Per una storia dell’amicizia tra Baldassarre Castiglione e Raffaello-
Viella Libreria Editrice-ROMA
In copertina: Herman Posthumus, Tempus edax rerum, 1536. Vienna, Museo Liechtenstein.
Sinossi-Nell’anno delle celebrazioni del quinto centenario della morte di Raffaello (1483-1520) le mostre e gli studi hanno ampiamente illustrato anche la rete delle sue relazioni culturali, in particolare negli anni romani. In questo contesto ha assunto grande importanza l’amicizia con Baldassarre Castiglione, sia per il ritratto ora al Louvre che ne è supremo documento, sia per la Lettera a Leone X, che sempre più gli studi storico-artistici tendono ad attribuire a Raffaello.
Questo libro, dopo avere ricostruito tempi e modi del lungo e intenso rapporto di amicizia, nel nome di Urbino, tra il letterato e il pittore, propone una serrata indagine filologica e documentaria, fondata sul primo manoscritto della Lettera, tutto di mano del solo Castiglione. Dimostra che l’autore fu unicamente il letterato, che la elaborò e scrisse, come allora era in uso, “in persona” di Raffaello (cioè, a suo nome e per suo conto), e ovviamente con la sua diretta collaborazione soprattutto per le notizie sugli aspetti propriamente tecnici del grande progetto che il pittore aveva sperimentalmente avviato, interrotto però dalla sua prematura morte: eseguire con nuove procedure e nuovi strumenti il rilievo architettonico delle ruine dei monumenti antichi di Roma.
Amedeo Quondam- Il Letterato e il Pittore
INDICE-
Premessa
1. Tra amici, un letterato e un pittore
1. Per la storia di un’amicizia
2. Chi è nelle vesti di Zoroastro nella Scuola di Atene?
3. Ancora per la storia di un’amicizia
4. Castiglione, le arti e Raffaello pittore
5. Qualcosa su Giovanni Santi
6. Per conformità culturale: nel nome della grazia
7. Il ritratto di Castiglione dipinto da Raffaello
8. La morte di Raffaello
9. Raffaello nelle lettere di Castiglione
10. Castiglione e
11. Castiglione di nuovo negli affreschi vaticani?
12. Raffaello nel ricordo di Castiglione
2. La Lettera di Castiglione a Leone X
1. I dati di fatto: la Lettera scomparsa (per più di due secoli)
2. La Congettura di Daniele Francesconi
3. I dati di fatto: l’autografo ritrovato
4. I dati di fatto: i testimoni
5. Il testimone interpolante
6. I quattro testimoni in prima collazione
7. Come lavorava Castiglione?
8. Quando è stata scritta la Lettera?
9. Pubblicare la Lettera a Leone X
10. Da chi e come è stata scritta la Lettera?
11. I due amici e le due parti della Lettera
12. In persona di, a nome e per conto di: tipologie epistolari classicistiche
13. Raffaello semicolto, illetterato, o cosa?
14. Roma ai tempi della Lettera a Leone X
3. Un manifesto del Classicismo: la Lettera a Leone X
1. La prima parte: in forma di oratio ed exhortatio a Leone X
2. La prima parte: un compendio di storia delle forme architettoniche
3. La seconda parte: la descriptio di come Raffaello esegue il suo progetto
4. La lettera sulla villa del cardinale Giulio de’ Medici
Il “PIANTO delle ZITELLE “ al Santuario della TRINITA’-
Rivista PAN n°12 -1935
STORIA DEL SANTUARIO
Le origini di questo Santuario sono ANCORA SCONOSCIUTE anche se corrono diverse ipotesi; occorre intanto riferirsi a LEGGENDE POPOLARI tramandate oralmente ed esse sono principalmente due.
UNA PRIMA LEGGENDA (sembra sia supportata anche da antichi scritti) narra di due cristiani perseguitati da Nerone i quali, fuggendo da Roma, si fermarono qui dove incontrarono gli Apostoli PIETRO E PAOLO: un provvidenziale Angelo venne subito a sfamarli e dissetarli, mentre il giorno dopo apparve loro la Santissima Trinità che benedisse il luogo come luogo santo della Terra’.
UNA SECONDA STORIA, la più diffusa, vede l’origine del culto in questo luogo nel giorno in cui un contadino, accorso dal sovrastante Monte Autore da cui aveva visto precipitare i suoi buoi con l’aratro, TROVO’ I DUE ANIMALI INGINOCCHIATI DAVANTI AD UNA IMMAGINE DELLA TRINITA’ mentre vide l’attrezzo impigliato a metà della parete rocciosa. A sostegno di questa seconda storia sta il fatto che in effetti, con un po’ di buona volontà, UN ANTICO ARATRO SOSPESO si vede ancora, sospeso in alto sullo strapiombo
Ipotesi storicamente più concrete vedrebbero la fondazione del Santuario da parte di SAN DOMENICO DI SORA (poco dopo il mille ) ovvero anche da parte di MONACI BASILIANI provenienti dall’Oriente (ipotesi plausibile, considerato lo stile rappresentativo delle tre figure venerate ed alcune peculiarità della toponomastica locale, quale il nome stesso del paese di Cappadocia). A sciogliere tutte le diatribe è molto accreditata l’ipotesi secondo cui furono i Benedettini di Subiaco a fondare qui un solitario cenobio e questa è una tesi molto condivisibile vista la vicinanza e la vocazione di quei monaci alla fondazione di luoghi di culto ‘decentrati’; ma, certo, è anche possibile che qui ci fosse già qualcosa…..
Il “PIANTO delle ZITELLE “ al Santuario della TRINITA’
LA FESTA DELLA “SANTISSIMA”
La festa della SS. Trinità è una festa ‘mobile’ in quanto si svolge CIASCUN ANNO IN DATA DIVERSA, dal Venerdì alla Domenica dopo la Pentecoste (cioè otto settimane dopo Pasqua) in COINCIDENZA CON IL PLENILUNIO.
Il tradizionale PELLEGRINAGGIO DELLE GENTI DEL LAZIO passa da Vallepietra che vede affluire migliaia di pellegrini, in genere organizzati in ‘COMPAGNIE’ secondo i paesi di provenienza. La sosta a Vallepietra già comporta una SERIE DI RITUALI che coinvolgono anche la popolazione locale, quindi IL SABATO ALL’ALBA si sale a piedi al Santuario il quale si trova a 12 chilometri dal paese (la distanza è percorribile anche in auto con la strada asfaltata per Cappadocia, che passa a 500 m. dal Santuario). I più devoti vanno ovviamente a piedi e questo a prescindere dall’età perche I PIU’ DEBOLI VENGONO AIUTATI A SALIRE dagli altri componenti la ‘Compagnia’.
Durante il percorso, lungo il quale si trovano croci e cappelline votive, si svolge una serie di RITUALI DI PURIFICAZIONE (come lanci simbolici di pietre nel torrente oppure – e questo è comune ad altri cammini ‘liberatori’ – apportando pietre a formare piccoli cumuli).
Giunti al Santuario ci si ferma per altri riti devozionali lungo il sentiero d’accesso (costellato di croci-ricordo delle Compagnie). Nei giorni della Festa, la CODA D’ATTESA PER VARCARE LA SOGLIA DEL SANTUARIO può essere lunga in modo scoraggiante (ma questo deve essere parte obbligata del pellegrinaggio, almeno per chi è salito in auto!).
Si entra nel Santuario sfiorando la roccia con la mano e se ne esce camminando a ritroso per rispetto devozionale.
All’alba della Domenica si svolge, presso l’altare all’aperto, il tradizionale ‘PIANTO DELLE ZITELLE’: una laude del settecento (era il tempo delle Passioni di Bach) cantata da un gruppo di ragazze di Vallepietra vestite di bianco (la Madonna è vestita di nero), con effetto di grande commozione collettiva. Anche il percorso di ritorno a casa dei pellegrini segue un particolare rituale, perché i frutti di queste dure giornate non vengano vanificati.
IL SANTUARIO DELLA SANTISSIMA TRINITA’
La piccola Chiesa-Santuario RACCHIUDE UNA GROTTA (all’origine era quasi certamente un’ abitazione rupestre neolitica) sulla cui parete è una RAFFIGURAZIONE DI TIPO BIZANTINO della Trinità: tre persone identiche, sedute con un libro nella mano sinistra, nell’atto di benedire alla maniera greca (pollice unito all’anulare); altri affreschi medioevali decorano la grotta.
Una scala per l’accesso alla Chiesa ed una per uscirne risolvono il problema del fluido scorrimento delle migliaia di pellegrini dei giorni della Festa. Ai lati e attorno alla Chiesina della Santissima sorgono ALTRI LUOGHI DEVOZIONALI (tra cui la bella cappellina di Sant’Anna, incastonata nella roccia) costruiti nel rispetto della centralità e suggestione del Santuario.
Quello che stona è un’enorme pensilina, che copre un altare all’aperto, realizzata negli anni sessanta proprio davanti alla Chiesa-Santuario, che impedisce anche la completa soddisfazione dello spirito anelante a bearsi dell’immenso panorama che qui si prospetta. Altra cosa che stona è l’ormai esorbitante numero di chioschi (fortunatamente collocati in un lato abbastanza appartato) che vendono dagli oggetti devozionali ai souvenir e – non si può negare ad un bimbo stanco un giocattolino cinese – e robe di plastica varia.
Ma basta tenere lo sguardo alto (in tutti i sensi) e la suggestione immensa di questo luogo non ne resta scalfita. Unico oggetto ‘verace’ è il tradizionale FIORE DI CARTA COLORATA che una volta adornava camion, carri e biciclette con cui le genti del Lazio arrivavano da queste parti viaggiando per giorni e notti cantando ‘viva viva, sempre viva, la Santissima Trinità….’.
TRA GLI ALTRI LUOGHI DI INTERESSE non lontani da Vallepietra si trova Subiaco con i suoi Monasteri Benedettini, la Rocca dei Borgia e i Campi sciistici di Livata (a poca distanza dal Santuario si trovano diverse mete sciistiche abruzzesi, in primo luogo Camporotondo).
Per informazioni:
Vallepietra è raggiungibile con Bus Cotral da Subiaco (a sua volta raggiungibile con analoghi mezzi da Roma-Capolinea Staz.Ponte Mammolo-Metro B). Da Vallepietra al Santuario corrono 11 Km. di strada asfaltata non percorsa da mezzi pubblici (nei pellegrinaggi a piedi si percorre il sentiero montano).
Il luogo del Santuario è accessibile tutto l’anno, ma La Chiesa della SS.Trinità è aperta dal 1° Maggio al 2 Novembre.
Per info http://www.santuariovallepietra.it ovvero tel. 3351254126 (Rettore Santuario) ovvero 0774 899084 (Parrocchia Vallepietra).
Il “PIANTO delle ZITELLE “ al Santuario della TRINITA’Il “PIANTO delle ZITELLE “ al Santuario della TRINITA’Il “PIANTO delle ZITELLE “ al Santuario della TRINITA’Il “PIANTO delle ZITELLE “ al Santuario della TRINITA’Il “PIANTO delle ZITELLE “ al Santuario della TRINITA’-Foto del 1920Il “PIANTO delle ZITELLE “ al Santuario della TRINITA’-Foto del 1920Biblioteca DEA SABINA- Il “PIANTO delle ZITELLE “ al Santuario della TRINITA’-Rivista PAN n°12 -1935
Franco Leggeri Fotoreportage-Chiesa Cattedrale Diocesi di Porto e S.Rufina-
STORIA del cinquantenario della Cattedrale dei Sacri Cuori di Gesù e Maria a la Storta.
-Nel 1957 – CINQUANTA ANNI FA…-
2007-il 27 ottobre,Il servo di Dio Papa Pio XII,
Visitava la Chiesa Cattedrale dei Sacri Cuori di Gesù e Maria a la Storta.
La Diocesi Suburbicaria di Porto – Santa Rufina, per desiderio e volontà del suo Pastore, il Vescovo Mons. Gino Reali, si appresta a ricordare il 50° anniversario della visita di Papa Pio XII alla Chiesa Cattedrale Diocesi di Porto e S.Rufina, avvenuta il 27 ottobre 1957.
La visita del Pontefice fu un avvenimento – eccezionale per quel tempo – che merita di essere ricordato in modo particolare.
Il Vescovo invitando l’intera Diocesi a celebrare il 50° sottolinea l’importanza del ricordo di quell’ evento come
Occasione per rendere grazie al Signore per aver donato alla Chiesa il “Pastor Angelicus”, il Papa della modernità e del grande Magistero.
Occasione per noi che ci obbliga ad uno speciale ricordo e senso di gratitudine verso un Papa che, attraverso il ministero dell’allora Vescovo, Sua Em.za il Cardinale Eugenio Tisserant, ha dimostrato verso la nostra Diocesi paterna condiscendenza e bontà.
E’ ancora occasione per ricordare e riconoscere la figura del grande Pontefice Pio XII di cui Sua Em.za il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, ha detto: “Oggi, liberida pregiudizi, si può riconoscere la grandezza e la completezza della figura di Papa Pacelli, la sua umanità e rivalutare il suo magistero”.
S.E. Monsignor Gino Reali ,Il Vescovo di Porto e Santa Rufina
Le celebrazioni in programma dal 23 al 28 ottobre prevedono:
-Il 23 alle ore 20.30 : Conferenza: Tavola rotonda – ( partecipano: Padre Federico Lombardi, Tornielli Andrea, Di Giacomo Filippo )
-Il 26 alle ore 20.30 : concerto polifonico in Cattedrale: “Te Deum dentro la storia della Cattedrale”, diretto d’Alvaro Vatri.
-Il 27 alle ore 20.30 : proiezione del filmato documentario: “Pio XII il Principio di Dio” di Luigi Bizzarri, presentato dello stesso autore.
-Inoltre, Domenica 28 una Solenne Concelebrazione Eucaristica, presieduta del Vescovo Mons. Gino Reali.
La visita di Papa Pio XII alla Chiesa Cattedrale di Porto – S. Rufina nel lontano 1957 venne quasi a conclusione del lungo e travagliato percorso compiuto nel dare alla Diocesi, dopo secoli, e finalmente nel suo territorio, la propria Chiesa cattedrale.
E’ bene qui ricordare le varie tappe e fasi succedutesi nella progettazione e costruzione della Cattedrale dall’inizio nel 1923 fino alla sua consacrazione nel 1950, cui seguì la visita del Papa nel 1957.
Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e Maria, Chiesa Cattedrale Diocesi Suburbicaria di PORTO-S.RUFINA.S.E. Monsignor Gino Reali-Vescovo di Porto – Santa Rufina
UN PO’ DI STORIA
1 – La cattedrale “ prima della Cattedrale “ (1926-1946)
a cura di Alvaro VATRI
La Cattedrale de La Storta ha le sue “radici” nel 1923, quando fu costituito il Comitato per la costruzione di un Santuario nel luogo dove S. Ignazio di Loyola aveva avuto, nel novembre 1537, la visione cosi importante per la nascita dell’Ordine dei Gesuiti e per il suo stesso nome: Compagnia di Gesù. Precedentemente c’erano stati dei tentativi di realizzare un tale progetto: “si penso dapprima ad un ampliamento della cappella attuale, e se ne fece il disegno col suo preventivo esistenti nell’Archivio della Compagnia di Gesù. Pero le strettezze del luogo non avrebbero permesso un ingrandimento sufficiente ai bisogni, e per questa ed altre ragioni il progetto fu abbandonato”. Necessità dunque di dare decoro al luogo tanto importante per il “gran Patriarca”, ma anche necessità di venire incontro ai bisogni religiosi della popolazione della Parrocchia di Isola Farnese di cui “il Santuario è il vero centro naturale. Lo stato di abbandono della popolazione, nei riguardi religiosi e sociali, ci costringe a dire che l’erezione di questo nuovo tempio è une vera necessità morale per soddisfare convenientemente ai grandi e urgenti bisogni degli abitanti”. Ecco dunque anche l’interessamento del “Sommo Pontefice Pio X che negli ultimi anni prima della guerra (la I Guerra Mondiale, n.d.r.) convocò i cappellani dell’Agro Romano per conoscerne lo stato ed i bisogni religiosi. In tale occasione gli furono esposte anche le condizioni della Storta ed il Santo Padre, informato dei bisogni urgenti di quella popolazione, promise di farvi costruire una bella chiesa, con la casa per il cappellano, stanziando a tale scopo la somma richiesta. Da parte dei proprietari fu gia allora offerto il terreno necessario per la nuova fabbrica. L’immane catastrofe della guerra e la morte del Papa fecero naufragare anche questo progetto”.
Monsignor Tito MANCINI(dietro vestito di nero) accompagna S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT nella inaugurazione del Collegio Sant’Eugenio –LA STORTA .
Il progetto del 1923
Nel mese di luglio del 1923 il Cardinale Antonio Vico, Vescovo di Porto e Santa Rufina, decise che si doveva mettere mano alla costruzione di una nuova chiesa a La Storta. Diede quindi incarico al Vicario Generale Monsignor Carlo Grosso di invitare gli interessati per dare concretezza al progetto. Tutti i proprietari dei territori attigui a quello de La Storta dettero il loro appoggio. “Cosi fu costituito nell’adunanza del 18 luglio 1923 il nuovo Comitato, di cui Sua Eminenza il Cardinale Vico assunse la presidenza onoraria.
antico santuario di S. Ignazio di Loyola
Trattandosi di un antico santuario di S. Ignazio di Loyola, si volle chiamare un suo figlio alla carica di presidente effettivo e quindi a questa fu eletto il P. Leopoldo Fonck S. J., Professore del Pontificio Istituto Biblico. Gli altri componenti il Comitato sono: Mgr. Carlo Grosso, Vicario Generale; Sac. D. Francesco Guglielmi, Arciprete Parroco dell’Isola Farnese, Segretario; Sac. D. Antonio D’Antoni; Comm. Ing. Carlo Grazioli; Cav. Stanislao Grazioli; Comm. Ing. Francesco Ceribelli; Avv. Cav. Luigi Filippo Re, Cameriere d’onore di Cappa e Spada di Sua Santità, Amministratore dell’Ecc.ma Casa Salviati”.
Dopo averne informato il Papa Pio XI, che accolse la notizia con grande soddisfazione, il Comitato passò alla fase operativa. Per il progetto fu interpellato l’architetto romano Giuseppe Astori che offrì la sua collaborazione come “personale e gratuito contributo alla iniziativa del Comitato”.
Nel novembre di quello stesso anno fu effettuato un sopralluogo per decidere il luogo dove erigere la chiesa e l’esame dei materiali per la sua costruzione. Quanti ai materiali gli esperti giudicarono di ottima qualità il tufo della grande cava appartenente all’Arcipretura dell’ Isola Farnese che pertanto fu offerto gratuitamente dal Parroco. La pozzolana dell’Arcipretura fu invece giudicata meno buona e quindi poco adatta ad una grande costruzione. Ma a tale necessità venne incontro il Sig. Mattaini, proprietario di una cava di pozzolana nella Valle della Storta, che donò il materiale ritenuto di ottima qualità. Per il trasporto dei materiali e delle altre cose i padroni delle tenute attigue a La Storta assicurarono che avrebbero messo a disposizione, “in quanto lo permetterebbero le circostanze, i loro carri, birrocci e camions. Inoltre si può sperare che dai coloni dei grandi fondi vicini, nei mesi più liberi da lavori urgenti, si presterà un opportuno aiuto per la mano d’opera richiesta”.
Quanto al luogo della erigenda chiesa, già precedentemente era stata individuata la collina attigua alla Cappella di S. Ignazio, tra la via Cassia e la ferrovia, che ha una superficie di circa 80.000 metri quadrati, di proprietà della duchessa Maria Salviati, come il luogo più adatto sia per motivi contingenti (la vicinanza, 15 metri in linea d’aria al luogo della Visione), sia in prospettiva in quanto punto di riferimento per il futuro quartiere che si sarebbe sviluppato inevitabilmente date le condizioni logistiche e urbanistiche (la via Cassia, la stazione ferroviaria, l’acquedotto dell’ Acqua Paola, la luce, il telefono e le poste) che la borgata presentava. La duchessa Maria Salviati donò circa 7000 metri quadri per la nuova chiesa e mise a disposizione del Comitato altri 7000 metri quadri a un prezzo di favore, per formare il piazzale davanti alla chiesa.
Il progetto dell’architetto Astori prevedeva una chiesa di 40 m. di lunghezza, 20 di larghezza e 18 di altezza. Egli stesso ne descrive lo stile: “La chiesa ha il tipo caratteristico del tardo Rinascimento italiano, quello che in Germania viene definito come “stilo gesuitico” (Jesuitenstil). Presenta perciò una sola navata con cappelle laterali, abside al fondo e copertura a volta… le esigenze della località hanno indotto ad aggiungere davanti all’ingresso un portico, perché l’entrata venga meglio difesa dalle intemperie… Nell’interno lasciano in evidenza grandi superficie piane, giacché intento dei promotori è di profittare nel modo più largo degli insegnamenti che la decorazione pittorica può fornire al pubblico semplice delle campagne”.Il Comitato prevedeva la dotazione anche di opere annesse: la casa del parroco con un bel giardino, alcune sale “per i circoli cattolici, un ricreatorio per i giovani, una grande sala per le conferenze popolari, un piccolo ufficio d’informazione per la gente di campagna, una sala per la biblioteca circolante… e inoltre alcuni locali da mettere, di comune accordo, a disposizione dell’Amministrazione comunale e del Comitato per le scuole dei contadini”. Conclude P. Fonck : “Ecco dunque ciò che vuol essere il Santuario di S. Ignazio alla Storta. Vuol soddisfare ad un duplice santo dovere. A gloria di Dio che accordò al Santo un così insigne favore nella povera cappella della Storta vuol degnamente onorare la memoria del gran Patriarca in un luogo che gli è rimasto sempre tanto caro e che si trova al presente in uno stato di triste abbandono. Nello spirito di Ignazio, e coi mezzi da lui suggeriti, e sotto il suo potente patrocinio celeste, vuol essere un centro benefico di attività rigeneratrice per il bene spirituale ed in un tempo pure per il progresso materiale di tutta la popolazione, della parrocchia, della diocesi, e di tutto l’Agro Romano”.Tre anni dopo la costituzione del Comitato, il 31 luglio 1926, fu posata la prima pietra della nuova chiesa, della quale nel frattempo era cambiato il progetto. La nuova costruzione fu progettata dall’Architetto Comm. Filippo Sneider. “L’architetto Sneider ha lavorato molto per il Vaticano al momento della Conciliazione. Contemporaneamente ai lavori a La Storta ha costruito sulla via Appia la Chiesa di Ognissanti, per don Orione, e c’è una grande somiglianza tra le due chiese, anche se quella è a croce latina, mentre la Cattedrale è a croce greca. Ma soprattutto c’è un elemento “stilistico” assolutamente identico: le finestre, che sono tre, inserite in un arco grande”.Ma poco dopo difficoltà di vario genere e mancanza di fondi dispersero il Comitato e costrinsero ad interrompere i lavori lasciando la costruzione allo stato di rudere, e in tale stato la trovò, nel 1946, il Cardinale Eugenio Tisserant divenuto vescovo della Diocesi[1].
Diocesi di Porto e Santa Rufina- Papa Pio XII visita la Cattedrale (29 ottobre 1957) ricevuto dal Cardinale Tisserant
2 – La nuova Cattedrale (1946-1957) – La visita di Papa Pio XII
Diocesi di Porto e Santa Rufina- Papa Pio XII visita la Cattedrale (29 ottobre 1957) ricevuto dal Cardinale Tisserant
a cura di don Adriano FURGONI
Ora è lo steso Cardinale Eugenio Tisserant che a più riprese racconta nelle sue lettere pastorali alla Diocesi (sono in tutto 20 lettere scritte dal 1946 al 1966) l’origine e la costruzione della nuova chiesa Cattedrale di Porto-S. Rufina dedicata ai SS. Cuori di Gesù e Maria.
Da S. Ippolito nell’Isola Sacra a La Storta sulla Via Cassia – Francigena
Diocesi di Porto e Santa Rufina-La Cattedrale S.Eccellenza Cardinale EUGENIO TISSERANT benedice la campana (24 marzo 1955)
Nella quarta lettera pastorale del 22 agosto 1947 cosi scrive:
“Mancanza di una chiesa cattedrale.
Non è tutto : nella Diocesi di Porto e Santa Rufina non vi è soltanto insufficienza o scarsezza di chiese parrocchiali: essa difetta pure di quella Chiesa che dovrebbe essere il centro della vita diocesana: voglio dire la Cattedrale.
La Cattedrale nostra che era dedicata a S. Ippolito nell’Isola Sacra, fu distrutta, a quanto pare, nella prima metà del secolo XI e non fu mai ricostruita. In quel tempo la vita si ritirava dal litorale, troppo spesso disturbato dalle scorrerie di corsari mussulmani , venuti dai porti barbareschi, mentre la malaria rendeva una larga zona inabitabile, cosicché il nome di Porto si trasferì nel Medio Evo a Castelnuovo di Porto, vicino al Tevere, ben lungi dal porto di Traiano, che era il luogo suo originale, ed all’altra estremità della Diocesi Suburbicaria, che era stata formata con la riunione della Diocesi di Porto con quella di Santa Rufina – Selva Candida.
Ora mentre sarebbe poco ragionevole tentare la costruzione della Cattedrale in un luogo così eccentrico com’è l’Isola Sacra soggetto ad alluvioni e dove il getto delle fondamenta sarebbe oltremodo costoso, la Provvidenza sembra averci preparato la possibilità di avere una Cattedrale nel centro geometrico della Diocesi con spese relativamente limitate, qualora vogliamo terminare la Chiesa cominciata nel 1926 in località detta “La Storta”, al Km. 17 sulla via Cassia. Tale Chiesa, la cui ubicazione fu scelta in relazione con un episodio della vita di S. Ignazio di Loyola, che ebbe colà una importante visione, si trova in un luogo bene elevato, a 170 m. sul livello del mare e in una posizione tale che si può scorgere da quasi tutti i punti della Diocesi. Il Tempio della Storta è stato lasciato in abbandono per più di 20 anni ma i muri sono in ottimo stato di conservazione ed i lavori recentemente eseguiti per rettificare il tracciato della via Cassia sono stati fatti in modo tale che la Chiesa vi ha guadagnato in grandiosità, perché resa accessibile a mezzo di un maestoso scalone. La Chiesa ed il terreno sul quale essa è fabbricata, sono proprietà della Diocesi. Mentre dunque mi sforzerò di ottenere aiuti anche fuori della Diocesi, vi domando di incoraggiarmi nel compito che son disposto ad assumermi, di dotare cioè la Diocesi di Porto e Santa Rufina della degna Cattedrale”
S.E.Cardinale EUGENIO TISSERANT
Con il patrocinio di Maria Pellegrina (Peregrinatio Mariae – 1950)
La nuova Cattedrale sulla via dei pellegrini
E’ ancora il Cardinale Tisserant che, nella sua settima lettera Pastorale del 1950 manifesta alla diocesi il suo canto di lode e di ringraziamento al Signore per il dono della nuova Cattedrale spiegando il doppio titolo della sua dedicazione:
“Il programma della nostra Peregrinatio Mariae è stato combinato in modo che si termini nel giorno dell’Annunziata. Principiata l’8 dicembre, quando la Chiesa commemora la creazione dell’anima purissima di Maria, preservata nella sua Concezione dalla macchia del peccato originale, la visita della Madonna alle parrocchie e cappelle della Diocesi si concluderà nel giorno in cui si celebra la venuta nel suo seno del Figlio di Dio. Quel giorno, a Dio piacendo, avrà luogo la consacrazione della chiesa della Storta, completata per diventare la Cattedrale della diocesi suburbicaria di Porto e Santa Rufina, e, alla sera, Maria vi farà il suo ingresso solenne, affinché il suo simulacro vi dimori esposto alla venerazione di tutti.
Papa PAOLO VI-S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT
Vi rammento brevemente la storia della nostra futura Cattedrale. Quando i pellegrini di Roma, che procedevano dal Nord attraverso il Viterbese arrivavano a quel tratto della Via Cassia, che per lasua sagoma diede alla località il nome di “Storta”,usavano salire sul monticello che dominava la strada ad occidente. Di là scorgevano a sinistra di Monte Mario la pianura di Roma e dal 1588 in poi, a destra dello stesso monte, la parte superiore della cupola di San Pietro. Potete immaginare la gioia di coloro che dopo giorni e giorni di penoso viaggio,
in carri, a cavallo o a piedi, vedevano finalmente a poche miglia la mèta della foro fatiche. Un canto di ringraziamento,un tripudio di lodi prorompeva dai loro petti: Te Deum, Benedictus, Magnificat, e ringraziavano con una preghiera ardente il Signore e la Sua Beata Madre, che li avevano protetti in mezzo a tanti pericoli su strade non sempre sicure, e conservati in salute. Una cappella era stata eretta sul cucuzzolo della collinetta, che non servendo per il ministero abituale dei pochissimi abitanti della zona era divenuto presto fatiscente.Verso la fine di novembre 1537 alla Storta passava s. Ignazio di Loyola, che procedeva verso Roma accompagnato da Pietro Fabro e da Giacomo Lainez; passava alla Storta e vi riceveva da Dio promesse per l’avvenire della sua Società.
La memoria della visione di S. Ignazio è rimasta fissata nella cappella che sorge sull’orlo della Via Cassia, ma tale cappellina sembrò insufficiente ad un Gesuita tedesco, il compianto P. Leopoldo Fonck, che, professore a Roma, amava far frequenti camminate attraverso l’Agro Romano e volentieri si raccoglieva alla Storta nel ricordo del suo beato Padre. Egli era devotissimo del Sacro Cuore e della Suora Visitandina che ricevette nel 1673 il Suo messaggio, S. Margherita Maria Alacoque, la cui canonizzazione era vicina quando il Padre tornò a Roma alla fine della prima guerra mondiale. P. Fonck sogno allora di fabbricare alla Storta, pensando anche alla cura pastorale dei contadini dell’Agro Romano, la prima chiesa che sarebbe stata dedicata alla Santa prediletta del S. Cuore di Gesù dopo la sua canonizzazione e cominciò a raccogliere fondi. Ma il suo piano era troppo grandioso e nel 1926 dovette abbandonare la costruzione senza poterla terminare, morendo poi nel 1930, fuori Roma.
