Avraham Ben-Yitzhak / POESIE / Portatori d’acqua di Pesaro
Articolo di Marco Filoni, Il Venerdì, 25 dicembre 2018 –
Provate a immaginare un uomo, un poeta, che nell’arco della sua intera vita pubblica undici poesie. Undici poesie soltanto. Eppure questo corpus così esiguo acquisirà un’importanza eminente nel panorama mondiale. E il suo autore diventerà, suo malgrado, una grande figura romanzesca, quasi un culto a cui hanno tributato la loro venerazione alcuni fra gli intellettuali più blasonati del Novecento. Benvenuti nel paradosso del dottor Sonne. Che all’anagrafe si chiamava Abraham Sonne, come autore si firmerà col nome di penna Avraham Ben-Yitzhak ma poi, una volta dismessi i panni da poeta, sarà conosciuto da tutti come, appunto, “il dottor Sonne”. Nato in Galizia, allora periferia da basso impero (quello austro-ungarico), nel 1883, Sonne proveniva da una borghese famiglia ebraica. Schivo e riservato, si fece notare fin da giovane. Nella comunità ebraica del suo paesino natale, Przemysl, era in atto un forte scontro tra sionisti, che invocavano un ritorno degli ebrei in Palestina, e territorialisti, che puntavano all’insediamento anche in altri territori in parti diverse del mondo. Durante un dibattito, dopo che l’esponente di quest’ultima fazione, noto e carismatico, ebbe finito di esporre la sua tesi, un giovincello, sconosciuto a tutti, si alzò in piedi. Cominciò a parlare: in un tedesco elegante e ricco nello stile, si mise a confutare una a una tutte le tesi del relatore, rilevandone l’inconsistenza e l’irrilevanza, cintando a memoria dati, statistiche, esempi dalla storia degli insediamenti di altre nazioni, per poi proseguire – in un silenzio irreale che era calato nella sala – discettando di economia e di teoria politica fra lampi di genio e ironia folgorante. Tutti, ammutoliti, iniziarono a chiedersi chi fosse e da dove venisse quel diavolo d’un ragazzetto. Dietro quell’aria schiva albergava una grande promessa. Scriveva già poesie, accolte con stupore e grande, unanime plauso. Amici, conoscenti e lettori erano tutti d’accordo: sarebbe diventato un grande poeta. Ma lui, Avraham Ben-Yitzhak, avrebbe deluso tutti. Ripetutamente. All’età di quarantacinque anni aveva già smesso di scrivere. Il poeta scompariva per lasciare il posto alla leggenda: ad Avraham Ben-Yitzhak subentrava il dottor Sonne. Il primo prendeva posto sull’Olimpo delle lettere: gli erano bastate quelle undici mirabili composizioni per essere considerato il primo poeta in lingua ebraica dell’era moderna. Il secondo cominciò a sedersi, tutti i giorni, al Cafe Museum di Vienna col suo sguardo ascetico e il viso emaciato, sorprendentemente identico a quello dello scrittore Karl Kraus, tanto da sembrarne il gemello. E da lì, quest’uomo così riservato ma dotato di un carisma singolare, che aveva scritto poco e controvoglia, impressionava – per la sua erudizione, il suo spirito e soprattutto per i suoi silenzi epici intellettuali come Hermann Broch, Elias Canetti, James Joyce, Soma Morgenstern, Arthur Schnitzler, Robert Musil, Hugo von Hofmannsthal, il musicista Arnold Schönberg, il pittore Georg Merkel. Ora finalmente in Italia arriva un libro, splendido, che raccoglie questa vicenda biografica, le poesie e tutti gli abbozzi e frammenti ritrovati: lo pubblica la giovane casa editrice Portatori d’acqua di Pesaro, nell’ottima cura di Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen. Il libro contiene fra l’altro la testimonianza della poetessa israeliana Lea Goldberg, amica di Sonne, la quale rivela qui per la prima volta notizie inedite su di lui. Non sono soltanto le sue poesie in ebraico ad aver contribuito alla costruzione del “mito”: versi di rara bellezza, distillati con perizia e grazia inedite. Il vocabolario attinge alla Bibbia e i componimenti trattano principalmente della natura – non sarebbe peregrino andare a cercare proprio qui la scintilla che balenò nella mente di Walter Benjamin quando formulava il concetto di “natura mute”. Poesie di una chiarezza di pensiero cristallina e sbalorditiva, che Canetti definì “glaciale”: «È la chiarezza di chi, dovendo molare vetri trasparenti, non è contento finché non scompare ogni macchia opaca». Come scrive Lea Goldberg: «Fu il primo poeta ebraico, il cui orologio non indicava l’ora soltanto agli ebrei, ma scandiva il tempo della letteratura mondiale». A partire dagli anni Venti non volle più sapere nulla delle sue poesie: non ne parlava e, anzi, ricordarle gli causava sofferenza e disprezzo, come se fossero un passato dal quale si era definitivamente congedato. Il fatto è che ogni persona che ebbe la buona sorte di frequentarlo ne rimase così tanto affascinata da eleggerlo a modello irraggiungibile. «Anche per lei il dottor Sonne è stato quello che è stato per me? La persona più importante della mia vita?», chiederà Elias Canetti a Goldberg nel 1951, dopo la morte del poeta. Secondo Canetti Sonne «sapeva tutto, ma non teneva niente per sé come proprietà personale. Aveva letto tutto, ma non l’ho mai visto con un libro in mano. Era lui stesso la biblioteca che possedeva. Dava l’impressione di aver già letto da tempo tutto ciò di cui si parlava». Conosceva la Bibbia al punto da poterla recitare a memoria, in ebraico, interamente, dall’inizio alla fine e parola per parola, senza mancare nemmeno un’intonazione. Un giorno sedeva a un bar con Lea Goldberg e alla radio diedero una notizia su Königsberg. A Sonne venne in mente Kant, che lì era nato e vissuto. «Ricordi quanto è bello il trattato di Kant Per la pace perpetua?», chiese all’amica. E iniziò a declamarlo, in tedesco, a memoria. La sera, rientrata, l’amica curiosa prese il libro di Kant per verificare: aveva recitato intere pagine di prosa senza tralasciare una sola parola. Questo era il dottor Sonne: un uomo coltissimo di fronte al quale si avvertiva «quella superiorità intangibile», secondo Canetti, che faceva sì che «quando aveva esaurito un argomento ci si sentiva illuminati e appagati, era una pagina chiusa, qualcosa su cui non si ritornava più perché non ti sarebbe stato nient’altro da dire». Poteva parlare con rigore e sapienza delle cose più banali – che si trattasse di miele, vino, tessili, pellame o del modo di affumicare il pesce – con una precisione stupefacente, come se non si fosse occupato d’altro in tutta la sua vita. Ecco allora ancora Canetti, definitivo: «Ciò che Sonne aveva da dire non era un giudizio sulle cose, era la legge delle cose». Lasciò l’Austria nel 1938 per quello che sarebbe poi diventato lo Stato di Israele. E qui visse fino al 1950, quando morì di tubercolosi, all’età di sessantasei anni, in una casa di cura vicino a Tel Aviv. Negli anni Trenta aveva visto prima e meglio di tutti quanto stava per accadere: aveva previsto la guerra con tutto il suo carico di morte e sangue – come un profeta, ma a differenza dei profeti non voleva aver ragione annunciando il peggio, anzi «avrebbe dato tutto, fino all’ultimo dei suoi respiri, per non aver ragione». E per molti, come per Canetti, fu una sorta di messia, giunto per redimere dal male. E, ancora un paradosso, lo faceva ammaliando tutti con il silenzio. I suoi silenzi, lunghi, arrivavano all’improvviso e, come ricorda Goldberg, «avevano il potere di zittire una brigata di persone particolarmente esuberanti». Una volta, durante uno di questi momenti di silenzio duro e renitente, l’amico Asher Beilin se ne uscì fuori, fulminante «Bene, adesso magari possiamo tacere su un altro argomento?».
