La xilografia e i grandi interpreti sardi- Cristoforo Puddu
La xilografia, significativo e rappresentativo linguaggio incisorio delle tradizioni culturali dell’Isola, ha avuto grandi e brillanti interpreti tra gli artisti sardi del ’900.
La xilografia e i grandi interpreti sardi
La xilografia (dal greco: “legno/scrivo”) è un’arte antica e i legni incisi per decorare stoffe erano diffusi già nell’antico Egitto ed adottati nelle produzioni dei Copti nel V secolo d.C.
Le prime stampe xilografiche su carta sono realizzate in Cina intorno al secolo VIII, mentre in Europa si sviluppa la tecnica dell’incisione con la diffusione della carta: nel XIV secolo si producono figure di santi e immagini votive, carte da gioco e successivamente le illustrazioni per i primi volumi a stampa. Nel XV secolo si consolida in Italia e Germania la produzione di libri illustrati con le xilografie.
SILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINA
Per l’incisione su legno della xilografia vengono usati alberi da frutto (melo, pero, ciliegio) o di piante di maggior durezza come il corniolo, il sicomoro, il bosso ed il sorbo. La matrice della tavola da incidere a rilievo, con l’uso di strumenti adatti quali sgorbie, bulini, lame e scalpelli vari, può essere tagliata longitudinalmente (legno di filo) o trasversalmente (legno di testa) al tronco: la xilografia inchiostrata permette la realizzazione a stampa del soggetto immagine-testo su carta, seta e diversi tessuti.
L’immediata comunicatività della xilografia, con un significativo e rappresentativo linguaggio incisorio delle tradizioni e cultura dell’Isola, ha avuto dei grandi e brillanti interpreti tra gli artisti sardi del ’900.
I nomi più validi e ricorrenti sono quelli di Mario Mossa De Murtas (1881 – 1966), grande xilografo nato a Sassari, emigrato in Brasile realizzò una luminosa carriera;
Giuseppe Biasi (1885 – 1945), uno dei massimi artefici dell’arte incisoria in Sardegna;
Mario Delitala (1887 – 1990), eccelso animatore ed interprete dell’arte sarda del Novecento;
Carmelo Floris (1891 – 1960), un gigante nell’arte dell’incisione sul legno e sui metalli;
Battista Ardau Cannas (1893 – 1984), artista dalla grande produzione incisoria, legittimata da numerosi riconoscimenti alle Biennali di Venezia ed esposizioni internazionali (Varsavia 1936, Londra 1950);
Remo Branca (1897 – 1988), xilografo di fama nazionale ed internazionale e “uomo di ferrata e solida cultura umanistica”;
Stanis Dessy (1900 – 1992), artista di chiara fama ed esimio insegnate d’arte;
Antonio Mura (1902 – 1972), raffinato incisore della scuola sarda e fedele cultore della disciplina.
E proprio a Remo Branca -autore tra l’altro di fondamentali testi come “La xilografia in Sardegna”, “Breviario di xilografia” e “Incisori sardi”- si deve una vera e propria scuola d’incisori iglesienti, che s’imposero per la grande capacità di rappresentare le tematiche di carattere sociale, la vita campestre e la durezza del lavoro dei minatori.
Conquistarono ed hanno un ragguardevole ruolo nella storia dell’arte incisoria sarda gli stimati Mansueto Giuliani, Gianni Desogus (in arte Xiandès), i fratelli Enea e Giovanni Marras, Carlo Murroni e Foiso Fois; tutti discepoli del Branca che si era stabilito ad Iglesias, dal 1925 al 1936, per motivi politici e “sfuggire ai rigori del regime fascista a Sassari”, a cui aveva espresso la sua chiara opposizione come giornalista e direttore del giornale “Libertà”.
Un mio personale ricordo corre anche alla figura dell’artista Vincenzo Becciu (s’amigu de sos poetas) di Ozieri, che negli anni Settanta e Ottanta “alimentò” di trofei xilografici, di gran pregio e valore, i maggiori concorsi letterari in limba.
Cristoforo Puddu
SILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINA
Dal libro: Fotoreportage per raccontare Roma e la sua Campagna Romana
di Franco Leggeri.
La bellezza, la poesia e la “bioarchitettura” del Viale dei pini nella Campagna Romana. V.le del sito Archeologico Torre della BOTTACCIA-Brano e Fotoreportage tratto dalla Monografia “Torri Segnaletiche-Saracene della Campagna Romana “di Franco Leggeri.
L’ecologia è un concetto che fa parte della coscienza universale, di cui dobbiamo essere ogni giorno sempre più consapevoli. Il grande scienziato della natura e poeta Goethe riassume tale consapevolezza con queste parole: “Nulla si impara a conoscere, se non ciò che si ama, e più forte è l’amore tanto maggiore sarà la conoscenza”. Imparare a “godere” dello spazio naturale che ci circonda è uno strumento di straordinario valore per diffondere e sedimentare nell’agire una vera e propria cultura della sostenibilità. In tal senso, probabilmente la più spontanea e potente istanza pedagogica è proprio il paesaggio, capace di impartire una sua prima e fondamentale educazione implicita: il paesaggio è infatti come scrive , molto bene, nel suo saggio ”Paesaggio Educatore” il Regni R. “ maestro di una cultura dell’ascolto dell’armonia dell’uomo e del cosmo, propria di un ambiente come realtà da condividere e non solo come qualcosa a cui badare”(Ed.Armando -2009). L’ammirazione per lo splendore della natura è il motore che genera e, conseguentemente, moltiplica in ognuno di noi , sin dalla più giovane età, i sentimenti di affezione , rispetto e curiosità verso il patrimonio ambientale che ci circonda. D’altra parte tale affezione e desiderio di cura tutela non può che scaturire dalla conoscenza e dalla relazione . Ci è istintivamente estraneo ciò che non conosciamo, con cui non possiamo dialogare per assenza di codici condivisi e a cui non siamo socializzati . L’estraneità si supera a mio avviso, solo attraverso un flusso comunicativo e relazionare che deve essere continuamente alimentato e che dà luogo ad una empatia prodromica a comportamenti di cura , tutela e di salvaguardia . Per recuperare i “codici” che ci consentono , nell’ascolto, di comprendere il linguaggio della natura bisogna , infatti, conoscere quest’ultima, perché solo coltivando una conoscenza profonda e radicata , ma anche istintiva, di qualcosa possiamo affezionarci ad essa, amarla e far crescere in noi il desiderio spontaneo di difenderla e preservarla.
Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-
Campagna romana
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
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Mostra fotografica “Exodus, un’umanità in cammino”, di Sebastiao Salgado al MAR-
Articolo di Elisa Castagnoli
Al Museo d’Arte della città di Ravenna“Exodus, un’umanità in cammino” fino al 2 giugno 2024.
Sono storie di esodo, di migrazioni obbligate per milioni di persone che ogni anno, nel mondo decidono di lasciare la propria terra a causa di disastri naturali, per l’ingente povertà che spinge alla ricerca di prospettive migliori o destini differenti, oppure per la violenza di una guerra che mette in fuga interi gruppi di popolazioni; notizie che ogni giorno popolano le cronache del nostro occidente europeo.