Oggi, parecchie chiese sono state dedicate nel mondo a S. Margherita Maria e lo scopo che si era prefisso P. Fonck è caduto da sé. Siccome poi le somme spese dal 1946 a tutto’oggi superano assai quelle raccolte dal P. Fonck, ho deciso di dedicare la nostra nuova cattedrale al Redentore ed alla Sua amata Madre, sotto il doppiotitolo che manifesta tanto bene il loro amore per l’umanità, dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria. La nostra Madonna Pellegrina vi ha mostrato durante le ultime settimane le ricchezze del suo Cuore, tanto graziosamente additato dal Bambinello sorretto dal suo braccio sinistro: per il simulacro di Maria disporremo perciò un degno trono e vi ringrazio fin d’ora di quanto avete offerto per la decorazione della cappellina in cui sarà eretto”.
Le fatiche sopportate per la costruzione del nuovo Tempio
Dopo dieci anni di episcopato, nella 13 lettera pastorale del 15 aprile del 1956, il Cardinale Tisserant apre ancora il suo cuore di padre e pastore per raccontare alla sua chiesa diocesana le cure prestate nella costruzione della nuova Cattedrale, del campanile e del complesso sant’Eugenio:
“Quando, ancora prima di optare in Concistoro,mi ero informato sulla situazione della Diocesi, mi ero posto subito il quesito: come intensificare la vita religiosa, senza una Cattedrale ed un centro diocesano? Il titolo di cattedrale era attribuito allora alla cappella dell’antica residenza dei Vescovi, vicina al Porto di Traiano; ma quella cappella era di cosi modeste dimensioni che non si prestava, né alla maestà delle cerimonie pontificali, né alla convocazione di adunanze numerose. Per di più, la stessa residenza aveva cessato di essere proprietà diocesana, da quanto il mio predecessore, il Cardinal Baggiani, l’aveva ceduta all’Istituto dei Figli di S; Maria Immacolata.
Ora accade che, proprio nei primi mesi del 1946 ricevetti l’invito di recarmi l’anno seguente negli Stati Uniti d’America in occasione del secondo centenario della fondazione di una Università, con la quale avevo avuto relazioni come addetto al governo della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il Santo Padre mi autorizzò ad assentarmi anche per un lungo periodo e cominciai a sognare che quell’invito poteva fornirmi l’occasione di risorse, con cui attuare la costruzione di una cattedrale. C’era a La Storta il rudere di una grande chiesa cominciata nel
1926 ed abbandonata da venti anni. La Storta si trovava al centro geometrico della Diocesi, almeno come questa si presentava prima dello smembramento delle due parrocchie di Grotta Rossa e Prima Porta. L’ubicazione del santuario sulla sommità di un cucuzzolo isolato e alto, conveniva ad una chiesa, destinata a diventare il centro spirituale di una vasta zona, dominata fino ai suoi primi margini dall’altura in questione.
Perciò quando, pochi giorni dopo la mia presa di possesso, fui autorizzato dal Santo Padre a cedere al Governo italiano una striscia di terreno, che doveva servire a rettificare il tracciato della Via Cassia, potei porre come condizione che il muro di sostegno avesse carattere monumentale, cosi come la scala di accesso alla futura cattedrale. Non ho domandato alla Diocesi nessun contributo per la costruzione della Cattedrale, consacrata il 25 marzo 1950, né per quella del campanile, terminato soltanto nel 1955, non per mancanza di fiducia nel vostro senso di collaborazione, ma perché sapevo che in molte parrocchie, se non in tutte, sarebbe stato necessario mettere in programma costruzioni di chiese o cappelle,rese indispensabili dal continuo aumento della popolazione dal 1900 a questa parte, e volevo lasciare integre le possibilità di concorsi finanziari locali.
Alcune circostanze provvidenziali mi hanno permesso di raccogliere i fondi per edificare la cattedrale, il suo campanile e la prima parte del Collegio Seminario, sviluppato poi, dall’Opera del Cenacolo nell’Istituto S. Eugenio; ho potuto, anche per altre costruzioni, interessare benefattori estranei alla Diocesi, la cui generosità merita la nostra viva riconoscenza”.
Diocesi di Porto e Santa Rufina- Papa Pio XII visita la Cattedrale (29 ottobre 1957) ricevuto dal Cardinale Tisserant
Il grande evento della visita di Papa Pio XII alla Cattedrale
Proprio 50 anni fa, il 27 ottobre del 1957 il Papa Pio XII compie il suo viaggio più lungo fuori delle mura Vaticane e da Castel Gondolfo.Ma lasciamo che sia ancora il Cardinale Tisserant nella sua 15 lettera pastorale del 1958 a raccontarci la straordinarietà e il significato di quella visita: “Si compiono in questi giorni dodici anni, da quando ho preso la responsabilità del governo della Diocesi di Porto e S. Rufina. In questo ultimo anno, oltre la solenne celebrazione del Sinodo diocesano, molto altro lavoro è stato compiuto. Sono fatti ed opere importanti, ma c’è stato quest’anno un avvenimento, che merita di essere ricordato in modo particolare, ed è la venuta del Sommo Pontefice a S. Maria di Galeria, per l’inaugurazione del nuovo centro radiofonico della Santa Sede, con la Sua visita alla Cattedrale della Diocesi di Porto e S. Rufina. Non potremo mai essere abbastanza riconoscenti a Pio XII, per quell’atto di sovrana condiscendenza. La bontà del papa per la Diocesi, manifestatasi già tante volte ed in tanti modi, ci obbliga ad uno speciale senso di gratitudine e spero che la vostra riconoscenza si manifesterà con una maggiore, affettuosa deferenza per l’augusta persona di Sua Santità ed una più perfetta ubbidienza a tutte le direttive, date dal Papa stesso o dalle autorità della Curia Romana, che sono interpreti del Suo volere. Soprattu pregherete per il Santo Padre, perché Iddio lo conservi in buona salute e Lo protegga contro tutti i pericoli, per il maggior bene della nostra Santa Chiesa.Affinché i nostri posteri rimangano edotti dal favore, che ricevemmo il 27 ottobre 1957, una lapide sarà inaugurata fra poco nella Cattedrale de La Storta, con un’iscrizione latina, che vi diamo qui in traduzione.“In questo tempio Cattedrale della diocesi di Porto e S. Rufina, cominciato nel 1926 dal P. Fonck S.J. e nel 1950 condotto a termine e consacrato dal Card. Eugenio Tisserant, Decano del S. Collegio e Vescovo della stessa diocesi, il 27 ottobre 1957 sosto molto volentieri il Sommo Pontefice Pio XII, diretto alla non lontana Galeria; il Quale volle cosi, con la Sua stessa augusta presenza, testimoniare all’Eminentissimo Cardinale, quanta compiacenza e quale benevolenza nutrisse verso di lui, sia per la costruzione del sacro tempio, si, e molto più per l’ammirabile zelo spiegato nel governo dei suoi fedeli.
Diocesi di Porto e Santa Rufina-Calici donati da Papa Pio XII in visita alla Cattedrale (29 ottobre 1957)
Dall’ Osservatore Romano
L’ Osservatore Romano del 28-29 ottobre 1957 titolava in prima pagina, corredata da grandi foto dell’evento: Il Sommo Pontefice benedice ed inaugura con un suo messaggio al mondo il nuovo Centro della Radio Vaticana in Santa Maria di Galeria.
Fu proprio nel viaggio da Catelgandolfo a Santa Maria di Galeria, il viaggio più lungo fatto dal Pontefice, che il Papa, transitando per la via Cassia, si fermò a la Storta e visitò la Cattedrale ancora non del tutto ultimata.
Nella seconda pagina del giornale, nella cronaca del viaggio papale leggiamo il racconto della Visita: “Sua Santità partiva da Castelgandolfo verso le ore 9.00 in forma strettamente privata…il Santo Padre è stato acclamato lungo il percorso, dalla popolazione di Castelgandolfo e da numerosi gruppi di fedeli che attendevano sull’Appia, l’Appia Pignatelli, Ponte Garibaldi, il Lungotevere fino a Piazza della Rovere ,il Ponte Duca d’Aosta, Piazza Pasquale Paoli, il Lungotevere fino all’altezza di Valle Giulia, Ponte Flaminio, la Via Cassia Nuova e la Cassia Vecchia e la Braccianese. Particolarmente entusiastico il saluto dei malati di Villa San Pietro all’ingresso della clinica dei Fatebenefratelli. A la Storta, che fa parte della Diocesi Suburbicaria di Porto e Santa Rufina, Sua Santità è giunto alle ore 9.50 ed ha compiuto una breve sosta, salutato da una folla plaudente. Sulla porta della Cattedrale, consacrata il 25 marzo 1950, e dedicata ai Sacri Cuori di Gesù e Maria, attendeva l’Emm.mo Cardinale Decano del Sacro Collegio, Eugenio Tisserant, Vescovo di Porto e Santa Rufina. Erano con l’Emm.mo Cardinale il suo Vescovo Ausiliare, S. E. Mons. Pietro Villa e il Capitolo Cattedrale. Presente all’ingresso, S. E. Rev.ma Mons. Angelo Dell’Acqua., Sostituto della Segretaria di Stato. Il Cardinale porgeva l’acqua benedetta al Sommo Pontefice che, segnatosi, aspergeva la folla ed entrava nella Cattedrale,tra le filiali acclamazioni del popolo, recandosi ad adorare i Santissimo. Sua Emm.za Rev.ma il Cardinale Tisserant, illustrava quindi succintamente il tempio all’Augusto Pontefice, il Quale si soffermava pure esprimendo il Suo paterno compiacimento, dinanzi alle artistiche stazioni della Via Crucis,eseguite dal nipote del cardinale Prof. Albert Serrure, il quale ha riprodotto fedelmente il paesaggio e le varie località dei Luoghi Santi. Uscito dalla Cattedrale il Supremo Pastore, mentre le Associazioni di Azione Cattolica e la popolazione Gli rinnovano con entusiastica manifestazione l’attestato del loro filiale devotissimo affetto, dopo avere percorso in vettura parte del perimetro esterno della chiesa, proseguiva per Santa Maria di Galeria , ove giungeva alle ore 10.20”.
S.E. Monsignor Tito Mancini, Vescovo Ausiliare per la Diocesi di Porto e Santa Rufina. con il Cardinale EUGENIO TISSERANT
Una memorabile “ottobrata” romana :Racconto di un testimone
Tra i testimoni di quella Visita il Parroco di allora, Mons. Garlo Bessonnet che, nonostante la
sua veneranda età – quest’anno ha celebrato il 60° anniversario di ordinazione sacerdotale –
ricorda benissimo, in tutti i particolari, la visita del papa alla Cattedrale. Gli abbiamo chiesto di
raccontarla. La racconta come una “ Memorabile ottobrata romana”.
“Tante sono le chiese e i luoghi visitati dagli ultimi papi a partire da Giovanni XXIII che difficilmente si possono contare. Prima di papa Roncalli non era così; per quasi un secolo, dal 1870 fino agli anni 1960, i Sommi Pontefici sono stati molto sedentari.
In fondo alla nostra chiesa cattedrale, a destra del portone centrale, una lapide , scritta in latino, riporta l’evento.
L’avvenimento aveva allora un carattere singolare, eccezionale.
L’anno 1957 fu molto importante per la nostra Cattedrale.
Nei primi giorni di agosto, in coincidenza con il 50° anniversario dell’ordinazione sacerdotale del Cardinale Vescovo Eugenio Tisserant, vi si tenne il Sinodo diocesano: per tre giorni consecutivi tutto il clero è stato impegnato in un lavoro intenso di celebrazioni, discussioni, votazioni, ecc. portato avanti con slancio malgrado il gran caldo.
Nel cuore dell’estate giunse la notizia che il Santo Padre Pio XII, nel recarsi dalla sua residenza estiva di Castel Gandolfo a Santa Maria di Galeria per inaugurare il nuovo Centro trasmittente della Radio Vaticana, avrebbe fatto una sosta alla Storta.
Siccome allora, come l’abbiamo detto sopra, i Papi uscivano poco l’annuncio suscitò molto entusiasmo: La Storta sarebbe stata una tappa del più lungo viaggio effettuato da Papa Pacelli durante i quasi venti anni del suo pontificato! Fu deciso di addobbare sfarzosamente con tappeti e drappeggi la cappella del SS.mo Sacramento davanti al quale il Papa doveva fermarsi in adorazione. Le forze di sicurezza vennero per un sopralluogo minuzioso. Lo spazio destinato ai fedeli fu limitato al transetto destro della chiesa; molti parrocchiani della Storta dovettero accontentarsi di stare lungo la Via Cassia per vedere passare il Papa in macchina.
La domenica 27 ottobre fu una splendida giornata di sole. Nel cuore della mattinata, al suono delle campane inaugurate da poco, la macchina targata “SCV 1” si fermò davanti al portone centrale. Ossequiato dal Cardinale Eugenio Tisserant e accompagnato da Mons. Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di Stato, Sua Santità Pio XII fece il suo ingresso dirigendosi poi a sinistra verso l’altare del SS.mo. Tutti si inginocchiarono; dall’altare maggiore sul quale era stato aperto il messale, in qualità di parroco io ebbi l’onore di cantare in latino l’orazione “pro Papa”. Dopo un momento di adorazione in silenzio, il Santo Padre impartì la Benedizione Apostolica, poi si fermò ad ascoltare con compiacimento alcune spiegazioni che gli diede il Cardinale prima di presentargli il suo vescovo ausiliare Mons. Pietro Villa, il cancelliere vescovile Mons. Tito Mancini e i membri del Capitolo Cattedrale, intervenuti al completo.
La visita durò poco più di un quarto d’ora.
Nel vedere l’aspetto fisico del Papa, che stava nel suo ottantunesimo anno di età, nessuno poteva prevedere che meno di un anno dopo, il 9 ottobre 1958, doveva morire.
Abituati come siamo ora, a partire dalla seconda metà del 20° secolo, allo stile pastorale delle visite dei papi possiamo rimanere sorpresi dal carattere protocollare della sosta di Pio XII. Tale gesto era comunque un segno di alto riconoscimento per lo zelo e la generosità del Cardinale Decano del Sacro Collegio a favore della Diocesi Portuense e fu al contempo un valido incentivo ed incoraggiamento per i sacerdoti e gli operatori pastorali di allora. Il Papa fece dono alla Cattedrale di un bel calice.
Per molto tempo in Cattedrale nelle sante messe dell’ultima domenica di ottobre, suffragando la sua anima, si fece memoria del “Pastor Angelicus” Eugenio Pacelli nel ricordo del suo ultimo viaggio, una bella e indimenticabile ottobrata romana”.
[1] Tutte le citazioni da Leopoldo Fonck S.J “La Storta” Un antico santuario di S. Ignazio di Loyola alle porte di Roma. Roma, 1924.