Articolo di Marco Filoni, Il Venerdì, 25 dicembre 2018
Poesie di Nina Cassian tra le più importanti autrici romene del Novecento-
Nina Cassian-Renée Annie Cassian-Mătăsaru nacque a Galați, Romania il 27 novembre 1924 e morì a New York il 15 aprile 2014. Fu poetessa, scrittrice e traduttrice.
Studiò Belle Arti e Filologia presso l’Università di Bucarest. Il suo interesse per la poesia si sviluppò presto, e il suo esordio letterario risale agli anni ’40. Le sue prime opere furono influenzate dal surrealismo e da tematiche sociali. Tuttavia, con il passare del tempo, il suo stile si evolse e divenne sempre più personale, esplorando temi come l’amore, l’identità e la condizione umana.
Nel corso della sua carriera, Nina Cassian pubblicò numerose raccolte di poesie, acquisendo una reputazione distintiva all’interno della scena letteraria romena. Tra le sue opere di poesia citiamo Dialogul vântului cu marea (“Dialogo del vento col mare”, 1957), Destine paralele (“Destini paralleli”, 1967) e Numărătoarea inversă (“Conto alla rovescia”, 1983).
Nina Cassian fu anche un’abile traduttrice, portando opere di poeti stranieri come William Shakespeare, Samuel Beckett e T.S. Eliot in lingua romena. Questo contributo alla letteratura mondiale consolidò la sua posizione nel panorama culturale.
Tuttavia, la sua attività artistica la portò ad essere perseguitata dal regime comunista romeno. Nel 1985, dopo aver criticato apertamente il regime, si trasferì negli Stati Uniti, dove visse in esilio. Negli USA, continuò la sua produzione poetica, pubblicando nuove raccolte, tra cui Take my word for it del 1998, e proseguendo l’attività di pittrice.
Dopo essersi affermata in patria come poetessa e scrittrice, oltre che musicista e illustratrice di libri, nel 1985 è stata costretta a chiedere asilo politico in USA, dove ha vissuto il resto dei suoi giorni, poichè era stata presa di mira dalla Securitate, la polizia segreta del dittatore Ceauşescu, per aver trascritto alcune sue strofe compromettenti nel diario di un amico dissidente.
La stessa Cassian, che in una sua lirica scriverà, “pur se verrò sepolta in una terra aliena, risorgerò un giorno nella lingua romena”, ricorda così il periodo in cui maturò all’improvviso la dolorosa decisione di riparare oltreoceano:
“Sono partita nel settembre 1985. Avevo ricevuto un invito per insegnare Poesia alla New York University. Cinque mesi in tutto. Avevo solo un cappotto, pantaloni, maglioni e qualcosa di più elegante per Natale e Capodanno, che avrei trascorso a New York. Non avevo nemmeno una maglietta o un vestito estivo con me. A novembre ricevo una telefonata da Chicago, dalla figlia di George ‘Babu’ Ursu, che mi dice che suo padre è morto. Come sappiamo oggi, è stato ucciso in prigione, percosse. Ricevo poi un’altra chiamata, questa volta da una parente di Iordan Chimet, che mi consiglia di non tornare indietro.”
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SERENO
(Nina Cassian, pseudonimo di Renée Annie Cassian-Mătăsaru)
Sarà un tempo sereno, un tempo da inni.
Con un sol gesto l’aria fenderò,
pronuncerò solo parole immacolate.
Dirò “cielo”, “fonte”, dirò “sole”
e “lacrima” e “musica”, “immunità”.
Sarà il tempo in cui il mio ricordo
non sarà sfiorato da eco di massacri
ma da aliti soavi di poesia
ché a volte anche il sangue alita.
Di tutto quel che un tempo era promiscuo
conservo solo il sacro e mossa al perdono
loderò i contrasti perdonanti.
Dirò “cielo” e “sole” ma anche “musica”
e sarà “sole”, “musica” e “cielo”
intorno a me e intorno al mondo.
Le vocali assumeranno, naturali, la loro gloriosa aureola.
E verrà il tempo sonoro, scintillante,
un tempo solenne e puro, un tempo da inni
e verrà un giorno il tempo! Oh se verrà!
C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007 (Adelphi, 2013), trad. it. A. N. Bernacchia, O. Fatica
POESIA
Da questa matita si diparte una strada di grafite
e sulla strada passeggia una lettera, come un cane,
ed ecco una parola come una città abitata
dove forse arriverò domani.
SE TU POTESSI VIVERE
Se tu potessi vivere
le ore del tè, del caffè,
il tintinnio indolente delle tazze,
se potessi concepire le soavi ore ramate
nel pomeriggio di una vecchia famiglia di un secolo vecchio
che si è crogiolato in una memoria romantica,
se potessi non spaventarti quando
nella tazza colma di tè vedi il tuo volto
dalla fiamma dell’inferno intensamente illuminato.
C’è modo e modo di sparire
Ho creduto
di essere facilmente riconoscibile
dal mio leggiadro anulare
(ora tutto ingobbito)
e dal cane piumato
che mi accompagna.
Ho creduto di poter essere
una nappina appesa al Suo abat-jour,
Donna Decrepitudine.
La sabbia rosicchia la mia sagoma.
Scompaio,
divengo con lei una cosa sola.