Tali storie, ugualmente documentate dallo sguardo lucido e visionario di uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea, Sebastiao Salgado, sono al centro di “Exodus: un’umanità in cammino” attualmente esposte al Mar di Ravenna fino al prossimo giugno.
Ravenna“Exodus, un’umanità in cammino”salgado-Equador
Salgado, Equador
Nonostante sia passato più di un decennio da quando “Exodus” è stata esposta per la prima volta, il tema resta più che mai attuale perché nuove crisi periodicamente si ripresentano – rispetto a quelle documentate dal fotoreporter negli anni ’90 – ma i migranti e i profughi di oggi vivono esattamente nello stesso baratro tra disperazione e speranza, gli stessi momenti tragici o eroici legati al destino di ciascun individuo o di interi gruppi di popolazione. Raccontano a distanza di trent’anni la storia del nostro tempo, gli sconvolgimenti globali che accadono nel mondo attuale spinti dal crescente divario tra monopoli di ricchezza e diffuse aree di indigenza e marginalità, la crescita demografica esponenziale, infine l’emergenza climatica in atto.
“Quasi tutto ciò che accade sulla terra è in qualche modo collegato” afferma la curatrice Lélia Wanick Salgado, perché una crisi prodotta da una guerra per esempio quella russo-ucraina o a un imprevisto disastro ambientale in una parte remota del mondo influenza e ha delle ripercussioni in tutto il resto del pianeta. “Le persone strappate dalle loro case sono solo le vittime più visibili di un processo globale. Le fotografie qui rappresentate catturano momenti tragici, drammatici ed eroici di singoli individui” e tutte insieme raccontano anche una realtà che ci appartiene, “la storia del nostro tempo”. Come sottolinea la curatrice: “Esse non offrono riposte ma al contrario pongono una domanda: nel nostro cammino verso il futuro non stiamo forse lasciando indietro gran parte del genere umano ?”
Ravenna“Exodus, un’umanità in cammino”Salgado-Zaire
Salgado, Zaïre
La fotografia documentaria ha portato Salgado in giro per il mondo attraverso i cinque continenti. Le immagini suddivise in varie sezioni spaziano da una parte all’altra del pianeta toccando temi diversi legati al nodo centrale dell’esodo. Nella prima parte si parla di migranti e profughi di oggi contro il loro stesso volere in immagini emblematiche del nostro tempo. La seconda sezione è dedicata alle crisi che hanno investito il continente africano negli anni ‘90 come i profughi ritornati in Mozambico dopo la guerra o la crisi umanitaria in Ruanda. Nella terza parte si parla di America latina con le migrazioni di massa avvenute dalle zone rurali a quelle urbane dando vita alle grandi metropoli del sud America come Città del Messico e San Paulo circondate da estese baraccopoli. Segue la serie di Salgado che racconta la sovra-popolazione in Asia e la creazione di megalopoli come Shangai, Bombay, ecc., segnate dalle condizioni precarie di vita della maggioranza. Chiude la mostra una selezione di volti arrivati dai quattro angoli del pianeta, perlopiù ritratti di bambini – spesso le prime vittime delle guerre, degli esodi o comunque della povertà – ma qui posizionati al centro dell’obbiettivo come i protagonisti indiscussi in un atto di riscatto, inaspettato e insieme epifanico.
Migranti e rifugiati: Cap Saint Jacques
Ravenna“Exodus, un’umanità in cammino”
Salgado, Sud Vietnam
Una spiaggia deserta immersa nel profondo chiaroscuro della foto in bianco e nero quasi a immagine di un’umanità sopravvissuta da un immenso diluvio universale sulla terra. Una barca solitaria è spinta a riva da pochi uomini, salvata dall’impetuosità delle acque quasi fossero approdati in una terra promessa dopo il diluvio che ha visto spazzare via tutte le restanti creature. Ancora è l’immagine di una spiaggia deserta da cui sono pronti a partire centinaia di migranti verso l’ignoto oltre la violenza del mare, al di là dell’impetuoso scrosciare delle onde a riva a segno di un incerto, spaventoso destino.
Nella foto successiva una bambina guarda lontano l’oceano oltre il suo infrangersi violento sulla riva là dove le acque hanno portato via i suoi cari e dove altri sono partiti o scomparsi in mezzo ai fiotti, forse divorati dalle correnti. Sulla sabbia parole scritte restano incise come geroglifici primordiali sulla roccia per lasciare una traccia, la memoria da chi è scomparso, portato via dalle correnti o da un destino avverso.
A proposito di guerra : “La strada principale di Kabul” (1996)
Ravenna“Exodus, un’umanità in cammino”Salgatom Kabul
Salgado, Kabul (Afghanistan)
Ravenna“Exodus, un’umanità in cammino”Salgatom Kabul
Distrutta dai bombardamenti, disertata dai civili in tempo di guerra, il centro di Kabul appare a distanza come un paesaggio desolato, astratto nel chiaroscuro dell’immagine in bianco e nero e svuotato di presenze: relitto e insieme cicatrice di uno shock violento e distruttivo. Rovine di palazzi e cumuli di macerie si ergono lì insieme alle ombre oscure degli individui che la attraversano restituendo l’immagine di una città fantasma. Visione emblematica di ciò che resta nel passaggio violento e irreversibile di tutte le guerre.
“Campo profughi palestinese”
Sorridono questi bambini nonostante tutto relegati dentro lo spazio ristretto e murato di un campo profughi per rifugiati palestinesi in Siria. Esprimono la voglia, malgrado la situazione drammatica, di libertà, leggerezza e gioco, l’incanto nello sguardo dei bambini identico in tutto il mondo dovunque essi si trovino, liberi o reclusi, arabi o israeliani, la loro curiosità e irriverenza verso la vita come la voglia di correre e muoversi liberamente e senza freni. Ali di libertà disegnate su un muro del campo profughi e versetti del Corano trascritti a caratteri arabi si stagliano come geroglifici oscuri, magnificenti e grandiosi di un codice a loro solo decifrabile. Accanto, la grata di una finestra dietro la quale altri bambini sono reclusi o trattenuti dentro lo spazio ristretto e regimentato del campo.
“Una profuga kosovara in Albania”
Giace rannicchiata sullo sfondo di un paesaggio arido e brullo dove null’altro si erge se non la linea di demarcazione tra cielo e terra e fili spinati in primo piano lungo una barriera che preclude l’attraversamento e la avvolge tutt’intorno. È avvolta da una coperta nel freddo invernale e forse proviene da un campo profughi lì nelle vicinanze. L’immagine emblematica racconta un’umanità vista in uno strato di esilio permanente, obbligato e senza speranze: condizione dei molti costretti a spostarsi in altre zone della terra inseguendo un destino vagheggiato di agio e libertà. Un paesaggio raso al suolo da eventi devastanti fuori dal suo controllo; l’individuo al centro come nodo problematico e esistenziale.
