Maurizio Degl’Innocenti-Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Editore Franco Angeli-
Questo saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza, avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale. Il testo offre inoltre molteplici spunti di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di un’intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
GIACOMO MATTEOTTI E IL SOCIALISMO RIFORMISTA
Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Dalla scheda del volume sul sito dell’editore FrancoAngeli
Il saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale.
Nel rapporto essenziale con il territorio evidenzia la persistente forza delle periferie, lungo le quali si riscrivono le gerarchie sociali e politiche, tra continuità e rottura dei codici etici e di prestigio. Nel ricostruire il cursus honorum di Matteotti da organizzatore nel Polesine a figura di spessore nazionale fino all’ingresso a Montecitorio e infine a segretario del Partito socialista unitario impegnato nella lotta al fascismo e al bolscevismo, fa emergere una concezione della politica come pedagogia individuale e collettiva per una cittadinanza diffusa e inclusiva; tecnica gestionale in una strategia “costruttiva” della società di lungo periodo; prassi fondata sul ruolo imprescindibile dei partiti nazionali in una democrazia rappresentativa e conflittuale nel rispetto dello Stato di diritto; visione delle problematiche interne in connessione con gli equilibri internazionali in una prospettiva di libera e pacifica convivenza dei popoli e, perfino, già europeista. Il saggio offre molteplici motivi di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
Premessa
La formazione e il “motore dell’energia pratica”
(L’ambiente familiare e il “vaso migliore”; I “tempi lunghi” degli studi e la “fame d’azione”; “Non si gettava, ma andava a passo regolare contro il periglio supremo: il che è infinitamente di più”; La costruzione evolutiva e “il socialismo dentro di noi”; Il “sobillatore”)
La “campagna senza fine”
(Il cursus honorum; La titolarità politica dell’ente locale; Spazio fisico e culturale. Per un sistema di istruzione integrato e permanente; Dalla lega all’azienda cooperativa; “Noi demandiamo di restituire alla nostre terre le libertà”)
“Difendiamo insieme la causa del socialismo, la causa del nostro Paese e quella della civiltà”
(Matteotti a Montecitorio; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Matteotti, il “fermo ai contrabbandieri del pubblico bene” e il debito buono; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Turati e un programma “serio e concreto” per rifare l’Italia; La crisi dello Stato di diritto e l’Esecutivo Giolitti; Nella tenaglia fascista; “La rielaborazione dei Partiti” e il situazionismo; Il Governo di coalizione e il mancato incontro con il Partito popolare)
“I socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti”
(“Ricominciamo daccapo, ringiovaniremo nel ricostruire”; Matteotti e il frazionismo socialista; Alla segreteria del PSU; Il blocco per la libertà; La guerra, la “pace senza pace” e la ricostruzione dell’Europa)
Turati, Matteotti e il rinnovamento socialista
(Le vie nuove della socialdemocrazia europea; Le Direttive socialiste (1923) e “il partito di realtà”)
Indice dei nomi.
Maurizio Degl’Innocenti, ordinario di storia contemporanea, è direttore di collane editoriali, condirettore della rivista “Storiaefuturo”, membro di diversi istituti di ricerca. Presiede la Fondazione di studi storici “Filippo Turati”. Annovera tra le ultime pubblicazioni La società volontaria e solidale (2012); Giacomo Matteotti. Eroe socialista (2014); La Patria divisa. Socialismo, nazione e guerra mondiale (2015); Giovanni Pieraccini la politica e l’arte (2016); L’età delle donne. Saggio su Anna Kuliscioff (2017).
Chantal Delsol -La fine della cristianità e il ritorno del paganismo- Edizioni Cantagalli-Siena
Descrizione del libro di Chantal Delsol La fine della cristianità-Il futuro dell’Occidente è pagano. Siamo in un declino da spossatezza, barbarie e cancel culture. Sedici secoli di cristianesimo stanno per finire e oggi siamo testimoni di un’inversione normativa e filosofica che inaugura una nuova era; un’era che non sarà atea o nichilista, come molti credono, ma pagana. La cristianità ha esaurito il suo tempo lasciando spazio a nuove religioni, ad un politeismo che venera gli alberi, la terra, le balene. La transizione è brutale, difficile da accettare per i difensori di un’epoca in via di estinzione.
Dovremmo rimpiangere i tempi passati quando il divorzio era proibito come così l’istruzione superiore delle ragazze? Dobbiamo vivere nella speranza che la cristianità risorga dalle sue ceneri affermando la sua forza morale? Chi vive in questa malinconica nostalgia è già stato cancellato da un mondo che, nel bene o nel male, ormai è cambiato radicalmente.
Il grande Pan è tornato. Il cristianesimo deve inventarsi un altro modo per sopravvivere. Quello del semplice testimone. Dell’agente segreto di Dio.
Breve Biografia di Chantal Delsol
Chantal Delsol (Parigi 1947) filosofa, scrittrice, docente di filosofia politica, autorevole protagonista del mondo intellettuale francese. Editorialista di «Le Figaro», è membro della Académie des Sciences morales et politiques dell’Institut de France. Autrice di importanti opere tradotte in diverse lingue, tra le quali ricordiamo: Le Souci con-temporain (1996, 2004), premio Mousquetaire; L’Étatsubsidiaire (1992), premio della Académie des Sciences morales et politiques, trad. it. Lo Stato e la sussidiarietà; Histoire desidéespolitiques de l’Europe centrale, con Michel Maslowski (1998), premio della Académie des Sciences mo-rales et politiques; Éloge de la singularité, essai sur la modernité tardive (2000), premio Raymond-de-Boyer-de-Sainte-Suzanne dell’Accademia francese, trad. it. Elogio della singolarità. Saggio sulla modernità tardiva.
La fine della cristianità e il ritorno del paganismo è Disponibile in libreria dall’ 11 novembre 2022.
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Edizioni Cantagalli srl
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Non abbiamo ancora preso piena coscienza della pro- fonda trasformazione che si sta producendo nel nostro tempo: la fine di una civiltà vecchia di sedici secoli. Dopo molte esitazioni, uso questa agghiacciante parola: “ago- nia”. Infatti la morte della cristianità1 non è affatto una morte improvvisa. D’altronde, salvo poche eccezioni, le civiltà non conoscono una morte improvvisa: si estin- guono a poco a poco, in numerosi sussulti. La cristianità combatte da due secoli per non morire, e in questo con- siste quella commovente ed eroica agonia. È così antica che ha creduto all’inizio di poter beneficiare di una sorta di immortalità: non era forse segnata dal sigillo della tra- scendenza? E poi si è creduta, come certi anziani, troppo vecchia per morire. La Chiesa è eterna per i cattolici: ci sarà sempre un gruppo di fedeli, sia pure sparuto, a costitu- irla. Ma la cristianità è qualcosa di completamente diverso. Si tratta della civiltà ispirata, ordinata, guidata dalla Chie- sa. Sotto questo aspetto possiamo dire che la cristianità è durata sedici secoli, dalla battaglia del fiume Frigido, nel 394, fino alla seconda metà del XX secolo, con il successo dei sostenitori dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Le cosiddette riforme sociali sono essenziali per ca-
1 In francese il termine Chrétienté ha l’iniziale maiuscola, che va usata per distinguere le civiltà (Islam come civiltà e islam come religio- ne, per esempio). In italiano abbiamo optato per l’iniziale minuscola, dato che tale distinzione abitualmente non è così categorica (ndc).
pire l’inizio e la fine. Infatti questa è davvero una civiltà, in altre parole: un certo modo di vivere, una visione dei confini tra il bene e il male.
L’incredibile energia con cui la cultura cristiana lotta da due secoli per non morire dimostra chiaramente che ha davvero formato un mondo, un mondo coerente in tutti gli ambiti della vita, chiamato cristianità. Non sono d’accordo con Emmanuel Mounier quando dice che non c’è stata alcuna civiltà cristiana: «La cristianità è una “spa- ventosa illusione” […]. Il cristianesimo è un’alternativa nel fondo del cuore […], non un consolidamento che si sta- bilisce con il tempo e con il numero»2. Mounier descrive qui il suo desiderio, non certo la realtà. Il cristianesimo ha costruito una civiltà, che è vissuta secondo le sue leggi e i suoi dogmi, tra mille difficoltà, per sedici secoli.
L’eredità controrivoluzionaria
La stagione dei Lumi, che inizia forse molto presto (con Montaigne? con Vico?) e culmina nella grande Rivoluzio- ne, mette in discussione la cristianità, attacca la civiltà cri- stiana, cioè dei modi di essere, una morale, delle convin- zioni profonde.
La Rivoluzione francese non si è potuta compiere se non in opposizione al cristianesimo, che era fin dall’origi- ne e fino a poco tempo fa, ce ne dimentichiamo troppo, il principale nemico della modernità3.
2 e. mounier, Cristianità nella storia, Ecumenica Editrice, Bari 1979, pp. 227-228 (or. fr. Feu la Chrétienté [1950], Desclée de Brouwer, Paris 2013, p. 51).
3 Con l’eccezione, ovviamente, dei protestanti. Il termine cristia- nesimo qui include essenzialmente cattolici e ortodossi.
Gli storici hanno mostrato chiaramente quanto la Ri- voluzione francese del 1789, che è la quarta del suo genere in Occidente, sia stata particolare rispetto alle precedenti. Le rivoluzioni olandese, inglese e americana, per rove- sciare il vecchio ordine sociale, si sono appoggiate su una base religiosa come Archimede sulla sua leva. In questi tre paesi regnava la religione riformata, che opponeva pochi ostacoli alle nuove idee. La Rivoluzione francese invece poggiava sul nulla, perché la religione cattolica dominan- te ne rifiutava tutti i princìpi, a cominciare dalla libertà e dall’uguaglianza. La conseguenza fu che le prime tre rivo- luzioni non degenerarono in utopie vendicative e ridicole, ma instaurarono regimi stabili e crearono società in cui la politica e la religione potevano appoggiarsi l’una sull’altra. La Rivoluzione francese sfociò invece in una guerra perpe- tua tra la Chiesa e lo Stato, con tutte le sue conseguenze: quando si priva completamente della vita spirituale, la po- litica cade inevitabilmente in eccessi sinistri. Quanto alla Chiesa, ridotta allo stato di nemico pubblico e perenne- mente in rivolta contro le leggi e i costumi, andava lenta- mente indebolendosi.
Le prime rivoluzioni moderne fondate sulla libertà fu- rono delle conquiste protestanti. Per questo le democrazie anglosassoni di oggi non hanno rifiutato i riferimenti re- ligiosi all’interno perfino della politica: non si disdegna la propria culla. D’altra parte, come scrive Pascal Ory:
«La Rivoluzione francese, al contrario delle altre tre, non si è potuta appoggiare a una religione che, questa volta, era cattolica, apostolica e romana. I valori che sosteneva si contrapponevano frontal- mente a quelli del Magistero romano, facendo del-
la Chiesa cattolica per più di un secolo il principale organismo antiliberale del mondo occidentale»4.