C’è modo e modo di sparire (Adelphi, 2013), cura e traduzione di O. Fatica, A. Bernacchia
Volevo restare a settembre
sulla spiaggia pallida e deserta,
volevo caricarmi di cenere
delle mie volubili gru
e che il vento grave dormisse
come acqua nelle reti fra le chiome;
volevo una notte accendermi
una sigaretta più bianca della luna
e intorno a me – nessuno, solo il mare
con la sua forza grave e latente;
volevo restare a settembre,
presente al trascorrere del tempo,
una mano fra gli alberi e l’altra
nella sabbia canuta – e scivolare
nell’autunno insieme all’estate…
Ma a me sono stati prescritti,
è chiaro, più penosi abbandoni.
Mi è toccato strapparmi a paesaggi
a cuore impreparato
e mi è toccato lasciare l’amore
quando ancora amare vorrei…
C’è modo e modo di sparire (Adelphi Edizioni, 2013) trad. it. A. N. Bernacchia
Preghiera
Se esisti per davvero – fatti avanti,
sii nuvola, caprone, aviatore,
porta con te occhi, bocca, voce,
– chiedimi qualcosa, lascia che mi sacrifichi,
prendimi tra le braccia, proteggimi,
nutrimi con la settima parte di un pesce,
fammi un fischio, dissodami le dita,
ricolmami di aromi, di stupore,
– resuscitami.
La tentazione
Più vivo di così non sarai mai, te lo prometto.
Per la prima volta vedrai i pori schiudersi
come musi di pesce e potrai ascoltare
il mormorio del sangue nelle gallerie
e sentire la luce scivolarti sulle cornee
come lo strascico di un abito; per la prima volta
avvertirai la gravità pungerti
come una spina nel calcagno
e per l’imperativo delle ali avrai male alle scapole.
Ti prometto di renderti talmente vivo che
la polvere ti assorderà cadendo sopra i mobili,
che le sopracciglie diventeranno due ferite fresche
e ti parrà che i tuoi ricordi inizino
con la creazione del mondo.
Ginnastica mattutina
Mi sveglio e dico: sono perduta.
È il mio primo pensiero all’alba.
Comincio bene la giornata
con questo pensiero assassino.
Signore, abbi pietà di me
– è il secondo, e poi
scendo dal letto
e vivo come se
nulla mi fosse accaduto.
Ermetica
Se ci fosse un luogo dove conficcare un altro grido
quale potrebbe essere, la roccia o il mare
o l’occhio dell’uccello della notte, fisso e tondo, duro come la pietra,
giallo come la luna?
Ah, tutto è impenetrabile.
E il grido viene fuori dalla bocca
pendulo come la lingua dell’impiccato.
Articolo di Daniele Piccinini- Nina Cassian, una nuova genesi per il mondo –Fonte-Famiglia Cristiana-
13/06/2014 Viaggio nell’universo poetico della romena, in “esilio” negli Stati Uniti, una enciclopedia del ‘900 che tenta di immaginare la realtà a partire dall’esistente, fino alla preghiera finale: «Resuscitami».
L’esilio è per la poesia come una nutrice austera. In esso i fuochi della lingua materna brillano più chiari, il mondo diventa un unico grandioso mistero. Anche Nina Cassian, romena, si è abbeverata a questa fonte oscura, ricavandone una densa lezione. La sua poesia era già ampiamente formata quando il tema del non-ritorno, della fuoriuscita è venuto a visitarla.
Nel 1985 era in viaggio negli Stati Uniti: allora nella sua Romania le rivelazioni di un dissidente arrestato e torturato la mettono in pericolo e la rendono un possibile bersaglio del regime. Così decise di non tornare indietro. Da allora è vissuta negli Stati Uniti, fino alla recente scomparsa (aprile 2014), esprimendosi dunque in romeno e in inglese («Solo un sibilo bilingue» dice della sua lingua) oltre che nelle parole inventate dello spargano.
C’è modo e modo di sparire, suona il titolo della scelta di testi presentati al lettore italiano (C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 304, euro 25,00). Nata nel 1924, la Cassian ha attraversato il secolo (che come Caproni vedeva ferito: «Ma non guarisco dalla ferita del secolo, dalla ferita del mondo»), anzi la sua poesia sembra per molti aspetti una specie di enciclopedia del Novecento, non solo letterario, ma anche artistico, a partire almeno dal surrealismo. Colori, pensiero, forme sembrano attinti a un unico misterioso bulicame caotico e zampillante (non per nulla la poetessa parla di un’«apocalisse ilare»): si tratta insomma, novecentescamente, di rifare il mondo, di immaginarlo a partire dall’esistente, rovesciando e inclinando le categorie, mescolando sogno e veglia, visione e vista.
Come nota Ottavio Fatica, curatore del volume e traduttore dei testi scritti in inglese (quelli in romeno sono tradotti da Anita Natascia Bernacchia), c’è prima di tutto un vasto bestiario nei versi della Cassian: dal cucciolo di squalo alla tigre con gli occhi gialli, dallo scoiattolo al mite asino. Quasi mai naturalistici in senso stretto, questi animali sono l’alfabeto di un universo da rifare. Infatti si tratta, come dice la poetessa, di «giocare alla Genesi», «perché qui come altrove tutto si rimescola».
Anche la musica entra nella nuova creazione, nel caotico convergere delle specie e delle arti (la Cassian si è anche dedicata a comporre musica e a dipingere): più che verso un’ampia sonata (si veda la lunga poesia su Bach), la Cassian ha tuttavia il respiro del testo medio e breve e soprattutto di quello epigrammatico, fino a sconfinare nell’aforisma. Lì sa dare il meglio del suo guizzo inventivo e arioso, con un tocco che ha forse qualche punto di contatto con la grande polacca Szymborska (sua quasi coetanea), nell’ironia, nella leggerezza, anche se intrise qui di onirico e magari di macabro.
Come non molti poeti moderni (viene in mente da noi il versante giocoso di Sanguineti) la Cassian gioca a farsi l’autoritratto, ne sorride (specie parlando del proprio naso), si diverte nell’autocaricatura, che è di nuovo, però, una ricetta di poesia all’insegna della commistione, dell’impurità, dell’invenzione fantastica e dell’antiretorica: «Mi è toccato questo volto strano, triangolare, / questo pan di zucchero o questa / polena degna di navi corsare / e capelli lunghi, lunari, sulla cresta. // Mi è toccato portare in giro un aggressivo contorno / errabondo da mane a sera che spesso / squarcia la retina di chi mi sta dintorno / quando proietto alla parete il mio incongruo essere». Così recitano le prime due quartine di Autoritratto, mentre la terza, la penultima, aggiunge: «A chi appartengo? Mi rinnegano antenati e genitori. / Temporaneamente alleate mi rinnegano le razze, / i bianchi, i gialli, i rossi e i neri. / Neppure la specie mi riconosce tutta d’un pezzo».