Una strada è simbolicamente aperta attraverso un paesaggio, dissecato di massi e di rocce. Un bambino percorre quel sentiero aperto tra gli sterpi come fosse alla ricerca di una via di d’uscita o di salvezza. Quell’alternativa immaginata o sognata spinge la maggior parte dei migranti alla fuga verso l’ignoto, all’attraversamento dei confini alla ricerca di orizzonti ancora possibili. Sullo sfondo, dalla parte opposta della strada, alla stazione di Ivankovo c’è un treno fermo dove un centinaio di profughi hanno trovato un alloggio di fortuna in Croazia durante la guerra.
African Tragedy
La serie di fotografie scattate nel continente africano negli anni ’90 documenta la crisi umanitaria accorsa in Ruanda in seguito alle vicende tragiche di violenza e persecuzione che hanno segnato la popolazione durante la guerra civile. Ruandesi in cammino verso un campo profughi in Tanzania appaiono nella foto; donne e bambini con la loro casa fatta di poche coperte e cocci essenziali sulla testa camminano a piedi nudi mentre la strada si dispiega limpida di fronte a loro, il cielo basso e coperto di nuvole nella semi oscurità del tramonto. La savana li scruta a distanza sullo sfondo. Partono lasciandosi alle spalle una terra di atrocità e miseria verso un futuro incerto e oscuro. In un’altra foto vediamo un accampamento di profughi ruandesi in Tanzania fatto di tende per dormire la notte lungo il cammino, pentole e le ceneri di fuochi spenti nell’oscurità.
Salgado, Tanzania
Mozambico: un popolo in cammino verso una nuova vita attraversa il grande ponte in prossimità del lago Malawi per tornare in patria dopo quindici anni di esilio in Tanzania. Una donna e un bambino avvolto in fasce sulla sua schiena si scorgono tra le fronde di una piccola piantagione verde sopraffatta di foglie e sterpi. Cominciano una nuova vita coltivando la terra che erano stati costretti ad abbandonare quindici anni prima, tornati a casa alla fine della guerra.
La sezione “America latina: esodo rurale, disordine urbano” mostra in una prima foto un villaggio Moruba nella foresta amazzonica in Brasile dove l’essere umano appare ancora in uno stato di connessione profonda con la natura ancestrale e immutata che in sé stessa esiste in un suo eterno divenire. Una giovane donna dalla genuina bellezza si bagna nelle acque di un ruscello in prossimità di una cascata mentre altri bambini e donne del villaggio si mostrano sotto una luce irradiante a contatto con gli alberi ancestrali. Le acque limpide del fiume riflettono in una visione edenica e quasi irreale di paradiso terrestre.
Salgado, Amazonia
Altrove, in altre fotografie sono le baraccopoli affollate dei migranti a San Paolo o a Città del Messico o ancora le sommosse del Movimento Brasiliano dei Senza Terra per rioccupare parte dei territori dominate dai latifondisti e indispensabili alla loro sopravvivenza.
La sezione “ Asia, il nuovo volto urbano del mondo” documenta il passaggio dalla diffusa povertà rurale alle nuove megalopoli asiatiche come Shangai, Giacarta, Bombay o Manila dove i migranti vivono in condizioni precarie spesso di sfruttamento e marginalità nelle periferie degli immensi centri urbani.
Vediamo una stazione enorme e sovraffollata dal traffico costante di migliaia di persone ogni giorno a Bombay, una moschea a Giacarta dove il singolo si perde nella schiera anonima e senza volto di copricapi bianchi in questa marea indefinita di esseri umani inchinati di fronte alla divinità. E, ancora, lungo il molo di Marina Drive un diseredato se ne sta disteso, avvolto da una coperta logora con alle spalle solo il volo dei gabbiani sulle acque ferme della banchina e, ancora più lontano, i grattacieli anonimi dell’immensa e scintillante megalopoli asiatica.
Portraits
Ritratti di bambini, limpidi e meravigliosi raccontano storie provenienti da tutto il mondo visti in primo piano semplicemente nella loro intrinseca autenticità e bellezza. Il fotografo ha lasciato loro la libertà di scegliere la posa o il gesto nel ritratto. Le espressioni, lo sguardo appaiono ora velati di malinconia e tristezza, ora sprigionando allegria e speranza. Dai quattro continenti questi bambini affrontano la macchina fotografica scegliendo di rendersi visibili, esposti al mondo in uno scatto fotografico e su una pellicola. Soli di fronte all’obbiettivo scelgono infine di essere visti e di determinarsi, loro le prime vittime dei fenomeni migratori, delle fughe obbligate o di chi la guerra rende profughi e esuli. Il fotografo rivela di ciascuno di essi una limpida verità secondo il proprio contesto e cultura, fisionomia o destino da cui sono stati segnati. Li mostra in una verità gridata senza altro parametro o giudizio che la loro intrinseca bellezza di esseri umani, unici, singolari, limpidi di fronte all’obbiettivo.
Kappler-faccia tagliata venne per testimone a raccontarci il massacro. Si disse fanatico e sacro nella sua grande fatica d’abbattere ostaggi, un portone di buio aperto dai fari la cava di Roma antica.
Su quel trofeo di vendetta – sempre più deboli i forti ciechi nel giallo alone del tufo in polvere – in vetta lui solo a sparare per tutti i carnefici arresi all’orrore, lui solo totale furore di mazza sugli innocenti. E tacquero i venti, il silenzio non era del mondo ma di quel sangue assetato.
Kappler-faccia tagliata parlava in tedesco, il pubblico zitto l’interprete muto. Nessuno guardava più in giro, tutti fissi in un punto, quel punto: Kesselring, il viso compunto nell’ordine, il fatto compiuto. E nulla andò perduto di quelle parole, io non le riesco a staccare da me – e non da me, ma dal fitto del petto con cui le respiro. Blut diceva il sangue e tu-fo il tufo come noi, mostrando fra le sue dita la gialla arenaria che frana su quella morte impaurita, sulla giustizia vana che lascia parole.
All’Appia antica se il sole rallegra la via e s’odono i passi perduti dei morti cristiani, ricorda gli eterni minuti di questo supplizio. Domani i giusti saranno con noi nel tempo che i morti non hanno. Or la pietà dell’inganno vi chiude le tombe già aperte perché la morte vi opprima col peso di tutte le offerte, col senno di poi. Per altri innocenti, per altro furore s’accenda la prima la stessa parola d’amore che ci fu tolta: domani.