A partire dall’inizio del XIX secolo, infatti, la Chiesa cat- tolica si erge come baluardo contro la modernità. E poiché la libertà moderna si fa strada come un destino ineluttabile e non può crollare, dal momento che sono i suoi avversari a rendersi ridicoli, la Chiesa nel giro di un secolo e mezzo perderà a poco a poco il suo potere, il suo credito e la sua influenza: «I secoli moderni sono una crociata contro il cri- stianesimo», diceva José Ortega y Gasset5. È la caduta della cristianità come civiltà cristiana.
La cristianità come civiltà è il frutto del cattolicesimo, religione olistica, che sostiene una società organica, rifiuta l’individualismo e la libertà individuale. Era naturale che si scontrasse con la modernità e, una volta arrivata quest’ul- tima al proprio apice, il suo destino era quello di scompa- rire. Quando in occasione del Concilio Vaticano II, negli anni ’60 del XX secolo, la Chiesa riconobbe finalmente la libertà religiosa, «rivoluzione copernicana» (J. Isensee) preparata dall’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, nel 1963, ciò avvenne nel corso di accesi dibattiti interni6. E infatti si trattava addirittura di proclamare esattamente il contrario di quanto aveva decretato Pio IX nel Sillabo,
4 ory, Qu’est-ce qu’une nation?, Gallimard, Paris 2020, p. 161.
5 J. ortega y gasset, Il tema del nostro tempo. La vita come dialogo
tra l’io e la circostanza, SugarCo, Milano 1985, p. 116 (or. spagn. El tema de nuestro tiempo. El ocaso de las revoluciones. El sentido histórico de la teo- ría de Einstein, Calpe, Madrid 1923).
6 J.-m. mayeur (dir.), Storia del cristianesimo. Religione-Politica-Cul- tura, vol. 13, Crisi e rinnovamento dal 1958 ai giorni nostri, Borla-Città Nuova, Roma 2002, pp. 79 e 107 (or. fr. Histoire du christianisme, t. XIII, Crises et renouveau, de 1958 à nos jours, Desclée, Paris 2000, pp. 69 e 109).
un secolo prima… Che cosa significa questo capovolgi- mento, e qual è il suo scopo? Si può capire che la Chiesa non voglia, di fronte agli assalti della modernità, rimanere una fortezza assediata. Tuttavia essa è la sentinella di una verità più che di una reputazione. È molto difficile com- prendere questo evidente cambiamento di rotta, che rati- fica la fine dell’olismo cattolico e un timido ingresso nella società moderna dell’individualismo – poiché significa che «l’uomo deve essere considerato non come l’“oggetto” della vita sociale o come uno dei suoi elementi passivi, ma come il suo “soggetto”, il suo fondamento e il suo fine»7. Tuttavia, anche se la Chiesa avesse voluto, così facendo, riconciliarsi con i tempi, sarebbe stato troppo tardi. La tar- da modernità, che inizia dopo la seconda guerra mondiale, considera la Chiesa come un’istituzione decisamente ob- soleta, perché poggia su una verità e fa uso dell’autorità per sostenerla. Durante la seconda metà del XX secolo e l’inizio del XXI, le divergenze si accumuleranno. Il liberali- smo/libertarismo imperante rappresenta l’esatto opposto del modo di pensare ecclesiale.
Oggi, la stragrande maggioranza del clero e dei fedeli è legata ai moderni princìpi di libertà di coscienza e di re- ligione – tranne qualche piccolo gruppo che peraltro non oserebbe difendere apertamente le proposizioni del Silla- bo. E più ancora: la maggior parte del clero e dei fedeli nutre rammarico e rimpianto ricordando la radicalità del Sillabo.
A partire dall’inizio del XIX secolo incomincia la lun- ga campagna di difesa cristiana. Antoine Compagnon ha mostrato fino a che punto, nei due secoli che ci hanno pre-
ceduto, abbia sovrabbondato la letteratura antimoderna8. All’interno di questa letteratura, subito dopo la Rivoluzione emerge, e sempre più chiaramente, l’ossessione della fine della cristianità.
Il mio intento non è quello di fare la cronistoria di que- sta presa di coscienza con i suoi drammatici sussulti, ma semplicemente di mostrare, brevemente e a mo’ di in- troduzione, come il pensiero cristiano abbia progressiva- mente rinunciato alla cristianità. Non si può definirlo un tradimento, anche se si tratta di una serie di concessioni, ognuna delle quali vorrebbe essere l’ultima mentre già lascia la porta aperta a quella successiva. Il tradimento in effetti presuppone un’alternativa, ma in questo caso non si vede altra scelta possibile – le soluzioni estreme per salva- re la cristianità sono state tentate nel XX secolo e si sono rivelate peggiori del male. Non si può chiamarlo una ri- nuncia, che presuppone un’indifferenza, una fatica, quan- do si guarda all’estrema combattività, alla fede ardente che anima tutta una genealogia di scrittori cristiani, da Juan Donoso Cortés fino a William Cavanaugh, passando per Jacques Maritain e tanti altri. Questa storia di due secoli segna piuttosto una graduale assuefazione a una situazio- ne inizialmente ritenuta inaccettabile, una lunga catena di compromessi di varia portata e, alla fine, una situazione in cui non resta nulla. È la storia di una sconfitta dove tutto è stato aspramente conteso, ma dove nulla è stato salvato, e come si vedrà, nemmeno l’essenziale: la storia concreta di un’agonia, o se si vuole, di una lotta all’ultimo sangue, persa in anticipo.
8 A. ComPagnon, Gli antimoderni, Neri Pozza, Vicenza 2017 (or. fr. Les antimodernes, Gallimard, Paris 2005).
La fine della cristianità e il ritorno del paganismo è Disponibile in libreria dall’ 11 novembre 2022.
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Prof. Chantal Delsol doktorem honoris causa Katolickiego Uniwersytetu Lubelskiego
Prof. Chantal Delsol
Prof. Chantal Delsol odebrała w niedzielę w Lublinie doktorat honoris causa KUL. „Nie możemy już być autorytarnymi kaznodziejami, bo już nas nikt nie chce słuchać. Misja musi przestać być podbojem, a stać się zwykłym świadectwem. Chodzi o dokonanie zasadniczego zwrotu” – mówiła filozofka.
Nadanie tytułu doktora honoris causa KUL prof. Chantal Delsol miało miejsce w niedzielę podczas uroczystego rozpoczęcia roku akademickiego, które zakończyło również VII. Kongres Kultury Chrześcijańskiej w Lublinie.
W uchwale Senatu KUL uzasadniono, że to najwyższe wyróżnienie w świecie akademickim jest wyrażeniem szacunku i uznania dla prof. Chantal Delsol „jako wybitnej humanistki upominającej się w swoich pismach filozoficznych i literackich o godność osoby ludzkiej i prawdę w post-ponowoczesnym świecie”.
W swoim wykładzie prof. Chantal Delsol zwróciła uwagę, że chrześcijańskim powołaniem jest misja: „staniecie się rybakami ludzi…”. Ta misja – jak mówiła – to dawanie świadectwa aż po krańce ziemi. „Żyjemy w tej chwili w czasach, kiedy na Zachodzie chrześcijaństwo jest tolerowane pod warunkiem, że nie obiera sobie misji za cel. Stawia nas to w bardzo niekomfortowej sytuacji. Powiedziałabym nawet, żew sytuacji dramatycznie sprzecznej” – podkreśliła francuska filozofka.
Jej zdaniem nie możemy dalej wyobrażać sobie misji jako głosu autorytetu panującego nad ciałami i duszami. „Nie możemy już być autorytarnymi kaznodziejami, bo byliśmy nimi za długo, już nas nikt nie chce słuchać. Misja nasza musi się więc zmienić – przestać być podbojem, a stać się zwykłym świadectwem. Chodzi tutaj o dokonanie zasadniczego zwrotu” – zwróciła uwagę prof. Delsol.
Zaznaczyła, że wielu misjonarzy w przeszłości było prawdziwymi świadkami tego, co sami głosili. „Ogólnie jednak rzecz biorąc, mamy raczej przed sobą kaznodziejów – ani gorszych, ani lepszych od innych – krótko mówiąc ludzi, którzy czasami wydają się gorsi od innych, ponieważ ich autorytet daje im sposobność do wykorzystywania ludzkich słabości, np. spójrzmy na przypadki pedofilii” – wskazała filozof.
W jej opinii, jeśli nadal chcemy żywić szacunek dla powołania misyjnego, to liczy się tutaj jedynie świadek: prosty, pokorny, zwyczajny. Według niej powinien nawracać on jedynie poprzez swoją własną osobę, swoje własne postępowanie.
„Jednak w tej chwili – przez kilka jeszcze dziesięcioleci albo może nawet stuleci – niech chrześcijanie nie otwierają ust, bo za wiele mówiliśmy i zbyt często tylko mówiliśmy. Potrzebujemy bardzo długiego okresu wstrzemięźliwości, mam na myśli wstrzemięźliwość od słów, od kazań. Pozwólmy ujrzeć, ukazać żywą postać dobrej nowiny” – mówiła francuska filozofka.
Prof. Delsol podkreśliła, że jeżeli misja ma oznaczać podbój, to możemy natychmiast odrzucić tę ambicję. „Będziemy jednak kontynuować historię chrześcijaństwa w ten oto sposób – w filozofii, zastępując dogmatykę fenomenologią; w duszpasterstwie, zastępując dogmatykę świadectwem” – stwierdziła.
Podczas swojego przemówienia inauguracyjnego rok akademicki rektor KUL ks. prof. Mirosław Kalinowski zwrócił uwagę, że „we współczesnych czasach nowoczesności, pluralizmu i postmodernizmu” KUL jest powołany do zadań wyjątkowych.
„Chcemy być uczelnią nowoczesną, ale opartą o tradycję; przodującą w rankingach naukowych, ale równocześnie mającą swój wyrazisty charakter, do którego zobowiązuje przydomek +katolicki+. Uczelnią widoczną w życiu społecznym i proponującą nowe, ciekawe rozwiązania w wielu dziedzinach, ostatnio także w zakresie medycyny, a równocześnie wprowadzającą do świata nauki i relacji społeczno-gospodarczych ducha prawdy, uczciwości, moralności, wysokiej kultury” – zaznaczył rektor.
Katolicki Uniwersytet Lubelski jest najstarszą uczelnią w Lublinie. Powstał w 1918 r. Kształci ponad 8 tys. studentów, w tym ok. 3 tys. na pierwszym roku. Wśród ok. 700 cudzoziemców najliczniejszą grupę stanowią Ukraińcy i Białorusini.
Chantal Delsol (ur. 16 kwietnia 1947 r. w Paryżu) jest profesorem filozofii politycznej, francuską myślicielką zajmującą się przemianami świata postnowoczesnego, członkinią Akademii Francuskiej, a także publicystką oraz autorką książek filozoficznych i powieści. Jest założycielką Instytutu Badań im. Hannah Arendt oraz dyrektorką Ośrodka Studiów Europejskich na Uniwersytecie Marne-la-Vallée w Paryżu. Po polsku ukazały się m. in. „Esej o człowieku późnej nowoczesności” (2003), „Nienawiść do świata. Totalitaryzmy i ponowoczesność” (2017), „Koniec świata chrześcijańskiego” (2023).