Invenzione e scherzo non tolgono serietà alla parola poetica, anzi ne sono il contraltare e la conferma, essa che è tutta protesa a «rendere felicità e dolore gradini della conoscenza».
La poesia, che imprigiona il mondo per ansia di conoscerlo e ricrearlo, ha un suo aldilà, può tentare – ancora alla Caproni – una preghiera paradossale ma non troppo («Se esisti per davvero – fatti avanti»), si tende da giovinezza a decrepitudine fino a un’ombra, un’idea di resurrezione. Da parola a parola, da soffio a sibilo, la poetessa arriva a pensare di risorgere nella lingua materna; a chiedere nella sua non convenzionale preghiera «- resuscitami»
Traduzione di Anita Natascia Bernacchia, Ottavio Fatica
A cura di Ottavio Fatica
SINOSSI
Ultima figura emblematica di una ormai classica tradizione modernista, erede e testimone di quel fecondo ambiente romeno di cui facevano parte Brâncusi e Tzara, Ionesco, Eliade e Cioran, e come loro inevitabilmente esule, Nina Cassian ha percorso un tragitto artistico e umano singolare come la sua persona. Nel 1985, già titolare di una lunga carriera di successo (con qualche strappo al morso del regime), durante un soggiorno negli Stati Uniti finisce nel mirino della polizia, che ha scoperto certi suoi testi a dir poco caustici contro la politica e i politicanti del Paese: decide allora di non tornare in patria e chiede asilo politico. Qui, sostenuta e tradotta da vari poeti americani, rinasce a nuova vita. E la scelta, la riproposta, la traduzione, a volte la vera e propria ricreazione delle poesie romene precedenti l’esilio, nonché la stesura di nuovi componimenti – in romeno prima, e dopo qualche anno anche in inglese –, alimenteranno un corpus che non ha riscontri, né rivali, nell’odierno panorama poetico internazionale. Si avvertono, nella voce della Cassian, echi ravvicinati di tutta la più nobile stagione del Novecento: da Mandel’štam a Cvetaeva, da Apollinaire a Brecht a Celan, e si potrebbe risalire fino a Emily Dickinson, «sublime sorella», o anche più indietro, all’amoroso furor saffico. Il timbro è unico: diretto, spudorato, strenuamente lirico, a tratti disarmante, a tratti sornione, arguto e brutale al tempo stesso – e nudo, sempre, e sempre seducente. Si passa dalle punte epigrammatiche avvelenate ai voli pindarici sulle ali d’organo di un Bach – non per niente la Cassian compone musica: e dipinge, disegna, illustra libri anche per l’infanzia, spesso scritti da lei –, e ogni volta queste poesie, come ha scritto Vittorio Sermonti, ci riguardano da vicino, «sconvenientemente».
Tra il 1926 e il 1935 vive e studia a Brașov, successivamente si trasferità a Bucarest dove terminerà gli studi liceali. Nella capitale inizia a frequentare corsi di recitazione con l’attrice Beate Fredanov, la scuola di pittura diretta dall’artista M.H. Maxy e studiare il pianoforte con il musicista Constantin Silvestri.
Nel 1943 sposa lo scrittore Vladimir Colin da cui divorzierà nel 1948, per sposarsi con il critico letterario Al. I. Stefanescu.
Nel 1944 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, ma non completerà mai gli studi universitari. Nel 1945 pubblica la sua prima poesia sul giornale România liberă, seguita a due anni di distanza dal volume La scară 1/1, opera stilisticamente vicina all’espressività delle avanguardie artistiche e per questo definita decadente dalla critica ufficiale comunista.
Negli anni successivi aderirà allo stile imposto dal regime scrivendo versi encomiastici verso il regime comunista e i suoi leader. A questo periodo risalgono le raccolte Sufletul nostru (1949), An viu – nouă sute și șaptesprezece (1949), Tinerețe (1953), Florile patriei (1954) e Versuri alese (1955). Solo nel 1957 con i volumi Vârstele anului e Dialogul vântului cu marea
La poetessa riapproderà a una poesia svincolata dalla celebrazione ideologica del regime comunista. Negli anni successivi si dedicherà a un’intensa attività poetica e alla produzione di libri per bambini. Nel 1969 riceve il Premio dell’Unione degli Scrittori di Romania.
Nel 1985 è invitata negli Stati Uniti a tenere un corso di “Creative Writting” all’Università di New York e decide di non rientrare più in Romania. Ha vissuto a New York fino alla morte, avvenuta il 15 aprile 2014, all’età di 89 anni, a seguito di un attacco cardiaco[1].
Opere
La scara 1/1 (“Scala 1/1”), 1947
Sufletul nostru (“La nostra anima”), 1949
An viu, nouă sute şi şaptesprezece (“Anno vivo, novecento e diciassette”), 1949
Horea nu mai este singur (“Horea non è più solo”), 1952
Tinereţe (“Gioventù”), 1953
Versuri alese (“Versi scelti”),1955
Vârstele anului (“Le età dell’anno”), 1957
Dialogul vântului cu marea (“Dialogo del vento col mare”), 1957
Spectacol în aer liber – o monografie a dragostei (“Spettacolo all’aperto – una monografia dell’amore”), 1961
Numărătoarea inversă (“Conto alla rovescia”), 1983
Blue Apple, trad. in inglese di Eva Feiler, New York, 1981;
Lady of Miracles, versi, trad. di Laura Schiff, Bucarest, 1982;
Numărătoarea inversă, versi, Bucarest, 1983;
Jocuri de vacanță, versi e prosa, Bucaresti, 1983;
El sangre, trad. in spagnolo di Mihaela Rădulescu, Bucarest, 1983;
Lady of Miracles, trad. di Laura Schiff, Berkley, 1988;
Call Yourself Alive?, versi, trad. in inglese di Brenda Walker e Andreea Deletant, Londra, 1988 (II, 1989);
Life Sentence. Selected Poems, New York & London, 1990 (Trad.: Richard Wilbur, Stanley Kunitz, Carolyn Kiser, Nina Cassian, Andreea Deletant, Petre Solomon, Cristian Andrei etc);
Cheerleader for a Funeral, Trad. da Brenda Walker con l’autrice, London & Boston, 1992;
Cearta cu haosul, versi e prosa (1945-1991), Bucarest, 1993;
Iannis Ritsos, A patra dimensiune, Bucarest, 1964;
D. Rendis, Poezii, Bucarest, 1966;
B. Brecht, Versuri, Bucarest, 1966;
Christian Morgenstern, Cântece de spânzurătoare, Bucarest, 1970;
Paul Celan, Versuri, in collaborazione con Petre Solomon, Bucarest, 1973;
H. Kahlau, Fluxul lucrurilor, Bucarest, 1974;
Moliere, Femeile savante, Bucarest, 1974;
E. Guillevie, Poemi, Bucarest, 1977;
I. Manger, Balada evreului care a ajuns de la cenușiu la albastru, trad. in collaborazione con I. Bercovici, Bucarest, 1983.
