Roma- 29 gennaio 2022-Gli ultimi giorni del primo mese dell’anno (Gennaio), sono denominati i “giorni della Merla”. Non tutti, però, sanno il vero motivo per il quale il 29-30 e 31 gennaio di ogni anno sono chiamati in questo modo. Ecco allora la leggenda dettagliata dei giorni della Merla.
I giorni della merla: “29-30-31 gennaio”
Giorni della Merla – ecco la vera leggenda:
La leggenda narra che c’era una volta una merla bianca candida che veniva perseguitata dal mese di gennaio, freddo e gelido. Ogni volta che la merla decideva di uscire durante i giorni del primo mese dell’anno per poter fare provviste di cibo, gennaio si divertiva a spargere neve, freddo e piogge su tutto il territorio, impedendo così al volatile di cibarsi.
Un anno, però, la merla decise di farsi delle provviste durante il mese di dicembre, che le sarebbero bastate anche per tutto il mese di gennaio, che all’epoca contava solo 28 giorni. Passati i 28 giorni la merla credeva di aver fregato gennaio, ma in realtà così non era. Gennaio, infatti, incattivito dal doppio gioco della merla, decise di chiedere aiuto a febbraio, facendosi prestare tre giorni. Quando la merla uscì fuori dal suo habitat, ecco che si scatenò una vera e propria bufera di neve e gelo, che la costrinse a ripararsi per tutto il mese di febbraio all’interno del comignolo di un camino. Quando la merla potette uscire dal comignolo le sue penne erano ormai tutte nere a causa della fuliggine e da quel momento in poi i merli sono di colore nero. In seguito a questa leggenda gli ultimi giorni del mese di gennaio sono considerati i più freddi e gelidi della stagione invernale.
Rita Pasquetti il nuovo libro Storia di un’amicizia: Angelo Maria Ricci e Tommaso Gargallo tra Arcadia e Romanticismo-
Rieti-29 dicembre 2021-È stato pubblicato da Storia di un’amicizia: Angelo Maria Ricci e Tommaso Gargallo tra Arcadia e Romanticismo il nuovo libro di Rita Pasquetti, dedicato all’amicizia tra due nobili intellettuali nella prima metà dell’Ottocento–
Rita Pasquetti-Storia di un’amicizia: Angelo Maria Ricci e Tommaso Gargallo tra Arcadia e Romanticismo
Una vera amicizia quella tra il reatino Angelo Maria Ricci e Tommaso Gargallo, come non poteva non avvenire tra due intellettuali che condividevano la prestigiosa Accademia dell’Arcadia nella prima metà dell’Ottocento. E quando il primo giugno del 1843 si volle commemorare Gargallo, l’incarico fu affidato al caro amico Ricci. Inutile dire che l’elogio ebbe un eccellente riscontro. Nella sala del Serbatoio risuonarono lodi per il traduttore dei classici latini e per il raffinato poeta. Al profilo intellettuale di vasta risonanza nazionale per il prestigio accademico si aggiunse, nelle parole del Ricci, la lodata profonda umanità del Siracusano. Giunge dunque opportuno questo puntuale saggio di Rita Pasquetti che ci restituisce il testo, ancora oggi inedito, dell’Elogio del Marchese Tommaso Gargallo per la solenne adunanza d’Arcadia, il primo giugno 1843. Bene evidenziato dalla Pasquetti il rapporto intellettuale tra Gargallo e Ricci, riprendendo, la stessa, studi già affrontati in precedenza con puntuale acribia filologica. […] Un saggio dunque di qualità, quello che vede finalmente la luce: il profilo di una fraterna amicizia vivacizzata dai ricchi profili intellettuali dei due protagonisti e, soprattutto una puntuale ricostruzione storico letteraria, ulteriore e benefico contributo alla conoscenza del significativo ruolo di Angelo Maria Ricci nella storia della letteratura italiana.
Storia di un’amicizia: Angelo Maria Ricci e Tommaso Gargallo tra Arcadia e Romanticismo
-‘La paga del sabato’, forse il libro più moderno di Fenoglio-
Beppe Fenoglio–
Recensione di Giacomo VERRI–Con cent’anni e un mezzo scaffale di capolavori postumi, oggi si scrive Beppe Fenoglio tra i nomi grossi della letteratura italiana. In vita però ancora non era il gigante sulle cui spalle ambiamo salire, il punto di riferimento per chi voglia cimentarsi con le cose di Resistenza; quand’era attorno ai trent’anni e spediva dattiloscritti all’Einaudi, era un uomo alle prese con rifiuti e tirate d’orecchi.
Vittorini fu per lui un giudice severo e lapidario. Calvino, l’amico diplomatico – nel senso migliore –, temperava le sentenze del burbero siciliano e suggeriva al ragazzo di Alba le mosse per non farsi travolgere nella partita a scacchi col mondo dell’editoria. Se con Vittorini era questione di età e di esperienze – quattordici anni li separavano e una risma di libri – con Calvino non c’entravano l’anno di nascita o l’educazione sentimentale e politica; Beppe e Italo uscivano dalla stessa esperienza di giovanissimi combattenti per la libertà ed erano quasi coetanei – anzi, Calvino era più giovane di tre anni. Solo che il ligure s’era inserito prima e meglio nel mondo della carta stampata mentre Beppe faceva l’outsider per orgoglio e per amore della sua terra. Nessuno lo avrebbe strappato alle Langhe perché nessuna grande città gli era necessaria per diventare un grande scrittore. Di questo era persuaso.
Ed era bravo a incassare batoste. Tralasciamo il cicchetto messo nero su bianco da Vittorini sul risvolto della Malora, nel 1954; lì, nell’accettare e pubblicare il secondo libro di Fenoglio (e nel dire quanto casa Einaudi puntasse sull’autore), sbandierava al pubblico quelli che a suo avviso erano i limiti del testo (e, pericolosamente, i timori sulla piega presa dal ragazzo): proprio i “più dotati tra questi giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile” – scriveva Vittorini – vanno avvertiti che, se lontani dalle “cose sperimentate personalmente”, corrono il rischio “di ritrovarsi al punto in cui erano, verso la fine dell’Ottocento, i provinciali del naturalismo, i Faldella, i Remigio Zena”; entrambi peraltro esponenti della periferia letteraria, come Fenoglio (l’uno di quella scapigliatura piemontese teorizzata da Gianfranco Contini, l’altro nato a Torino ma attivo in area ligure).
Insomma, l’autore del Partigiano Johnny è forse morto con l’idea di non disporre dei numeri per fare un romanzo come si deve – “Le posso dire sin d’ora che il mio secondo libro sarà ancora di racconti (molto probabilmente non posseggo ancora, se mai lo possiederò, il fondo del romanziere)”, scriveva nel giugno del 1953 –, anche perché la sua prima prova di romanzo, La paga del sabato, fu messa in pausa da Calvino e bocciata poi da Vittorini.
Beppe Fenoglio
Ecco allora Calvino a Fenoglio nel novembre del 1950:
Ti dico subito quel che ne penso: mi sembra che tu abbia delle qualità fortissime; certo anche molti difetti, sei spesso trascurato nel linguaggio, tante piccole cose andrebbero corrette, molte cose urtano il gusto – specie nelle scene amorose – e non tutti i capitoli sono egualmente riusciti.