(da La storia delle vittime, 1966)
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ALFONSO GATTO
“Ad ascoltarlo [Kappler] erano tutti fissi dai propri banchi: egli descriveva la scena delle esecuzioni, esaltandosi alle sue stesse parole, stancandosi della fatica del massacro come allora, ma senza rompere l’equilibrio necessario… Erano queste stesse precisazioni che spiegavano l’episodio del massacro nel suo svolgimento e lo rendevano terribilmente vero”:Alfonso Gatto (1909-1976) seguì come giornalista del Mattino del popolo di Venezia il processo ad Albert Kesselring e Herbert Kappler, responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, compiuto come rappresaglia dai tedeschi il 24 marzo 1944, all’indomani dell’attentato di Via Rasella nel quale i partigiani uccisero 33 soldati nazisti. Fu una vera e propria strage a sangue freddo: i tedeschi, dopo averli portati nelle cave di pozzolana sull’Ardeatina, uccisero dieci italiani per ogni loro soldato, sbagliando anche i calcoli poiché le vittime furono 335, rastrellate nelle carceri di Via Tasso e di Regina Coeli – in particolare partigiani, monarchici, massoni ed ebrei – e tra i detenuti in attesa di giudizio anche per reati non politici. Poi fecero saltare la cava con le mine per sigillarla. Fu una delle crudeltà più impressionanti e gratuite dell’intera guerra, che lasciò un segno profondo nella coscienza della nuova Italia.
Mausoleo delle Fosse Ardeatine Il 23 marzo 1944, in un’azione di guerra in via Rasella a Roma, un gruppo di partigiani uccideva 33 soldati nazisti e ne feriva 38. Pronta la risposta tedesca: per ogni soldato ucciso sarebbero stati eliminati dieci italiani. Il giorno dopo, 24 marzo, 335 uomini, scelti a caso dalle truppe di occupazione tedesca tra prigionieri politici, tradotti dal carcere di via Tasso, ebrei e civili furono giustiziati. Le vittime vennero poi gettate nelle antiche cave di pozzolana situate a ridosso di via Ardeatina che vennero poi fatte brillare su ordine di Kappler per occultare la carneficina.
I movimenti di automezzi nei pressi del luogo dell’eccidio e le successive esplosioni furono però uditi da alcuni religiosi che si trovavano nelle vicinanze in qualità di guide alle catacombe. Durante la notte, i frati entrarono nelle cave e scoprirono i corpi ammassati uno sull’altro.
Per commemorare il tragico evento, e offrire degna sepoltura ai martiri della resistenza, il governo post-liberazione decise di “erigere sul luogo della vendetta tedesca un monumento a perenne ricordo dei Martiri e di tutti i caduti della guerra di Liberazione”. A questo scopo, nel settembre 1944, il Comune di Roma indisse un concorso – il primo dell’Italia democratica – per l’edificazione di un mausoleo da consacrare simbolo della Resistenza alle violenze del Reich.
I vincitori del concorso, gli architetti Giuseppe Perugini, Nello Aprile e Mario Fiorentini, progettarono un semplice parallelepipedo cavo in cemento a protezione dei sacelli dei martiri posti fuori terra ma in stretto collegamento con il luogo dell’eccidio.
La costruzione del sacrario iniziò il 22 novembre 1947. Nel 1949, il Mausoleo fu inaugurato solennemente in occasione del quinto anniversario della strage. Da allora, ogni 24 marzo, l’evento viene commemorato al cospetto di autorità, associazioni partigiane e di deportati, studenti e comuni cittadini, mentre i nomi delle 335 vittime vengono scanditi ad alta voce.
La suggestiva cancellata da cui si accede al mausoleo è opera dello scultore e pittore Mirko Basaldella. Il senso che assume è altamente simbolico di una scena di feroce massacro tratteggiato dalle figure disperatamente contorte che vi sono rappresentate.
L’imponente gruppo scultoreo in travertino posto sul piazzale è opera dello scultore di Francesco Coccia, e rappresenta tre personaggi a simbolo delle tre età. I corpi ritratti sono orientati rispettivamente verso le cave, verso il luogo delle sepolture e verso il piazzale, come a indicare il percorso al visitatore.
Il film Roma città aperta, struggente capolavoro diretto da Roberto Rossellini nel 1945, con Anna Magnani e Aldo Fabrizi ricorda quei tragici avvenimenti. Aldo Fabrizi è don Pietro, figura che ricorda i due religiosi, Don Giuseppe Morosini, fucilato a Forte Bravetta, e Don Pietro Pappagallo, ucciso nelle Fosse Ardeatine. Anna Magnani, invece, è Pina, la moglie incinta di Fabrizio, uno dei prigionieri condotti alle Fosse Ardeatine. Per cercare di salvarlo, insegue il camion sul quale è stato caricato, ma viene falciata da una raffica di mitra.
Mausoleo delle Fosse Ardeatine Il 23 marzo 1944, in un’azione di guerra in via Rasella a Roma, un gruppo di partigiani uccideva 33 soldati nazisti e ne feriva 38. Pronta la risposta tedesca: per ogni soldato ucciso sarebbero stati eliminati dieci italiani. Il giorno dopo, 24 marzo, 335 uomini, scelti a caso dalle truppe di occupazione tedesca tra prigionieri politici, tradotti dal carcere di via Tasso, ebrei e civili furono giustiziati. Le vittime vennero poi gettate nelle antiche cave di pozzolana situate a ridosso di via Ardeatina che vennero poi fatte brillare su ordine di Kappler per occultare la carneficina.
I movimenti di automezzi nei pressi del luogo dell’eccidio e le successive esplosioni furono però uditi da alcuni religiosi che si trovavano nelle vicinanze in qualità di guide alle catacombe. Durante la notte, i frati entrarono nelle cave e scoprirono i corpi ammassati uno sull’altro.
Per commemorare il tragico evento, e offrire degna sepoltura ai martiri della resistenza, il governo post-liberazione decise di “erigere sul luogo della vendetta tedesca un monumento a perenne ricordo dei Martiri e di tutti i caduti della guerra di Liberazione”. A questo scopo, nel settembre 1944, il Comune di Roma indisse un concorso – il primo dell’Italia democratica – per l’edificazione di un mausoleo da consacrare simbolo della Resistenza alle violenze del Reich.
I vincitori del concorso, gli architetti Giuseppe Perugini, Nello Aprile e Mario Fiorentini, progettarono un semplice parallelepipedo cavo in cemento a protezione dei sacelli dei martiri posti fuori terra ma in stretto collegamento con il luogo dell’eccidio.
La costruzione del sacrario iniziò il 22 novembre 1947. Nel 1949, il Mausoleo fu inaugurato solennemente in occasione del quinto anniversario della strage. Da allora, ogni 24 marzo, l’evento viene commemorato al cospetto di autorità, associazioni partigiane e di deportati, studenti e comuni cittadini, mentre i nomi delle 335 vittime vengono scanditi ad alta voce.
La suggestiva cancellata da cui si accede al mausoleo è opera dello scultore e pittore Mirko Basaldella. Il senso che assume è altamente simbolico di una scena di feroce massacro tratteggiato dalle figure disperatamente contorte che vi sono rappresentate.
L’imponente gruppo scultoreo in travertino posto sul piazzale è opera dello scultore di Francesco Coccia, e rappresenta tre personaggi a simbolo delle tre età. I corpi ritratti sono orientati rispettivamente verso le cave, verso il luogo delle sepolture e verso il piazzale, come a indicare il percorso al visitatore.