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo ,I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi –
Descrizione del libro di Gad Lerner eLaura Gnocchi-Giangiacomo Feltrinelli Editore-–Che cos’è il fascismo? Siamo sicuri che sia scomparso? I racconti di chi il fascismo lo ha vissuto, e si è ribellato, quando era giovane come voi oggi.
Sono passati ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’Italia da allora ha vissuto in pace, ma vi sarà giunta l’eco di nuove guerre scoppiate all’improvviso, epidemie e disastri ambientali. In questi momenti la Storia può diventare per noi una buona consigliera e può aiutarci a capire oggi con quali pretesti l’umanità venne allora divisa in persone di serie A e di serie B, perché i nonni dei nostri genitori abbiano obbedito a dittatori fanatici.
Erano i tempi del fascismo, un’invenzione italiana del 1919, quando Benito Mussolini prese il potere e trasformò rapidamente il Regno d’Italia in una dittatura. Ma la sua ambizione non era solo quella di comandare, voleva cambiare la testa della gente, fargli il lavaggio del cervello. Il suo regime durò oltre vent’anni, seguiti da venti mesi di guerra civile, nel corso dei quali l’antifascismo divenne Resistenza fino ad arrivare nell’aprile 1945 alla resa del nazifascismo. La Liberazione, appunto, celebrata da allora come festa nazionale ogni 25 aprile.
Le partigiane e i partigiani che abbiamo intervistato ci raccontano com’è andata per davvero e le loro storie ci ricordano che la libertà non è un regalo per sempre, dobbiamo guadagnarcela ogni giorno.
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo-Feltrinelli Editore
Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 da una famiglia ebraica e a soli tre anni si è dovuto trasferire a Milano. Come giornalista, ha lavorato nelle principali testate italiane da inviato o con ruoli di direzione. Ha ideato e condotto vari programmi d’informazione televisiva alla Rai, La7 e Laeffe. Ha diretto il Tg1. Ora scrive su “Il Fatto Quotidiano” e “Nigrizia”. Con Feltrinelli ha pubblicato Operai (1988, 2010), Tu sei un bastardo. Contro l’abuso delle identità (2005), Scintille (2009), Concetta. Una storia operaia (2017), L’infedele (2020) e Gaza. Odio e amore per Israele (2024). Ha curato, insieme a Laura Gnocchi, Noi, Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (2020), Noi, ragazzi della libertà (2021) e Dimmi cos’è il fascismo (2025).
Laura Gnocchiè giornalista. Ha diretto varie testate, tra cui “Il Venerdì di Repubblica”. Il suo ultimo programma televisivo è stato La scelta, ideato insieme a Gad Lerner, con il quale ha curato anche Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (Feltrinelli, 2020), Noi, ragazzi della libertà (Feltrinelli, 2021), entrambi nati dalla raccolta di oltre novecento videointerviste realizzate in collaborazione con l’Anpi, Associazione nazionale partigiani d’Italia, e Dimmi cos’è il fascismo. I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi (Feltrinelli, 2025, con le illustrazioni di Piero Macola).
Poesia di Refaat Alareer-Poeta palestinese , morto nella Striscia di Gaza-
Refaat Alareer (1979 – 2023) era un poeta, scrittore e professore universitario di letteratura comparata presso la Islamic University di Striscia Gaza. Attivista, cofondatore del progetto We Are Not Numbers, nato per raccontare storie di quotidianità con la collaborazione di autori affermati e giovani scrittori di Gaza. La poesia che qui pubblichiamo è stata scritta in inglese il 1° novembre 2023. L’intellettuale gazawi, appassionato di Shakespeare, è stato ucciso nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2023, insieme ad altri 7 membri della sua famiglia, durante un raid israeliano che ha colpito la sua casa.
Refaat Alareer-Poeta palestinese
Se dovessi morire L’ultima poesia di Alareer, Se dovessi morire (titolo originale: If I must die), ha conosciuto ampia diffusione dopo la sua morte ed è stata tradotta in più di 40 lingue.
SE DOVESSI MORIRE
(Refaat Alareer)
Se io dovessi morire
tu devi vivere
per raccontare la mia storia
per vendere tutte le mie cose
comprare un po’ di stoffa
e qualche filo,
per farne un aquilone
(magari bianco con una lunga coda)
in modo che un bambino,
da qualche parte a Gaza
fissando negli occhi il cielo
nell’attesa che suo padre
morto all’improvviso, senza dire addio
a nessuno
né al suo corpo
né a se stesso
veda l’aquilone, il mio
aquilone che hai fatto tu,
volare là in alto
e pensi per un attimo
che ci sia un angelo lì
a riportare amore.
Se dovessi morire
che porti allora una speranza
che la mia fine sia un racconto!
IO SONO TE
Due passi: uno, due.
Guardati allo specchio:
l’orrore, l’orrore!
Il calcio del tuo M-16 sullo zigomo
la macchia gialla che ha lasciato
la cicatrice a forma di proiettile che si espande
come una svastica,
che serpeggia sul mio viso,
il dolore che scorre
dai miei occhi che gocciola
dalle mie narici che perforano
le mie orecchie che si allagano.
Come è successo a te
80 anni fa
o giù di lì.
Sono solo te.
Sono il tuo passato che ti tormenta
il tuo presente e il tuo futuro.
Mi sforzo come hai fatto tu.
Combatto come hai fatto tu. Resisto come hai resistito tu
e per un momento,
prenderei la tua tenacia
come modello,
non stavi tenendo
la canna della pistola
tra i miei occhi sanguinanti?
Uno. Due.
La stessa pistola
lo stesso proiettile
che ha ucciso tua madre
e ucciso tuo padre
viene usato,
contro di me,
da te.
Segna questo proiettile e segnalo nella tua pistola.
Se lo annusi, ha il tuo e il mio sangue.
Ha il mio presente e il tuo passato.
Ha il mio presente.
Ha il tuo futuro.
Ecco perché siamo gemelli,
stesso percorso di vita
stessa arma
stessa sofferenza
stesse espressioni facciali disegnate
sul volto dell’assassino,
tutto uguale
tranne che nel tuo caso
la vittima si è evoluta, all’indietro,
in un carnefice.
Te lo dico.
Io sono te.
Tranne che non sono il te di adesso.
Non ti odio.
Voglio aiutarti a smettere di odiarmi
e uccidermi.
Te lo dico:
il rumore della tua mitragliatrice
ti rende sordo
l’odore della polvere da sparo
con quello del mio sangue.
Le scintille sfigurano
le mie espressioni facciali.
Smetteresti di sparare?
Per un momento?
Lo faresti?
Tutto quello che devi fare
è chiudere gli occhi
(vedere questi giorni
acceca i nostri cuori.)
Chiudi gli occhi, forte
così puoi vedere
con l’occhio della mente.
Poi guardati allo specchio.
Uno. Due.
Io sono te.
Io sono il tuo passato.
E uccidendomi,
tu uccidi te stesso.
Refaat Alareer-Poeta palestinese-Aquilone
(inglese)
«If I must die,
you must live
to tell my story,
to sell my things
to buy a piece of cloth
and some strings,
(make it white with a long tail)
so that a child, somewhere in Gaza
while looking heaven in the eye
awaiting his dad who left in a blaze—
and bid no one farewell
not even to his flesh
not even to himself—
sees the kite, my kite you made, flying up above
and thinks for a moment an angel is there
bringing back love
If I must die
let it bring hope
let it be a tale»
Refaat Alareer-Poeta palestinese
<<Io sono te. Io sono il tuo passato. E uccidendomi, tu uccidi te stesso.>>
*Versi di Refaat Alareer (Shuja’iyya, 1979 – Gaza, 2023) che equiparano lo sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti all’eccidio di civili compiuto attualmente dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza.
Il palestinese Alareer, poeta e docente di letteratura inglese all’Università Islamica di Gaza che documentava tramite i social media le sofferenze del suo popolo nel corso del conflitto arabo-israeliano, morì con due fratelli e tre figli il 6 dicembre 2023 in seguito ad un attacco aereo israeliano che distrusse il palazzo in cui abitava. Secondo diverse organizzazioni umanitarie, il bombardamento sarebbe stato mirato ad eliminare l’accademico, già destinatario di continue minacce online, sacrificando le vite dei condomini dell’intero edificio.
Sul magazine ‘La fionda’, così racconta la vicenda umana dello scomodo testimone lo storico Antonio Bocchinfuso: “Refaat Alareer aveva quarantaquattro anni, insegnava alla Islamic University of Gaza ed era un letterato, un poeta. Il 6 dicembre 2023 rimane ucciso in un bombardamento dell’esercito israeliano, in casa sua. Sembrerebbe che l’obiettivo dell’attacco fosse proprio il ‘pericoloso’ intellettuale, il cui edificio sarebbe stato colpito ‘chirurgicamente’. Come poi spesso accade in questi casi, grazie alla precisione delle nostre ‘bombe intelligenti’, per colpire lui è stato demolito tutto il palazzo. Un condominio intero ridotto in macerie perché bisognava uccidere un poeta. L’obiettivo è annientare l’arte e la cultura, costi quel che costi.”
Poche settimane prima della sua scomparsa, aveva pubblicato sul social X la poesia ‘Se dovessi morire’, composta il primo novembre 2023.
La lirica contiene l’invito a proseguire il suo racconto, preziosa eredità morale raccolta dalla sua allieva Amna Shabana, che scrive: “È il marzo del 2024. L’intera università che tanto amava è ormai in macerie. Il dottor Refaat è stato assassinato. L’unica via è la morte continua. Ma finalmente ho capito qualcosa sulle lezioni di Refaat e sul potere che avevano le sue parole: lo hanno tenuto in vita. Nessuno potrà mai privarmi della sua ispirazione. Finché respirerò, racconterò le sue storie e le infinite storie della mia città, occupata e messa a tacere, alla luce dei suoi racconti.”
☞il blog di Refaat Alareer ☟ https://thisisgaza.wordpress.com/ ☞il profilo X di Refaat Alareer ☟ https://x.com/ThisIsGaZa ☞il progetto fondato da Alareer, ‘We are not numbers’, gestito da giovani scrittori palestinesi ☟ https://wearenotnumbers.org #Poesia #Poeti #RefaatAlareer #GuerraAraboIsraeliana #Israele #Palestina #Gaza
Refaat Alareer-Poeta palestinese
Il poeta e l’ulivo. In memoria di Refaat Alareer Articolodi Antonio Bocchinfuso(articolo ripreso da lafionda.org)
Refaat Alareer-Poeta palestinese
Ma padre qui c’era un popolo piantato nella terra
E la terra non può darla Dio, ma la fame e l’amore di averla [1]
Uccidere un poeta è un crimine tremendo. Chi uccide un poeta non uccide solo un uomo, ma anche la Musa che quell’uomo si portava dentro e che poteva parlare solo per bocca sua. Si tratta in qualche modo di un duplice omicidio. Come in ogni guerra, anche a Gaza vengono uccisi artisti e poeti in quanto tali. Soprattutto a Gaza. Refaat Alareer era uno di questi. Aveva quarantaquattro anni, insegnava alla Islamic University of Gaza ed era un letterato, un poeta[2]. Il 6 dicembre 2023 Alareer rimane ucciso in un bombardamento dell’esercito israeliano, in casa sua. Sembrerebbe che l’obiettivo dell’attacco fosse proprio il pericoloso intellettuale, il cui edificio sarebbe stato colpito “chirurgicamente”[3]. Come poi spesso accade in questi casi, grazie alla precisione delle nostre “bombe intelligenti”, per colpire lui è stato demolito tutto il palazzo. Un condominio intero ridotto in macerie perché bisognava uccidere un poeta. L’obiettivo è annientare l’arte e la cultura costi quel che costi, il genocidio del popolo palestinese richiede questo e molto altro.