Però sai centrare situazioni psicologiche particolarissime con una sicurezza che sembra davvero rara, I rapporti di Ettore con la madre e con il padre, quei litigi, quei desinare in famiglia, e anche i rapporti con Vanda, e tutto il personaggio di Ettore; e certe cose della rivalità Ettore-Palmo: lì non sbagli mai la botta, hai coraggio, hai idee chiare su quello che fa e che pensa la gente, e lo dici. Idee fin troppo chiare: evidentemente tu hai l’orgoglio di riuscire a dire tutto e non la modestia di chi si limita a dare occhiate spaurite nelle sempre misteriose vite altrui. È questo spesso a forzarti la mano e a farti scrivere pagine che mi sembrano un po’ irritanti, specialmente – come ti dicevo – nella storia di Vanda. Intendiamoci: tutto vero, anche lì non sbagli un colpo, e non ci sono mai, o quasi mai, parole false né compiacimento (perciò ti salvi dalla pornografia), mai sei troppo, mi sembra, giovanilmente ambizioso delle cose che racconti. […] Ma molte cose sono buone nel tuo racconto e sono molto contento d’averlo letto. Non ultimo merito è quello di documento della storia di una generazione; l’aver parlato per la prima volta con rigorosa chiarezza del problema morale di tanti giovani ex-partigiani.
Dunque il lavoro giunto in casa Einaudi a Calvino piace con qualche riserva. Vorrebbe vederlo pubblicato. I punti forti e quelli deboli li ripete a Vittorini nel passargli il dattiloscritto (è “di un certo Beppe Fenoglio, di Alba”) dopo aver incassato il parere favorevole di Natalia Ginzburg: il narratore è robusto, “fuori da ogni compiacimento letterario, con un sacco di cose da dire”, il libro è molto bello, la storia pure, così il tema degli ex partigiani che mal si adattano alla vita in tempo di pace; ma “ha molti difetti di lingua e di gusto”, scrive, “in certi punti rasenta la pornografia”, aggiunge; inoltre, “quando non è alle prese con una situazione psicologia, fa del cinema, ma del buon cinema, credo di quello che tu definisci ‘secco’”. E va detto che quest’ultima annotazione è davvero generosa e cerca di intercettare la benevolenza di Vittorini, edulcorando ciò che invece più brutalmente aveva scritto a Fenoglio: “Le storie dei banditi non sono la cosa migliore del racconto: c’è dietro molto di già scritto, molto cinematografo; il personaggio di Palmo ha tutto un albero genealogico di gangster cretini che gli ha insegnato come deve parlare e come deve muoversi”.
Beppe Fenoglio
Eppure il libro piace anche all’editore Giulio Einaudi e questi lo ribadisce a Vittorini.
Ma i “difetti di gusto”, la trascuratezza del linguaggio e soprattutto il sapore di cinematografo pesano tanto da precludere alla Paga del sabato la via verso la pubblicazione (Vittorini, a fine lettura, scrive a Calvino: «L’ultima parte del Fenoglio mi persuade meno. Diventa film sempre di più, e non sa essere altro che film»). O meglio, Fenoglio ci riprova, rimaneggia il testo e lo consegna nel febbraio dell’anno successivo ma niente, Vittorini lo affossa di più ancora. Così Fenoglio – sebbene da casa Einaudi lo consiglino a dirottare il romanzo verso altri editori – decide di lasciar perdere, contentandosi di trarne un paio di racconti, Ettore va al lavoro – un condensato dei primi capitoli – e Nove lune, che confluiranno nei Ventitre giorni della città di Alba, il primo suo libro.
Un giudizio quindi severo che, sottotraccia, deve pesare ancora oggi, e non si sa il perché; è un fatto tuttavia che La paga del sabato abbia mancato appuntamenti importanti, come la presenza nel volume dell’opera omnia curato da Dante Isella per Einaudi-Gallimard (Biblioteca della Pléiade) nel 1992; per fortuna viene però riproposto quest’anno, per il centenario, in una nuova veste editoriale, con la bellissima copertina disegnata da Andrea Serio, come avviene per tutti gli altri titoli fenogliani.
Dunque vediamo più da vicino questi difetti. Il primo che Calvino gli ascrive è la trascuratezza del linguaggio; certo quello della Paga del sabato non è il leggendario “fenglese” del Partigiano Johnny, la miscela d’italiano neologizzante e di inglese impuro che troveremo nel Fenoglio rizomatico e labirintico dei lavori più tardi; è un italiano, questo primo, sintatticamente sporco di osteria e di terra eppure potente e scattante nella presa sul reale. A leggerlo sembra fresco, pare di essere lì dove stanno i personaggi ma, alla prova dei fatti, risulta difficilissimo da riprodurre, a volte inimitabile. Modernissimo e arcaico allo stesso tempo.
Qualche esempio: la battuta di un dialogo; parla la madre del protagonista, Ettore, e dice che lei sola può dare dello stupido all’uomo che ha sposato:
Io posso dire di tuo padre cosa voglio, tutto quel che mi sento, sono l’unica che può. Tuo padre è uno stupido, è cieco e tu lo incanti come vuoi e per questo tu non ce l’hai mai con lui. Ma ce l’hai sempre con me perché io non sono stupida, io tu non m’incanti [il corsivo è mio], perché io so quel che vuoi dire prima che tu parli, perché a me non la fai e per questo ce l’hai sempre con me!
Beppe Fenoglio
Poi una splendida descrizione nelle ultime pagine del libro, prima del tragico epilogo:
Tornava a casa, senza trovarci nessun senso in quel rincasare, andava curvo come se avesse commesso una vigliaccheria nota a tutti e per la quale non avrebbe mai più potuto sentirsi lui, la luna era un mostro di giallore, di grossezza e di vicinanza, ai suoi raggi le maniglie d’ottone delle porte brillavano velenosamente.
La sintassi non sempre è corretta ma nello scarto dalla norma schiude una singolare unicità e un’esemplare aderenza alle cose. Fenoglio, fin d’ora, manifesta il proprio specialissimo idioletto, portato poi alle estreme conseguenze nel Partigiano Johnny, ma qui colto all’alba; e – mi azzardo a dire – in questa versione aurorale è addirittura attualissimo, un archetipo di lingua che partecipa del minimalismo d’oltreoceano trapiantato in Langa e di un residuo di lirismo spigoloso e avaro come una saponetta crepata dal sole.
Ci sono poi le questioni che Calvino dice urtano il gusto, le scene di amore, di sesso, di sguardi fruganti in quel guazzabuglio di impeti che affondano tra i sensi e il pudore. Che dire? Anche queste, a un orecchio del XXI secolo, suonano attualissime e ormai più che sdoganate.
Ettore ha una morosa diciottenne di nome Vanda. I loro sono convegni perlopiù fugaci in cui il rapporto carnale, gioioso ma sferzante, va di pari passo con un dialogo in bilico tra passione e scontrosità imperiosa. Prendiamo a titolo d’esempio la prima apparizione della ragazza, che è pure il primo incontro tra i due a cui il lettore assiste, e il primo andare su per la collina, in quel “casotto rustico” a mezza costa dove sono soliti avvenire i loro rendez-vous d’amore. È sera e i due hanno fretta perché lei deve farsi trovare fuori del cinema alle undici. Camminano, quasi corrono; lei sta davanti e promana sensualità perché sa “che lui ora non staccava gli occhi dal movimento svelto delle sue gambe sotto la gonna scodinzolante”. L’eccitazione però s’accavalla all’inquietudine di Ettore, al suo precorrere il futuro, il disagio per l’indomani in cui avrebbe iniziato il lavoro alla “fabbrica della cioccolata”. Lui la raggiunge, la stringe fortissimo, le fa paura; e poi riprendono la marcia e lei sfreccia incalzata dal desiderio di accoppiarsi sebbene lui creda che la premura stia sciupando tutto quanto. “Non correre così – le dice –, arrivi affannata e così non è più bello, dovremo perdere tempo perché tu ti calmi”. Finché poi, neppure mezza pagina oltre, si consuma l’amplesso, felice e brutale (con deviazioni espressionistiche: “le gambe di lei si agitarono per aria come le braccia di uno che annega”), durante il quale Vanda grida tanto, nel silenzio della collina, da spaventare Ettore.