Il film Roma città aperta, struggente capolavoro diretto da Roberto Rossellini nel 1945, con Anna Magnani e Aldo Fabrizi ricorda quei tragici avvenimenti. Aldo Fabrizi è don Pietro, figura che ricorda i due religiosi, Don Giuseppe Morosini, fucilato a Forte Bravetta, e Don Pietro Pappagallo, ucciso nelle Fosse Ardeatine. Anna Magnani, invece, è Pina, la moglie incinta di Fabrizio, uno dei prigionieri condotti alle Fosse Ardeatine. Per cercare di salvarlo, insegue il camion sul quale è stato caricato, ma viene falciata da una raffica di mitra.
Franco Leggeri-Fotoreportage -Roma Municipio XIII- MUSEO PALEONTOLOGICO:” La Polledrara di Cecanibbio”-
CASTEL DI GUIDO-La Polledrara di Cecanibbio- MUSEO PALEONTOLOGICO
Franco Leggeri-Fotoreportage -Roma Municipio XIII- MUSEO PALEONTOLOGICO:” La Polledrara di Cecanibbio”-Articolo scritto dalla Dott.ssa Anna Paola Anzidei, Soprintendenza Archeologica di Roma–Il giacimento pleistocenico de Museo Paleontologico “la Polledrara di Cecanibbio” è ubicato a circa 20 km a Nord-Ovest di Roma tra la via Boccea e la via Aurelia , ad una quota di circa 83 metri s.l.m., nell’ambito dei rilievi periferici del Vulcano Sabatino. Il sito, venuto alla luce a seguito dell’erosione naturale di un pendio di collina, è stato parzialmente disturbato dall’aratura moderna. In base ai dati forniti dallo scavo archeologico, iniziato nel 1985 dalla Soprintendenza Archeologica di Roma e tuttora in corso e che ha rimesso alla luce un’area di oltre 700 mq, il giacimento è stato associato al paleo alveo ed ai margini di un piccolo corso d’acqua, presente in un paesaggio a lieve gradiente ,caratterizzato da canali fluviali a percorso instabile e da acque stagnanti . Il tratto dell’alveo conservato, inciso in un banco di tufite granulare compatta, raggiunge la larghezza massima di 40-50 m. Sulla paleo superficie erano irregolarmente distribuiti oltre 9000 (novemila) reperti faunistici fossili associati a circa 400 strumenti litici e a pochi strumenti su osso, attribuibili culturalmente al Paleolitico inferiore. L’associazione faunistica è costituita prevalentemente da Elefante antico e Bue primigenio; scarsa invece la presenza di altre specie quali il cervo, il cavallo, il lupo , il rinoceronte. Pochi i resti di microfauna e di uccelli acquatici. Le ossa erano accumulate in più livelli nel canale centrale , mentre nelle aree periferiche pianeggianti erano sparse su di un unico livello, con alcune concentrazioni in piccoli avvallamenti . Lo stato di conservazione è ottimo; le ossa presentano un buon grado di fossilizzazione ed un aspetto delle superfici vario, da quello molto fresco nei reperti che hanno subito poco o meno trasporto, a quello fortemente fluitato per quelli di minori dimensioni trascinati dalla corrente . I reperti erano stati successivamente seppelliti, in un tempo relativamente breve, da uno strato di tufite , derivata da prodotti vulcanici rimaneggiati. La distribuzione caotica del materiale, causata dai processi di trasporto e di deposizione che avvengono in un percorso d’acqua, è stata in parte determinata , soprattutto nelle aree marginali, dall’attività di animali da preda quali il lupo , e dall’intervento dell’uomo. Questi doveva avere frequentato le sponde del corso d’acqua , intensamente popolate da animali di varie specie, sia per procacciarsi il cibo , come è testimoniato dalla presenza di strumenti e dalle numerosissime ossa metapodiali di Bue primigenio fratturate per estrarne il midollo . Le ossa di Elefante sono in assoluto le più abbondanti, con la presenza di tutti gli elementi dello scheletro ; alcuni crani quasi completi sono di particolare interesse in quanto offrono una più ampia conoscenza sulla morfologia degli esemplari di Elefante antico nella penisola italiana. Numerose le zanne , le mandibole, i denti isolati e le ossa dello scheletro postcraniale , attribuibili ad almeno 25 individui prevalentemente adulti. Nel corso delle ultime campagne di scavo è stato parzialmente rimesso in luce un microambiente, di poco successivo all’episodio fluviale, caratterizzato da acqua a lentissimo scorrimento. In quest’area sono stati identificati i resti ossei di almeno due elefanti, in parziale connessione anatomica e con le superfici in perfetto stato di conservazione. Finora sono stati rimessi in luce un cranio ed alcune ossa dello scheletro postcraniale : una zampa anteriore, le ossa di una mano, le tibie e peroni, alcune vertebre e costole. Accanto alle vertebre di una degli esemplari vi erano i resti di un lupo , anch’essi parzialmente in connessione. Evidentemente le carcasse degli animali erano rimaste intrappolate nella melma e le ossa non avevano quindi subito spostamenti di rilievo. Sparsi tra i reperti faunistici sono stai raccolti 400(quattrocento) strumenti litici culturalmente riferibili al Paleolitico inferiore. La materia prima, costituita da piccoli ciottoli silicei e calcareo-silicei di colore variabile dal grigio al grigio scuro, non appartiene all’ambiente fluvio-palustre ricostruito, ed è stata evidentemente trasportata dall’uomo. Questi si procurava il materiale nei livelli a ghiaie attribuibili alla Formazione Galeria, i cui affioramenti sono attualmente individuabili alla quota di 40-45 metri s.l.m. lungo la parte terminale dei fossi Arrone e Galeria, ad una distanza minima di km 3 (tre) dal giacimento de La Polledrara. L’industria è caratterizzata dalla presenza di strumenti su ciottolo, in particolare choppers e raschiatoi , molti dei quali con il margine ottenuto con ritocco erto. Numerosi i denticolati , i grattatoi e gli strumenti con caratteri tipologici non ben definiti. Comunemente i manufatti presentano più margini ritoccati; tale sfruttamento intensivo dei ciottoli era probabilmente dovuto proprio alla difficoltà di reperimento della materia prima. Non sono presenti fino ad oggi strumenti bifacciali , comuni negli altri siti dell’area Nord-Ovest di Roma (Castel di Guido, Malagrotta, Torre in Pietra). Vario è la stato fisico dei manufatti; molti dei quali presentano le superfici alterate dal trasporto in acqua. Alcuni strumenti litici , rinvenuti associati alle ossa di elefante in connessione anatomica nell’ambiente di tipo palustre, presentano invece un aspetto fisico freschissimo e margini taglienti. L’analisi delle tracce d’uso ha permesso di riscontrare la presenza di tracce prodotte dal contatto di tessuti animali (ossa, carne e pelle) nel corso della macellazione delle carcasse. Pochi sono gli strumenti su osso, ricavati tutti da frammenti di diafisi di ossa lunghe di elefante , con estremità o margini laterali resi taglienti mediante il distacco di grosse schegge . In occasione del Giubileo dell’anno 2000 è stata attuata una struttura museale , dell’estensione di 900 (novecento) mq, per la fruizione , da parte del pubblico, della paleo superficie rimessa in luce e restaurata.