Traduzioni in lingua italiana
C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007, Milano, Adelphi, 2013. A cura di Ottavio Fatica. Traduzioni dal romeno di Anita Natascia Bernacchia; traduzioni dall’inglese di Ottavio Fatica.
Iarna (inverno), Caltanissetta-Roma, S. Sciascia, 1960, versione a cura di Antonino Uccello.
Poesie scelte, in L’immaginazione, n. 246/2009 (Manni Editori), traduzione di Anita Natascia Bernacchia.
Il sangue; La tentazione; Cedere il posto agli anziani e agli ammalati; Mi tagliano in due; Il mio dialogo con la dittatura, in Il vizio di leggere di Vittorio Sermonti, Rizzoli, 2009, ISBN 88-17-03298-0 traduzione a cura di Anita Natascia Bernacchia.
David Copperfield di Charles Dickens –Articolo di Giovanni Teresi-
David Copperfield è l’ottavo romanzo dello scrittore inglese Charles Dickens e rientra nei romanzi sociali . L’opera, inizialmente, è stata pubblicata a puntate mensili tra il 1849 e il 1850 con il titolo originale The Personal History, Adventures, Experience and Observation of David Copperfield the Younger of Blunderstone Rookery (Which He Never Meant to Be Published on Any Account).
É il romanzo più popolare ed autobiografico di Dickens.
David Copperfield, dopo la morte della madre, lascia Blunderstone per Londra. Mr Murdstones, il patrigno, lo obbliga ad andare a lavorare al magazzino di vini di Murdstone and Grimby. All’ età di dieci David diventa un piccolo apprendista. Egli lavora insieme con altri tre o quattro ragazzi che lavorano sotto il controllo di un supervisore adulto. David descrive la miseria e la sporcizia del posto di lavoro. Così, sotto la sferza del tirannico maestro Creakle e la fatica del lavoro in fabbrica, sperimenta presto la durezza della vita.
Ma grazie alle cure della bizzarra zia Betsey, che lo aiuta a sistemarsi presso l’avvocato Wickfield e a terminare gli studi, David scoprirà la propria vocazione letteraria e riconquisterà il suo rango borghese. Impareggiabile nel raccontare paure ed emozioni dell’universo infantile, Dickens sfodera doti di acuto osservatore nel disegnare la galleria di tipi umani che ruota attorno al protagonista: da Mr. Micawber, sempre sull’orlo del fallimento ma capace del più genuino entusiasmo, all’ammirato compagno di studi Steerforth, che rivelerà da adulto la sua natura spregiudicata e viziosa, al servile e viscido Uriah Heep, il cattivo della storia. Alla fine del diciannovesimo secolo il lavoro minorile e le dure condizioni erano considerate una cosa normale e i piccoli lavoratori erano sottoposti a grossi rischi. Ma David non può esprimere la segreta agonia della sua anima. Egli vede il futuro in modo negativo e non ha speranza: nessuna possibilità di crescere e di distinguersi come individuo. La miseria del suo lavoro e la sua condizione sociale soffocano i suoi sogni e le sue aspettative.
Con geniale esuberanza il romanzo intreccia commedia e tragedia sullo sfondo di una Londra prototipo della metropoli moderna e tetra incubatrice di miseria, solitudine, crimine.
Charles Dickens miscelando insieme una buona dose di dramma ma anche di ironia, riesce a trasmettere al lettore una miriade di emozioni, che passano dalla tristezza, alla gioia, dalle risate alle lacrime, dalla rabbia ai sospiri. Insomma, immergersi tra le pagine di David Copperfield equivale a vivere un vero e proprio viaggio non solo in un’epoca passata, ma anche in sensazioni molto forti, che rendono la lettura un’esperienza completa e piena.
Biografia-Charles Dickens, secondo di otto figli, nasce a Portsea, il 7 febbraio 1812. È considerato uno dei maggiori autori inglesi del suo secolo, ed è ritenuto dalla critica il “fondatore” del romanzo sociale, che tratteggia la vita dei ceti sociali economicamente svantaggiati e denuncia situazioni di sopruso e pregiudizio.
Nel 1815, quando Charles ha tre anni, la famiglia si trasferisce a Londra. Due anni dopo, un nuovo trasferimento, stavolta a Chatham, nel Kent. Passa il tempo libero all’aperto impegnato in voraci letture. Più tardi racconterà delle sue vivide memorie riguardanti l’infanzia e della particolare memoria fotografica che lo aiutò a dar vita alle sue finzioni. Nel 1823, la famiglia Dickens, assai impoverita, è costretta nuovamente a trasferirsi a Camden Town, allora uno dei quartieri più poveri di Londra.
All’età di quindici anni entra nello studio legale Ellis & Blackmore come praticante. Nel frattempo, comincia a frequentare i teatri londinesi, assistendo a diversissimi generi, dalle tragedie shakespeariane alle farse e alle operette musicali.
Nel 1832 inizia a collaborare con alcuni quotidiani, come cronista.
Nel 1836, in aprile, comincia in dispense mensili a pubblicare sul Morning Chronicle il primo romanzo. Il romanzo s’intitola I quaderni postumi del Circolo Pickwick (The Posthumous Papers of the Pickwick Club): il libro lo rende in breve assai famoso nel panorama della narrativa inglese.
A gennaio del 1837, con il primo numero della rivista Bentley’s Miscellany, esce la prima puntata di Oliver Twist.
Tra il maggio 1849 e il novembre 1850 viene pubblicato, a cadenza mensile su un giornale di proprietà di Dickens, il romanzo David Copperfield; l’idea di un’opera scritta in prima persona fu suggerita allo scrittore dall’amico e confidente John Forster. Nell’opera a fondo autobiografico si possono riconoscere personaggi e situazioni che lo stesso Dickens aveva conosciuto e vissuto in prima persona.
Muore il 9 giugno 1870.
Il 14 giugno è sepolto nell’abbazia di Westminster, nella quale la sua salma viene portata da un treno speciale, nell’angolo dei poeti (Poets’Corner).
Canto di Natale è stato scelto come libro della gara di lettura delle scuole medie per l’anno scolastico 2013/2014.