I loro incontri appaiono tutti di questa risma; veloci, frenetici, quasi violenti; in lei sono esplosioni di godimento anche un po’ servile, mentre precipitano lui in una dimensione di felice rabbiosità e di irrazionale e morbosa attrazione verso la morte, probabile residuo della brutalità depositatagli dalla guerra (durante un precedente incontro, rievocato in flashback, era accaduto che Ettore avesse condotta Vanda in riva al fiume, che si fossero coricati quasi a sfioro dell’acqua e che Ettore avesse detto: “facciamo l’amore che ci vedano tutti gli spiriti degli annegati”; e che poi, di fronte alla ritrosia della ragazza, lui l’avesse picchiata).
Beppe Fenoglio
Ci sono dunque in quest’uomo ruvidità, un’inquietudine distorta e addirittura sadica; sempre lungo il fiume, in un nuovo convegno, lei dice di non poter fare nulla con lui perché ha le mestruazioni ed Ettore, non è chiaro se per volontà di controllo oppure per cinico o perverso godimento, resta “abbasso ad aspettare che lei si sedesse e così poté vederle la macchia rossa al centro delle mutandine bianche”; fatto sta che la passione autoritaria, venata di scontento, che Ettore mostra nel rapporto erotico apre la via ad altre chiose sulla natura morale del protagonista e, legate ad esse, ad ulteriori considerazioni sui difetti che vennero accollati alla Paga del sabato.
S’è detto dell’eccessiva presenza del cinema; in una nota anonima custodita negli archivi Einaudi e che Luca Bufano ha con tutta sicurezza attribuito a Vittorini si legge: “I difetti del romanzo mi sembra che risultino confermati nella seconda versione. Il cartonaccio del cinematografo non lo leva più nessuno di là dentro”. Ciò risulta evidente nelle parti dedicate all’incontro tra Ettore e Bianco, come lui ex-partigiano, e negli episodi che vedono Ettore affiliarsi a quest’ultimo in una serie di attività illecite, come l’estorsione di denaro ai danni di ex-fascisti (tentativo di ribaltare i precedenti rapporti di potere), e il contrabbando di cocaina.
Ma che tipo di cinematografo è quello che l’orecchio di Vittorini e di Calvino sentivano suonare tra le righe? Una prima emblematica risposta la ricaviamo dalla pellicola che Ettore stesso va a vedere poche ore prima di inaugurare la sua vita da fuorilegge. È pomeriggio e vuole far venire le sei perché l’appuntamento con Bianco è per dopo cena. Al cinema danno Sfida infernale (titolo originale My Darling Clementine), western di culto del 1946, ma uscito in Italia nel 1948, interpretato da Henry Fonda e diretto da John Ford. È proprio il tipo di film che a Ettore piace, così sta lì a guardarselo per due volte di seguito; parla di uomini in banda che rubano mandrie, di pistoleri spacconi dalla pellaccia dura, di cowboys ubriacati da un senso dell’onore assoluto, di furfanti e assassini; è inoltre la prima pellicola cinematografica che epicizza la sfida all’O.K. Corral, la sparatoria più celebre dell’epopea western poi resa immortale dall’omonimo film del 1957, diretto da John Sturges, e interpretato da due giganti come Kirk Douglas e Burt Lancaster. Ciò che ha dunque in testa Ettore è il cinema americano, quello delle sfide tra uomini con la pistola facile, la polvere appiccicata al sudore, il whiskey nel bicchiere e un branco di donne asservite ai loro desideri. E questo, se vogliamo, fa oggi un po’ sorridere. Ma credo vadano fatte almeno due ulteriori considerazioni; la prima, la cui paternità va attribuita a Philip Cooke, che ha studiato la presenza filmica nella Paga del sabato, ci dice che così come Johnny interpreta la realtà attraverso il filtro della letteratura, così Ettore lo fa per mezzo del cinema, che è strumento di comprensione e orizzonte ideale entro cui sistemare la propria esistenza:
la matrice, il contorno dentro cui le decisioni di Ettore sono prese, così come la sua percezione del mondo esterno, contengono elementi cinematografici. Il cinema struttura la natura della sua comprensione del mondo. Questo tipo di idea appare anche ne Il partigiano Johnny, quando Johnny reagisce agli estremi della guerra partigiana evocando inconsciamente testi letterari, soprattutto lavori epici, in modo da capire un po’ del caos e del disordine che lo circondano. Davvero ad un certo punto egli si sente il protagonista di una serie di racconti brevi, dal momento che preferirebbe vivere la vita come se fosse in un romanzo. L’eroe de Il partigiano Johnny è ossessionato dalla letteratura, il protagonista della Paga del sabato dal cinema.
Epperò l’ossessione che Ettore dimostra per il cinema, specialmente americano, oltre ad invaderne i sogni e la realtà quotidiana (americane non sono solo le pellicole di cui si nutre, ma americani sono i cocktail che beve al bar, le canzoni che ascolta, la gestualità a tratti caricaturale che contraddistingue lui e gli uomini suoi compari, e americani sono i princìpi a cui informano le loro gesta, molto recitate, da fuorilegge), risulta il sintomo più evidente del malessere che lo divora. Il secondo rilievo si lega infatti alla disposizione psicologica di coloro che, ex-partigiani, faticano a rimettere gli abiti civili. Il reducismo può essere un dramma, e per Ettore lo è di sicuro. Il centro del romanzo ruota attorno al rabbioso malcontento di un ragazzo fatto uomo che non vuole accettare di andare sotto padrone ed essere destinato a un’esistenza mediocre, socialmente ed economicamente, quando qualche anno prima, in piena guerra partigiana, era lui a comandare venti persone. Nella scena che apre il terzo capitolo Ettore s’avvia al grande portone metallico della fabbrica della cioccolata dove inizierebbe il mestiere di impiegato compilatore di lettere di vettura. Ma lui proprio non ci sta, così si nasconde in un orinatoio e da quella ironica e misera specola osserva la strana umanità con cui aborrisce di mischiarsi:
Io non sarò mai dei vostri, qualunque altra cosa debba fare, mai dei vostri. Siamo troppo diversi, le donne che amano me non possono amare voi e viceversa. Io avrò un destino diverso dal vostro, non dico più bello o più brutto, ma diverso. […] Ecco là i tipi che mai niente vedevano e tutto dovevano farsi raccontare, che dovevano chiedere permesso anche per andare a casa a veder morire loro padre o partorire loro moglie.
In tale prospettiva il cinema non è più solo modello di vita ma vocabolario dello scontento e disegno di evasione. Di fronte a una realtà deludente e opaca la risposta è il miraggio di qualcosa che è tanto lontano e tanto diverso da risultare non solo irraggiungibile ma addirittura marcatamente e dozzinalmente grottesco. Avevano ragione, in questo senso, Vittorini e Calvino quando lamentavano nelle scene cinematografiche una certa mancanza di gusto e di originalità, perché il cinema che insegue Ettore è una chimera disperata e rancorosa, una stizzita evasione, un cliché adottato in mancanza d’altro, non un ideale di perfezione come quello epico sospirato dal partigiano Johnny.
La vita è deludente e pure le pellicole in cui Ettore si nasconde e che mima nella vita reale lo sono, sebbene abbiano le parvenze di un mondo migliore. Ma non c’è mondo migliore. Tanto che i suoi sogni e le sue aspirazioni, anche quando deciderà di lasciare la vita da gangster per aprirsi una pompa di benzina in proprio (un’altra favola americana?) sono tutte deluse e grottescamente sommerse dal prosaico ma fatale epilogo. E ancora una volta la Paga del sabato è davvero il più moderno tra i romanzi fenogliani; il cinema che lo pervade assomiglia agli schermi dietro e dentro i quali ci tuffiamo oggi, alla ricerca di un anestetico che eluda e allevi un’esperienza del reale sempre più monotona e insignificante. Ma non è quella la soluzione.