Articolo scritto dalla Dott.ssa Anna Paola Anzidei, Soprintendenza Archeologica di Roma-
Dal Volume- CASTEL DI GUIDO dalla Preistoria all’Età moderna. Edizione PALOMBI- ed. 2001-
Foto originali di Franco Leggeri
Bibliografia
Anzidei, A.P., 2001. Tools from elephant bones at La Polledrara di Cecanibbio and Rebibbia-Casal de’ Pazzi . In: Cavarretta, G., Gioia, P., Mussi, M., Palombo M.R. (Eds), Proceedings of the 1st International Congress The World of Elephants, CNR, Roma, 415-418.
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Arnoldus Huizendveld, A., Anzidei, A.P., 1993. Ricostruzione di un ambiente fluvio-palustre nella regione vulcanica di Roma (La Polledrara di Cecanibbio). In: Atti della XXX Riunione Scientifica dell’Istituto Italiamo di Preistoria e Protostoria, 151-165.
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Anzidei, A.P., Angelelli, L., Arnoldus Huizendveld, A., Caloi, L., Palombo M.R., Segre, G., 1989. Le gisement pleistocène de La Polledrara di Cecanibbio (Rome, Italie). L’Anthropologie 93, 3, 749-781.
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Anzidei, A.P., Arnoldus Huizendveld, A., Palombo, M. R., Argenti,P.,Caloi, L., Marcolini, F., Lemorini, L., Mussi, M., 2004. Nouvelles données sur le gisement Pléistocène moyen de La Polledrara di Cecanibbio (Latium, Italie). In: Baquedano, E., Rubio, S. (Eds). Miscelànea en homenaje a Emiliano Aguirre. Zona Archeologica 4. Archeologia. Museo Arqueológico Regional, Madrid, pp. 20-29.
Anzidei, A.P., Bulgarelli, G.M., Catalano, P., Cerilli, E., Gallotti, R., Lemorini, C., Milli, S., Palombo, M.R., Pantano, W., Santucci, E., 2012. Ongoing research at the late Middle Pleistocene site of La Polledrara di Cecanibbio (central Italy), with emphasis on human-elephant relationships. Quaternary International, 255, 171-187.
Palombo, A.M., Anzidei, A.P., Arnoldus Huizendveld, A., 2003. La Polledrara di Cecanibbio : one of the richest Elephas (Palaeoloxodon) antiquus sites of the late Middle Pleistocene in Italy. Deinsea 9, 317-330.
Il giacimento è attualmente aperto al pubblico e può essere visitato dietro prenotazione da effettuare telefonando al numero +06.39967700 (lunedì-sabato 9-13.30 e 14.30-17), o collegandosi al sito www.archeorm.arti.beniculturali.it
MUSEO PALEONTOLOGICO
Un affascinante viaggio alla scoperta della paleontologia, vi accompagna in un affascinante viaggio alla scoperta della paleontologia, illustrata da pannelli didattici , reperti e fossili.Imparerete così che cosa sono i fossili, dove si rinvengono e come si scavano. Scoprirete che cosa ci raccontano le orme. Vedrete:uno scavo paleontologico e un angolo di museo per la conservazione dei reperti.
Proverete a immaginare l’aspetto in vita di un animale vissuto nel passato e saprete come Arte e Scienza collaborino per restituire ricostruzioni attendibili.Infine, sarete proiettati nel passato remotissimo del pianeta Terra attraverso il tempo geologico e gli esseri viventi primordiali.
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ROMA- Ai Musei Capitolini, nel giardino di Villa Caffarelli,
L’imponente ricostruzione, in dimensioni reali, del Colosso di Costantino.
La statua, alta circa 13 metri, è stata realizzata attraverso tecniche di ricostruzione innovative, partendo dai pezzi originali del IV secolo d.C. conservati nei Musei Capitolini.
Tra le opere più importanti dell’antichità, con i suoi 13 metri circa di altezza, la statua colossale di Costantino (IV secolo d.C.) è uno degli esempi più significativi della scultura romana tardo-antica. Dell’intera statua, riscoperta nel XV secolo presso la Basilica di Massenzio, oggi rimangono solo pochi monumentali frammenti marmorei, ospitati nel cortile di Palazzo dei Conservatori ai Musei Capitolini: testa, braccio destro, polso, mano destra, ginocchio destro, stinco destro, piede destro, piede sinistro.
Musei Capitolini il Colosso di Costantino
Nel giardino di Villa Caffarelli è possibile ammirare, in tutta la sua imponenza, la straordinaria ricostruzione del Colosso in scala 1:1, risultato della collaborazione tra la Sovrintendenza Capitolina, Fondazione Prada e Factum Foundation for Digital Technology in Preservation con la supervisione scientifica di Claudio Parisi Presicce, sovrintendente capitolino ai Beni Culturali.
La replica del monumento è stata presentata al pubblico dal Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri, dall’assessore alla Cultura di Roma Capitale Miguel Gotor, dal sovrintendente Claudio Parisi Presicce, dal componente del Comitato di indirizzo di Fondazione Prada Salvatore Settis, e da Adam Lowe, della Factum Foundation for Digital Technology in Preservation.
Il progetto è promosso da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e realizzato in collaborazione con Fondazione Prada che ha presentato per la prima volta l’opera a Milano, in occasione della mostra Recycling Beauty a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola con Denise La Monica.
Il Giardino di Villa Caffarelli, dove è stata collocata la riproduzione del Colosso di Costantino, insiste in parte sull’area occupata dal Tempio di Giove Ottimo Massimo, che un tempo ospitava la statua di Giove, la stessa forse da cui il Colosso fu ricavato o che comunque ne costituisce il modello di derivazione. I resti del tempio sono oggi visibili all’interno dell’Esedra di Marco Aurelio.
“A Roma stiamo cercando di recuperare le dimensioni dell’antichità e la nostra conoscenza e percezione dei capolavori del passato, di cui conserviamo tracce e frammenti. Lo abbiamo fatto poco tempo fa con il Museo della Forma Urbis, lo facciamo andando in profondità con gli scavi della Metropolitana, lo facciamo attraverso l’anastilosi della Basilica Ulpia e adesso rendendo fruibile da tutti questa statua colossale, sia per essere ammirata in se, sia per essere una porta di accesso a quello scrigno di tesori che è il Colle Capitolino e che sono i Musei Capitolini. Voglio davvero ringraziare tutti quelli che hanno reso possibile questa creazione e questa ricostruzione che contribuisce a farci comprendere meglio il passato e quindi a capire meglio chi siamo” ha spiegato il Sindaco Roberto Gualtieri.
Il progetto di ricostruzione della statua colossale di Costantino è partito da un importante lavoro di analisi archeologica, storica e funzionale dei frammenti, supportata dalla lettura delle fonti letterarie ed epigrafiche.