FOTO GALLERY-Le Foto originali sono di Franco Leggeri
S.E.Cardinale EUGENIO TISSERANTS.E. Monsignor Gino Reali ,Il Vescovo di Porto e Santa RufinaMons. Diego Bona – ex-Vescovo di Porto e Santa Rufina (1985 – 1994)S.E. Mons. GINO REALI -Vescovo di Porto e Santa Rufina e Mons. Diego Bona – ex-Vescovo di Porto e Santa Rufina (1985 – 1994)S.E. Mons. GINO REALI -Vescovo di Porto e Santa RufinaCattedrale-Diocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaCattedrale-Diocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaCattedrale-Diocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaCattedrale-Diocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaS.E. Mons. GINO REALI -Vescovo di Porto e Santa Rufina e Mons. Diego Bona – ex-Vescovo di Porto e Santa Rufina (1985 – 1994) e Don Matteo MorettiCattedrale-Diocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaMons. Diego Bona – ex-Vescovo di Porto e Santa Rufina (1985 – 1994)Cattedrale-Diocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaCattedrale-Diocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaS.E. Monsignor Gino Reali ,Il Vescovo di Porto e Santa RufinaCattedrale-Diocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaParrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaS.E. Mons. GINO REALI -Vescovo di Porto e Santa RufinaCattedrale-Diocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaCattedrale-Diocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaDiocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaDiocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaDiocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaDiocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaDiocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaDiocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaDiocesi di Porto e Santa Rufina Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaMons. Diego Bona – ex-Vescovo di Porto e Santa Rufina (1985 – 1994)Cattedrale- Campanile-Diocesi di Porto e Santa RufinaDiocesi Suburbicaria di PORTO-S.RUFINA Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaDiocesi Suburbicaria di PORTO-S.RUFINA Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaS.E. Mons. GINO REALI -Vescovo di Porto e Santa Rufina e Mons. Diego Bona – ex-Vescovo di Porto e Santa Rufina (1985 – 1994)Mons. Diego Bona – ex-Vescovo di Porto e Santa Rufina (1985 – 1994)Diocesi di Porto e Santa Rufina Chiesa Cattedrale Diocesi Suburbicaria di PORTO-S.RUFINA Parrocchia dei SS Cuori di Gesù e MariaCattedrale della Diocesi di Porto e Santa Rufina a La Storta la tomba del Cardinale Eugenio Tisserant , Monsignor Luigi Martinelli, Monsignor Pietro Villa e Vescovo Andrea PangrazioCattedrale della Diocesi di Porto e Santa Rufina a La Storta la tomba del Cardinale Eugenio Tisserant , Monsignor Luigi Martinelli, Monsignor Pietro Villa e Vescovo Andrea PangrazioParrocchia dei SS Cuori di Gesù e Maria, Chiesa Cattedrale Diocesi Suburbicaria di PORTO-S.RUFINA.Mons. Diego BONA- Vescovo della Diocesi di Porto e Santa Rufina
S.E. Mons. GINO REALI -Vescovo di Porto e Santa Rufina e Mons. Diego Bona – ex-Vescovo di Porto e Santa Rufina (1985 – 1994) e Don Matteo Moretti
Diocesi di Porto e Santa RufinaDiocesi di Porto e Santa Rufina
Diocesi di Porto e Santa RufinaDiocesi di Porto e Santa Rufina
Diocesi di Porto e Santa Rufina
FOTO GALLERY-Le Foto originali sono di Franco Leggeri
La Mädchenorchester von Auschwitz fu formata per la prima volta nell’aprile del 1943, come progetto della SS Maria Mandel, per i tedeschi che desideravano uno strumento di propaganda per i cinegiornali e come strumento per il morale del campo.
Fu diretta da un’insegnante di musica polacca, Zofia Czajkowska, e non ebbe molti elementi fino al maggio del 1943, quando furono ammesse le donne ebree.
Le musiciste avevano provenienze diverse, come del resto gli internati nel campo.
A partire dal giugno del 1943 il ruolo principale dell’orchestra fu quello di suonare al cancello quando le squadre di lavoro uscivano o rientravano.
L’orchestra teneva concerti nel fine settimana sia per i prigionieri sia per le SS; era anche incaricata di suonare in infermeria, per i prigionieri ricoverati, oppure in occasione dei nuovi arrivi o delle selezioni.
All’inizio era formata principalmente di musiciste dilettanti, con una sezione di archi, di fisarmoniche e un mandolino. Gli strumenti e gli spartiti erano stati recuperati dall’orchestra maschile del campo principale di Auschwitz.
Il repertorio dell’orchestra era abbastanza limitato, e questo a causa dei pochi spartiti disponibili, della limitata preparazione della direttrice d’orchestra e delle richieste delle SS. Eseguiva per lo più marce tedesche e musica di canzoni popolari militari polacche che la Czajkowska conosceva a memoria. Anche due musicisti professionisti ne fecero parte: la violoncellista Anita Lasker-Wallfisch e la cantante/pianista Fania Fénelon, ed entrambe scrissero di quella loro esperienza nell’orchestra.
La Czajkowska fu sostituita nella veste di direttore d’orchestra nell’agosto del 1943 da Alma Rosé, nipote di Gustav Mahler, che era stata la direttrice di un’orchestra di donne nella sua città natale, Vienna. La Rosé era molto più esperta della maggior parte delle adolescenti dell’orchestra, ma continuò a fare affidamento sulla Czajkowska per la traduzione dal polacco. La Rosé diresse, orchestrò e talvolta suonò assoli di violino durante i suoi concerti. Oltre all’attività ufficiale, faceva provare l’orchestra e suonava musica proibita di compositori polacchi ed ebrei per aumentare lo spirito dei membri dell’orchestra e dei compagni che si fidavano di lei.
La Rosé morì improvvisamente all’età di 37 anni, nell’aprile del 1944. Secondo alcune fonti la donna morì per avvelenamento da cibo.
Da allora in poi l’orchestra fu condotta da Sonia Vinogradova, una prigioniera russa.
Il 1º novembre 1944 i membri ebrei dell’orchestra femminile furono evacuati da un camion per il bestiame a Bergen-Belsen, dove non c’era né orchestra né privilegi speciali. Il 18 gennaio 1945 le ragazze non ebree nell’orchestra, tra cui diverse polacche, furono evacuate nel campo di concentramento di Ravensbrück. Quello stesso mese Auschwitz fu dismesso e l’orchestra fu mandata a Bergen-Belsen, luogo nel quale alcune di loro persero la vita.
Fabio Casalini
La fotografia è tratta dal film “Ballata per un condannato” del 1980, diretto da Daniel Mann, con Vanessa Redgrave e Jane Alexander.
Antiqua Vox
Fondazione Antiqua Vox promuove la musica barocca e l’organo a canne tra gli appassionati e le nuove
Frida Kalho -Viva la vida, il sogno e la rivoluzione-
Articolo di Sara Rotondi-Ass. La Città Futura
Una delle più grandi pittrici del Ventesimo secolo: la ‘pintora mexicana’ per eccellenza, intensa, meravigliosa e potente. Quelli della sua generazione potrebbero tracciare un diagramma della loro vita. A Palazzo Albergati di Bologna entra Frida Kahlo al secolo Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (Coyoacán, 6 luglio1907 – Coyoacán,13 luglio 1954). La mostra su Frida inaugurata lo scorso 19 novembre, sarà visibile fino al prossimo marzo 2017. Che dire, imperdibile.
Ritratti, autoritratti, la storia dell’artista a tutto tondo che si fonde in maniera inscindibile con la storia della donna. E accanto a lei, a fare da sfondo, gli uomini (e le donne) di Frida: su tutti, il pittore e ‘muralista’ Diego Rivera e la cantante Chavela Vargas che alla veneranda età di 83 anni calcola di aver bevuto più di 45 mila litri di tequila. I grandi amor fou.
Lungi dal ripercorrere la biografia, tracciamo una linea ‘umile’ sul suo grande spessore umano e intellettuale. Dai suoi ideali di amore (quelli veri lontani da beceri romanticismi) all’amore per la libertà.
Ciò che l’acqua mi ha dato. Intensa e piena di passione la sua carriera pittorica, in cui la sua opera non è circoscritta alla semplice narrazione di eventi, ma è anche ricerca interiore. Opere che si uniscono con la tradizione messicana e con il surrealismo. Andrè Breton, in occasione di una mostra a Parigi nel 1939 afferma che Frida è “una surrealista creatasi con le proprie mani e un raro punto di contatto tra l’ambito artistico e quello politico, che speriamo un giorno si possa fondere in un’unica coscienza rivoluzionaria” [1]. Un surrealismo che emerge nel quadro Ciò che l’acqua mi ha dato: immagini di paura, sessualità, memoria e dolore fluttuano nell’acqua di una vasca da bagno, dalla quale affiorano le gambe dell’artista.
Morte e ciclo dell’esistenza. Nella sua opera emerge il dolore, l’erotismo represso (segno di vitalità immune e repressione borghese), subconscio ma anche morte. Citiamo una delle sue opere più famose dove il concetto dell’inazione collegata alla morte è intenso e struggente. Il sogno (1940) Frida Kahlo dorme e lo scheletro è sveglio, vigile. Intorno ci sono delle nuvole, il sonno di Frida è tranquillo, mentre su di lei crescono delle piante che rappresentano la vita. Per l’artista la morte è una rinascita, forma di ringraziamento per la vita e una sorta di celebrazione del ciclo vitale dell’esistenza. La morte è quindi un processo, un cammino verso qualcosa d’altro.
Autoritratto con i capelli tagliati. Fervida femminista, in un dipinto del 1940 affiora il sui ideale di donna con una vera e propria esegesi della definizione culturale delle donne. Adottando trasgressivamente alcuni elementi dell’esteriorità maschile, denuncia apertamente come il potere sia una sorta di travestimento.
Avventura, passione, tequila, e revolución: spirito politico e comunismo. Non solo pittrice, ma anche grande attività per gli ideali libertari dell’epoca. Frida è una comunista convinta che si è battuta contro le ingiustizie e l’omogeneità del sistema: nel 1928 diventa un’attivista del Partito Comunista Messicano per sostenere la lotta di classe armata partecipando a numerose manifestazioni con adeguato physique du rôle.
L’amore come essenza della vita: Ti meriti un amore “Non so scrivere lettere d’amore” affermava Frida Kahlo. Ma in realtà poche donne hanno saputo giocare con le parole e le emozioni come ha fatto lei. Il tutto in un lirismo struggente. “Da quando mi sono innamorata di te, ogni cosa si è trasformata ed è talmente piena di bellezza… L’amore è come un profumo, come una corrente, come la pioggia. Sai, cielo mio, tu sei come la pioggia ed io, come la terra, ti ricevo e accolgo” scrive in una splendida missiva a Josè Bartoli nel 1946. L’amore, quello passionale, quello unico, quello che ti crea dipendenza anche quando si trasforma in sofferenza: “Ti meriti un amore che ti ascolti quando canti, che ti appoggi quando fai la ridicola, che rispetti il tuo essere libera, che ti accompagni nel tuo volo, che non abbia paura di cadere. Ti meriti un amore che ti spazzi via le bugie che ti porti il sogno, il caffè e la poesia”.
Tutto questo e Frida: amore e rivoluzione.
Frida Kahlo.*gelatin silver print.*Oct. 16 / 1932
Opere:
Autoritratto con vestito di velluto – (1926) – collezione privata
Autoritratto – (1926)
Ritratto di Alicia Galant – (1927) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Miguel N. Lira – (1927) – Instituto Tlaxcalteca de Cultura, Tlaxcala
L’autobus – (1929) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Autoritratto – (1930)
Autorretratto con mono (autoritratto con scimmia) – (1930) – Albright-Knox Art Gallery, Buffalo (New York)
Frida e Diego – (1931) – San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco
Ritratto di Eva Frederick – (1931) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Luther Burbank – (1931) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ospedale Henry Ford (o Il letto volante) – (1932) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti – (1932)
La mia nascita – (1932)
Il mio vestito è appeso là (o New York) – (1933)
Qualche piccola punzecchiatura – (1935) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
I miei nonni, i miei genitori e io – (1936)
Autoritratto dedicato a Lev Trockij – (1934) – National Museum of Women in the Arts, Washington D.C.
Frida e l’aborto – (1936) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il piccolo defunto Dimas Rosas all’età di tre anni – (1937) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La mia balia e io – (1937) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ricordo – (1937)
Ciò che ho visto nell’acqua e ciò che l’acqua mi ha dato – (1938)
I frutti del cuore – (1938)
Il cane itzcuintli con me – (1938)
Quattro abitanti del Messico – (1938)
Due Nudi nella Giungla (La Terra Madre) – (1939) – Collezione Privata
Il suicidio di Dorothy Hale – (1939) – Phoenix Art Museum, Phoenix
Le due Frida – (1939) – Museo de Arte Moderno, Città del Messico
Autoritratto con collana di spine – (1940)
Autoritratto con i capelli tagliati – (1940) – Museum of Modern Art, New York
Autoritratto con scimmia – (1940)
Autoritratto per il Dr. Eloesser – (1940)
Il sogno (o Il letto) – (1940)
Cesto di fiori – (1941)
Io con i miei pappagalli – (1941)
Autoritratto con scimmia e pappagallo – (1942)
Autoritratto con scimmie – (1943)
La novella sposa che si spaventa all’aprirsi della vita – (1943)
Retablo – (1943 circa)
Ritratto come una Tehuana (o Diego nel mio pensiero) – (1943)
Pensando alla morte (1943) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Radici (1943) – Collezione privata
Diego e Frida 1929-1944 – (1944)
Fantasia – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il fiore della vita – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La colonna spezzata – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Donna Rosita Morillo – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il pulcino – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La maschera – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Mosè (o Il nucleo solare) – (1945)
Ritratto con scimmia – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Senza speranza – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il piccolo cervo – (1946)
Autoritratto con i capelli sciolti – (1947)
Albero della speranza mantieniti saldo – (1946)
Il sole e la vita – (1947)
Autoritratto – (1948)
Diego e io – (1949) – Collezione privata
L’abbraccio amorevole dell’universo, la terra, Diego, io e il signor Xolotl – (1949)
Autoritratto con ritratto del Dr. Farill – (1951)
Ritratto di mio padre – (1951) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Perché voglio i piedi se ho le ali per volare – (1953) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Autoritratto con Diego nel mio Cuore – (1953-1954) – Collezione Privata
Autoritratto con Stalin (o Frida e Stalin) – (1954 circa) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Il cerchio – (1954 circa) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il marxismo guarirà gli infermi – (1954 circa) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Viva la vita – (1954) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico.
Note:
[1] In Andrè Breton, Le Surréalisme et la Peinture, Éditions Gallimard, Parigi 1965; tr. it. di Ettore Capriolo, Il Surrealismo e la Pittura, Marchi Editore, Firenze 1966, “Frida Kahlo”, p. 143.
Fonte- Ass. La Città Futura | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi-
Frida Kalho
Biografia di Frida Kahlo a cura di Irene Bertazzo-
Fonte-ENCICLOPEDIA DELLE DONNE-
Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón nasce da genitori ebrei tedeschi emigrati dall’Ungheria a Città del Messico, il 6 luglio del 1907, anche se lei dichiarava di essere nata nel 1910, con la rivoluzione, con il nuovo Messico.
Del padre, Frida dice «grazie a mio padre ebbi un’infanzia meravigliosa, infatti, pur essendo molto malato (ogni mese e mezzo aveva un attacco epilettico, nda) fu per me un magnifico modello di tenerezza, bravura (come fotografo e pittore, nda) e soprattutto di comprensione per tutti i miei problemi».
Della madre, invece, diceva che era molto simpatica, attiva e intelligente, ma anche calcolatrice, crudele e religiosa in modo fanatico.