E neppure ne offre una Fenoglio per il suo antieroe, fragile, seppure tutto d’un pezzo, così travagliato, di certo meno integro moralmente e psicologicamente del suo successore Johnny. La solitudine di Ettore non è incrollabile, muscolosa né nobilitante come quella del più celebre tra i partigiani di Fenoglio, quello che “partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana”; la dimensione umana di Ettore non è grande né immobile nella conquista di una perfezione; è una dimensione guasta, in frantumi ma tenuta insieme dal fantasma del cinema.
Perché il reducismo che Fenoglio racconta tanto bene è un essere rimasti a mezza via, reduci non solo dalla guerra ma da un’esistenza piena, prigionieri di una terra di nessuno – tra la guerra e la pace, tra la vita e la morte –, sporcati dallo splendido mistero dell’urlo di libertà che era stata la guerra di Liberazione, ma che infine deposita in Ettore i segni duraturi di una febbre inesauribile, di un disadattamento sociale e psichico, di un’irriducibilità alle convenzioni e di un dispetto incurabile, che fa di lui un eroe (o un antieroe) attualissimo.
Articolo di Giacomo Verri
Giacomo Verri
Giacomo Verri è nato nel 1978 a Borgosesia (VC), dove vive e insegna lettere nella scuola media. Ha esordito con il romanzo Partigiano Inverno (Nutrimenti, 2012), con cui era stato finalista al Premio Calvino, e ha pubblicato la raccolta Racconti partigiani (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2015). Nel 2019 ha pubblicato per Nutrimenti Un altro candore.
Fonte-Giacomo Verri Libri –il blog di chi ama i libri e la buona musica-
Castelnuovo di Farfa. L’Acquedotto di Cerdomare ha il suo terminale e monumento nella mitica FONTANA, dove si possono leggere i nomi , riportati in epigrafe, dei Castelnuovesi che iniziarono e portarono a termine l’Opera.
DOMANDA su Castelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARE :”MA L’ACQUEDOTTO DI CERDOMARE E’ ANCORA UNA PROPRIETA’ DEI CITTADINI CASTELNUOVESI?”
Ripubblichiamo la Domanda rivolta dal nostro compaesano AUGUSTO MEI al sindaco Zonetti – L’articolo fu “postato” il 12 settembre 2016.
10) Che fine ha fatto l’acquedotto “storico” di “CERDOMARE” di proprietà dei Cittadini di Castelnuovo sin dal 1915 e realizzato da Amministratori veri castelnuovesi, Sindaco Scoccia, nel 1923? Quest’acquedotto è ancora “proprietà esclusiva” dei Cittadini di Castelnuovo oppure è stato “dismesso”?
Alleghiamo al post –Foto delle sorgenti e Gazzetta del Regno d’Italia dell’Agosto del 1915 dove è riportato il bando di Appalto dei lavori per la realizzazione dell’Acquedotto – l’Appalto è firmato dal Sindaco facente funzione. G.FABRI e dal Segretario comunale G.SALZERI.
Il progetto dell’Acquedotto fu eseguito dall’Ing.Vincenzo Jacobini nel 1908 e ,con le varianti ,terminato il 30 giugno 1910.
L’acquedotto fu iniziato, terminato e inaugurato dal Sindaco Giuseppe Scoccia nel il 21 ottobre 1923 coadiuvato dagli Assessori: GIACOMO SIMONETTI-UGO MALFRANCI-GIOVANNI CARGONI-RAIMONDO UMANI. I lavori furono eseguiti dalla Ditta FANTE&MANNI.
L’Acquedotto ha il suo terminale e monumento nella mitica FONTANA, dove si possono leggere i nomi , riportati in epigrafe, dei Castelnuovesi che iniziarono e portarono a termine l’Opera.
Nota e foto di Franco Leggeri, castelnuovese.
Castelnuovo di Farfa sorge a 358 metri di altezza sul livello del mare, sulle propaggini meridionali dei monti Sabini.
Storia
Il territorio di Castelnuovo di Farfa risulta frequentato già a partire dal Neolitico. In epoca protostorica il sito più importante è sicuramente la Grotta Scura, al termine di Via Cornazzano, a poca distanza dal fiume Farfa. I primi ritrovamenti risalgono agli anni 1987-88, quando il Gruppo Speleologico “F. Orofino” rinvenne alcuni frammenti ceramici protostorici, risalenti all’età del Bronzo medio (XV-XIV secolo a.C.). La grotta è costituita da un’ampia sala in roccia calcarea, a cui si accede attraverso una stretta apertura, dove venne recuperato il materiale. Secondo la descrizione del Guidi “dalla sala un lungo corridoio porta ad una serie di piccoli ambienti dove sono stati individuati resti di focolari, ossa animali e vasi integri, gli unici materiali in giacitura sicuramente primaria”[4]. Alcuni frammenti con decorazione “appenninica” hanno permesso una datazione per tutta la durata della media età del Bronzo (XV-XIV secolo a.C.). La grotta presenta un ramo, lungo più di 200 metri, periodicamente occupato dalle acque, dove sono stati rinvenuti insieme oggetti ceramici sia di epoca protostorica che di epoca romana (lucerne in terracotta e monete). La presenza di vasi integri in ambienti difficilmente accessibili della grotta dimostra che una parte della cavità fosse riservata alla deposizione di offerte. Inoltre le tracce di focolari, riferibili a cerimonie rituali, sembrano attestare un utilizzo della grotta sia a fini abitativi che cultuali. La grotta è costituita da un ramo attivo e da due rami fossili, posti a livelli diversi e raggiungibili tramite cunicoli. La presenza di acque sorgive deve aver comportato la destinazione cultuale della grotta. Questo luogo di culto in grotta, tra i più antichi di tutta la Sabina, è stato identificato recentemente nel “santuario di Marte”[5], riportato da Dionigi di Alicarnasso presso Suna (oggi Toffia), antica città degli Aborigeni (mitologia)[6].
Medioevo
Nel VI secolo è riferito in zona l’arrivo di San Lorenzo di Siria, fondatore dell’Abbazia di Farfa, il quale avrebbe svolto opera di evangelizzazione cristiana anche nei territori limitrofi. Una chiesa dedicata a San Donato è riportata già in un documento dell’877, per cui si può tranquillamente fissare la nascita del primitivo insediamento rurale all’Alto Medioevo. In questo documento la chiesa viene ceduta dal vescovo di Arezzo, Giovanni, al monastero di Farfa, in cambio di altri beni, tra cui San Donato ed annesse “terre, case, chiese, selve, molini” ecc…, una elencazione che spiega il livello di organizzazione che si era formato attorno alla prima chiesa[7]. Questa chiesa divenne anche il centro catalizzatore del territorio, elemento di aggregazione sociale, antesignano del castrum. Il primo insediamento fortificato e protetto da mura, il Castellum Sancti Donati, è citato in un documento del 1046, che ne attesta la cessione al vicino monastero di Farfa, e risulta decaduto già nel 1104.
Il Castrum Novum risale al Duecento. A partire dal 1288 nacque una disputa a riguardo di chi appartenesse il colle in cui sorgeva questo castrum medievale: secondo i castellani apparteneva alla comunità, secondo i monaci all’Abbazia di Farfa. La lunga contesa fu lontana dall’essere risolta. Nel 1477 i cippi confinari, rimossi dagli abitanti, vennero riportati al loro posto dall’abate commendatario[8]. Il castello medievale è difeso da una cinta muraria con ben nove torri, presidiate nel Rinascimento da “guardie civiche” e comandate da un “capitano”. Nel 1592 una delibera del Consiglio ordinò l’acquisto di 50 “archibusci” (fucili) e 4 “archibuscioni” (cannoncini). Lungo le mura si aprono due porte, Porta Castello e Porta Cisterna. Il borgo è caratterizzato da strette vie lastricate e da edifici civili, tra cui quelli appartenuti, ad esempio, alle famiglie Cherubini e Simonetti. Nel nucleo del paese sorge la chiesa di San Nicola di Bari ed una bella fontana seicentesca “a parete”, con arco centrale.