I nove frammenti in marmo pario, attualmente conservati presso i Musei Capitolini, sono stati rinvenuti nel 1486 all’interno dell’abside di un edificio che al tempo si riteneva il Tempio della Pace di Vespasiano, e che solo agli inizi dell’Ottocento sarà correttamente identificato con la Basilica di Massenzio lungo la Via Sacra. Si pensava che appartenessero a una statua dell’imperatore Commodo e, data la loro eccezionale importanza, furono allestiti nel Palazzo dei Conservatori durante i lavori di ristrutturazione dello stesso eseguiti su progetto di Michelangelo tra il 1567 e il 1569. I frammenti sono stati identificati come ritratto colossale dell’imperatore Costantino solo alla fine dell’Ottocento.
Un decimo frammento, parte del torace, rinvenuto nel 1951, è in procinto di essere trasferito dal Parco Archeologico del Colosseo nel cortile del Palazzo dei Conservatori, accanto agli altri frammenti.
Lo studio archeologico dei frammenti ha permesso di ipotizzare che il Colosso fosse seduto e che fosse realizzato come acrolito, ovvero con le parti nude in marmo bianco e il panneggio in metallo o in stucco dorato. Secondo uno schema iconografico tipico del tempo, che assimilava l’imperatore alla divinità, Costantino è rappresentato come Giove con la parte superiore del corpo scoperta e il mantello adagiato sulla spalla; il braccio destro che impugna lo scettro ad asta lunga e la mano sinistra che sorregge il globo.
A fine marzo 2022 un team della Factum Foundation ha trascorso tre giorni nel cortile dei Musei Capitolini per scansionare i frammenti presenti con la tecnica della fotogrammetria.
Ogni frammento è stato modellato in 3D e posizionato sul corpo digitale della statua creata utilizzando come esempio iconografico altre statue di culto di età imperiale in pose simili, tra cui la colossale statua di Giove (I secolo d.C.) conservata al Museo statale Ermitage di San Pietroburgo, probabilmente ispirata allo Zeus di Olimpia ad opera di Fidia e la grande copia in gesso della statua dell’imperatore Claudio, ritratto come Giove, allestita al Museo dell’Ara Pacis.
La complessa operazione di ricostruzione realizzata da Factum ha tenuto conto di molteplici fattori: il tipo di marmo delle parti originali, i restauri e le aggiunte; i dettagli del panneggio mancante e l’aspetto del bronzo dorato di cui era composto; il rapporto tra la ricostruzione e i frammenti superstiti, le condizioni di questi e la loro esatta posizione. Dopo aver ultimato il modello 3D ad altissima risoluzione, si è poi proceduto con la ricostruzione materiale del Colosso.
Resina e poliuretano, insieme a polvere di marmo, foglia d’oro e gesso, sono stati scelti come materiali per rendere le superfici materiche del marmo e del bronzo, mentre per la struttura interna (originariamente forse composta di mattoni, legno e barre di metallo) è stato impiegato un supporto in alluminio facilmente assemblabile e rimovibile.
Il risultato finale permette di ammirare, in una magnifica illusione, il Colosso nel suo complesso, in cui si distinguono visivamente le “ricuciture” tra le parti rimaterializzate e le copie dei frammenti originali presenti nel cortile di Palazzo dei Conservatori.
Info:
Ingresso Piazzale Caffarelli, 2
Orari: Tutti i giorni dalle 9.30 fino alle 18.30
ingresso gratuito
060608 (tutti i giorni ore 9.00-19.00) – www.museicapitolini.org
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Franco Leggeri Fotoreportage-
Roma Capitale-CASTEL DI GUIDO-
GAR-Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce-
Roma- 30 marzo 2017-Sabato 22 aprile dalle ore 9:00 alle ore 17:00-I Volontari del Gruppo Archeologico Romano saranno presenti a Castel di Guido, presso l’Azienda Agricola Comunale di Roma Capitale e OASI della LIPU, per condurre gli scavi nella Villa Romana delle Colonnacce.La Villa Romana è databile tra il III sec. a.C. e il III sec. d.C. ed è costituita da strutture sia di epoca repubblicana sia imperiale.
Foto di FRANCO LEGGERI per REDREPORT
Per ulteriori informazioni si prega di contattare la segreteria del GAR: Gruppo Archeologico Romano Via Contessa di Bertinoro 6, Roma Tel. 06/6385256 info@gruppoarcheologico.it
Descrizione della Villa Romana delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione della Dott.ssa Daniela Rossi- Archeologa .
Castel di Guido- La Villa Romana è del II-III secolo d.C. è sita su di un pianoro all’interno dell’Azienda agricola comunale. La Villa ha strutture di epoca repubblicana che sono le più antiche e di epoca imperiale. La villa ha una zona produttiva di e la parte residenziale di epoca imperiale. La parte produttiva comprende l’aia o cortile coperto: il grande ambiente conserva le basi di tre sostegni per il tetto, mentre è stato asportato il pavimento, al centro si trova un pozzo circolare. Vi è una cisterna per la conservazione dell’acqua meteorica, all’interno della cisterna si trovano le basi dei pilastri che sorreggevano il soffitto a volta. A giudicare dallo spessore dei muri e dei contrafforti si può desumere che avesse un altezza di circa 5 metri. Nell’ambiente di lavoro si trovano un pozzo e la relativa condotta sotterranea. Torcular : sono due ambienti che ospitavano un impianto per la lavorazione del vino e dell’olio. Vi era un torchio collegato alle vasche di raccolta, mentre in un ambiente più basso vi era l’alloggiamento dei contrappesi del torchio medesimo ed una cucina con contenitori in terracotta di grandi dimensioni (dolii). La parte residenziale ha un atrio, cuore più antico dell’abitazione romana, in cui si conservava l’altare dei Lari, divinità protettrici della casa. Al centro vi è una vasca ( compluvio) in marmo in cui si raccoglieva l’acqua piovana che cadeva da un foro rettangolare sito nel tetto (impluvio). Sale da pranzo, forse triclinari , ampie e dotate di ricchi pavimenti e di belle decorazioni affrescate sulle pareti. Cubicoli, stanze da letto . Vi erano dei corridoi che consentivano il transito della servitù alle spalle delle grandi sale da pranzo senza disturbare i commensali o il riposo dei proprietari. Il Peristilio o giardino porticato: era l’ambiente più amato della casa, di solito con giardino centrale ed una fontana. Dodici colonne sostenevano il tetto del porticato, che spioveva verso la zona centrale. I volontari del GAR –Zona Aurelio , scavano con perizia e recuperano frammenti, “i cocci”, li puliscono,catalogano e , quindi, li trasportano nella sede di via Baldo degli Ubaldi dove vengono restaurati e conservati . Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Roma recuperò preziosi mosaici e pregevoli pitture che sono ora esposti al pubblico nella sede del museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Se la Villa è visitabile e ben conservata lo si deve all’ottimo lavoro dell’Archeologo Dott.ssa Daniela Rossi che la si può definire “Ambasciatore e protettrice del Borgo romano di Lorium “.
N.B. Franco Leggeri:”La descrizione della Villa delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione che la Dott.ssa Daniela Rossi ha tenuto nella sala grande del Castello nel Borgo di Castel di Guido il 18/04/09 .”