Tra migliaia di foto e reportage strazianti provenienti da Gaza il video della demolizione della Islamic University è passato relativamente in sordina[4]. Io invece credo che non lo dimenticherò mai. Quella che poteva essere una delle poche, importanti alternative alla radicalizzazione disperata per i giovani gazawi, un preziosissimo presidio di dialogo ed umanità polverizzato in pochi secondi. Quella stessa università in cui Alareer studiava Shakespeare con i suoi studenti palestinesi, mostrando come fosse più naturale per loro empatizzare, ancor più che con il moro Otello, con l’ebreo usuraio Shylock, proprio in quanto emarginato ed odiato da una società ghettizzante[5]. Probabilmente Refaat avrebbe pubblicato questi studi e molto altro se il governo israeliano non avesse deciso che l’Università, la letteratura e la poesia costituiscono una minaccia per uno degli eserciti meglio armati al mondo. Una minaccia da combattere con tonnellate e tonnellate di esplosivo. Qualche settimana prima di essere ucciso, mentre Gaza precipitava verso l’inferno Refaat ripubblicava sul suo profilo Twitter una poesia che dopo la sua morte è stata letta in tutto il mondo. Gli ultimi versi mi hanno spinto a scrivere queste righe: If I must die, let it be a tale[6].
Ebbene, dubito che io, comodamente seduto in camera mia a Roma, possa avere qualche storia interessante da raccontarvi a proposito di una faccenda così importante e drammatica. Tuttavia non potrei accettare che l’ultimo desiderio di un uomo, morto da poeta e quindi da partigiano, restasse incompiuto. Vorrei dunque riportare poche frasi tratte da una delle storie più belle e struggenti che abbia mai letto, Ogni mattina a Jenin, di Susan Abulhawa. Il brano racconta la raccolta delle olive nel piccolo villaggio palestinese di ‘Aid Hod, pochi anni prima della Nakba.
“In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole. […] Quel giorno si pregava all’aperto e con particolare riverenza perché iniziava la raccolta delle olive. Per un’occasione tanto importante, era meglio salire sulle colline rocciose con la coscienza purificata. […] I colpi dei bastoni dei contadini contro i rami, il fruscio delle foglie, il tonfo dei frutti che cadevano sulle tele incerate e sulle coperte stese sotto gli alberi. Mentre gli uomini faticavano, le donne cantavano ballate dei tempi andati, i bambini giocavano e venivano ripresi dalle madri quando intralciavano il lavoro.”[7]
L’ulivo, che pianta meravigliosa. Alcuni ulivi, se curati con sapienza, possono vivere millenni. E quando una pianta è vecchia il suo corpo si separa da sé stesso, si divide e nascono quindi due alberi, poi quattro e poi otto, ma che sono in realtà uno. Poco fuori Gerusalemme, nell’orto del Getsemani dove secondo i Vangeli sarebbe iniziata la passione di Cristo, otto ulivi risalenti al XII secolo fruttano tutt’oggi. Queste otto piante presentano un profilo genetico del tutto simile, tanto da far pensare che in origine fossero un unico albero. Lui sì che ne avrebbe di storie da raccontare. Affinché un ulivo possa vivere così tanto servono però uomini e donne che per secoli e secoli lo sappiano amare ininterrottamente, e che insegnino ai loro figli come amarlo. È ciò che accade da millenni sulle coste del Mediterraneo. Questo amore forgia da tempo immemore la cultura palestinese, di cui l’ulivo è il simbolo. Torniamo per un momento alle parole di Vecchioni in esergo: “Ma padre qui c’era un popolo piantato nella terra”. Sì, perché se molti palestinesi oggi vivono dei frutti di un ulivo è perché questo è stato piantato e curato dai loro avi, perché il loro sudore ha innaffiato d’amore il suolo nel quale si sono fortificate le radici. Questo i palestinesi lo sanno bene. Nel villaggio di ‘Ain Hod ringraziare Dio significava venerare l’eterna ciclicità del raccolto, la natura tutta si univa festante al coro della preghiera. Per noi, ormai abituati a frequentare gli anonimi ed impersonali nonluoghi del transito veloce e del consumo, è sempre più difficile comprendere questo radicamento nella terra. Tra centri commerciali, aeroporti e McDonald’s, spazi a-storici ed interscambiabili perché uguali ovunque, pensati per un utilizzo strumentale e passeggero, fatichiamo a comprendere il rapporto ecologico e spirituale tra la terra, i suoi frutti e chi vive della cura di questi. Io credo che questo scarto antropologico, questa differenza nel modo di rapportarsi alla terra sia fondamentale per la comprensione del conflitto in Palestina. Refaat Alareer aveva ben presente una tale distanza. O’Live Tree è il racconto di un ulivo che sa perfettamente che chi ora calpesta le sue radici con stivali pesanti, chi batte le sue fronde con bastoni di metallo non può che essere uno straniero, un usurpatore: But you belong not here/ You do not even know/ How to touch me/ How to gently sqeeze me/ How to hug me/ How to wipe off the dust[8]. E l’umiliazione che l’ulivo pazientemente sopporta è la sofferenza di tutto il popolo palestinese. Ecco l’identificazione, il radicamento: The humiliation, I do not care/ But take me not/ Steal me not/ Even if I burn/ Here I belong[9].
E cosa fa il colonialismo israeliano davanti ad simile legame? Come ci comportiamo con quegli ulivi secolari noi, che abbiamo visto nell’agricoltura intensiva e nello sfruttamento più estremo del mondo l’unica ragione del nostro sviluppo? Li sradichiamo. Sì, perché la pulizia etnica della Palestina prevede di estirpare quelle radici così profonde. Nei territori occupati, tra le mille preoccupazioni della popolazione palestinese c’è anche quella di difendere gli ulivi dalle irruzioni dei coloni e dai bulldozer dell’esercito israeliano. Non dobbiamo limitarci a vedere in queste brutalità semplicemente la distruzione delle risorse palestinesi e la lotta per il controllo del territorio. Estirpare gli ulivi significa cancellare la storia e la memoria di cui sono testimoni. Ricordate la nostra indignazione quando Daesh distrusse i templi di Bel e Baalshamin a Palmira, in Siria? Gli ulivi palestinesi sono monumenti viventi che ci raccontano di generazioni e generazioni di uomini vissuti sul suolo più venerato di tutti i tempi, che ancora nutrono i suoi abitanti. Distruggerli è un crimine contro la storia, contro l’universale senso del Sacro, il danno prodotto non ha prezzo. Simone Weil vedeva proprio nello sradicamento la malattia corrosiva dell’Occidente. Si tratta di un processo iniziato sostanzialmente con la modernità, e consiste secondo la filosofa francese nella perdita di un rapporto pieno con la propria storia ed il proprio passato, nella perdita della propria radice. “L’Europa è stata sradicata spiritualmente, separata da quell’antichità nella quale tutti gli elementi della nostra civilizzazione hanno la loro origine; e a partire dal XVI secolo è a sua volta andata a sradicare gli altri continenti”[10]. Dice poi Weil, sempre a proposito dello sradicamento coloniale: “Quando un conquistatore rimane straniero nel territorio conquistato, lo sradicamento è una malattia quasi mortale per la popolazione conquistata”[11]. Nonostante il riferimento biblico al regno d’Israele, i coloni sionisti rimangono coloni, ed il colono è sempre l’opposto del locale. Con ciò non voglio sminuire il legame spirituale che un ebreo, così come un cristiano, un musulmano o chiunque altro, può avere con la Terra Santa. Quello che voglio semplicemente dire è che il sionismo era e resta un progetto coloniale, e questo è peraltro un fatto abbastanza pacifico per i coloni stessi. Gli sforzi degli archeologi israeliani di dimostrare l’autoctonia israeliana in Palestina, riferendosi ad un passato reale o mitico, non possono modificare una semplice realtà di fatto: quando consolidano i loro possedimenti nei territori palestinesi, i coloni si comportano da coloni, ossia da stranieri, da stranieri che distruggono. Il colonialismo è l’opposto del radicamento, dell’appartenenza profonda ad un luogo. E devono in qualche modo essersene accorti anche, soprattutto le migliaia e miglia di ulivi sradicati dal 1967. La terra non può darla Dio, ma la fame e l’amore di averla.
In Palestina la raccolta delle olive è diventata una forma di resistenza. È usanza qui da noi sminuire ogni condanna del genocidio palestinese precisando, con una certa pedanteria, che bisogna prima prendere le distanze dagli aspetti ingiustificabili della resistenza armata palestinese come il terrorismo. Io non entrerò nella questione, mi limito a dire che finché parte delle mie tasse verrà usata per bombardare, affamare, deportare e sterminare un popolo inerme sarebbe un’offesa alla mia dignità impartire lezioni di dirittumanismo a chi ogni giorno è ucciso dalla nostra accondiscendenza. Eppure, per la gioia (o l’imbarazzo) dei moralisti nostrani, in Palestina la resistenza nonviolenta esiste. Un giorno, spero, gli abitanti dei villaggi palestinesi che ogni anno rischiano la vita per la raccolta, sfidando la violenza dei coloni e dell’IDF, saranno ricordati insieme a Gandhi e Martin Luther King[12]. Donne e uomini coraggiosi che lanciano un messaggio potentissimo: Tutto quello che vi chiediamo è di poter amare queste piante e questa terra, come abbiamo sempre fatto. Un giorno, spero, la Storia saprà leggere questo messaggio sepolto dalla nostra indifferenza. Un giorno ci si ricorderà di quanto è ridicolo, nella sua cieca brutalità, chi si oppone con la forza ad una richiesta simile.