Negli anni dalla seconda guerra mondiale, tra il 1940 e il 1943, a Farfa sorse un campo d’internamento civile. Vi giunsero in soggiorno coatto 21 profughi ebrei. Dopo San Donato Val di Comino Castelnuovo fu il comune nella regione Lazio ad ospitare il gruppo più numeroso di rifugiati ebrei.[9] Il periodo più difficile venne dopo l’8 settembre 1943 con l’occupazione tedesca e la Repubblica Sociale Italiana. Nonostante il pericolo di arresto e la fuga, quasi tutti gli ex-internati riuscirono a sfuggire alla cattura e alle deportazioni. Solo uno di loro, lasciato il paese, sarà arrestato a fine novembre 1943 nella provincia di Macerata e nell’aprile 1944 condotto alla morte ad Auschwitz.[10]
Monumenti e luoghi di interesse
Architetture religiose
S. Donato, chiesa di origine altomedievale (IX secolo), in cui si conservano alcune nicchie affrescate. In seguito è stata inglobata in un moderno casolare.
S. Nicola di Bari, chiesa parrocchiale. La chiesa originaria venne eretta poco dopo la metà del Cinquecento, nel punto più alto del castello. Ormai vecchia e malandata venne interamente ricostruita nel decennio 1769-1779 su progetto del capomastro Antonio Lepri, che poté contare nell’aiuto manuale dei castellani. La costruzione venne in gran parte finanziata dai marchesi Simonetti. All’interno della chiesa venne tumulato nel 1781 il corpo di S. Vittore “martire fanciullo”, privo delle mani e dei piedi (forse da mettere in relazione al martirio).
Madonna degli Angeli. Eretta nell’anno giubilare 1600, quando i Castelnovesi, per intercessione della Vergine, restarono immuni da una spaventosa epidemia che seminò strage nei dintorni. La costruzione fu affidata a tali Mastro Plauto e Mastro Giovanni, che realizzarono un tempietto rotondo con 4 cappelle ed un’abside, in pietra spugnosa locale. Nel 1698 venne aggiunto il campanile. La chiesa, ormai fatiscente, crollò nel 1933, rimanendone illeso soltanto il muro su cui si apriva la nicchia con l’immagine della Madonna. Venne quindi interamente ricostruita nel 1939, a spese del cavalier Angelo Salustri Galli.
S. Maria. Eretta al di fuori dalle mura castellane nel 1577 da tal Mastro Giovanni, cui andò un compenso di 20 scudi.
Architetture civili
Il torrione di Porta Castello, con l’ingresso principale al borgo, a ridosso della strada.
Il Palazzo dei marchesi Simonetti (oggi Salustri Galli), grandi benefattori del paese. Tra costoro si annovera il cardinale Giuseppe Simonetti, concittadino, alla cui elezione a porporato nel 1766 vennero indetti nel paese tre giorni di spettacoli, con musiche, spari e fuochi artificiali.
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Borgo di Monte Santa Maria di Poggio Nativo (Rieti)-
Gianni Storari–Cenni storici sul Borgo di Monte Santa Maria……un paese strano, diverso dagli altri paesi vicini………. Un paese “ruvido” come i suoi abitanti……..un paese che forse paese non è, ma persona….
La sua forma originaria…….ovale con due soli punti d’ingresso……..Porta Trionfale e Porta Romana……….anticamente sbarrate da porte robuste per evitare intrusioni pericolose,,,,briganti…..saraceni….compagnie di ventura-……garibaldini……….Questi ultimi, avevano imposto ai poveri contadini una tassa iniqua…….”il diritto di cavallaggio” che altro non era che un sostentamento sia per loro che per i loro cavalli………….rubando, non trovo un termine più adatto, ai poveri abitanti il minimo sostentamento per le loro famiglie…………….Il grande Giuseppe Garibaldi…….tanto “ stinco di santo”, poi non era…..
Girando intorno al paesino ci si accorge che da qualsiasi lato, le mura delle case sono altissime…..difficilissime da superare, molto difendibili……
Quante ne avrà passate questo paesino in tempi remoti?……..Quali le sue vere origini ?
Il primo ingresso al paesino è vigilato da una vecchia torre (vedi foto) ormai inglobata nelle case vicine, Una torre che delinea in modo chiaro che Monte Santa Maria era un paesino fortificato intorno ai primi del 1200 fino alla fine del 1300. Da notizie storiche attendibili, risulta che in quella torre trovò rifugio dalle compagnie di ventura, nel XIV secolo, l’abate di Farfa ,Sisto.
Altro particolare significativo, nelle vecchie cantine all’interno del paese si trovano spesso dei grandi orci di terracotta, interrati nel pavimento, evidenti contenitori di cibo, utilizzati per sfamare i poveri abitanti, spesso assediati.
Altro particolare che credo pochi conoscono, il primo cimitero del paese non è S,Lucia, ma si trova sotto al pavimento della chiesa di Monte,
In occasione di alcuni lavori nella chiesa il parroco Don Augusto, fece sollevare dai robusti ragazzi del paese, mio fratello Luciano compreso, una pietra di marmo, quadrangolare, di circa sessanta centimetri per sessanta, e fece calare alcuni ragazzi nei sotterranei della chiesa, I ragazzi, mio fratello compreso, raccontarono che all’interno, c’erano dei loculi aperti, con i corpi ormai ridotti a scheletro di uomini e donne, queste ultime indossavano i costumi antichi delle donne di paese ed avevano addosso ancora i loro monili.
Successivamente fu creato ed utilizzato il cimitero di S,Lucia
Veniamo al punto più determinante e significativo:
Fuori dal paesino, a breve distanza, c’è una piccola, antichissima chiesa, la chiesetta di S.ILARIO, (vedi foto) ormai in totale abbandono e diroccata. Ricordo da bambino che era pavimentata con antiche mattonelle di cotto, aveva un altare, candelabri e bellissimi quadri dipinti su legno alle pareti. Ogni tanto Don Augusto vi celebrava una messa……..tutto distrutto e tutto purtroppo rubato…..
I Santi venerati in Sabina erano come dire, dei santi un poco semplici, facilmente riconoscibili, santi come San Francesco, Santa Lucia, Sant’Antonio Abate, la Vergine Maria…San Giuseppe…….Santi, scusate la semplicità del concetto, Santi, nostri, originari delle nostre parti……o sbaglio?——–Cosa c’entra S.ILARIO? Chi era mai questo SANT’ILARIO? Da dove veniva? Che c’entrava con i semplici credenti sabini? Provate a chiedere a qualsiasi monticiano chi era Sant’Ilario…….la risposta sarà “ e che ne saccio io chi edè quissu.. “
Io azzardo un’ipotesi, che forse tanto ipotesi non è: Ascoltate e date un parere.
I Templari, ordine cavalleresco con finalità cattoliche ed anche economiche nel 1200/1300 furono presenti nel reatino dove crearono “capitanerie” e “ domus” fortificate per proteggere gli abitanti che loro stessi utilizzarono per l’agricoltura, in cambio di una protezione indispensabile per la loro sopravvivenza.
Torniamo a S. Ilario. Il suo nome completo era. Sant’ILARIO DI POITIERS, Poitiers si trova in Francia, non in Sabina o in Italia, nacque nel 315 e fu chiamato il Dottore della Chiesa per le sue doti di interpretazioni del cristianesimo….
E allora? La domanda è spontanea è merita una doverosa risposta:
Sant’ILARIO DI POITIERS, che nulla aveva a che vedere con i nostri semplici, casalinghi, nostrani santi, fu:
IL SANTO PROTETTORE DELL’ORDINE DEI TEMPLARI !!!!!
I templari crearono nel nostro territorio opere importanti fra cui domus fortificate e chiesette per il loro culto.