FOTO GALLERY -Villa Romana delle Colonnacce-Foto di Franco Leggeri
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
GAR-Gruppo Archeologico Romano
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE
VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Arch. VALERIA GASPARI Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Castel di Guido, Villa delle Colonnacce– 5 febbraio 2017-
Visita Villa Romana delle Colonnacce
Visita Villa Romana delle Colonnacce
Castel di Guido, Villa delle Colonnacce– 5 febbraio 2017-
Castel di Guido, Villa delle Colonnacce– 5 febbraio 2017-
Castel di Guido, Villa delle Colonnacce– 5 febbraio 2017-
Castel di Guido, Villa delle Colonnacce– 5 febbraio 2017-
Luigi Pintor , intellettuale eternamente critico con la “sua” sinistra, giornalista, fondatore e animatore del “manifesto”, era stato anche deputato, aveva 78 anni. Fino all’ultimo lo ha assistito la moglie Isabella.
Pintor sfuggÌ alla condanna a morte durante la guerra di Liberazione, entrò nel Comitato centrale del Pci, fu condirettore de ‘L’UnitÀ.
Poi, deputato dal 1968 al 1972.
Nel 1969 fu radiato dal Pci insieme al gruppo dei ‘dissidenti’ e fondò ‘Il manifesto’.
La sua storia si può definire quella di un comunista ‘politicamente scorretto’, prendendo in prestito il titolo del suo ultimo libro che racconta, criticandoli, gli anni del governo dell’Ulivo, dal 1996 al 2001.
Nato a Roma il 18 settembre 1925 da Giuseppe e da Adelaide Dore, Luigi Pintor trascorse la sua fanciullezza a Cagliari.
Tornato a Roma, si avvicinò al movimento antifascista clandestino. Era il fratello minore dell’intellettuale antifascista Giaime Pintor, nato nel 1919, e che morì il 1 dicembre 1943 a causa dello scoppio di una mina nel tentativo di passare il fronte, lungo il Garigliano, davanti a Castelnuovo al Volturno
Pintor partecipò alla guerra di liberazione nelle fila dei Gap.
E arrestato dalla famigerata banda Koch, sfuggi ¬ alla condanna a morte. Poi vennero gli anni del dopoguerra e del Pci. Pintor fu un dirigente di primo piano del partito e nel partito combattè lunga serie di battaglie sempre da sinistra, su posizioni “ingraiane”.
Fino al 1969, quando la sua critica, per il “centralismo democratico” del Pci di allora, divenne troppo pesante da sostenere.
Nel comitato centrale del Pci del 5 giugno del 1965, si registrò un fatto clamoroso al momento del voto: quattro componenti, tra cui Luigi Pintor, votarono contro la relazione che a nome della segreteria era stata svolta da Paolo Bufalini. La lotta tra la destra e la sinistra del partito si fece più aspra, mentre si manifestò per la prima volta in modo esplicito il dissenso.
Passarono quattro anni e Pintor fu di nuovo protagonista di una battaglia storica all’interno del Pci per la manifestazione e la libertà di dissenso nella vita del partito.
L’8 febbraio 1969, in occasione del XII congresso del Pci a Bologna, Pintor, il più noto tra i delegati della sinistra, affiancato da Rossana Rossanda, Aldo Natoli e Massimo Caprara, pronunciò un vivace intervento in contrasto con la maggioranza del partito.
Era l’inizio di una insanabile divergenza.
Fu Alessandro Natta in una storica riunione del Comitato centrale (25 novembre 1969) a chiedere e ottenere la radiazione dal Pci del gruppo del Manifesto.
Con Pintor vennero cacciati dal Pci anche Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Lucio Magri e Massimo Caprara.
Li seguirono Valentino Parlato e Luciana Castellina.
L’accusa?
L’aver “cristallizzato” il dissenso in un piccolo movimento organizzato che aveva “osato” darsi anche un periodico: “Il manifesto”, appunto.
Un’accusa che oggi suona quasi ridicola ma che, allora, traumatizzò e divise larghi strati del Pci.
Poi, il “manifesto” come partito durò relativamente poco.
Nel 1987, dopo molte battaglie, rientrò di fatto nella sinistra indipendente.
Come giornale, “Il manifesto” (per la prima volta in edicola il 28 aprile 1971) vive e combatte anche oggi la sua battaglia di “coscienza critica” della sinistra italiana.
Pintor ne è stato il primo direttore e lo ha condotto in diverse altre occasioni alternandosi con altri membri del collettivo redazionale.
Pur non essendo uno scrittore di professione, Luigi Pintor ha sempre coltivato uno stile pungente anche negli articoli giornalistici, talvolta raffinato, e non di rado arricchito di letterarietà. E proprio nell’ultimo decennio la scrittura ha preso quasi il sopravvento nella sua attività pubblicando diversi libri, tutti per la casa editrice Bollati Boringhieri, fondata dall’amico Giulio Bollati.
Nel 1991 ha dato alle stampe ‘Servabo’ in cui, utilizzando una parola di derivazione latina con il significato di conservare, ha rievocato 50 anni di vita. Nel 1998 ha pubblicato un ‘romanzo’ dal titolo ‘La Signora Kirchgessner’; sono poi seguiti nel 2001 ‘Il Nespolo’ e nel 2002 ‘Politicamente Scorretto’, in cui ha riproposto cronache del quinquennio 1996-2001.
Pubblicato nel 1728 all’interno del terzo volume di Miscellanee di Jonathan Swift e Alexander Pope, il Perí Bathous, o L’arte di toccare il fondo in poesia è una divertita esplorazione dei bassifondi del Parnaso, una velenosa spigolatura di assurdità estetiche, un prontuario di sovversione poetica ad uso delle teste di legno erudite – il tutto addobbato nelle contegnose vesti della trattatistica classica sul sublime. Questa spietata disamina delle cause e delle manifestazioni del cattivo gusto in poesia nasce come esercizio collettivo dello Scriblerus Club, il circolo informale di letterati e politici Tory che, a partire dal 1714, furono di fatto proscritti dall’attività pubblica sotto l’incontrastata supremazia Whig. A perfezionare l’opera sarà il solo Pope: la sua condizione di outsider, oltre alla fama e agli anticipi per le sue traduzioni omeriche, faranno di lui il primo poeta inglese capace di fondare il proprio successo soltanto sul pubblico, senza le ingerenze del mecenatismo. Fu una carriera che improntò un’epoca e raggiunse l’apice nelle Imitazioni di Orazio, una serie di satire, odi ed epistole in distici eroici sull’arte e la letteratura. Fra queste, l’Epistola al dottor Arbuthnot – qui pubblicata con testo a fronte – è il coronamento del «lungo malanno» che fu la vita di Pope: un capolavoro che fonde autobiografia intima, struggente elegia dell’amicizia e satira abrasiva in una deflagrante miscela di furia, decorum, malizia, malinconia e felicità espressiva.
A cura di Alessandro Gallenzi.
Alexander Pope
I bassifondi della poesia
A cura di Alessandro Gallenzi Piccola Biblioteca Adelphi, 700 2017, pp. 165 isbn: 9788845931550 Temi: Letteratura inglese, Libelli
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