Negli ultimi mesi, lo sterminio fisico della popolazione di Gaza ha monopolizzato l’attenzione di chiunque nel mondo abbia un briciolo di coscienza. Tra questi, quelli che in Occidente contano qualcosa sono pochissimi. Abbiamo scoperto che il potere è un anestetico ben più forte del previsto, ed è capace di disumanizzare chi lo esercita ad un punto che io, che pure credevo di essere un cinico, non ritenevo possibile. Eppure la gente comune, quella che non comanda, è rimasta sconcertata dalle foto dei bombardamenti e dei bambini che muoiono di fame a Gaza, mentre a poche centinaia di metri l’esercito israeliano blocca l’arrivo di aiuti umanitari. Non c’è più alcun dubbio sul fatto che in Palestina stia avvenendo un genocidio, e le stramberie sul “diritto a difendersi” di Israele sono solo appannaggio di un’egemonia incancrenita e putrescente nei media e nella politica occidentale, a cui non crede più nessuno. Eppure ho voluto raccontarvi la storia di Refaat Alareer e del suo ulivo perché credo che al di là dell’evidenza del torto abbiamo ancora molto da riflettere sulle cause profonde di questa mattanza umana e culturale. Quando questo orribile capitolo della nostra storia si sarà chiuso, se vorremo ristabilire rapporti equilibrati con il mondo e con noi stessi dovremo riflettere su cosa ci ha portato a sradicare quegli alberi, e su che fine abbiano fatto le nostre radici. Abbiamo ancora molto da imparare dagli ulivi, che da tempi antichissimi ci raccontano di incontri nel nostro Mediterraneo, testimoni di cura e di pace. Ho voluto parlarvi di Refaat e del suo ulivo perché non voglio rassegnarmi all’idea che una volgare pallottola possa uccidere la poesia. Mahmoud Darwish accolse serenamente la sua ora. Ormai vecchio, consegnò alla Fine la sua “parte d’argilla”[13]. E dopo una vita passata a sbeffeggiare il potere, il grande poeta palestinese si prese gioco anche della visitatrice più temibile: O morte, ti hanno sconfitta tutte le arti/ E allora fa’ di noi, fa’ di te ciò che vuoi. Non può essere tanto facile uccidere una Musa. Come tutto ciò che è divino, anche la Dea dell’arte e della poesia può rivivere nei cuori che sanno cercarla. Per questo da sempre i tiranni hanno tanta paura dei poeti.
Voglio crederlo, lo credo.
[1] R. Vecchioni, Shalom
[2] Refaat Alareer insegava letteratura e scrittura creativa alla IUG. Si occupava principalmente di letteratura inglese, in particolare Shakespeare e Donne. Il suo blog, dove pubblicava poesie e brevi riflessioni (https://thisisgaza.wordpress.com/), il suo profilo Twitter (https://twitter.com/itranslate123) ed il suo attivismo lo hanno reso molto popolare a Gaza. È inoltre co-fondatore del progetto We are not numbers (https://wearenotnumbers.org/), che racconta la vita sotto l’occupazione israeliana attraverso le voci di giovani scrittori e scrittrici palestinesi
[3] Euro-Med Human Rights Monitor, Israeli strike on Refaat al-Aleer Apparently Deliberate https://euromedmonitor.org/en/article/6014
[4] Al Jazeera English, Gaza University destroyed: Israel accused of targeting education centers
[5] R. Alareer, Poems of Mass Destruction at Gaza University, in R. Alareer et. Al. (a cura di), Gaza Unsilenced, Charlottesville 2015
[6] R. Alareer, If I must die. “Se devo morire, che sia una storia”
[7] S. Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 15-16
[8] R. Alareer, O’Live Tree. “Ma tu non sei di qui/ Tu non sai nemmeno/ Come toccarmi/ Come spremermi dolcemente/ Come abbracciarmi/ Come pulirmi dalla polvere”
https://thisisgaza.wordpress.com/category/my-poetry/
[9] “Dell’umiliazione, non mi importa/ Ma non portarmi via/ Non rubarmi/ Anche dovessi bruciare/ Il mio posto è qui”.
[10] S. Weil, Lettre à un religieux, Gallimard, Paris 1951, p. 32
[11] S. Weil, La prima radice, SE, Milano 2013, p. 49
[12] Sulla resistenza nonviolenta degli agricoltori palestinesi, si veda per esempio Rete Italiana ISM, Raccolta delle olive con International Solidarity Movement
Marocco- Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti in mostra a Palermo-
Nicola Fioravanti in mostra a Palermo dal 16 aprile / 22 maggio, “Centro Internazionale di Fotografia Letizia Battaglia”– Un mosaico di colori, architetture ed energia. Il Marocco, con la sua luce mutevole, la forza del vento e del fuoco, i volti delle persone e le scene di vita quotidiana, è il protagonista della mostra “Marocco, Atlante Sentimentale” di Nicola Fioravanti, fotografo di fama internazionale, che si terrà a Palermo, dal 16 aprile al 22 maggio. L’esposizione, ospitata al “Centro internazionale di fotografia Letizia Battaglia” ai Cantieri Culturali alla Zisa, è curata dalla storica dell’arte Daniela Brignone e organizzata dall’Associazione I-design e da Contemporary Concept, con il patrocinio dell’assessorato alla Cultura del Comune di Palermo e del Consolato Generale del Regno del Marocco. L’inaugurazione sarà mercoledì 16 aprile, alle ore 18,00. Ingresso libero.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
Il primo incontro tra Fioravanti e il Marocco avviene nel 2010. La sua potenza cromatica diventa subito una fonte di ispirazione, ma servono anni di esperienza prima di riuscire a catturarne davvero l’essenza. Il ritorno, dopo quasi dieci anni, segna un punto di svolta, che è una trasformazione: adesso l’obiettivo non è solo quello di esplorarne i tratti, ma di raccontare l’anima di un popolo e del suo territorio: scoprirne il genius loci per poterlo immortalare. Così nasce “Marocco, Atlante Sentimentale”, una selezione di 40 scatti d’artista di ciò che Fioravanti ha maggiormente amato: le strade e i vicoli, i volti degli abitanti, le architetture di questo straordinario Paese ed è un omaggio alle sue armonie potenti, alle sue combinazioni audaci, all’entusiasmo della sua creatività. Ad ogni angolo si scoprono scene che sembrano disegnate o dipinte, ma che sono in realtà composizioni spontanee di vita quotidiana.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
Fioravanti attraversa le città e i villaggi, soffermandosi sulle strade, sulle kasbah labirintiche, sui banchi dei venditori, sull’operosità degli artigiani e sulle espressioni delle persone che incontra. Ogni scatto è un frammento di questo caotico equilibrio di forme e colori, in un’armonia del tutto naturale. Dalle spezie che tingono l’aria con i loro profumi ai giochi improvvisati dai bambini nei vicoli stretti, dagli sguardi profondi degli anziani alla danza costante fra luci e ombre che placa il frastuono del giorno: il Marocco si rivela in ogni dettaglio, in ogni angolo, nella sua vibrante energia. Questa esposizione segna un momento importante, perché nonostante Fioravanti abbia lavorato in tutto il mondo, è la prima volta che la Sicilia ospita una sua mostra.
Dopo Palermo, la mostra sarà presentata a Rabat, dall’1 al 18 dicembre, presso la “Galerie Bab Rouah”, uno degli spazi espositivi statali più prestigiosi del Regno del Marocco. Situata in una storica porta monumentale della città, la galleria è un punto di riferimento per l’arte contemporanea in Marocco e ospita regolarmente artisti di fama nazionale e internazionale. Esporre in questo luogo iconico, significa entrare in un contesto ricco di storia e simbolo dell’impegno del Regno per la promozione culturale.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
“Da noi, si mangia con gli occhi”, recita un proverbio marocchino: ed è proprio attraverso lo sguardo – quello attento e profondo di Nicola Fioravanti – che questa mostra diventa un omaggio a un paese dalle mille sfumature, un invito a lasciarsi trasportare dalla sua luce, dal suo ritmo, dalla sua storia. Insh’Allah, “se Dio vuole”, è la frase che ricorre, quasi come una cantilena, che affida le sorti di questo popolo e della sua terra ad Allah, al Divino. Su tutto, cala il silenzio della notte che placa gli animi e, recando la voce del deserto, induce al sonno. Dalla Medina di Casablanca, con i suoi mercati, fino alle strade dipinte di blu di Chefchaouen, immersi in un’atmosfera sospesa nel tempo, questa mostra è una lettera d’amore al Marocco e alla straordinaria tavolozza di colori che ne definisce l’anima. Ed è proprio sul colore che si sofferma l’indagine di Nicola Fioravanti, che esplora il cuore delle medine, con le loro caratterizzazioni cromatiche ben definite che identificano l’anima di questi spazi e del Marocco stesso, che da tempo punta proprio sulla forza e l’efficacia espressiva del colore, per meglio connotare e identificare l’identità dei luoghi, attraverso le suggestioni che questo riesce a trasmettere.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
“Questa mostra non è solo una testimonianza fotografica di grande maestria, ma un viaggio emotivo nel cuore del Marocco – sottolinea la curatrice Daniela Brignone – dove ogni immagine è un racconto affascinante e coinvolgente che evoca il passato e il presente di una terra fortemente proiettata verso il futuro. Il lavoro di Nicola Fioravanti entra nel profondo della cultura e dell’anima di questo paese, presentato in un luogo, Palermo, che risuona ancora delle tante testimonianze derivate dalla dominazione araba. Ogni scatto è un invito a esplorare l’energia vibrante e la bellezza che permeano ogni angolo, ogni volto, ogni dettaglio. Un viaggio visivo che ci porta ad apprezzare non solo la maestosità del Marocco, ma anche la sua quotidianità, ricca di una forza che è allo stesso tempo delicata e potente”.
Abbazia di FARFA- Reliquia della Sacra Spina-Nella Cappella delle reliquie si conserva gelosamente una Spina della Corona di Nostro Signore, recata a Farfa al tempo delle Crociate e tenuta sempre in grande considerazione.
Intorno a questo insigne cimelio della Passione si ricorda questo episodio.
Nel 1482 Alfonso, duca di Calabria, figlio di Ferrante, re di Napoli, avendo accampato il suo esercito nei prati di Granica, visitò l’Abbazia farfense. Fu mostrata al duca, assieme alle altre reliquie, anche la sacra Spina; il discorso cadde su altre Spine della stessa corona conservate in vari luoghi; allora Alfonso mostrò una di queste Spine che egli portava sempre addosso, fu messa a confronto con quella di Farfa e si vide che era differente.
Il duca, turbato da questo fatto, propose che fosse sperimentato, per mezzo della prova del fuoco, quale delle due e quella autentica. Fu acceso un fuoco nell’atrio della basilica e alla presenza di tutti i monaci, dello stato maggiore del duca Alfonso ed altri ecclesiastici , il duca getto per primo , tra le fiamme, la sua reliquia che brucio subito, quindi fu gettata alle fiamme la reliquia farfense che il fuoco “non ardì toccare”. La reliquia farfense fu gettata più volte tra le fiamme e il prodigio si rinnovò sempre. Dinanzi a questo fatto prodigioso il duca cadde in ginocchio e bacio il sacro cimelio e subito dopo lo riconsegnò , con devozione, al Priore raccomandandogli di custodire la sacra Spina con devozione e con miglio cautela.
Fonte-l’Abbazia di Farfa di D. Ippolito Boccolini –
L’Imperiale Abbazia di Farfa di Card. Ildefonso Schuster (Vaticano 1921)
Le foto sono di Franco Leggeri-
Conoscere l’Abbazia
Abbazia di Farfa-Foto di Franco Leggeri
Nel cuore dell’antica terra Sabina, ai piedi del monte Acuziano, in un’atmosfera di mistico silenzio, che avvolge anche il caratteristico Borgo che la circonda, sorge la storica Abbazia di Farfa, immersa nel fascino di una natura verdeggiante e sorridente, nella fresca aria mattutina che si respira intorno, riscaldata da un dolce sole i cui raggi oltrepassano i rami degli alberi, prima di giungervi.