Domanda: Avete mai visto una catenina con medaglietta di Sant’Ilario di Poitiers al collo di qualche Monticiano o Sabino ? Catenine con Sant’Antonio, Madonnine, S,Francesco, santi di tutti i tipi, si a josa…… e allora? E’ accettabile l’ipotesi che S,Ilario di Poitiers era un santo protettore estraneo ai Sabini e che i cavalieri Templari crearono Monte come domus fortificata con una loro chiesetta consacrata al loro Santo (straniero) protettore del loro ordine?
Monte Santa Maria (domus fortificata) fu distrutta per poi essere ricostruita alla fine del 1400, data stranamente contemporanea e coincidente con la soppressione dell’ordine dei templari e distruzione di tutte le loro domus fortificate,
Non azzardo teorie, ma solo ipotesi basate su fatti storici e relative opere di fortificazione indispensabili per proteggere case e contadini, tutto qui.
Guardando tutti questi particolari si cercano risposte,,,risposte a tempi ed avvenimenti lontani
Un particolare, strettamente personale che nulla ha a che vedere con la storia di Monte:
Io da anni porto al collo un crocefisso, un po’ strano…….Stavo al mare ed una signora di avvicina e mi dice: Scusi, io sono la Sovraintendente all’antichità e belle arti nel Lazio e mi occupo principalmente di antichi gioielli……posso vedere da vicino il suo crocefisso……io lo tolgo dal collo e glie do da vedere,,, lei….posso fare una foto ? Io, certamente…….Lei mi dice, se vuole posso chiamarla fra qualche giorno e le darò un parere molto circostanziato:
Mi arriva una sua telefonata dopo circa una settimana, e mi dice……..quel crocefisso, veramente stupendo, guardando anche la parte posteriore che rileva l’utilizzo di vari metalli fra cui l’oro, e la parte anteriore con riquadri in smalto è un crocefisso templare creato intorno al 1300………
(Si offre di acquistarlo, io ovviamente rifiutai.)
Quello che ho scritto è una semplice ipotesi, che non ha molte alternative, basta guardare i fatti storici e ciò che secoli prima è stato creato per azzardarne una molto più credibile.
Borgo di Monte Santa Maria di Poggio Nativo (Rieti)Borgo di Monte Santa Maria di Poggio Nativo (Rieti)Borgo di Monte Santa Maria di Poggio Nativo (Rieti)Borgo di Monte Santa Maria di Poggio Nativo (Rieti)
Castelnuovo di Farfa (RI)-Piccole Storie dal Campo Profughi GRANICA-
“Dicembre 1958 L’odissea di 70 profughi che vogliono lasciare l’Italia.”
Castelnuovo di Farfa (Rieti) -Campo Profughi -Loc. Granica-
Castelnuovo di Farfa-Dicembre 1958-”L’odissea di 70 profughi che vogliono lasciare l’Italia Sono ungheresi e cecoslovacchi e desiderano riparare in Svizzera. Le autorità elvetiche ne hanno però respinti 22 come “indesiderabili.
– Piaggio Valmara, 22 dicembre 1958.Settanta profughi ungheresi e cecoslovacchi sono i protagonisti di una penosa vicenda accaduta in questi giorni al confine tra l’Italia e la Svizzera. Essi, in più scaglioni, tra il 4 e il 14 dicembre avevano attraversato il confine a Piaggio Valmara sulla sponda nord-occidentale del Lago Maggiore, diretti in Svizzera. Si trattava di diciannove adulti e cinquantuno tra ragazzi e bambini. Erano stati ospiti e provenivano dal campo profughi di Farfa Sabina provincia di Rieti. Erano poi riusciti a procurarsi vecchie automobili e qualche roulotte. Muniti di tutti i documenti, sia personali che dei veicoli, si erano presentati a più riprese al posto di frontiera di Piaggio Valmara. La sera del 14 dicembre tutti i settanta profughi si trovavano in territorio elvetico. Due giorni dopo, ahimè, un funzionario della polizia svizzera ne accompagnò ventidue, fra grandi e piccini, allo stesso posto di confine “ perché ritornassero donde erano venuti “. Le autorità Italiane li fecero salire sui camion e li rimandarono verso il confine elvetico, ma anche questa volta i gendarmi svizzeri sbarrarono il passo agli automezzi. Il giorno 17 il commissario di frontiera italiano, non si sa se in veste ufficiale o a titolo personale, andò a parlamentare con le autorità federali. Gli fu comunicato allora che i “22 profughi” rispediti in Italia, erano considerati “indesiderati “ e che anche gli altri 48, già sul suolo svizzero, avrebbero avuto la stessa sorte e, quindi, riaccompagnati al confine. Il commissario di Pubblica Sicurezza italiano mise allora le mani avanti dicendo che :” Per quelli che erano già rientrati in territorio italiano poteva andar bene, ma per gli altri non li avrebbe accolti se non avere prima sentito le autorità italiane. Perciò la questione fu affrontata dai ministeri degli Esteri del due Paesi.
P.S.
Theodor Veiter:”Che cos’è una migrazione forzata?-Colui che non fuggendo dalla propria terra si troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria di origine, non compie volontariamente la scelta dell’emigrazione”.
Ricerca Storica Campi profughi in Sabina-A cura di Franco Leggeri-
-Piccole Storie dal Campo Profughi Farfa Sabina-
Bibliografia- Ricerca in Archivi e Biblioteche varie.
L’ordine pp. 88-89,225-L’Italia Libera del 25 settembre 1943.D.Sensi, “pagine partigiane”, in Corriere Sabino del 15 aprile del 1945. G.Allara, “ Dopo Anzio: la battaglia del Monte Tancia”, in Aa.Vv., La guerra partigiana in Italia, Edizioni Civitas, Roma 1984, pp.66 e 67. Musu-Polito, Roma ribelle, pp. 114-115. Bentivegna-De Simone, Operazione via Rasella…., pp 89-90., Roma e Lazio 1930-1950.., pp.542,545. Piscitelli, Storia della Resistenza.., pp.325,326,327.Giuseppe Mogavero- La resistenza a Roma-1943-1945-Massari Editore.
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Elio MERCURI- 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Fonte sito web-Scopri la Sabina
Salisano, sali solo se sei sano!
Si sale su una collina non troppo alta, e ci si imbatte in Salisano: si deve, appunto, salire per trovare questo delizioso borgo della Sabina. Si sale e si diventa sani, o c’è bisogno di essere sani per salire: secondo gli abitanti, da questo motto potrebbe derivare il toponimo, alludendo giocosamente alla prestanza fisica necessaria per salire fino ai suoi 460 metri di altitudine con la vecchia mulattiera che un tempo conduceva al borgo.
È un centro piccolo, in cui la campana della chiesa parrocchiale suona ogni quarto d’ora: un’esigenza imprescindibile per gli abitanti di un tempo, impegnati nelle attività dei campi e quindi legati a quel suono per la scansione temporale, un’esigenza ancora imprescindibile per gli abitanti, pochi quelli rimasti, ma che sono strenuamente legati alle loro tradizioni e alle loro radici.
Radici che in realtà non sono solo su questa collina, ma poco più avanti, e ad altitudine inferiore: nei pressi di quello che rimane di Rocca Baldesca. In realtà tutta la zona era ampiamente interessata dalla presenza dei Sabini prima e dei Romani dopo, ma nel corso del Medioevo la sede del borgo era nei pressi di quello che ad oggi è un castello abbandonato, o meglio quello che ne rimane.
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Qualche cenno storico su Salisano
Salisano viene nominato, nel registro dei possedimenti dell’Abbazia di Farfa, come Fundus Salisanus: la prima menzione è precisamente dell’anno 840, quando compare nel diploma di Lotario I. Allora il suo aspetto non era certo quello di un castello, ma più di una curtis, con le case disposte intorno alla Chiesa di San Pietro.