A 6 anni Frida si ammala di poliomelite: piede e gamba destra rimangono deformi, tanto che Frida li nasconde prima con pantaloni e poi con lunghe gonne messicane. Così, se quando è piccola viene soprannominata dagli altri bambini “Frida pata de palo” (gamba di legno), quando diventa grande è ammirata per il suo aspetto esotico.
Nel 1922, dopo il liceo presso il Colegio Alemán, la scuola tedesca in Messico, Frida si iscrive alla Escuela Nacional Preparatoria di Città del Messico con l’obiettivo di diventare medico.
Durante questo periodo Frida fa parte dei “cachucas”, un gruppo di studenti che sostiene le idee socialiste nazionaliste del ministro della pubblica istruzione, Vasconcelos, richiedendo riforme scolastiche; inoltre mostra interesse per le arti figurative ma non ha ancora pensato di intraprendere la carriera artistica.
Il 17 settembre 1925, l’autobus diretto a Coyoacàn, su cui Frida Kahlo era salita con il suo ragazzo, Alejandro Gomez, per tornare a casa dopo la scuola, si scontra con un tram.
«Salii sull’autobus con Alejandro.. Poco dopo, l’autobus e un treno della linea di Xochimilco si urtarono.. Fu uno strano scontro; non violento, ma sordo, lento e massacrò tutti. Me più degli altri. È falso dire che ci si rende conto dell’urto, falso dire che si piange. Non versai alcuna lacrima. L’urto ci trascinò in avanti e il corrimano mi attraversò come la spada il toro».
Frida rimane tra le aste metalliche del tram. Il corrimano si spezza e la trapassa da parte a parte… Alejandro la raccoglie e nota che Frida ha un pezzo di metallo piantato nel corpo. Un uomo appoggia un ginocchio sul corpo di Frida ed estrae il pezzo di metallo.
La prima diagnosi seria sopraggiunge un anno dopo l’incidente: frattura della terza e della quarta vertebra lombare, tre fratture del bacino, undici fratture al piede destro, lussazione del gomito sinistro, ferita profonda dell’addome, prodotta da una barra di ferro entrata dall’anca destra e uscita dal sesso, strappando il labbro sinistro. Peritonite acuta. All’ammalata viene prescritto di portare un busto di gesso per 9 mesi, e il completo riposo a letto per almeno 2 mesi dopo le dimissioni dall’ospedale.
«Da molti anni mio padre teneva…una scatola di colori a olio, un paio di pennelli in un vecchio bicchiere e una tavolozza.. nel periodo in cui dovetti rimanere a lungo a letto approfittai dell’occasione e chiesi a mio padre di darmela…Mia madre fece preparare un cavalletto, da applicare al mio letto, perché il busto di gesso non mi permetteva di stare dritta. Così cominciai a dipingere il mio primo quadro».
La madre di Frida, Matilde, poi trasforma il letto di Frida in un letto a baldacchino e ci monta sopra un enorme specchio, in modo che Frida, immobilizzata, possa almeno vedersi.
Così nascono quegli autoritratti che ce la ricordano, con i suoi occhi sovrastati dalle sopracciglia scure, particolarmente marcate, che si uniscono alla radice del naso come ali d’uccello: «dipingo me stessa perché trascorro molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio».
Con queste rappresentazioni Frida infrange i tabù relativi al corpo e alla sessualità femminile. Diego Rivera, suo futuro marito, dirà di lei «la prima donna nella storia dell’arte ad aver affrontato con assoluta ed inesorabile schiettezza, in modo spietato ma al contempo pacato, quei temi generali e particolari che riguardano esclusivamente le donne».
Via via che i mesi passano, Frida si dedica con crescente consapevolezza alla pittura. Avanza lentamente, produce a piccole dosi e piccoli formati: ciò che la sua salute le permette di fare, a seconda del fatto che riesca a star seduta o solamente distesa: «i miei quadri sono dipinti bene, non con leggerezza bensì con pazienza. La mia pittura porta in sé il messaggio del dolore».
Più di un anno dopo, verso la fine del 1927 si riprende, tanto da poter condurre una vita abbastanza normale, nonostante i dolori dovuti ai vari busti, e le cicatrici derivate dalle diverse operazioni.
Nel 1928 Frida si unisce ad un gruppo di artisti e di intellettuali che sostengono un’arte messicana indipendente, lontana dall’accademismo e legata all’espressione popolare: il mexicanismo, che si esprime nella pittura murale, particolarmente incoraggiata dallo Stato anche per le sue finalità edificanti e la possibilità di raccontare la storia nazionale anche alla grande massa analfabeta.
Frida, dal canto suo, per esprimere idee e sentimenti, crea un proprio linguaggio figurativo; il mondo contenuto nelle opere di Frida si rifà soprattutto all’arte popolare messicana e alla cultura precolombiana; vi sono infatti, immagini votive popolari, raffigurazioni di martiri e santi cristiani, ancorati nella fede del popolo; negli autoritratti, inoltre, Frida si rappresenta quasi sempre in abiti di campagna o con costume indio. Del Messico, poi, ritroviamo, nelle opere di Frida, la flora e la fauna, i cactus, le piante della giungla, le scimmie, i cani itzcuintli, i cervi e i pappagalli.
Nei primi mesi del 1928, German del Campo, uno dei suoi amici del movimento studentesco, le fa conoscere un gruppo di giovani raccolto intorno al comunista cubano Julio Antonio Mella, che si trova in esilio in Messico e che ha una relazione con la fotografa Tina Modotti. È proprio Tina a far conoscere a Frida Diego Rivera: un pittore e muralista molto famoso, anche se i due, in realtà si erano già conosciuti nel 1923, mentre Diego lavorava nell’anfiteatro Bolivar. Di quell’incontro Diego ricorda di questa ragazza «…aveva una dignità e una sicurezza di sé del tutto inusuali e negli occhi le brillava uno strano fuoco».
Quando Frida incontra Diego per la seconda volta, lui è un uomo pesante, gigantesco, Frida lo prende in giro chiamandolo “elefante”: è già stato sposato due volte e ha quattro figli.
Il 21 agosto del 1929 si sposano. Lei ha 22 anni, lui quasi 43.
A causa della malformazione pelvica, dovuta all’incidente, Frida non riesce a portare a termine le sue gravidanze, e così, 3 mesi dopo il matrimonio, Frida deve abortire. È la prima volta. Nel novembre del 1930 Frida e Diego si trasferiscono per 4 anni negli Stati Uniti per motivi artistici e politici. A Detroit Frida rimane incinta per la seconda volta, ma la tripla frattura delle ossa del bacino ostacola la corretta posizione del bambino. Frida decide comunque di tenere il bambino, nonostante la sua pessima condizione fisica ed il rischio. Tuttavia, il 4 luglio perde il bambino per un aborto spontaneo.
Nel 1934 ritornano in Messico, Frida è costretta ad abortire per la terza volta, e si separa da Diego che, nel frattempo, aveva avuto diverse avventure con altre donne, compresa la sorella di Frida, Cristina.
Frida comincia ad avere rapporti con altri uomini e con donne e ad essere molto attiva anche dal punto di vista politico. Nel 1936 in Spagna scoppia la guerra civile e se, Tina Modotti, l’amica di Frida, lascia immediatamente Mosca per andare in Spagna, lei si impegna a distanza nella lotta per la difesa della Repubblica Spagnola, organizzando riunioni, scrivendo lettere, raccogliendo viveri di prima necessità, pacchi di vestiti e di medicine per inviarli al fronte.
Nel 1937, poi, nella sua Casa Azul, ospita Lev e Natalja Trotskij, i quali sono in viaggio dal 1929, espulsi dall’Unione Sovietica.
Negli anni Quaranta, la fama di Frida è talmente grande che le sue opere vengono richieste per quasi tutte le mostre collettive allestite in Messico.
Nel 1943 viene chiamata ad insegnare, assieme ad altri artisti, alla nuova scuola d’arte della pedagogia popolare e liberale: l’Esmeralda. Frida, per ragioni di salute, è presto costretta a tenere le lezioni nella sua casa. I suoi metodi sono poco ortodossi: «Muchacos, chiusi qui dentro, a scuola, non possiamo fare niente. Andiamo fuori, in strada, dipingiamo la vita della strada». I suoi alunni la ricordano: «l’unico aiuto che ci dava era quello di stimolarci….non diceva niente sul modo in cui dovevamo dipingere o sullo stile, come faceva il maestro Diego…Ci insegnò soprattutto l’amore per la gente, ci fece amare l’arte popolare».
Nel 1950 subisce sette operazioni alla colonna vertebrale e trascorre nove mesi in ospedale. Dopo il 1951, a causa dei dolori, non riesce più a lavorare se non ricorrendo a farmaci antidolorifici; forse è proprio dovuta a questi la pennellata più morbida, meno accurata, il colore più spesso e l’esecuzione più imprecisa dei dettagli.
Nel 1953, alla sua prima mostra personale, allestita dalla amica fotografa Lola Alvarez Bravo, partecipa sdraiata su un letto, dato che se i medici le hanno assolutamente proibito di alzarsi. È Diego ad avere l’idea di trasportare il grande letto a baldacchino di Frida fin nel centro di Città del Messico. Stordita dai farmaci, partecipa alla festa rimanendo a letto, bevendo e cantando con il pubblico accorso numeroso. Nell’agosto dello stesso anno, i medici decidono di amputarle la gamba destra fino al ginocchio.
Nel 1954 si ammala di polmonite. Durante la convalescenza, il 2 luglio, partecipa ad un dimostrazione contro l’intervento statunitense in Guatemala, reggendo un cartello con il simbolo della colomba che reca un messaggio di pace. Muore per embolia polmonare la notte del 13 luglio, nella sua Casa Azul, sette giorni dopo il suo quarantasettesimo compleanno. La sera prima di morire, con le parole «sento che presto ti lascerò», aveva dato a Diego il regalo per le loro nozze d’argento.
Frida Kalho
ENCICLOPEDIA DELLE DONNE
Contatti
Redazione redazione@enciclopediadelledonne.it
Ufficio stampa
IDN Media Relations di Isabella Di Nolfo
Milano, t. 02 70104488 idn@idnmediarelations.it
SOCIETA’ PER L’ENCICLOPEDIA DELLE DONNE APS
VIA DEGLI SCIPIONI, 6
20129 – MILANO
P.IVA 07734790962
COD. FISC. 97562510152
CODICE UNIVOCO – M5UXCR1
PEC – enciclopediadelledonne@pec.it
Con un articolo e un discorso di Claudio Treves,a cura di Giovanni Scirocco
BIBLION EDIZIONI
Dalla Presentazione di Paolo Bagnoli: «È passato un secolo dal discorso che Filippo Turati tenne alla Camera il 26 giugno 1920, comunemente conosciuto con il titolo Rifare l’Italia!. Di esso, nel corso degli anni, sono state riproposte diverse edizioni. Si tratta di un intervento rilevante, praticamente un vero e proprio saggio sulla situazione dell’Italia a meno di due anni dalla fine della guerra; un testo che Turati aveva a lungo meditato e che espose alla Camera confermando di essere un grande oratore […]. Spicca il richiamo che Turati fa alla funzione nazionale del socialismo. Esso, ora, viene concepito non solo quale forza di difesa e di organizzazione del proletariato, della sua lotta per l’emancipazione dei ceti più deboli e per il loro riscatto civile e sociale, ma quale forza di governo».
«Filippo Turati», come scrive un suo biografo, «è stato l’uomo politico che ha maggiormente inciso sulla storia del Partito socialista italiano. Il ruolo di maggior leader del socialismo nel nostro Paese è infatti indiscutibile sino al 1911; controverso ma comunque notevolissimo, sino al 1918; sempre molto importante sino al 1922; rilevante, soprattutto da un punto di vista intellettuale morale, prima ancora che politico, dal 1922 al 1932» (Franco Livorsi).
Dal moderatismo al radicalismo
Nato in un piccolo paese della Brianza dalla gentildonna Adele di Giovanni e da Pietro Turati, commissario distrettuale legato alla Destra storica, Filippo deve seguire il padre nei vari trasferimenti ai quali è costretto dalla carriera burocratica, da Mantova a San Remo, Forlì, Napoli, Pavia, Siracusa e Cremona dove diventa prefetto a partire dal 1873, senza che questo vagabondaggio gli impedisca di frequentare con profitto un regolare corso di studi. Dall’educazione familiare deriva un profondo legame con la tradizione risorgimentale e una certa impronta moderata da lui stesso sottolineata: «Io sono figlio di un prefetto, e probabilmente un certo lievito burocratico mi è rimasto nel sangue».
Determinanti, nell’orientarlo verso posizioni democratiche, sono le amicizie scolastiche, prima con Leonida Bissolati (1857-1920), compagno di liceo insieme al quale si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Pavia e si trasferisce dopo il biennio a Bologna; poi con Achille Loria (1857 – 1943) e con Enrico Ferri (18561929), incontrati all’ateneo bolognese. Qui si laurea a pieni voti nel 1877 con una tesi di economia politica; agli studi affianca la passione per la poesia; comporrà opere (Disordine, Il Mago, Credo) che saranno pubblicate nel 1878 su varie riviste.
Nello stesso periodo matura il graduale trapasso da un vago teismo spiritualista al positivismo, anche per l’influenza di Arcangelo Ghisieri (1855- 1938), cui si avvicina nel 1878 diventando presto redattore dei due fogli radicali da lui diretti («Preludio» e «Rivista repubblicana») mentre collabora con la rivista scapigliata milanese «La farfalla» e approfondisce lo studio del positivismo aderendo alla tesi del filosofo Roberto Ardigò (1828-1920) e del criminologo determinista Cesare Lombroso (1835-1909). A un crescente interesse per l’impegno sociale si alternano in questa fase una costante attrazione per la produzione poetica e la traduzione di canti popolari (Fiori del Nord, Fiori del Sud), e una preponderante attenzione al proprio privato, aggravata anche da una forma di nevrosi che lo porta alla depressione e lo spinge talora a coltivare idee di suicidio.
Solo nel 1882-83, Turati, che in questi anni gira l’Europa per cercare psichiatri in grado di curarlo, supera la propria crisi personale intensificando l’impegno politico, preannunciato alla fine del 1882 sul settimanale socialista «La Plebe» dal saggio Il delittoe la questione sociale, nel quale Turati difende le tesi lombrosiane contro i sostenitori del libero arbitrio, definito «una fola da donnicciole», e mette l’accento sui condizionamenti sociali (e non solo biologici) del comportamento criminale. Ciò segna anche il congedo ufficiale dalla poesia, sancito dalla raccolta in volume delle poesie giovanili e da un ultimo volume di traduzioni (Canti popolari slavi, greci e napoletani 1883), benché Turati continui a scrivere versi ancora per diversi anni, componendo fra l’altro, nel 1886, il Canto dei lavoratori, Inno delPartito Operaio Italiano.
Filippo Turati
L’adesione al socialismo
In questi anni, tuttavia, Turati non si discosta dalle posizioni radicali e democratiche, pur manifestandosi aperto alle idee del nascente movimento socialista italiano. Solo il deludente comportamento della Sinistra e l’immobilismo dell’Associazione democratica cui aderisce, lo spingono nel 1886 a caldeggiare un’alleanza elettorale col Partito operaio italiano di cui assume la difesa legale dopo lo scioglimento deciso da Depretis (1886) e favoriscono una sua graduale evoluzione verso posizioni socialiste e marxiste. A questa maturazione concorre in larga misura la socialista russa Anna Kuliscioff, da tempo attiva in Italia che diventa nel 1885 fedele compagna di Turati e lo mette in relazione con la socialdemocrazia europea.