L’abbazia di Farfa è un luogo particolarmente attraente, ricolmo di pace, di serenità, di semplicità, come sono semplici i monaci benedettini che vivono, in un clima di profonda spiritualità, la loro vita quotidiana tutta dedita al Signore e alla Madonna, alla quale essa è dedicata.
Fu dichiarata monumento nazionale nel 1928, per la bellezza architettonica ed artistica del monastero e della basilica, testimonianza di una storia più che millenaria tra periodi di grande splendore e periodi di decadenza o addirittura di distruzioni e dispersioni, seguiti sempre da rinascite e ricostruzioni, sì che ancor oggi l’abbazia è un centro di cultura e di spiritualità. Straordinaria anche la fioritura della santità, dal primo al secondo fondatore, rispettivamente S. Lorenzo Siro e S. Tommaso da Moriana, fino ai Beati Placido Riccardi e Ildefonso Schuster.
Tante le visite di re, imperatori e papi fino a quella di Giovanni Paolo II il 19 marzo 1993. Migliaia i visitatori che oggi la frequentano per ammirare il patrimonio di cultura e di arte che essa custodisce e rende accessibile e per il desiderio di trascorrere qualche ora o qualche giorno di riposo fisico e spirituale, usufruendo anche delle strutture di accoglienza e di ristoro, nonché del parco e delle passeggiate nella proprietà della Fondazione “Filippo Cremonesi“, che comprende pure le caratteristiche abitazioni del Borgo di Farfa con le graziose botteghe gestite da abili artigiani.
Abbazia di FARFAAbbazia di FARFAAbbazia di FARFAAbbazia di FARFAAbbazia di FARFAAbbazia di FARFA
Jean Paul Sartre moriva a Parigi il 15 aprile del 1980
Jean-Paul-Charles-Aymard Sartre (Parigi, 21 giugno 1905 – Parigi, 15 aprile 1980) Jean Paul Sartre è stato un filosofo, scrittore, drammaturgo e critico letterario francese. Jean Paul Sartre Viene considerato come uno dei scrittori e filosofi più importanti di sempre, sostenitore dell’esistenzialismo e del marxismo, e vincitore del premio Nobel per la letteratura del 1964 anche se rifiutato. Celebre fu la relazione con la filosofa Simone de Beauvoir. La sua opera più conosciuta è la nausea. Il 21 giugno del 1905 nasceva a Parigi, Jean-Paul-Charles-Aymard Sartre da Anne-Marie Schweitzer cugina di Albert Schweitzer, il padre Jean-Baptiste Sartre morì quando Paul aveva solo un anno. Muore il 15 aprile del 1980 a Parigi.
“Incipit, La Nausea”-La miglior cosa sarebbe scrivere gli avvenimenti giorno per giorno. Tenere un diario per vederci chiaro. Non lasciar sfuggire le sfumature, i piccoli fatti anche se non sembrano avere alcuna importanza, e soprattutto classificarli. Bisogna dire come io vedo questa tavola, la via, le persone, il mio pacchetto di tabacco, poiché è questo che è cambiato. Occorre determinare esattamente l’estensione e la natura di questo cambiamento. Per esempio ecco un astuccio di cartone che contiene la mia bottiglia d’inchiostro. Bisognerebbe provare a dire come la vedevo prima e come adesso la… Ebbene! È un parallelepipedo rettangolo che si distacca su — è idiota. Non c’è nulla da dirne. Ecco quel che si deve evitare, non bisogna mettere dello strano dove non c’è nulla. Credo sia questo il pericolo, quando si tiene un diario: si esagera tutto, si sta in agguato, si forza continuamente la verità. D’altra parte son certo che da un momento all’altro — sia a proposito di questo astuccio che di qualsiasi altro oggetto — io posso ritrovare l’impressione dell’altro ieri. Devo star sempre all’erta altrimenti essa mi scivolerà ancora di tra le dita. Non bisogna… ma notare accuratamente e con i maggiori particolari tutto ciò che succede. “Incipit, La Nausea”
Jean Paul Sartre
Jean-Paul Sartre-Filosofo e letterato francese (Parigi 1905 – ivi 1980).
Il teorico dell’impegno
Jean-Paul Sartre-Dopo essere stato allievo dell’École normale supérieure di Parigi, dove si laureò in filosofia, si recò in Germania, dove ebbe modo di ascoltare sia Husserl sia Heidegger e di approfondire la filosofia fenomenologica ed esistenziale di cui i due maestri tedeschi erano capiscuola. Tornato a Parigi, iniziò già negli anni Trenta la sua attività di letterato e di filosofo, a cui nel dopoguerra, con la fondazione di Les temps modernes, in collab. con Merleau-Ponty, si aggiunse l’interesse per la politica. Dai primi anni Cinquanta fino alla morte egli fu il massimo rappresentante, oltre che teorico, dell’impegno (engagement) dell’intellettuale in campo politico, dapprima come fiancheggiatore del Partito comunista, poi sulle posizioni di estrema sinistra emerse dal Maggio francese del Sessantotto. I suoi funerali, svoltisi a Parigi nel 1980, che videro un’amplissima partecipazione popolare, segnarono simbolicamente la fine di un’epoca storica, non soltanto per la cultura francese, ma per quella mondiale, per la quale S. aveva rappresentato, in un modo che non ha uguali nel 20° sec., un simbolo della lotta per la libertà (nonostante le sue chiare propensioni politiche, non si era mai iscritto a nessun partito) e di una determinata funzione dell’intellettuale.
La prima produzione letteraria
La caratteristica di S., fin dalla gioventù, è stata quella di essersi dedicato con pari impegno e con risultati di grande rilievo sia alla letteratura e al teatro sia alla filosofia. Fin dagli anni Trenta, contemporaneamente alla composizione di una serie di saggi di filosofia fenomenologica di notevole rilievo (in partic. L’imaginaire, 1940; trad. it. Immagine e coscienza ), S. pubblicò un romanzo, La nausée (1938; trad. it. La nausea), che, oltre al valore letterario intrinseco, è diventato una sorta di manifesto dell’esistenzialismo. Dietro la «nausea», il male di cui soffre il protagonista del romanzo, si scopre esserci nient’altro che l’insensatezza dell’esistenza, che d’altra parte è anche la condizione della libertà umana: questa è capacità di nullificare ogni entità stabile, ma con ciò stesso si trova proiettata in un mondo completamente estraneo, che nulla ha a che fare e nulla può avere a che fare con essa.
Libertà e solitudine
Fin dagli inizi, insomma, la concezione di S. è segnata da un radicale dualismo: da una parte c’è la soggettività, la libertà, il per-Sé, che sono caratterizzati da una negatività radicale, da un Nulla che è attiva distruzione di ogni entità autosussistente, dall’altro le cose, «eccessive», invadenti e vischiose, l’Essere, l’in-Sé. Durante la guerra questa concezione viene espressa da S. nel suo primo grande testo filosofico, L’être et le néant (1943; trad. it. L’essere e il nulla), in cui sviluppa sistematicamente la sua ontologia dualista e la sua concezione tragica dell’esistenza umana come libertà assoluta condannata a un’eterna negazione della ‘cosalità’ in cui è «gettata». Vengono innanzitutto delineate le caratteristiche essenziali dell’essere, che sono la compattezza, l’opacità e l’identità con sé, e poi quelle del non essere, che è per sua definizione qualcosa di meramente negativo, non fissabile ad alcuna determinazione. Il nulla, il per-Sé è dunque un essere del tutto eterogeneo all’essere in sé; a essere portatore del nulla è l’uomo, per cui la concezione sartriana si rivela fortemente incardinata sul momento della soggettività umana cosciente. Caratteristica del testo, che lo distacca dalla struttura delle tradizionali opere filosofiche, è l’utilizzo, ai fini dell’indagine concettuale, di una serie di sottili analisi psicologiche, specialmente di emozioni, di situazioni concrete, di atteggiamenti morali, fra cui la più nota e paradigmatica, per il suo nesso con l’essenziale libertà dell’uomo, è quella della «malafede». S., che non accetta la concezione heideggeriana dell’essere-per-la-morte, esprime molte riserve (specialmente per quanto riguarda l’idea fondamentale dell’inconscio) nei confronti della psicoanalisi freudiana, e formula un’originale prospettiva di «psicoanalisi esistenziale». La concezione della libertà assoluta del singolo uomo si sposa ancora con un’idea di radicale solitudine: gli altri, secondo la visione che S. esprimerà nel famoso atto unico Huis clos (1944; trad. it. A porte chiuse), sono per noi «un inferno», il loro stesso sguardo congela e distrugge la nostra libertà.
Il pessimismo etico
Ma gli eventi della guerra mondiale, la partecipazione, seppur in forma soltanto intellettuale, alla Resistenza contro l’invasore nazista e poi le grandi discussioni politiche seguite alla Liberazione faranno maturare in S., su questo punto, una concezione profondamente differente: soltanto gli altri e la condivisione di battaglie per i valori comuni dell’umanità possono dare un senso all’esistenza; quello che era stato un pessimismo rassegnato si trasforma così in un pessimismo etico: la morale e la volontà, la decisione, l’intervento attivo nelle cose degli uomini, la politica saranno ormai le caratteristiche distintive dell’opera di S. fino alla sua morte. La conferenza su L’existentialisme est un humanisme (1946; trad. it. L’esistenzialismo è un umanismo) è l’espressione più chiara di questa svolta e contiene anche alcuni dei temi di fondo della nuova concezione esistenzialistica (ora definita esplicitamente, fin nel titolo, «un umanismo») a cui S. è pervenuto. Così come non si danno valori precostituiti, non si dà un’essenza fissa e determinabile dell’uomo, che non è altro che ciò che si fa e, dunque, responsabile di quello che è, di fronte a sé e agli altri. Esistenzialismo significa dunque ora la creazione di valori universali a partire dalle varie situazioni storiche in cui ci troviamo, e «umanismo» (termine che susciterà in seguito molte polemiche, in primo luogo le obiezioni di Heidegger, nella sua famosa Lettera sull’umanismo) assume pertanto per Sartre un significato assai peculiare, poiché è fondamentalmente l’aspirazione alla libertà che unisce tutti gli uomini.
Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano-
Articolo scritto Antonio Panella per la Rivista PEGASO n°6 del 1933 diretta da Ugo Ojetti
Nello ROSSELLI
Biografia di Nello ROSSELLI-Storico e uomo politico (Firenze 1900 – Bagnoles de l’Orne 1937); fratello di Carlo, sentì al pari di questo l’influsso di G. Salvemini e fu deciso antifascista; svolse attività politica clandestina nel gruppo torinese di Giustizia e Libertà, subendo la prigione e il confino. Fu uno dei primi, in Italia, a indagare storicamente lo sviluppo del movimento operaio: Mazzini e Bakunin (1927); Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932) e varî saggi raccolti nel volume postumo Saggi del Risorgimento ed altri scritti (1946). Un’altra opera di R., interrotta dal suo assassinio in Francia, è apparsa postuma (1954) con il titolo Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847.