È di poco posteriore la suddivisione del territorio in contrade, in base al numero delle strade: si ebbero allora la Contrada della Strada Diritta, la Contrada della Strada dei Ponti (così chiamata dai ponti che collegano le case da una parte all’altra del vicolo ed oggi, non a caso, conosciuta come Via degli Archi) e Contrada Strada del Fico, l’attuale Via Regina Elena. Si può ipotizzare che la prima fosse riservata ai nobili, visti gli aspetti dei palazzi e degli edifici, sontuosi in pietra, la seconda agli operai e ai popolani, mentre la terza a quella che oggi definiremmo il ceto medio, ovvero quella classe di funzionari, ma anche di commercianti e artigiani.
In parallelo, avveniva la nascita di Rocca Baldesca, castello e avamposto prima che Salisano divenisse, anch’esso, castello fortificato. Poco più in basso di Salisano e dunque più esposto a eventuali pericoli, Rocca Baldesca era un castello ampio, che ospitava la popolazione al suo interno. Fu abitato fino al 1400, quando le frequenti incursioni che rendevano il luogo poco sicuro, spinsero gli abitanti a spostarsi nella confinante Salisano.
Dopo essere stato feudo della sua famiglia, il 20 ottobre 1531 il Cardinale Francesco Orsini di Aragona concesse Salisano a Galiotto Ferreolo, il quale edificò un palazzo munito di bastione triangolare. Ad oggi, di questa rocca non rimane pressoché nulla, solo alcune rovine: distrutto per precisa volontà della popolazione, a cui viene attribuito anche l’assassinio, nel 1542, del Ferreolo, reo, secondo le fonti, di ogni sorta di tiranneria e dispotismo. Ed è un vero peccato che del Castello non rimanga che parte del bastione e la base dei due torrioni circolari: pare fosse stato progettato dal Sangallo.
Chiacchierando con la gente, abbiamo scoperto una rivalità con il vicino comune di Mompeo – i due comuni sono separati dalla Gola di Rosciano: non stupisce, è abbastanza frequente tra centri vicini. I due colli, quello di Mompeo e quello di Salisano, sono vicini, separati da una gola. Quello che sorprende è che si nobilita questa antipatia con motivazioni storiche: se Mompeo, come vi abbiamo raccontato nella scheda dedicata, sembra derivare il suo nome dalla presenza di una villa del celebre generale romano Gneo Pompeo Magno, allora non può che essere contrapposta a un centro fedele a Gaio Giulio Cesare, come si racconta, da queste parti, essere stato Salisano all’epoca.
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
La devozione per la Santa Patrona, Santa Giulia Vergine Martire
Santa Giulia Vergine Martire viene raffigurata in alcune tele poste all’interno della chiesetta parrocchiale, dedicata ai Santissimi Pietro e Paolo. L’intitolazione omaggia quelli che, inizialmente, erano patroni della città, che però Santa Giulia nel corso del tempo ha soppiantato nella devozione dei salisanesi.
Giulia era una giovane nobile cartaginese, verosimilmente vittima delle persecuzioni contro i cristiani perpetrate da Decio, o da Domiziano, imperatori rispettivamente tra il 249 e il 251 e il 244 e il 315. La colpa della fanciulla risiedeva nel non voler rinunciare alla sua fede. Probabilmente le sue reliquie viaggiarono nell’ambito dei flussi migratori dei cristiani, che fuggivano dall’Africa incalzati dalle incursioni dei Vandali di Genserico. E così arrivarono in Corsica, da dove Ansa, la sovrana dei Longobardi moglie di re Desiderio, le fece traslare a Brescia nel 762.
L’agiografia invece ci ha trasmesso un quadro molto più suggestivo delle sue peregrinazioni e sofferenze, di certo influenzato da una tendenza a rassomigliarle a quelle patite da Gesù Cristo. Giulia, tratta in schiavitù e condotta in Corsica durante i viaggi del suo padrone, fu sottoposta a un crudele martirio da un signore locale, tale Felice, per il fermo rifiuto opposto dalla fanciulla a sacrificare agli dei pagani.
Le vennero strappati i capelli, e fu crocifissa e gettata in mare. Le sue spoglie, ancora legate, inchiodate alle due assi di legno, vennero fortunosamente ritrovate da alcuni monaci. Il suo legame con la Corsica è ancora profondo, essendone poi diventata la Patrona. Ad oggi, Santa Giulia viene ricordata nel calendario cristiano il 22 maggio, ma a Salisano i festeggiamenti in suo onore si tengono durante la prima domenica dopo Ferragosto.
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
La cucina tipica di Salisano
Il piatto tipico di Salisano? Nessun dubbio, sono i maccheroni a fezze. Una pasta semplice, fatta di acqua e farina, tirata con la mano unta di olio, come un unico filo, ben spesso, non interrotto, che poi viene sistemato in una matassa dai cuochi locali, che si aiutano in questo con il gomito. In bianco, condita con olio extravergine della Sabina DOP, un ramoscello di maggiorana, da queste parti chiamata persa, e abbondante pecorino spolverato. Oppure un sugo di cinghiale, o castrato, o di pomodoro e basta. Purché ci sia il pecorino sopra!
Per quanto riguarda i secondi, i salisanesi mettono in tavola lo stracotto di cinghiale al vino rosso, o coniglio porchettato farcito con lardo, accompagnato dal pane ben cotto al forno a legna.
Possiamo chiudere il nostro pranzo con le ciambelle all’anice dolci, che sono distribuite durante la festa di Sant’Antonio.
Ma se vogliamo unire la gola al divertimento, allora occorre monitorare sui suoi canali social gli eventi organizzati dalla Pro Loco di Salisano: tipica è infatti la novembrina Sagra della Polenta e della Padellaccia. E se la polenta non ha bisogno di particolari presentazioni, diffusa com’è in tutto lo stivale, la padellaccia potrebbe non dirvi nulla a prima lettura. Si tratta di una succulenta preparazione a base di tagli tra i meno pregiati del maiale, guancia, diaframma, gola e quello che è disponibile al momento, condita con succo di limone, olive, erbe aromatiche, spadellata in una vecchia padella, una padellaccia, appunto, in una ricetta contadina, antica di almeno un secolo.
Quello che forse abbiamo tralasciato nel nostro racconto, e che speriamo di poter trasmettere anche se solo in parte, è il panorama. Alle volte ci sembra quasi di ripeterci, ma anche gli scorci di Salisano sono davvero, davvero suggestivi. Si affaccia sulla Valle del Farfa, sulle propaggini meridionali dei Monti Sabini, sulle pendici del Monte Ode, con il Monte Tancia sullo sfondo. Poco al di fuori delle mura, il colpo d’occhio viene catturato dalla torre che svetta della Rocca Baldesca e spazia sulla Cipresseta monumentale, in un connubio perfetto tra natura e opera dell’uomo.
Fonte sito web-Scopri la Sabina-
Elio MERCURI- 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
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Alberto MORAVIA: ”Ma che cosa aveva in mente? “ da L’Espresso del 9 novembre 1975-
Fonte-Gruppo Facebook Pier Paolo Pasolini-Pagine Corsare- Amministratore-Giovanna SALICE
Chi era, che cercava Pasolini? In principio c’è stata, perché non ammetterlo? , l’omosessualità, intesa però nella stessa maniera dell’eterosessualità: come rapporto con il reale, come filo di Arianna nel labirinto della vita. Pensiamo un momento solo alla fondamentale importanza che ha sempre avuto nella cultura occidentale l’amore; come dall’amore siano venute le grandi costruzioni dello spirito, i grandi sistemi conoscitivi; e vedremo che l’omosessualità ha avuto nella vita di Pasolini lo stesso ruolo che ha avuto l’eterosessualità in quella di tante vite non meno intense e creative della sua.