Il socialismo e il marxismo di Turati hanno d’altra parte una forte impronta riformista, che resterà una costante della sua politica portandolo ad avversare l’anarchismo e il socialismo rivoluzionario e a ricercare invece sempre l’alleanza con le forze democratico-borghesi. Lo confermano nel 1889, la sua elezione a consigliere comunale di Milano con l’appoggio dei radicali e il programma della Lega socialista, da lui costituita nello stesso anno e rappresentata tramite Andrea Costa al congresso di fondazione della II Internazionale.
Si deve anzi a Turati, al suo infaticabile impegno organizzativo e alla sua notevole influenza culturale, l’instaurarsi in Italia di una tradizione socialista che, pur riferendosi al marxismo, deriva dal positivismo* una visione evolutiva e gradualista dei processi politiche e sociali. Al diffondersi di questa ideologia Turati contribuisce soprattutto con la sua rivista «Cuore e critica», rilevata da Arcangelo Ghisleri nel 1890, trasformata nel 1891 in «Critica sociale» e che presto diventerà, «per opera sua e della Kuliscioff, il centro di raccolta e di organizzazione della nuova cultura socialista e rimarrà il più autorevole organo teorico e politico del movimento socialista italiano» (Gaetano Arfé).
La scelta riformista
Nel 1892 Turati, che ha già una posizione politica di rilievo, collabora alla stesura del programma su cui nasce a Genova il Partito socialista italiano* ed è fra i più decisi sostenitori della rottura con gli anarchici in polemica con quanti coltivano «l’illusione del partito grande, che accolga un po’ tutti». In questa fase, segnata da una profonda crisi politica e sociale, dall’inasprirsi dei conflitti di classe e dalla repressione del movimento operaio, egli sembra assumere un atteggiamento più intransigente verso la borghesia, giudicata nel suo insieme «massa reazionaria», attacca aspramente Crispi e insiste sulla necessaria autonomia politica del nuovo partito facendo prevalere nel Congresso di Reggio Emilia (1893) il rifiuto di ogni alleanza elettorale coi radicali.
Ma dopo la sconfitta dei Fasci siciliani e lo scioglimento del Partito socialista torna in evidenza e riceve anzi più precisa formulazione il sostanziale riformismo di Turati che, nel 1894, aderisce coi socialisti milanesi alla «Lega per la difesa della libertà» creata dal radicale Felice Cavallotti (1842-98) e scrive il saggio I sobillatori, teorizzando il passaggio al socialismo come processo realizzabile solo grazie all’azione di una élite intellettuale. Alla sfiducia nell’azione di massa si associa la persuasione che i socialisti debbano stabilire una intesa organica con le forze borghesi disponibili a una politica di riforme democratiche.
Questa tesi, minoritaria al congresso clandestino di Parma del 1895, è all’origine della rottura con lo stesso Engels e porta all’isolamento politico di Turati, nuovamente battuto al congresso di Firenze del 1896, quando il P.S.I. torna alla legalità. Ma le elezioni dello stesso anno lo vedono per la prima volta deputato e il suo nome appare spesso sull’«Avanti!» diretto da Leonida Bissolati, che è su posizioni ancora più decisamente riformiste. Al congresso di Bologna del 1897, Turati è messo in minoranza per soli sei voti e la sua linea ispira di fatto il comportamento del partito come testimoniano i tumulti del 1898 a Milano contro il carovita.
Il P.S.I. vi reagisce esortando alla calma, cercando di dissuadere i manifestanti dalle dimostrazioni di protesta e adottando la turatiana «propaganda contro l’insurrezione» anche dopo il sanguinoso intervento dell’esercito, l’arresto dei dirigenti socialisti e lo scioglimento del partito e della C.G.L., tornati alla legalità solo nel 1900. Turati, pur essendosi adoperato per sedare i tumulti, viene arrestato, condannato a dodici anni e liberato dopo un anno solo grazie all’indulto; egli attribuisce la strage «più alle autorità di Milano che al governo di Rudinì, forse nel tentativo di trovare un compromesso con lo stesso di Rudinì nell’ora della massima repressione antisocialista» (Livorsi). Dai fatti di Milano trae anzi motivo per ribadire la necessità di «rivoluzioni lente e pacifiche» e di un’intesa con i liberali democratici facenti capo a Giolitti.
Tale intesa si realizza già nel 1899 quando Turati, rieletto nel collegio di Milano, e gli altri deputati socialisti, conducono insieme ai giolittiani una dura battaglia ostruzionistica contro il nuovo regolamento parlamentare autoritario imposto dal governo Pelloux e contribuiscono poi alla sua caduta (giugno 1900), che apre la strada ai ministeri di Saracco (1901) Zanardelli (1901-03), e Giolitti (1903-14). Poco dopo Turati conferma «il contrasto ormai insanabile tra socialismo evolutivo e linea della violenza rivoluzionaria, oltre che tra socialismo e anarchismo» (Livorsi), deplorando nel discorso alla camera l’uccisione di Umberto I* a opera dell’anarchico Gaetano Bresci e rifiutando di assumere perfino la sua difesa legale per non ingenerare equivoci.
Al prevalere delle posizioni di Turati contribuisce intanto il diffondersi in seno al socialismo europeo del revisionismo del tedesco Eduard Bernstein (1850-1932), che ritiene una utopia sprovvista di ogni fondamento l’idea marxista di una trasformazione integrale della società e riduce la battaglia socialista a una lotta per le riforme, da condurre per via democratica e parlamentare. È questa anche l’opinione di Turati benché egli si prefigga come obiettivo finale, contrariamente a Bernstein o a Bissolati il socialismo. «Noi siamo sicuri colla via legale di acquistare i pubblici poteri», egli aveva detto già nel 1898 condannando le rivolte come «rovina del partito e della causa del proletariato».
Filippo Turati Rifare L’ITALIA
Dalla vittoria alla crisi del riformismo
Il congresso di Roma del settembre 1900 sancisce la vittoria di Turati e della Kuliscioff; essi conquistano alle tesi riformiste la grande maggioranza del P.S.I. con l’appoggio di Claudio Treves (1869-1933), Giuseppe Modigliani (1872 – 1947) e molti altri dirigenti socialisti, sconfiggendo la sinistra, da tempo rappresentata dall’amico di gioventù di Turati, Enrico Ferri, e da Costantino Lazzari (18571927). Anche il settimanale «Lotta di classe», diretto da quest’ultimo, passa sotto il controllo dei turatiani col nome di «Azione socialista». Diventa così possibile trasformare il P.S.I. in un interlocutore privilegiato di Giolitti, che da parte sua mira a rafforzare lo stato liberale integrando nel sistema di governo i socialisti riformisti e i cattolici liberali, in cambio del riconoscimento di alcuni diritti dei lavoratori o di un’attenuazione del vecchio anticlericalismo.
Secondo Turati «il liberalismo giolittiano, espressione di una moderna borghesia al passo con l’evoluzione dei tempi, poteva favorire, in dialettico civile antagonismo con il movimento operaio» (Arfé) una trasformazione democratica della società, dando sempre maggiori spazi al movimento di classe e conducendo gradualmente al socialismo. Questa visione e questa pratica collaborativa, impostesi nel P.S.I. non senza forti resistenze della sinistra, entrano però in crisi di fronte alla politica coloniale di Giolitti e alla guerra contro la Libia, intrapresa nel 1912. L’impresa, palesemente contrastante con la linea pacifista e antimperialista del P.S.I, è condannata dallo stesso Turati ma trova il consenso della frazione di destra guidata da Bissolati, che viene espulsa. Ciò indebolisce i riformisti anche perché la vicenda sembra confermare la tesi della sinistra, secondo cui non è possibile una collaborazione con i partiti borghesi.
Nel congresso di Reggio Emilia del 1912 Turati è nuovamente posto in minoranza e la sua posizione si indebolisce ancor più durante la Prima Guerra mondiale, benché tale avvenimento laceri profondamente anche la sinistra del partito, dalle cui file provengono il direttore dell’«Avanti!» Benito Mussolini e altri esponenti del più acceso interventismo nazionalista. Essi vengono espulsi e l’unità del partito si ricompone sulla parola d’ordine «né aderire né sabotare» condivisa anche da Turati. Ma coi procedere della guerra egli inclina sempre più verso la solidarietà con la nazione in guerra («anche la nostra patria è sul Grappa») in contrasto con quanti condividono la tesi di Lenin secondo cui occorre sfruttare la guerra imperialista per innescare il processo rivoluzionario. Anche la recisa condanna del «terrore rivoluzionario» e del leninismo espressa da Turati e dalla Kuliscioff contribuisce a far declinare l’influenza del riformismo, posto seccamente in minoranza dai massimalisti nel congresso di Roma del 1918. Turati evita a stento una condanna e l’espulsione per i suoi discorsi «patriottici».
Filippo Turati
La nascita del P.C.I. e del P.S.U.
Nell’immediato dopoguerra l’acuirsi dei conflitti di classe, la tendenza della borghesia a rispondere con la repressione alle richieste operaie senza più tentare la strada del riformismo giolittiano, e l’esito della rivoluzione bolscevica, che offre l’esempio di un’insurrezione vittoriosa, rafforzano le tendenze di sinistra del P.S.I. Nel congresso di Bologna del 1919 Turati si trova ormai a capeggiare una minoranza piuttosto esigua benché influente in parlamento, nel campo dell’opinione e nel movimento sindacale. Proprio questa influenza dei riformisti, che si oppongono nel 1920 al movimento di occupazione delle fabbriche e restano legati alla II Internazionale di indirizzo antileninista, fa sì che sembri necessaria a molti la loro espulsione dal partito, richiesta da Lenin come condizione per accogliere il P.S.I. nella III Internazionale. Da principio tuttavia questa domanda non viene accolta e provoca anzi una scissione da sinistra nel congresso di Livorno del 1921, con la nascita del Partito comunista d’Italia d’obbedienza leninista.
Ciò peraltro non attenua i contrasti interni che paralizzano il partito, proprio mentre va dilagando lo squadrismo fascista e appare più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizza il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto con la direzione del P.S.I. che punta su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. Si arriva così al congresso di Bologna del 1922, che rende definitiva la rottura espellendo Turati e la sua corrente. Essi danno vita al Partito socialista unitario (P.S.U.), di cui è eletto segretario Giacomo Matteotti* e che si ispira al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari.
Filippo Turati
L’esilio
Negli anni successivi, coerente con la sua fede democratica e nei limiti di un’azione solo parlamentare, Turati conduce una energica battaglia contro gli aspetti illegali e illiberali del fascismo, pur nutrendo al pari di Giolitti e di altri esponenti borghesi l’illusione di una sua evoluzione. Egli oscilla «tra l’estrema opposizione e la speranza di democratizzazione del fascismo» (Livorsi), del quale fa un’analisi molto riduttiva ritenendolo causa di precapitalismo, arretratezza, reazione. Solo dopo il delitto Matteotti (1924), Turati accentua la sua opposizione al regime, sforzandosi di consolidare l’unità fra i partiti raccoltisi nell’Aventino e soprattutto tra riformisti e popolari.
Ma anche in questa circostanza rifiuta la proposta di uno sciopero generale contro il «governo degli assassini», avanzata dal P.C.I. e ribadisce il proposito di mantenere la lotta entro i binari della legalità, anche per non compromettere l’unità con gli antifascisti più moderati. Questo legalitarismo si risolve però in uno sterile attendismo e favorisce il definitivo affermarsi della dittatura che, con le leggi speciali (1925-26), liquida le opposizioni incarcerando o costringendo all’esilio i dirigenti antifascisti. Nel dicembre 1926 anche Turati, ormai quasi settantenne e senza l’appoggio di Anna Kuliscioff, scomparsa l’anno precedente, espatria clandestinamente grazie all’aiuto di alcuni giovani antifascisti fra cui Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini raggiungendo Parigi.
Qui ricostituisce il P. S. U . col nome di Partito socialista unitario dei lavoratori italiani (P.S.U.L.I.) e continua la sua infaticabile attività politica. I suoi obiettivi di fondo restano l’unità dei partiti democratici, realizzata nel 1927 dando vita alla Concentrazione antifascista e assumendo la direzione del periodico «La libertà» e la riunificazione dei socialisti, raggiunta nel 1930 mediante la fusione del P.S.U.L.I. con il P.S.I. diretto da Pietro Nenni, due anni prima della morte. Nell’esilio Turati rivede inoltre la sua precedente analisi del fascismo, che vede adesso non come tipica manifestazione di situazioni arretrate ma come degenerazione sempre possibile del capitalismo, funzionale al suo dominio di classe.
Red Star Press -La Biblioteca della Resistenza-ROMA
DESCRIZIONE
Bologna, 9 agosto 1944. I partigiani liberano dal carcere di San Giovanni in Monte i compagni prigionieri. E per creare confusione aprono le celle anche ai detenuti comuni. Paolo, un ragazzo finito in galera per un piccolo furto, si ritrova libero e finisce sull’Appennino bolognese tra i partigiani della Stella Rossa. Entra a far parte della Brigata: conosce il Vecchio, si azzuffa con Gallo, destinato in realtà a diventare il suo migliore amico, assaggia la disciplina imposta dal mitico comandante Lupo e, soprattutto, incontra Elena, la ragazza di cui si innamorerà. Ed è a partire dalla storia d’amore tra Paolo ed Elena che Claudio Bolognini scrive Stella Rossa: un omaggio all’incredibile ma vera storia di una banda partigiana capace di tener testa all’esercito nazista e ai suoi sgherri fascisti. Ma anche destinata a subire l’eccidio di Monte Sole: 770 morti, tra cui 217 bambini, 132 anziani e 392 donne. Il massacro, conosciuto come strage di Marzabotto, perpetrato dai nazisti in 115 luoghi diversi nel territorio degli attuali comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana Morandi, che resta uno dei crimini più efferati di tutta la Seconda guerra mondiale commesso ai danni della popolazione civile.
Grace Paley, quando la poesia è donna , poetessa americana
un tributo a una poetessa americana, morta il 22.8.2007.
Paolo Cognetti ne fa uno splendido ritratto:”L’ultimo libro di Grace Paley fu composto tra il 2000 e il 2007, mentre l’America eleggeva il suo presidente più fanatico e bellicoso – non c’era ancora Trump (nota della scrivente) , reagiva furente al trauma dell’11 settembre, invadeva l’Afghanistan e l’Iraq precipitando in un’epoca buia. Triste finale per una poetessa di ottant’anni, tutti spesi in una lotta appassionata contro le guerre, l’uso del petrolio e dell’energia nucleare, la violenza sulle donne e sul mondo. Ma non è che da vecchia si fosse ammorbidita, e le sue poesie lo testimoniano. Una volta, durante una festa del Ringraziamento, viene invitata a tenere un discorso ed esordisce in questo modo: Chiunque abbia raggiunto / gli ottant’anni rende grazie / all’Unico di turno e poi immediatamente comincia a protestare. Un’altra volta si celebra l’anniversario di una certa istituzione del Vermont, e lei ne approfitta per ricordare ai poeti (anche i più gentili) che vivono in un paese impegnato in una guerra ingiusta, e il loro ruolo è quello di salire sui carri e gridarlo forte. Quando un editore le propone di pubblicare i suoi diari, taccuini pieni di me, la risposta suona più o meno così: e come la mettiamo con le mine antiuomo?