BIBLIOGRAFIA SINTETICA
Le avventure di Oliver Twist David Copperfield Grandi speranze Canto di Natale
Charles Dickens: biografia
Charles Dickens nasce a a Portsmouth nel 1812. La sua famiglia non lo favorisce negli studi. I nonni paterni erano stati domestici presso famiglie della nobiltà: il nonno materno, colpevole di appropriazione indebita, era fuggito per sottrarsi all’arresto. Nel 1824 il padre, un modesto impiegato con abitudini superiori alle sue possibilità, viene rinchiuso per debiti nelle carceri londinesi di Marshall sea ed il piccolo Dickens è costretto a interrompere gli studi. Lavora per sei mesi in una fabbrica di lucido per scarpe. Anche dopo la scarcerazione del padre, la madre lo fa continuare a lavorare. Una precoce esperienza di miseria, umiliazione e abbandono, che lo segna in modo irreparabile. Dopo un’istruzione sommaria, lavora come commesso in uno studio legale, poi come cronista parlamentare e collaboratore di giornali umoristici.
CHARLES DICKENS RIASSUNTO VITA – Grazie a “Il circolo Pickwick”, il ventiseienne Dickens diventa di colpo uno scrittore di successo. La sua popolarità aumenta con i romanzi successivi, usciti a dispense mensili, con le conferenze, gli spettacoli teatrali da lui organizzati, in cui Dickens si esibisce anche come attore. Tra il 1837 e il 1839 abita al 48 di Doughty Street (Londra). S’impegna in una prolifica attività creativa, scrivendo anche due romanzi alla volta, ma senza mai perdere il gusto per la convivialità. Nel 1846 fonda il quotidiano “Daily News”, che dura meno di un anno. Nel periodo tra il 1850 e il 1859 è direttore del mensile “Household Words”. Innamoratosi della giovanissima Ellen Ternan, nel 1858 si separa dalla moglie da cui aveva avuto dieci figli. Una nuova relazione, poco fortunata. Muore a Gad’s Hill [Kent] nel 1870.
Il Circolo Pickwick: riassunto
Il romanzo si sviluppa come il resoconto dei viaggi che Samuel Pickwick, fondatore dell’omonimo circolo, compie con gli amici Nathaniel Winkle, Augustus Snodgrass e Tracy Tupman, in Inghilterra all’inizio dell’Ottocento. Pickwick vuole studiare le persone che incontra e descriverne abitudini e caratteristiche. All’inizio del viaggio il gruppo di amici viene notato da Jingle e dal suo domestico Job Trotter, due delinquenti che riescono a ingannarli e a metterli nei guai. L’episodio più importante del romanzo è l’incontro con Mr. Wardle, un gioviale e ricco gentiluomo, che nel corso della storia Pickwick ed i suoi amici torneranno spesso a trovare. Snodgrass si innamora di Emily, figlia di Wardle; Winkle di Arabella, amica di Emily e Tupman dalla sorella di Wardie, Rachel. Quest’ultima viene ingannata da Jingle, che la sposa per la sua dote e poi fugge con lei. Ma Pickwick e Wardle riescono a trovarli e a convincere Jingle a lasciar stare la signora. Pickwick conosce Sam Weller, un onesto lustrascarpe, che diventa suo domestico ed un grande amico. Pickwick deve anche affrontare una causa legale mossa dalla sua governante per una mancata promessa di matrimonio. Dopo un periodo trascorso in prigione, riesce ad uscire e tutto si risolve per il meglio.
Oliver Twist: riassunto
Storia di un orfano, che prima viene segregato in un ospizio di mendicanti e poi è costretto a vivere tra ladri e prostitute. Tutto inizia in un paesino dell’Inghilterra nel XIX secolo, con una vagabonda che muore dando alla luce un bambino, il cui nome sarà Oliver Twist.
Fino all’età di nove anni, il bambino resta in orfanotrofio ma la fame e le continue punizioni lo spingono a fuggire. Arriva a Londra e fa casualmente conoscenza con un giovane che approfitta della sua ingenuità per introdurlo in una banda di ladruncoli capeggiata dall’ebreo Fagin. Un giorno i borsaioli derubano un vecchio gentiluomo, il signor Bronlow. Oliver fugge inorridito, ma, scambiato per il vero ladro, viene arrestato. Bronlow lo discolpa e lo ospita a casa sua, ma per ordine di Fagin, che aveva paura delle possibili rivelazioni che Oliver poteva fare, Sikes lo scassinatore e la sua amante Nancy riprendono il ragazzo. Così Oliver, costretto nuovamente a fare il ladro, partecipa ad un un furto. Ma il colpo va male e Oliver è ferito ad una spalla da un colpo di pistola. Lo salvano la signora Maylie con la nipote adottiva Rose. Grazie a loro il ragazzo ritrova fiducia e salute. Fagin intanto cerca Oliver insieme a Monks, un altro scagnozzo che sembra avere un odio particolare per il ragazzo. Nancy, che è sempre stata buona con Oliver, avverte Rose Maylie del complotto che Fagin sta tramando contro di lui.
Il tradimento della ragazza viene scoperto e Sikes la uccide. L’assassino, costretto a nascondersi, viene rintracciato e mentre tenta di fuggire rimane accidentalmente impiccato. Il signor Bronlow, saputa tutta la vicenda, fa arrestare Fagin e la sua banda e si scopre che Monks è un fratellastro di Oliver ed è figlio illegittimo della sorella di Rose, Maylie: Rose è quindi zia di Oliver. Il padre di Oliver, prima di morire, aveva lasciato del denaro a entrambi i figli e per questo motivo Monks avrebbe voluto togliere di mezzo il fratello per accaparrarsi tutta l’eredità. Ma questo non gli è stato possibile e Oliver venne adottato da Bronlow che lo educa con l’affetto di un padre.
David Copperfield: riassunto
I primi capitoli del romanzo David Copperfield sono dedicati all’infanzia di David che, orfano di padre, vive con la madre e con la governante Peggotty. Il clima felice viene interrotto dal matrimonio della madre di David con Mr. Murdstone, un uomo freddo e crudele che, spalleggiato da sua sorella, instaura in casa un clima di terrore. David, viene prima mandato nella scuola del signor Creakle e, dopo la morte della madre, è costretto a lavorare a Londra in un deposito di vino. Qui trova conforto solo nell’amicizia del signor Micawber e della sua famiglia presso la quale vive. Quando Micawber è arrestato per debiti, David fugge da Londra e si reca da una zia materna, Miss Betsy Trotwood, che si prende cura di lui. Il ragazzo può continuare la sua educazione a Canterbury, nella casa dell’avvocato Wickfield, la cui assennata figlia Agnes è destinata ad influire grandemente sulla sua vita.