Accanto all’amore, in principio, c’era anche la povertà. Pasolini era emigrato a Roma dal Nord, si guadagnava la vita insegnando nelle scuole medie della periferia. È in quel tempo che si situa la sua grande scoperta: quella del sottoproletariato, come società rivoluzionaria, analoga alle società protocristiane, ossia portatrice di un inconscio messaggio di ascetica umiltà da contrapporre alla società borghese edonista e superba. Questa scoperta corregge il comunismo, fino allora probabilmente ortodosso di Pasolini; gli dà il suo carattere definitivo. Non sarà, dunque, il suo, un comunismo di rivolta, e neppure illuministico; e ancor meno scientifico; né insomma veramente marxista. Sarà un comunismo populista, “romantico”, cioè animato da una pietà patria arcaica, non comunismo quasi mistico, radicato nella tradizione e proiettato nell’utopia. È superfluo dire che un comunismo simile era fondamentalmente sentimentale (do qui alla parola “sentimentale” un senso esistenziale, creaturale e irrazionale). Perché sentimentale? Per scelta, in fondo, culturale e critica; in quanto ogni posizione sentimentale consente contraddizioni che l’uso della ragione esclude. Ora Pasolini aveva scoperto molto presto che la ragione non serve ma va servita. E che soltanto le contraddizioni permettono l’affermazione della personalità. Ragionare è anonimo; contraddirsi, personale.
Le cose stavano a questo punto quando Pasolini scrisse Le ceneri di Gramsci, La religione del nostro tempo, Ragazzi di vita, Una vita violenta e esordì nel cinema con Accattone. In quel periodo, che si può comprendere tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, Pasolini riuscì a fare per la prima volta nella storia della letteratura italiana qualche cosa di assolutamente nuovo: una poesia civile di sinistra. La poesia civile era sempre stata a destra in Italia, almeno dall’inizio dell’Ottocento a oggi, cioè da Foscolo, passando per Carducci su su fino a D’Annunzio. I poeti italiani del secolo scorso avevano sempre inteso la poesia civile in senso repressivo, trionfalistico ed eloquente. Pasolini riuscì a compiere un’operazione nuova e oltremodo difficile: il connubio della moderna poesia decadente con l’utopia socialista. Forse una simile operazione era riuscita in passato soltanto a Rimbaud, poeta della rivoluzione e tuttavia, in eguale misura, poeta del decadentismo. Ma Rimbaud era stato assistito da tutta una tradizione giacobina e illuministica. La poesia civile di Pasolini nasce invece miracolosamente in una letteratura da tempo ancorata su posizioni conservatrici, in una società provinciale e retriva.
Questa poesia civile raffinata manieristica ed estetizzante che fa ricordare Rimbaud e si ispirava a Machado e ai simbolisti russi, era tuttavia legata all’utopia di una rivoluzione sociale e spirituale che sarebbe venuta dal basso, dal sottoproletariato, quasi come una ripetizione di quella rivoluzione che si era verificata duemila anni or sono con le folle degli schiavi e dei reietti che avevano abbracciato il cristianesimo. Pasolini supponeva che le disperate e umili borgate avrebbero coesistito a lungo, vergini e intatte con i cosiddetti quartieri alti, fino a quando non fosse giunto il momento maturo per la distruzione di questi e la palingenesi generale: pensiero, in fondo, non tanto lontano dalla profezia di Marx secondo il quale alla fine non ci sarebbero stati che un pugno di espropriatori e una moltitudine di espropriati che li avrebbero travolti. Sarebbe ingiusto dire che Pasolini aveva bisogno, per la sua letteratura, che la cosa pubblica restasse in questa condizione; più corretto è affermare che la sua visione del mondo poggiava sull’esistenza di un sottoproletariato urbano rimasto fedele, appunto, per umiltà profonda e inconsapevole, al retaggio di un’antica cultura contadina.
Ma a questo punto è sopravvenuto quello che, in maniera curiosamente derisoria, gli italiani chiamano il “boom” , cioè si è verificata ad un tratto l’esplosione del consumismo. E cos’è successo col “boom” in Italia, e per contraccolpo nella ideologia di Pasolini? È successo che gli umili, i sottoproletari di Accattone e di Una vita violenta, quegli umili che nella Passione secondo Matteo Pasolini aveva accostato ai cristiani delle origini, invece di creare i presupposti di una rivoluzione apportatrice di totale palingenesi, cessavano di essere umili nel duplice senso di psicologicamente modesti e di socialmente inferiori per diventare un’altra cosa. Essi continuavano naturalmente ad essere miserabili, ma sostituivano la scala di valori contadina con quella consumistica. Cioè, diventavano, a livello ideologico, dei borghesi. Questa scoperta della borghesizzazione dei sottoproletari è stata per Pasolini un vero e proprio trauma politico, culturale e ideologico. Se i sottoproletari delle borgate, i ragazzi che attraverso il loro amore disinteressato gli avevano dato la chiave per comprendere il mondo moderno, diventavano ideologicamente dei borghesi prim’ancora di esserlo davvero materialmente, allora tutto crollava, a cominciare dal suo comunismo populista e cristiano. I sottoproletari del Quarticciolo erano, oppure aspiravano, il che faceva lo stesso, ad essere dei borghesi; allora erano o aspiravano a diventare borghesi anche i sovietici che pure avevano fatto la rivoluzione nel 1917, anche i cinesi che avevano lottato per più di un secolo contro l’imperialismo, anche i popoli del Terzo mondo che una volta si erano configurati come la grande riserva rivoluzionaria del mondo. Non è esagerato dire che il comunismo irrazionale di Pasolini non si è più risollevato dopo questa scoperta. Pasolini è rimasto, questo sì, fedele all’utopia, ma intendendola come qualche cosa che non aveva più alcun riscontro nella realtà e che di conseguenza era una specie di sogno da vagheggiare e da contemplare ma non più da realizzare e tanto meno da difendere e imporre come progetto alternativo e inevitabile.
Da quel momento Pasolini non avrebbe più parlato a nome dei sottoproletari contro i borghesi, ma a nome di se stesso contro l’imborghesimento generale. Lui solo contro tutti. Di qui l’inclinazione a privilegiare la vita pubblica, purtroppo borghese, rispetto alla vita interiore, legata all’esperienza dell’umiltà. Nonché una certa ricerca dello scandalo non già a livello del costume ma a quello della ragione. Pasolini non voleva scandalizzare la borghesia, troppo consumistica ormai per non consumare anche lo scandalo. Lo scandalo era diretto contro gli intellettuali, che, loro sì, non potevano fare a meno di credere ancora nella ragione. Di qui pure un continuo intervento nella discussione pubblica, basato su una sottile e brillante ammissione, difesa e affermazione delle proprie contraddizioni. Ancora una volta Pasolini si teneva alla propria esistenzialità, alla propria creaturalità. Solo che un tempo l’aveva fatto per sostenere l’utopia del sottoproletariato salvatore del mondo; e oggi lo faceva per criticare la società consumista e l’edonismo di massa. Aveva scoperto che il consumismo era penetrato ormai ben dentro l’amata civiltà contadina. Ciononostante, questa scoperta non l’aveva allontanato dai luoghi e dai personaggi che un tempo, grazie ad una straordinaria esplosione poetica, l’avevano così potentemente aiutato a crearsi la propria visione del mondo. Affermava in pubblico che la gioventù era immersa in un ambiente criminaloide di massa; ma in privato, a quanto pare, si illudeva pur sempre che ci potessero essere delle eccezioni a questa regola. La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nei suoi romanzi e nei suoi film, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile.
Fonte -Gruppo Facebook Pier Paolo Pasolini-Pagine Corsare-Amministratore-Giovanna SALICE
Cottanello (RI)-Villa romana Aurelii Cottae-Biblioteca DEA SABINA
Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Roma e la provincia Rieti
Gli splendidi mosaici della villa romana degli Aurelii Cottae
Villa romana degli Aurelii Cottae a CottanelloVilla romana degli Aurelii Cottae a CottanelloVilla romana degli Aurelii Cottae a Cottanello
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Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-
– ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina –
-Edizione del TCI anno 1929-
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