Grace Paley
Personale e politico si intrecciano nei suoi discorsi, nella sua poesia e nella sua vita. (…)«Scrivere di donne è un atto politico», disse. Ma il suo femminismo è impastato d’amore e di rabbia, è un viscerale stare dalla parte delle amiche. Come Catherine, morta di cancro ai polmoni perché il marito aveva fumato a letto per anni. O la donna incontrata sull’aereo per Chicago, allontanata dalla sua famiglia perché non riusciva a dimenticare una bambina appena nata e subito morta. O le amiche ormai scomparse e citate per nome, artiste, lavoratrici, attiviste politiche. We have one another: abbiamo solo noi stesse, ci prendiamo cura una dell’altra. Scrivere di donne è un atto politico perché significa prendersi cura di loro.
Personalmente, mi sono ritrovata a pensare da scrittrice perché avevo cominciato a vivere in mezzo alle donne. E la cosa sensazionale è che non le conoscevo, non sapevo chi fossero. Mentre avrei dovuto, con tutte le zie che avevo, giusto? Eppure non le conoscevo, e questa, secondo me, è l’origine di tanta letteratura. La letteratura non nasce da ciò che sappiamo, ma da ciò che non sappiamo. Ciò che ci incuriosisce. Che ci ossessiona. Che vogliamo conoscere.
Nella guerra non c’è nessuna ironia. Nemmeno nella morte, se è per questo. Lei le conosceva bene entrambe: aveva passato anni a fare avanti e indietro dalle basi militari, mentre il suo primo marito era soldato. Incontrò giovani mogli che presto sarebbero diventate vedove. Era convinta che la guerra fosse un gioco tra maschi, che ne soffrivano terribilmente ma non riuscivano a smettere di farla.
Nonostante fosse entrata nella storia della letteratura americana come scrittrice di racconti (studiati nelle università, inseriti in mille antologie, impossibili da copiare), la poesia era il suo primo amore, e alla fine decise di tornarci. Era un’urgenza di verità. Dopo tanto tempo dedicato alla narrativa, forse sentiva il bisogno di gettare le armi della finzione, spogliarsi dei personaggi-maschera e mostrarsi a viso scoperto. Qui non c’è più Faith, c’è Grace. La lingua si concentra, la frase si riduce a parola. Ma anche il lavoro di togliere, distillare, mettere a fuoco, può essere molto faticoso. Richiede pazienza e concentrazione. Ecco perché per tradurre una poesia / dal pensiero / all’inglese / serve tutta la notte. Di giorno è meglio andarsene nel bosco, portandosi una penna e un taccuino, e un pettine di emergenza nel caso che si alzi il vento.
Responsabilità
È responsabilità del mondo lasciare che il poeta sia poeta
È responsabilità del poeta essere donna
È responsabilità del poeta stare agli angoli delle strade
a distribuire poesie e volantini scritti
meravigliosamente
e anche volantini che non si possono guardare
per la loro retorica altisonante
È responsabilità del poeta essere pigro perdere tempo
e fare profezie
È responsabilità del poeta non pagare le tasse di guerra
È responsabilità del poeta entrare e uscire da torri d’avorio
bilocali su Avenue C
campi di grano saraceno e basi militari
È responsabilità del poeta uomo essere donna
È responsabilità del poeta donna essere donna
È responsabilità del poeta dire la verità al potente come
affermano i Quaccheri
È responsabilità del poeta imparare la verità da chi non
ha potere
È responsabilità del poeta ripetere sempre: non esiste
libertà senza giustizia cioè giustizia economica e
giustizia in amore
È responsabilità del poeta cantarlo su melodie originali e
su quelle tradizionali degli inni e dei poemi
È responsabilità del poeta ascoltare ogni diceria e
riportarla come i narratori diffondono la storia della vita
Non esiste libertà senza paura e senza coraggio non
esiste libertà a meno che terra e aria e acqua sopravvivano
e con loro sopravvivano i bambini
È responsabilità del poeta essere donna tenere d’occhio
il mondo e gridare come Cassandra, ma per essere
ascoltato questa volta.
Grazie a Dio non c’è nessun Dio
da “Fedeltà”
Grazie a Dio non c’è nessun Dio
o saremmo tutti perduti
se fosse Lui che ci fa gridare
di angoscia feroce di fronte alla tortura
all’odio tre o quattro volte per generazione
non ci sarebbe speranza e seppure Lui permettesse
alla pace di apparire allora un giorno grandi lastre
di pietra sotto i frutteti e il mare potrebbero
muoversi piano una contro l’altra terremoto
se fosse stato Lui a costruire così stretto il ponte
su cui siamo esortati a passare
senza paura mentre intorno a noi
i vecchi gli zoppi i maldestri i
bambini scalpitanti ruzzolano giù
e a volte vengono spinti nell’orrido
precipizio se fosse Lui certo saremmo perduti
se fosse Lui a offrire il libero arbitrio ma
solo ogni tanto strano dono
per un popolo che abbia appena distinto
la mano destra dalla sinistra
ma se siamo noi i responsabili con-
sideriamo il nostro assiduo amore uno per l’altro
perchè questo è il giorno d’oggi ora possiamo
guardarci negli occhi
a grande distanza questo è il tele-
fonico elettronico digitale giorno d’oggi
celebre per il denaro e la solitudine ma noi
abbiamo sconfitto Babele accettando parole
straniere in gloriose traduzioni se
sappiamo essere responsabili se siamo
diventati responsabili
l’Aternativa episodica del poeta
Stavo per scrivere una poesia
invece ho fatto una torta ci è voluto
più o meno lo stesso tempo
chiaro la torta era una stesura
definitiva una poesia avrebbe avuto
un po’ di strada da fare giorni e settimane e
parecchi fogli stropicciati
la torta aveva già una sua piccola
platea ciarlante che ruzzolava tra
camioncini e un’autopompa sul
pavimento della cucina
questa torta piacerà a tutti
avrà dentro mele e mirtilli rossi
albicocche secche tanti amici
diranno ma perchè diavolo
ne hai fatta una sola
questo non succede con le poesie
a causa di una inesprimibile
tristezza ho deciso di
dedicare la mattinata a un pubblico
ricettivo non voglio
aspettare una settimana un anno una
generazione che si presenti il
consumatore giusto
Grace Paley
Avevo bisogno di parlare con mia sorella
da “Fedeltà”
Avevo bisogno di parlare con mia sorella
parlarle al telefono intendo
come facevo ogni mattina
e anche la sera quando i
nipotini dicevano qualcosa che
ci stringeva il cuore
Ho chiamato il suo telefono ha squillato quattro volte
potete immaginarmi trattenere il respiro poi
c’è stato un terribile rumore telefonico
una voce ha detto questo numero non è
più attivo che meraviglia ho
pensato posso
ancora chiamare non hanno assegnato
il suo numero a un’altra persona malgrado
due anni di assenza per morte.
Certe volte adesso quando dormo sola
da “Fedeltà”
Certe volte adesso quando dormo sola
mi do un’annusata
e mi chiedo in tuti questi anni è questo
l’odore che ti è stato familiare
e se è così ti piaceva davvero non
semnra gradevole tu stranamente
sudi poco per un uomo tanto attivo ma sai
di dolce quando ti abbraccio di questi tempi
(o tu abbracci me) o appoggio la testa sul tuo
cuscino nel letto so che sei tu
un delicato odore di camino e ti
respiro un po’ non sono sorpresa
ti ricordo sempre delizioso
PROVERBI
La rabbia di una persona andrebbe rispettata
anche quando non è condivisa
la gioia di una persona andrebbe condivisa
anche se non è compresa
una persona dovrebbe essere compresa anche se
ha aggrottato le sopracciglia
per la rabbia è poi di colpo è scoppiata a ridere
una persona dovrebbe essere innamorata quasi
sempre questo è l’ultimo proverbio
e può essere imparato da ogni organo
capace di reazione corporea
POESIA CONTRO L’AMORE
A volte non vorresti amare la persona che ami
e distogli la faccia da quella faccia
i cui occhi labbra potrebbero placare ogni rancore
cancellare l’insulto rubarti la tristezza di non voler
amare voltati allora voltati a colazione
di sera non alzare gli occhi dal giornale
per vedere quella faccia in tutta la sua serietà una
concentrata dolcezza lui tiene il suo libro
tra le mani le dita nodose intagliate
dall’inverno voltati è tutto quello che puoi
fare alla tua età per salvarti dall’amore
ALLORA
quando lei venne a prenderlo al traghetto
lui disse sei così pallida sciupata così
gracile issandosi sulle punte dei piedi
per arrivare al suo orecchio lei sussurrò
sono una donna anziana oh da allora
lui fu sempre gentile.
Avevo bisogno di parlare con mia sorella
Avevo bisogno di parlare con mia sorella
parlarle al telefono intendo
come facevo ogni mattina
e anche la sera quando i
nipotini dicevano qualcosa che
ci stringeva il cuore
Ho chiamato il suo telefono ha squillato quattro volte
potete immaginarmi trattenere il respiro poi
c’è stato un terribile rumore telefonico
una voce ha detto questo numero non è
più attivo che meraviglia ho
pensato posso
ancora chiamare non hanno assegnato
il suo numero a un’altra persona malgrado
due anni di assenza per morte.
Grace Paley
Alternativa episodica del poeta
Stavo per scrivere una poesia
invece ho fatto una torta ci è voluto
più o meno lo stesso tempo
chiaro la torta era una stesura
definitiva una poesia avrebbe avuto
un po’ di strada da fare giorni e settimane e
parecchi fogli stropicciati
la torta aveva già una sua piccola
platea ciarlante che ruzzolava tra
camioncini e un’autopompa sul
pavimento della cucina
questa torta piacerà a tutti
avrà dentro mele e mirtilli rossi
albicocche secche tanti amici
diranno ma perchè diavolo
ne hai fatta una sola
questo non succede con le poesie
a causa di una inesprimibile
tristezza ho deciso di
dedicare la mattinata a un pubblico
ricettivo non voglio
aspettare una settimana un anno una
generazione che si presenti il
consumatore giusto
Grace Paley
Nel giorno della sua nascita – 11 dicembre 1922 –un tributo a una poetessa americana, morta il 22.8.2007.
Nata da una famiglia ebrea di origine ucraina, Grace Paley è considerata una maestra delle short stories, dimostrando grande talento con la sua scarna carriera di scrittrice, 45 racconti in 40 anni per un totale di 370 pagine. Con tre raccolte di racconti, The Collected Stories, è stata finalista al Premio Pulitzer e al National Book Award nel 1994.[1][2] Autori come Philip Roth e Saul Bellow lodarono la singolarità della sua voce nella narrativa americana.
Al di là del suo lavoro come scrittrice e professoressa universitaria, Paley era un’attivista femminista e contro la guerra, descrivendosi come una “pacifista piuttosto combattiva e anarchica cooperativa”
Headshot of American author Grace Paley, 1959. (Photo by Authenticated News/Getty Images)
Biografia
Grace Paley nacque a New York da Isaac e Manya Ridnyik Goodside, che avevano anglicizzato il cognome da “Gutseit” quando erano emigrati dall’Ucraina. Il padre era un dottore.[3] La famiglia parlava russo e yiddish, oltre all’inglese. La più giovane di tre bambini, Grace Paley da piccola era un maschiaccio. Nel 1938 e 1939 Paley frequentò l’Hunter College, e poi brevemente la The New School, ma non ricevette mai la laurea. Nei primi anni 40, Paley studiò con W. H. Auden alla New School for Social Research. L’interesse sociale di Auden e il suo uso pesante dell’ironia è spesso citato come un’influenza importante sui suoi primi lavori, in particolare le poesie.
Il 20 giugno 1942, Grace sposò il direttore della fotografia Jess Paley, dal quale ebbe due figli, Nora e Danny. In seguito divorziarono[4][5] e, nel 1972, Paley si risposò col poeta Robert Nichols. Insegnò al Sarah Lawrence College. Nel 1980 fu eletta alla National Academy of Arts and Letters; nel 1989, il governatore Mario Cuomo la nominò prima scrittrice ufficiale dello stato di New York. È stata il poeta laureato dal 5 marzo 2003 al 25 luglio 2007. È morta nella sua casa di Thetford a 84 anni a causa di un cancro al seno.[2] In una delle sue ultime interviste – nel maggio 2007 al giornale Vermont Woman – Paley espresse i suoi sogni per il futuro dei suoi nipoti: «sarebbe un mondo senza militarismo e razzismo e avidità, e dove le donne non hanno bisogno di combattere per il loro posto nel mondo».
Carriera accademica
Grace ha insegnato scrittura al Sarah Lawrence College dal 1966 al 1989, e ha aiutato a fondare la “Teachers & Writers Collaborative” a New York nel 1967. Ha anche insegnato alla Columbia University, alla Syracuse University e al City College of New York. Paley ha espresso la sua visione dell’insegnamento durante un simposio su “Educare l’immaginazione” nel 1996:
«La nostra idea era che i bambini, scrivendo, buttando giù parole, leggendo, iniziando ad amare la letteratura, con l’inventiva di ascoltarsi a vicenda, potessero iniziare a capire meglio il mondo e a crearne uno migliore per sé. Mi è sempre sembrata un’idea così naturale che non ho mai capito perché sono state necessarie così tanta aggressività e tempo per avviarla![6]»
Attivismo politico
Paley era nota per il suo pacifismo e attivismo politico.[2] La sua collega, attivista e femminista, Robin Morgan, ha descritto l’attivismo di Paley come ampiamente focalizzato sulla giustizia sociale: “Diritti civili, contro la guerra, contro il nucleare, femminista, qualunque cosa avesse bisogno di una rivoluzione”.[7] L’FBI la dichiarò comunista e conservò un fascicolo su di lei per trent’anni.[4]
A partire dagli anni ’50, Paley si unì agli amici nella protesta contro la proliferazione nucleare e la militarizzazione americana.[8][9][10] Lavorò anche con l'”American Friends Service Committee” per fondare gruppi pacifisti di quartiere,[11] aiutando a fondare il “Greenwich Village Peace Center” nel 1961.[12][13] Incontrò il suo secondo marito, Robert Nichols, attraverso il movimento pacifista contro la guerra del Vietnam.[14]
Con l’escalation della guerra del Vietnam, Paley si unì alla “War Resisters League”.[15] Venne arrestata in diverse occasioni, inclusa la permanenza di una settimana nella casa di detenzione femminile nel Greenwich Village.[16]) Nel 1968, firmò la promessa “Writers and Editors War Tax Protest”, promettendo di rifiutare il pagamento delle tasse in segno di protesta contro la guerra del Vietnam,[17][18] e nel 1969 divenne famosa a livello nazionale come attivista quando accompagnò una missione di pace ad Hanoi per negoziare il rilascio dei prigionieri di guerra.[19] Fu delegata alla Conferenza mondiale sulla pace del 1973 a Mosca[20][21] e venne arrestata nel 1978 come una degli “Undici della Casa Bianca” per aver srotolato uno striscione antinucleare con la scritta “Niente armi nucleari… Niente energia nucleare: USA e URSS” sul prato della Casa Bianca.[13] Negli anni ’80 Paley sostenne gli sforzi per migliorare i diritti umani e resistere all’intervento militare statunitense in America Centrale[22][23][24] e continuò a parlare apertamente nei suoi ultimi anni contro la guerra in Iraq.[12]
Tra le molte altre cause di Paley c’era il diritto all’aborto, parte del suo più ampio lavoro femminista. Organizzò una delle prime “dichiarazioni sull’aborto” negli anni ’60, dopo aver abortito lei stessa negli anni ’50 e aver lottato per averne un altro pochi anni dopo.[16]
Opere tradotte in italiano
Enormi cambiamenti all’ultimo momento. racconti (Enormous Changes at the Last Minute, 1974), traduzione di Marisa Caramella, Milano, La Tartaruga, 1982, p. 161.