Completati gli studi, va a far pratica nello studio legale di Mr. Spenlow. Ritrova anche un suo compagno di collegio, Steerforth e lo presenta alla famiglia della sua amica nutrice Peggotty.
Ma Steerforth seduce la nipote di Peggotty, Emily, e muore in un naufragio. David sposa la giovane Dora Spenlow che dopo pochi anni muore. Il giovane, dapprima sconsolato, scopre finalmente l’errore che ha fatto nel trascurare Agnes. Il padre di Agnes intanto è caduto nelle mani di un individuo ipocrita e malvagio, il suo assistente, Uriah Heep, dal viso cadaverico e dalle mani appiccicose, che si sta impadronendo del suo patrimonio e aspira alla mano di Agnes. Le malefatte di Heep vengono però smascherate da David con l’aiuto di Micawber. Tutto allora finisce bene: Heep è condannato; David, che ha raggiunto la fama come autore di romanzi, sposa Agnes; Micawber, sistemati finalmente i debiti, parte per le colonie.
Tempi difficili: riassunto
Il signor Gradgrind si è impegnato nella sua vita a realizzare fatti, perché tutto il resto è inutile, anche i sentimenti. Ha educato i suoi figli inculcando loro l’importanza dei fatti e si stupisce molto quando sorprende due di loro, Louisa e Thomas, a guardare attraverso una fessura il circo appena giunto in città. Su consiglio del suo vecchio amico banchiere, il signor Bounderby, decide che la colpa dell’accaduto è della figlia di un clown, Cecilia Jupe detta Sissy, che il giorno prima è andata a casa sua per chiedere il permesso di iscriversi nella scuola. Gradgrind decide di cacciarla e si reca nella locanda dove la giovane alloggia col padre per comunicare che non c’è posto nella scuola. Qui scopre che il clown ha abbandonato la figlia e decide di accoglierla in casa sua per educata secondo le sue idee. Sissy fa subito amicizia con la primogenita del signor Gradgrind, Louisa, la prediletta del signor Bounderby. Tom, il fratello di Louisa, pensa che una volta diventato grande sarebbe potuto andare a lavorare nella banca di Bounderby, approfittando del debole dell’uomo per la sorella. Bounderby è stato abbandonato dalla madre quand’era ancora in fasce e ora è uno degli uomini più ricchi di Coketown, possedendo anche molte fabbriche. Ha alle sue dipendenze una signora di nobili origini, la signora Sparsit, ed un certo Stephen Blackpool.
Andando via dalla casa del signor Bounderby, Blackpool conosce una vecchia signora, che si reca un paio di volte all’anno a Coketown, per cercare di vedere da lontano il Signor Bounderby, verso il quale prova una vera e propria ammirazione. Gli anni passano ed il signor Gradgrind si accorge che la figlia è diventata una donna. Così le parla di una proposta di matrimonio ricevuta dal signor Bounderby. Louisa, un po’ per l’educazione ricevuta e un po’ per assecondare il fratello, acconsente alle nozze. Dopo il matrimonio, la signora Sparsit si trasferisce dalla casa del signor Bounderby alla banca, per gestirla. Qui lavora anche il fratello di Louisa, che approfitta del matrimonio della sorella per far carriera. Il signor Gradgrind viene eletto nel parlamento inglese, dove conosce il signor Harthouse, che lo convinve ad inviare, dietro una sua lettera di presentazione, il proprio fratello, James Harthouse, a Coketown.
Harthouse giunge in città e si reca dal signor Bounderby per presentarsi. Incontra Louisa, di cui rimane subito affascinato. Per avvicinarsi a lei, fa amicizia col fratello. In città intanto il clima è rovente tra operai e padroni: Stephen Blackpool viene evitato dai suoi compagni, perché rifiuta di aderire alle manifestazioni sindacali. Un giorno, viene invitato a casa del signor Bounderby, che lo licenzia additandolo come sobillatore. Più tardi Stephen riceve a casa la visita di Louisa che gli porta dei soldi per aiutarlo dopo il licenziamento.
Anche il fratello di Louisa dice di volerlo aiutare e gli chiede di andare ad aspettare fuori dalla banca nei seguenti due giorni. Stephen segue le istruzioni ricevute da Tom, ma non vede nessuno. Viene però notato dalla signora Sparsit. Sapendo che ormai non avrebbe più avuto nessuna possibilità di trovare un posto di lavoro a Coketown, decide di abbandonare la città. Qualche giorno la banca viene rapinata. Il signor Bounderby incolpa Blackpool, visto sorvegliare la banca qualche giorno prima. Poi accoglie a casa sua la signora Sparsit, rimasta sconvolta dalla rapina. La signora Sparsit nota la simpatia tra Louisa e il signor Harthouse. Dato che la presenza della signora Sparsit gli fa piacere, il signor Bounderby decide di invitarla ogni week-end a casa sua. Una settimana il signor Bounderby rimane fuori città per lavoro e la signora Sparsit fa sapere a Louisa che non si sarebbe recata a casa loro, ma vi si reca lo stesso di nascosto per sorprenderla col signor Harthouse. Sente la dichiarazione d’amore del signor Harthouse a Louisa e si reca subito dal signor Bounderby per avvisarlo. Dopo l’accaduto Louisa si reca dal padre in cerca di conforto, mentre Sissy va dal signor Harthouse e lo convince ad andare via per il bene di Louisa. Alla fine però Il signor Bounderby e Louisa si separano. Il signor Bounderby vuole trovare Stephen, sospettato della rapina insieme ad una misteriosa vecchia signora. Fa affiggere manifesti ovunque, dove si dice che Stephen è il colpevole della rapina.
I giorni passano e Stephen non torna. Un giorno la signora Sparsit si reca dal suo padrone con l’anziana sospettata di essere la complice di Stephen e si scopre che quella anziana signora è la madre del signor Bounderby e che questi ha mentito sul fatto di essere stato abbandonato. Stephen è quindi scagionato. Una domenica Rachel e Sissy vanno in campagna per una passeggiata e trovano Stephen, che incarica il signor Gradgrind di discolparlo. Nel frattempo Tom scappa e si nasconde nel circo del signor Sleary, dove lavorava il padre di Sissy. Il signor Gradgrind elabora un piano per far abbandonare il paese a Tom, che sale su una nave diretta in America. Sissy si trasferisce stabilmente a vivere dal padre, mentre il signor Bounderby, per rifarsi della figura fatta in paese, fa fare carriera a Bitzer, che per poco non è riuscito a catturare Tom. La signora Sparsit rimane per qualche tempo al servizio del signor Bounderby, che alla fine la licenzia.