Biografia Sabatino Enrico Rosselli nacque a Roma il 29 novembre 1900 da un’agiata famiglia ebraica, ultimo dei tre figli del livornese Giuseppe Emanuele “Joe” Rosselli (1867-1911) e della venezianaAmelia Pincherle (1870-1954), sorella di Carlo Pincherle, architetto e pittore, oltreché padre dello scrittore Alberto Moravia. Sia la famiglia paterna che quella materna, fermamente legate agli ideali repubblicani e mazziniani, erano state politicamente attive, avendo partecipato alle vicende del Risorgimento italiano: Pellegrino Rosselli, tra l’altro zio della futura moglie di Ernesto Nathan (Sindaco di Roma dal novembre del 1907 al dicembre del 1913), fu un seguace e stretto collaboratore di Giuseppe Mazzini nei suoi ultimi anni di vita (morì difatti in clandestinità nella sua casa pisana) ed un Pincherle fu nominato ministro durante la breve esperienza della Repubblica di San Marco, instauratasi nel Triveneto a seguito d’una massiccia insurrezione anti-asburgica guidata da Daniele Manin e Niccolò Tommaseo.
Nello sposò Maria Todesco (1905-1998) nel 1926 ed ebbero quattro figli: Silvia, Paola, Aldo e Alberto.
Gli studi
Nel 1917 diresse, con l’amico Gualtiero Cividalli il mensile Noi giovani[1]. Nel 1923 discusse con Gaetano Salvemini la tesi di laurea su Mazzini e il movimento operaio dal 1861 al 1872. Tra il 1923 e il 1927 pubblicò numerosi articoli su riviste storiche italiane e il saggio Mazzini e Bakunin. Nel 1932 pubblicò il saggio Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano. La raccolta dei suoi Saggi sul Risorgimento italiano e altri scritti fu pubblicata postuma da Einaudi nel 1946.
L’attività politica
La tomba a Trespiano
Iniziò giovane a far politica nel 1917 e fu col fratello tra i fondatori del giornale per studenti “Noi giovani”. Nel 1920, col fratello e con Piero Calamandrei, e col patrocinio di Gaetano Salvemini, fondò il Circolo di Cultura, chiuso dai fascisti nel 1925. Fece parte dei fondatori del gruppo fiorentino di Italia libera, fra cui, oltre al fratello, Enrico Bocci, Luigi Rochat, Dino Vannucci, Nello Traquandi. Nel 1924 aderì alla fondazione dell’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche promossa da Giovanni Amendola, e nel 1925 partecipò alla fondazione del primo giornale antifascista clandestino Non Mollare. Il 3 giugno 1927 venne arrestato e condannato a 5 anni di confino[2] a Ustica; rilasciato il 31 gennaio 1928[3], venne nuovamente arrestato e condannato a 5 anni di confino a Ustica e Ponza, nell’estate del 1929, dopo la fuga da Lipari del fratello.
Nel maggio 1937 ottenne, su intercessione di Gioacchino Volpe (probabilmente in buona fede)[4] il passaporto, con una sollecitudine che ad alcuni amici, tra cui Piero Calamandrei, parve sospetta e motivata dal fine di arrivare attraverso Nello al rifugio di Carlo[5], insieme al quale, il 9 giugno 1937, venne assassinato a Bagnoles-de-l’Orne da una squadra di “cagoulards”, miliziani della “Cagoule“, formazione eversiva di destra francese, su mandato, forse, dei servizi segreti fascisti e di Galeazzo Ciano; con un pretesto vengono fatti scendere dall’automobile, poi colpiti da raffiche di pistola: Carlo muore sul colpo, Nello (colpito per primo) viene finito con un’arma da taglio.[6][7]. I corpi vengono trovati due giorni dopo, l’11 giugno; i colpevoli, dopo numerosi processi, riusciranno quasi tutti ad essere prosciolti.[7]
Opere
Saggi sul Risorgimento e altri scritti, Prefazione di Gaetano Salvemini, Collana Biblioteca di cultura storica n.21, Torino, Einaudi, 1946. Introduzione di Alessandro Galante Garrone, Collana Piccola Biblioteca n.400, Einaudi, 1980.
Inghilterra e regno di Sardegna dal 1815 al 1847, a cura di Paolo Treves, introduzione di Walter Maturi, Collana Biblioteca di cultura storica n.50, Torino, Einaudi, 1954.
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), Collana Piccola Biblioteca n.89, Torino, Einaudi, 1967, ISBN978-88-06-04853-2.
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Con un saggio di Walter Maturi, Collana Piccola Biblioteca n.313, Torino, Einaudi, 1977.
^Commissione di Firenze, ordinanza del 3.6.1927 contro Nello Rosselli (“Attività antifascista”). In: Adriano Dal Pont, Simonetta Carolini, L’Italia al confino 1926-1943. Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, Milano 1983 (ANPPIA/La Pietra), vol. III, p. 1051
Simone Visciola, Nello Rosselli alla Scuola di storia moderna e contemporanea. La prima fase della ricerca di storia diplomatica, in Politica, valori e idealità. Carlo e Nello Rosselli maestri dell’Italia civile, a cura di Lauro Rossi, Roma, Carocci, 2003, pp. 111–122.
Simone Visciola, Nello Rosselli e i suoi “maestri”. Il rinnovamento della storiografia italiana fra le due guerre, in I Rosselli: eresia creativa eredità originale, a cura di Simone Visciola e Giuseppe Limone, Guida, Napoli, 2005, pp. 113–139.
Simone Visciola, Nello Rosselli: uno storico alla ricerca della libertà in tempi difficili. Appunti sparsi per una biografia complessiva ancora da scrivere, in I fratelli Rosselli. L’antifascismo e l’esilio, a cura di A. Giacone ed E. Vial, Prefazione di Oscar Luigi Scalfaro, Roma, Carocci, 2011, pp. 26–42.
Giuseppe Tramarollo, Nello Rosselli tra mazzinianesimo e socialismo, pp. 79–84.
Giovanni Belardelli, Nello Rosselli. Uno storico antifascista, prefazione di Norberto Bobbio, introduzione di Paolo Alatri, con un ricordo di Ezio Tagliacozzo, Passigli, Firenze, 1982, pp. 221 («Il filo rosso»).
Il carteggio di Carlo e Nello Rosselli con Carlo Silvestri (1928-1934), a cura di Gloria Gabrielli, «Storia Contemporanea», a. XXII, n. 5, ottobre 1991, pp. 875–916.
Mimmo Franzinelli, Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico, Mondadori, Milano 2007.
Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano-
Articolo scritto Antonio Panella per la Rivista PEGASO n°6 del 1933
diretta da Ugo Ojetti
Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano.Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano.Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano.Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano.Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano.Carlo e Nello ROSSELLI
Biografia di Nello ROSSELLI-Storico e uomo politico (Firenze 1900 – Bagnoles de l’Orne 1937); fratello di Carlo, sentì al pari di questo l’influsso di G. Salvemini e fu deciso antifascista; svolse attività politica clandestina nel gruppo torinese di Giustizia e Libertà, subendo la prigione e il confino. Fu uno dei primi, in Italia, a indagare storicamente lo sviluppo del movimento operaio: Mazzini e Bakunin (1927); Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932) e varî saggi raccolti nel volume postumo Saggi del Risorgimento ed altri scritti (1946). Un’altra opera di R., interrotta dal suo assassinio in Francia, è apparsa postuma (1954) con il titolo Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847.
Scritti di Nello Rosselli
Mazzini e Bakounine: 12 anni di movimento operaio in Italia (1860-1872)
F.lli Bocca, Torino 1927
Michail Bakounine, a cura di Nello Rosselli, V volume dell’Enciclopedia Italiana diretta da Gioacchino Volpe, 1930.
1930
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
F.lli Bocca, Torino 1932
Leo Ferrero, Società anonima editrice Dante Alighieri
Milano 1933
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, E. degli Orfini
Genova 1936
Saggi sul Risorgimento e altri scritti, prefazione di Gaetano Salvemini, Einaudi
Torino 1946
Inghilterra e il regno di Sardegna. Dal 1815 al 1847, a cura di Paolo Treves, introduzione di Walter Maturi
Einaudi, Torino 1954
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, [introduzione di Walter Maturi], C.M. Lerici
Milano 1958
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), prefazione di Leo Valiani
G. Einaudi, Torino 1967
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, con un saggio di Walter Maturi
G. Einaudi, Torino 1977
Saggi sul Risorgimento, prefazione di Gaetano Salvemini, introduzione di Alessandro Galante Garrone
Einaudi, Torino 1980
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), prefazione di Leo Valiani
Einaudi, Torino 1982
Ebraismo e italianità
Intervento di Nello Rosselli del 1924 al congresso della gioventù ebraica, tratto da “Nello Rosselli. “Uno sotto il fascismo. Lettere e scritti vari (1924-1937)” a cura di Z. Ciuffoletti, La Nuova Italia pp. 1-5.
La Nuova Italia
Informazioni tratte dal sito:
http://www.archiviorosselli.it/User.it/index.php?PAGE=Sito_it/NRosselli
-Gli ARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANE.
Copia anastatica dell’Articolo dalla Rivista EMPORIUM n° mese di maggio 1908
Un arco trionfale, o arco di trionfo, è una costruzione con la forma di una monumentale porta ad arco, solitamente costruita per celebrare una vittoria in guerra, in auge presso le culture antiche. Questa tradizione nasce nell’Antica Roma, e molti archi costruiti in età imperiale possono essere ammirati ancora oggi nella “città eterna“.
Alcuni archi trionfali erano realizzati in pietra, a Roma in marmo o travertino, ed erano dunque destinati ad essere permanenti. In altri casi venivano eretti archi temporanei, costruiti per essere utilizzati durante celebrazioni e parate e poi smontati. In genere solo gli archi eretti a Roma vengono definiti “trionfali” in quanto solo nell’Urbe venivano celebrati i trionfi e onorato l’ingresso del vincitore. Gli archi eretti altrove sono generalmente definiti “onorari” e avevano la funzione di celebrare nuove opere pubbliche. Originariamente gli archi erano semplici e avevano una sola apertura (fòrnice), nell’età tardoimperiale si arricchirono con fòrnici laterali e rilievi scultorei decorativi. Sulla sommità, detta attico, erano poste statue e quadrighe guidate dall’imperatore. L’età augustea inaugurò una tipologia grandiosa dell’arco di trionfo; era arricchito con rilievi in marmo o in bronzo che raccontavano le imprese di guerra dell’imperatore.
La costruzione degli archi romani assunse man mano, un ruolo pressoché simbolico. Essi infatti si rifanno alle porte monumentali, allineate alle mura della città, ma da esse si differiscono non tanto strutturalmente, ma, appunto, simbolicamente. Essi sono, infatti, dedicati a grandi imprese compiute da imperatori, generali, quali guerre, conquiste o anche alla semplice edificazione di infrastrutture come ponti e strade. Altro elemento di grande importanza, e quindi da sottolineare, è la circostanza che la monumentalità sia data dalla sovrapposizione di due elementi strutturali: la volta ed il trilite (due colonne che sorreggono un architrave). Di questi due, solo la volta è l’elemento portante: il peso dell’intera struttura è scaricato solamente su di esso e non sulla struttura trilitica.
ARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANEARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANE
Descrizione-Di Louisa May Alcott si sa quel poco che le alette dei suoi romanzi ci concedono: che è l’autrice di Piccole donne e dei suoi seguiti, e che ha conosciuto in vita un successo destinato a durare come autrice di libri per ragazzi, anzi, per ragazze. Ma come è arrivata a scrivere la storia di una famiglia che assomiglia tanto alla sua? E da quale vena narrativa sgorgano le altre sue opere, decine e decine di racconti gotici “di sangue e tuono”, romanzi audaci e romanzi commerciali, qualcuno firmato, altri pubblicati anonimi o sotto pseudonimo?
Louisa May Alcott
Ripercorrere la sua vita è viaggiare in un mondo complicato, ricco di opportunità per le giovani donne ma sempre pronto a richiamarle all’ordine, per scoprire una ragazza fuori moda che sognava di essere se stessa ed è diventata “una sorta di tata letteraria che produce pappetta morale per i piccoli”. Una ragazza forte per forza, cresciuta in una casa povera di oggetti e ricca di ideali, diventata una donna lavoratrice per pagare conti e debiti altrui. In questo la storia di Alcott assomiglia a quella di tante altre scrittrici celebri, sempre in bilico tra necessità e libertà, e qualche volta si intreccia con la loro.
Louisa’s family experienced financial hardship, and while Louisa took on various jobs to help support the family from an early age, she also sought to earn money by writing. In the 1860s she began to achieve critical success for her writing with the publication of Hospital Sketches, a book based on her service as a nurse in the American Civil War. Early in her career, she sometimes used pen names such as A. M. Barnard, under which she wrote lurid short stories and sensation novels for adults. Little Women was one of her first successful novels and has been adapted for film and television. It is loosely based on Louisa’s childhood experiences with her three sisters, Abigail May Alcott Nieriker, Elizabeth Sewall Alcott, and Anna Alcott Pratt.
Louisa was an abolitionist and a feminist and remained unmarried throughout her life. She also spent her life active in reform movements such as temperance and women’s suffrage. During the last eight years of her life she raised the daughter of her deceased sister. She died from a stroke in Boston on March 6, 1888, just two days after her father’s death and was buried in Sleepy Hollow Cemetery. Louisa May Alcott has been the subject of numerous biographies, novels, and a documentary, and has influenced other writers and public figures such as Ursula K. Le Guin and Theodore Roosevelt.
Early life
Birth and early childhood
Louisa May Alcott at age 20
Louisa May Alcott was born on November 29, 1832, in Germantown,[1] now part of Philadelphia, Pennsylvania. Her parents were transcendentalist and educator Amos Bronson Alcott and social worker Abigail May.[2] Louisa was the second of four daughters, with Anna as the eldest and Elizabeth and May as the youngest.[3] Louisa was named after her mother’s sister, Louisa May Greele, who had died four years earlier.[4] After Louisa’s birth, Bronson kept a record of her development, noting her strong will,[5] which she may have inherited from her mother’s May side of the family.[6] He described her as “fit for the scuffle of things”.[7]
The family moved to Boston in 1834,[8] where Louisa’s father established the experimental Temple School[9] and met with other transcendentalists such as Ralph Waldo Emerson and Henry David Thoreau.[10] Bronson participated in child-care but often failed to provide income, creating conflict in the family.[11] At home and in school he taught morals and improvement, while Abigail emphasized imagination and supported Alcott’s writing at home.[12] Writing helped her handle her emotions.[13] Louisa was often tended by her father’s friend Elizabeth Peabody,[14] and later she frequently visited Temple School during the day.[15]
Louisa kept a journal from an early age. Bronson and Abigail often read it and left short messages for her on her pillow.[16] She was a tomboy who preferred boys’ games[17] and preferred to be friends with boys or other tomboys.[18] She wanted to play sports with the boys at school but was not allowed to.[19]
Alcott was primarily educated by her father, who established a strict schedule and believed in “the sweetness of self-denial.”[20] When Louisa was still too young to attend school, Bronson taught her the alphabet by forming the letter shapes with his body and having her repeat their names.[21] For a time she was educated by Sophia Foord,[22] whom she would later eulogize.[23] She was also instructed in biology and Native American history by Thoreau, who was a naturalist,[24] while Emerson mentored her in literature.[25] Louisa had a particular fondness for Thoreau and Emerson; as a young girl, they were both “sources of romantic fantasies for her.”[26] Her favorite authors included Harriet Beecher Stowe, Sir Walter Scott, Fredericka Bremer, Thomas Carlyle, Nathaniel Hawthorne, Goethe, and John Milton, Friedrich Schiller, and Germaine de Staele.[27]
In 1840, after several setbacks with Temple School and a brief stay in Scituate,[28] the Alcotts moved to Hosmer Cottage in Concord.[29] Emerson, who had convinced Bronson to move his family to Concord, paid rent for the family,[30] who were often in need of financial help.[31] While living there, Alcott and her sisters befriended the Hosmer, Goodwin, Emerson, Hawthorne, and Channing children, who lived nearby.[32] The Hosmer and Alcott children put on plays and often included other children.[33] Louisa and Anna also attended school at the Concord Academy, though for a time Louisa attended a school for younger children held at the Emerson house.[34] At eight years-old, Louisa wrote her first poem, “To the First Robin”. When she showed the poem to her mother, Abigail was pleased.[35]
In October 1842 Bronson returned from a visit to schools in England[36] and brought Charles Lane and Henry Wright with him[37] to live at Hosmer Cottage, while Bronson and Lane made plans to establish a “New Eden”.[38] The children’s education was undertaken by Lane, who implemented a strict schedule. Louisa disliked Lane and found the new living arrangements difficult.[39]
In 1843 Bronson and Lane established Fruitlands, a utopian community,[40] in Harvard, Massachusetts, where the family were to live.[41] Louisa later described these early years in a newspaper sketch titled “Transcendental Wild Oats”, reprinted in Silver Pitchers (1876), which relates the family’s experiment in “plain living and high thinking” at Fruitlands.[42] There, Louisa enjoyed running outdoors and found happiness in writing poetry about her family, elves, and spirits. She later reflected with distaste on the amount of work she had to do outside of her lessons.[43] She also enjoyed playing with Lane’s son William and often put on fairy-tale plays or performances of Charles Dickens‘s stories.[44] She read works by Dickens, Plutarch, Lord Byron, Maria Edgeworth, and Oliver Goldsmith.[45]
During the demise of Fruitlands, the Alcotts discussed whether or not the family should separate. Louisa recorded this in her journal and expressed her unhappiness should they separate.[46] After the collapse of Fruitlands in early 1844, the family rented in nearby Still River,[47] where Louisa attended public school and wrote and directed plays that her sisters and friends performed.[48]
In April 1845 the family returned to Concord, where they bought a home they called Hillside with money Abigail inherited from her father.[49] Here, Louisa and her sister Anna attended a school run by John Hosmer after a period of home education.[50] The family again lived near the Emersons, and Louisa was granted open access to the Emerson library, where she read Carlyle, Dante, Shakespeare, and Goethe.[51] In the summer of 1848 sixteen-year-old Louisa opened a school of twenty students in a barn near Hillside. Her students consisted of the Emerson, Channing, and Alcott children.[52]
The two oldest Alcott girls continued acting in plays written by Louisa. While Anna preferred portraying calm characters, Louisa preferred the roles of villains, knights, and sorcerers. These plays later inspired Comic Tragedies (1893).[53] The family struggled without income beyond the girls’ sewing and teaching. Eventually, some friends arranged a job for Abigail[54] and three years after moving into Hillside, the family moved to Boston. Hillside was sold to Nathaniel Hawthorne in 1852.[55] Louisa described the three years she spent at Concord as a child as the “happiest of her life.”[56]
Boston
When the Alcott family moved to South End, Boston in 1848,[57] Louisa had work as a teacher, seamstress, governess, domestic helper, and laundress, to earn money for the family.[58] Together, Louisa and her sister taught a school in Boston,[59] though Louisa disliked teaching.[60] Her sisters also supported the family by working as seamstresses, while their mother took on social work among the Irish immigrants. Elizabeth and May were able to attend public school, though Elizabeth later left school to undertake the housekeeping.[61] Due to financial pressures, writing became a creative and emotional outlet for Louisa.[62] In 1849 she created a family newspaper, the Olive Leaf, named after the local Olive Branch. The family newspaper included stories, poems, articles, and housekeeping advice.[63] It was later renamed to The Portfolio.[64] She also wrote her first novel, The Inheritance, which was published posthumously and based on Jane Eyre.[65] Louisa, who was driven to escape poverty, wrote, “I wish I was rich, I was good, and we were all a happy family this day.”[66]
Early adulthood
Life in Dedham
Abigail ran an intelligence office to help the destitute find employment.[67] When James Richardson came to Abigail in the winter of 1851 seeking a companion for his frail sister and elderly father who would also be willing to do light housekeeping,[68] Louisa volunteered to serve in the house filled with books, music, artwork, and good company on Highland Avenue.[69] Louisa may have imagined the experience as something akin to being a heroine in a Gothic novel, as Richardson described their home in a letter as stately but decrepit.[69]
Louisa May Alcott
Richardson’s sister, Elizabeth, was 40 years old and suffered from neuralgia.[70] She was shy and did not seem to have much use for Louisa.[69] Instead, Richardson spent hours reading her poetry and sharing his philosophical ideas with her.[71] She reminded Richardson that she was hired to be Elizabeth’s companion and expressed that she was tired of listening to his “philosophical, metaphysical, and sentimental rubbish.”[69] Richardson’s response was to assign her more laborious duties, including chopping wood, scrubbing the floors, shoveling snow, drawing water from the well, and blacking his boots.[72]
Louisa quit after seven weeks, when neither of the two girls her mother sent to replace her decided to take the job.[69] As she walked from Richardson’s home to Dedham station, she opened the envelope he handed her with her pay.[69] One account states that she was so unsatisfied with the four dollars she found inside that she mailed the money back to him in contempt.[69] Another account states that Bronson may have returned the money himself and rebuked Richardson.[73] Louisa later wrote a slightly fictionalized account of her time in Dedham titled “How I Went Into Service”, which she submitted to Boston publisher James T. Fields.[74] Fields rejected the piece, telling Louisa that she had no future as a writer.[74]
Autrice Beatrice Masini è nata a Milano, dove lavora nell’editoria.Giornalista al Giornale e poi alla Voce, editor, traduttrice, scrive per bambini e per adulti. I suoi libri per ragazzi (albi, racconti, romanzi) sono tradotti in una ventina di lingue. Bambini nel bosco (Fanucci, 2010) è stato il primo libro per ragazzi ad essere selezionato per il Premio Strega. Con Tentativi di botanica degli affetti (Bompiani, 2013) ha vinto il premio Selezione Campiello, il premio Viadana, il premio Alessandro Manzoni.
Louisa May AlcottLouisa May AlcottLouisa May Alcott
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