La signora Sparsit è ben felice di lasciare il suo impiego, anche se è costretta ad andare al servizio di una sua dispotica parente.
Grandi speranze: riassunto
Pirrip Philip, detto Pip, è un ragazzo orfano che viene cresciuto dalla sorella, prepotente e violenta, Mrs Gargery, che lo picchia spesso. Stessa sorte tocca al buon Joe, marito di Mrs Gargery, con il quale Pip ha un buon rapporto. Durante una passeggiata alla palude Pip incontra un evaso che lo minaccia e lo obbliga a portargli del cibo per rifocillarsi ed una lima per liberarsi dagli anelli da deportato che ha alle caviglie. Pip sottrae del cibo da casa e una lima dalla fucina di Joe e, come stabilito, li porta all’evaso che lo ringrazia. Un giorno Pip viene portato a giocare da Miss Havisham, che vive in una casa maestosa, ma molto buia. Miss Havisham indossa un abito da sposa ingiallito e logoro e nella sua sala da pranzo ci sono ancora i resti di un pranzo nuziale e di una torta, tra ragni e topi. Qui Pip conosce Estella, adottata da Miss Havisham. Pip è affascinato da Estella anche se lei lo tratta con superbia e altezzosità. Dopo la visita da Miss Havisham e le parole di disprezzo di Estella, Pip inizia a vergognarsi di Joe, della sua ignoranza, della sua rozzezza e della sua semplicità e da quel momento decide di studiare per diventare migliore. Un giorno gli viene data la notizia che un benefattore sconosciuto gli ha lasciato i suoi beni, dandogli “grandi speranze”. Pip è convinto che Miss Havisham sia la benefattrice e che il suo progetto sia di unire Pip ed Estella. Pip va a vivere a Londra, studia presso Mr Pocket, vive con Herbert, un ragazzo conosciuto anni prima a casa di Miss Havisham. L’avvocato Jaggers ed il suo aiutante Mr Wemmick gestiscono i beni di Pip. Con Mr Wemmick, Pip intrattiene rapporti amichevoli.
Ogni tanto Pip torna al paese a far visita a colei che considera la sua benefattrice e dal paese intero è chiamato Mr Pip. Continua a vergognarsi di Joe e per anni evita di andarlo a trovare. Nel frattempo la sorella di Pip viene picchiata da Orlick, aiutante di Joe alla fucina, rimane invalida, viene assistita da Biddy e muore dopo qualche anno. Un giorno Pip riceve la visita di uno strano uomo ed in lui riconosce l’evaso che molti anni prima aveva salvato portandogli del cibo ed una lima. E’ Magwitch, tornato clandestinamente dall’Australia dove si era arricchito, per rivelare a Pip di essere il suo benefattore. Pip resta meravigliato e scopre che il piano di Miss Havisham non era di unirlo ad Estella, ma di farlo soffrire per amore di Estella. Miss Havisham è stata abbandonata dall’uomo che doveva sposarla nel giorno delle nozze e, per vendicarsi di questa triste sorte, aveva deciso che Estella avrebbe dovuto far soffrire tutti gli uomini che la amavano. Pip ed Herbert decidono di aiutare “zio Provis”, il nome dato a Magwitch, a fuggire.
Il giorno della fuga il piano fallisce e Magwitch viene catturato e ferito gravemente. Dopo il processo viene condannato. Magwitch muore e Pip perde le sue grandi speranze. Poi si ammala e viene assistito amorevolmente da Joe che sa di essere inferiore a lui, ma nonostante questo gli è sempre fedele. Guarito, Pip decide di tornare al paese, di sposare Biddy e restare per sempre accanto a Joe, ma tornato a casa scopre che Biddy e Joe si sono appena sposati.
Ad entrambi chiede perdono per il suo comportamento e per la sua ingratitudine e parte per raggiungere Herbert al Cairo che, con i soldi donati a sua insaputa da Pip, ha avviato un’attività. L’attività procede bene, Pip torna in Inghilterra, rivede Estella che gli confida il suo pentimento per l’atteggiamento nei suoi confronti. Pip le dice che saranno sempre amici e che non l’abbandonerà mai.
Canto di Natale: riassunto
Ebenezer Scrooge è un tirchio, ricco e avaro finanziere della City che non spende nulla e pensa che il Natale sia una perdita di tempo, come anche la domenica, che intralcia il commercio e il suo guadagno. Infastidito dalle festività, costringe il suo contabile Bob Cratchit a lavorare anche il giorno dopo Natale, per rifarsi del tempo perduto. Risponde male a chi gli fa gli auguri per la strada, compreso il nipote Fred, figlio della defunta sorella, che lo prega di pranzare con la sua famiglia. Ma l’unica compagnia che ha importanta per Scrooge è quella della sua cassaforte. Tornato a casa, gli sembra di vedere nel battiporta del portone il volto di Marley, il suo socio in affari morto da 7 anni. Chiuso nella sua vecchia casa, inizia a sentire dei rumori strani (un carro funebre sulle scale, catene dalla cantina) e vede oscillare da sola una campanella. A questo punto si apre una porta e compare il fantasma di Marley, che è condannato a vagare per il mondo senza vedere la luce di Dio perché ha vissuto chiuso nel proprio egoismo lontano dalle persone che amava e che lo amavano. Ammonisce Scrooge e gli annuncia la visita di 3 spiriti: lo spirito del Natale passato, quello del Natale presente e quello del Natale futuro.
Il primo riporta Scrooge al periodo della sua infanzia, che ha dimenticato, e gli fa rivivere i momenti importanti della sua vita, come quando promette ad una ragazza di sposarla, ma poi annulla le nozze perché la giovane non ha soldi per la dote. Da quel giorno Scrooge è rimasto solo e il suo cuore è diventato sempre più arido. Il secondo spirito gli mostra come le persone che conosce trascorrono il Natale. Il terzo spirito gli fa vedere cosa accade dopo la sua morte e cosa la gente pensa di lui. Alla fine Scrooge si ritrova nel suo letto e scopre che è la mattina di Natale. Forte della lezione ricevuta fa mandare un grande tacchino a casa del suo contabile, esce per strada salutando tutti con affetto e si reca dal nipote che lo aveva invitato per il pranzo di Natale.
Passa così il più bel Natale della sua vita. La mattina dopo aspetta l’arrivo in ufficio di Cratchit, ignaro del cambiamento del suo datore di lavoro, ed inizia a trattarlo da amico, gli dà un aumento di stipendio e le vacanze tanto meritate. Da allora Scrooge diventa una delle persone più amate del paese.
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