Più tardi nel pomeriggio, traduzione di Laura Noulian, Prefazione di Fernanda Pivano, Milano, La Tartaruga, 1987, p. 181.
In autobus e altre poesie, a cura di C. Daniele, Edizioni Empiria Ass. Cult, 1993.
Piccoli contrattempi del vivere. Tutti i racconti, Torino, Einaudi, 2002, p. 368.
L’importanza di non capire tutto (Just as I Thought, 1998), Collana Einaudi Stile Libero, Torino, Einaudi, 2007, p. 276, ISBN978-88-0617-077-6. [miscellanea di articoli, ricordi autobiografici, conversazioni, saggi]
Fedeltà (Fidelity, 2008), traduzione di L. Brambilla e P. Cognetti, Prefazione di Paolo Cognetti. Con un ricordo di A.M. Homes, Minimum Fax, 2011, ISBN978-88-7521-305-3. [postumo]
Tutti i racconti (The Collected Stories, 1994), traduzione di I. Zani, Sur, 2018, ISBN978-88-6998-139-5.
Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, (House: Some Instructions, 19?), prefazione di Paolo Cognetti.Trad.Isabella Zani e Paolo Cognetti, Sur, 2022 ISBN 978-88-699-8286-6
Ricezione italiana
Nel 2012 fu pubblicato un libro a lei dedicato L’arte di ascoltare. Parole e scrittura in Grace Paley, scritto da Annalucia Accardo, professoressa di Letteratura americana alla Sapienza Università di Roma (i suoi percorsi di ricerca e le sue pubblicazioni attraversano identità marginali e ribelli della cultura americana).
“Il poeta comincia dove finisce l’uomo”, così sentenziava il filosofo spagnolo José Ortega Y Gasset. Santa Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa, nella sua profonda esperienza mistica, si è servita anche della poesia, oltreppassando così con i suoi componimenti quel guado che divide l’uomo dall’infinito.
Eppure troppe volte sono stati dimenticati i suoi versi in cui è possibile trovare un vero e proprio scrigno di bellezza e di spiritualità. Al loro interno, infatti, è possibile persino scovare quella che sarà poi conosciuta comunemente la “trasverberazione del cuore”, una delle grazie mistiche di cui santa Teresa spiegherà nella sua Vita, l’autobiografia della santa: il dardo, la “freccia” dell’Amore di Dio colpisce il suo cuore, lo tramuta e lo sublima facendolo avvicinare al Cuore di Dio in nozze mistiche. Nozze che, in molte occasioni, sembrano essere celebrate dalla santa nei suoi componimenti poetici: santa Teresa ascende a Dio così come discende nelle profondità della poesia.
Sfogliando queste pagine poetiche, è possibile dividere la produzione in versi in tre determinati gruppi: prima di tutto troviamo le poesie mistiche nelle quali si respira tutta la spiritualità della santa; il secondo gruppo comprende le poesie che hanno come oggetto le feste liturgiche come il Natale, l’Epifania o l’Esaltazione della Croce; e, infine, il terzo gruppo, scritte – come lei stessa le definisce – con “stile di fratellanza e di ricreazione”: sono versi che celebrano avvenimenti interni alla comunità religiosa per allietare le consorelle della comunità monastica.
Tre diverse situazioni poetiche, ma con un elemento in comune ben preciso: la Bellezza. Santa Teresa è stata sempre affascinata – fin dalla fanciullezza – dalla bellezza artistica, nelle sue diverse espressioni, ma specialmente era attratta dall’arte pittorica e scultorea. Più volte, nel libro della sua Vita, si sofferma sul piacere che prova per l’armonia scaturita dalla musica del fruscio della campagna che la circonda. Più volte si sofferma sulle note di una canzone che ha ascoltato. E’ proprio questo, infondo, l’humus dell’anima da cui nasceranno i suoi versi, frammenti poi di una Bellezza ancora più vasta, quella del Signore. Un riassunto della sua visione poetica è possibile trovarlo in questi suoi versi che delineano, tratteggiano con efficacia il suo animo poetico dedicato a Dio: “Bellezza che trascendi/ ogni bellezza!/ Senza ferire, fate soffrire;/ senza dolore, voi fate morire”. Passare in rassegna tutte le poesie che ha composto santa Teresa sarebbe impresa alquanto ardua visto la molteplicità di temi affrontati. Cercheremo, allora, di fare una breve selezione.
Vivo sin vivir en mi (Vivo ma non vivo in me) è questo il nome di una delle poesie-canzoni più importanti della sua produzione. I versi racchiudono ossimori e altre figure retoriche assai care ai poeti, di ogni epoca: “Vivo ma non vivo in me/e attendo una tal vita/ da morirne se non muoio”.
E ancora “Questa divina prigione/ dell’amore in cui vivo,/ ha reso Dio, mio prigioniero/ e libero il mio cuore;/ e causa in me tanta passione/ da morirne se non muoio”. Del tutto particolare, rimane la seconda tipologia di produzione, quella legata alle feste liturgiche. Il loro maggior merito è quello di aver introdotto nei monasteri carmelitani il ricorso alla poesia come componente festiva della vita religiosa. Un tema fondamentale – e non poteva essere altrimenti – per l’ordine carmelitano è quello della Croce che santa Teresa canta in diversi componimenti da condividere con le proprie consorelle. E’ il caso di En la Cruz está la vida (Nella Croce risiede la vita), composta per le religiose del monastero di Soria, in occasione della festa dell’Esaltazione della Santa Croce: “Le religiose la cantano durante la processione che fanno in detto giorno per i corridoi del monastero, recandosi al luogo della sepoltura comune, sotto il coro inferiore. E’ una funzione commovente: si procede a croce alzata, e le religiose tengono in mano rami di palma e di olivo”, così si legge in un antico manoscritto.
I versi che santa Teresa compone per quest’occasione sono versi dal ritmo serrato, scandito da sillabe che vengono cadenzate in rima. Bisogna ricordare che questi componimenti vivevano poi dell’improvvisazione delle consorelle. Si può, dunque, solo immaginare l’effetto vero e proprio che potevano avere. Altra occasione, il Santo Natale: nei monasteri carmelitani si respirava un’aria di particolare gioia durante le feste natalizie; ogni comunità aveva le sue modalità di festeggiare e molte di queste sono state introdotte dalla stessa Santa Teresa e dall’altro poeta carmelitano, San Giovanni della Croce. E’ possibile trovare il tema della notte santa nelle seguenti poesie: Pastores que veláis (Pastori che vegliate), nel componimento Al nascimento de Jesús (Per la nascità di Gesù), e ancora nella graziosa canzone En la noche de Navidad (Nella notte di Natale).
L’entrata di una nuova sorella nel Carmelo era poi celebrata come una grande festa. Ed è così che nascono per queste occasioni speciali alcuni poemetti che riescono a offrirci una sorta di fotografia della vita nei monasteri del Carmelo: “Il leggiadro vostro velo/ dice a voi di stare in veglia/ di montar la sentinella, fino a che lo Sposo venga./ Nella vostra mano accesa/ sempre abbiate una candela;/ sotto il velo state in veglia”.
Articolo di Antonio Tarallo
Santa Teresa, una voce poetica votata al Signore; un forziere di ricordi e immagini che andrebbe riscoperto perché la mistica passa anche per la poesia.
Poesia spagnola : SANTA TERESA D’AVILA
. TERESA D’AVILA: POESIE
Vivo ma non vivo in me,
e attendo una tal alta vita,
che muoio perchè non muoio.
(Vivo sin vivir in mi,
y tan alta vida espero
que muero porque non muero.)
Vivo già fuori di me,
giacchè muoio d’amore,
perchè vivo nel Signore,
che mi volle tutta a sè.
Quando il cuore gli donai
vi scrissi questa frase:
che muoio perchè non muoio.
(Vivo ya fuera de mi,
despuès que muero de amor,
porquè vivo en el Senòr,
que me quiso para sì.
Cuando el corazon le dì
puso en el este letrero,
que muero porquè no muero.)
Questa prigione divina
dell’amore in cui io vivo,
ha reso Dio mia preda,
e libero il mio cuore,
mi fa nascere tal passione
veder Dio mio prigioniero,
che muoio perchè non muoio.
(Esta divina prisòn,
de amor en què yo vivo,
ha hecho a Diòs mi cautivo,
y libre mi corazòn;
y causa en mì tal pasiòn
ver a Diòs mi prisonero,
que muero poquè no muero
Guarda come l’amore è forte;
guarda che sol mi resta
di perderti per guadagnarti.
Venga subito la dolce morte,
venga leggero il morir,
che muoio perchè non muoio.
(Mira que el amor es fuerte;
vida,no me seas molesta,
mira que solo me resta,
para ganarte perderte.
Venga ya la dulce muerte,
el morir venga ligero
que muero porquè no muero.)
Ebbene, questa è una traduzione attuale, ma molto affine allo scritto di Teresa, che ritengo più moderno di quanto non sia la versione “ufficiale” tratta dalle Opere della Santa Madre. Sono spiacente di dover dire; coloro che hanno tradotto questo incanto di poesia, in un linguaggio poetico, ma antico, hanno modificato, per seguire lo stile del tempo, anche ciò che Teresa voleva significare.
Riporto una porzione di testo che appare sulle Opere:
Più in me non vivo e giubilo (Teresa non l’ha detto, che giubila) vivo nel mio Signore
Per se mi volle, e struggomi or per intenso ardore
Gli detti il cuor, e in margine
Scrissi con segni d’oro (non dice neppure questo) Moro perché non moro ( che è una forma in disuso, meglio tradurre in muoio)
E non proseguo, poiché questa traduzione non corrisponde del tutto a quanto Teresa scrisse.
Molte poesie composte da Santi autori, ma anche in genere da tutti i poeti stranieri, in lingua madre, sono state tradotte, per rispettare le rime, la metrica, ecc. in modo tanto astruso, da modificare radicalmente il senso che l’autore voleva dare alla sua opera. Se quindi ho scritto, nel mio precedente articolo su Santa Teresina, che sarebbe bene possedere le opere dei nostri santi carmelitani, ora aggiungo che varrebbe la pena acquistarle in lingua originale, oppure tradotte in modo più aderente al pensiero dell’autore e in un linguaggio adeguato al nostro tempo.
I testi delle opere di Santa Teresa di Gesù sono ancora attualissimi, moderna donna del ‘500 e moderna Santa anche ora, nel terzo millennio! Vi invito a leggerli, o meglio ancora a leggerli con chi ne sa più di noi e possa così approfondirne il pensiero. Io ne sono rimasta affascinata, Teresa si è dimostrata una donna di grande carattere, e nella sua “determinada determinacion” ha raggiunto tutte le mete stabilite, sia quelle della terra (fondazioni) che quelle del Cielo!! (un’unione dell’anima, totale e perfetta, con il Signore).
Nel 2015 ci sarà grande festa in suo onore, per i 500 anni dalla nascita che è avvenuta il 28 marzo 1515.
Pubblicato da Danila Oppio
Felicità di chi ama
Libero e lieto è il cuore innamorato
Che tutto e solo si concentra in Dio.
Per Lui rinuncia ad ogni ben creato,
per Lui si lascia in disdegnoso oblio.
Il suo pensiero è tutto in Lui sacrato,
ed Ei l’appaga in ogni suo desio.
Così, fra mezzo a questo mar sconvolto,
passa sereno nella pace avvolto.
Innanzi alla bellezza di Dio
Bellezza incomparabile
Ch’ogni bellezza anneri,
innanzi a Te che l’anima
senza ferir feri,
ogni terreno amore
non con rimpianto muore.
Nodo che insiem sì varie
Cose congiungi e tieni,
deh! Non ti scior! Se l’anima
stretta al suo Dio trattieni,
in gioie senza uguali
mutansi tosto i mali.
Quei che non è, all’Essere
Che non ha fine unisci;
m’ami senza mio merito;
senza finir finisci.
Innanzi a Te, o Possente,
fai grande il mio niente.
Lamenti dell’esilio
Cammino interminabile,
lungo e crudele esilio,
terra in cui debbo vivere,
soggiorno di perielio!
Signore amabilissimo,
concedimi d’uscire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Da Te lontana, l’anima
struggesi in duolo e in pianto:
la vita è triste e lugubre,
priva d’alcun incanto.
Ohimè! Infelice e misera,
costretta qui a soffrire!…
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Morte, benigna ascoltami,
soccorri a tante pene,
vibra i tuoi colpi amabili,
spezza le mie catene!
Che gioia, o Dilettissimo,
lassù con Te venire!…
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
L’amor terreno avvinghia
a questa triste vita,
ma l’alto amor etereo
verso quell’altra incita.
No, non si può più reggere:
altrove è il mio desire.
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Questo terreno vivere
è un’iterata guerra:
la vera vita vivesi
oltre la grama terra.
Schiudi, Signor, l’empireo,
fammi con Te venire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Chi potrà mai dolersene
Se questo fral perisce,
quando in tal modo acquistasi
il Ben che mai svanisce?
Amarti, amarti, o Amabile,
amarti e mai finire.
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
L’anima afflitta spasima
senza trovar ristoro.
Ma chi potrìa non piangere
lungi dal suo Tesoro?
Vieni, Signore, ascoltami,
non farmi più soffrire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Se con sottile astuzia
togliesi al suo elemento
il pesce muore e termina
ogni altro suo tormento.
Io qui invece struggimi
lungi da te a patire…
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Invano, o Dio, ti supplico,
invan ti cerco e bramo:
ognora a me invisibile,
non senti che ti chiamo:
onde infiammata spasimo
mai stanca di ridire
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Quando nei candid’Azzimi
scendi nel petto mio,
tosto il pensiero angustiami
che poi n’andrai, mio Dio.
E allor diffusa in lacrime
Altro non so che dire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Cessi, Gesù dolcissimo,
quest’aspra pena mia!
Appaghisi quest’anima
che Te, Signor, desia!
Fugate alfin le tenebre,
possa pur io gioire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Ma no, Signor! Innumeri
sono i miei falli rii:
è giusto che qui spasimi
che qualche cosa espii.
Alfin, però, i miei gemiti
Degnati d’esaudire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Teresa d’Avila
(carmelitana scalza)
Canto a Gesù crocifisso
Se elevo a te, mio Dio, il mio grido d’amore,
non è affatto per il cielo che ci hai promesso;
e non è neppure l’inferno, con i suoi territori,
che mi fa allontanare dal tradirti.
Ma io ti amo, mio Dio, vedendoti così,
inchiodato su questa croce imporporata dal tuo sangue.
Sono le tue piaghe che amo, ed è la tua morte,
quel che amo è il tuo amore.
Al di là dei tuoi doni e delle tue speranze,
quand’anche non vi fossero né cielo, né inferno,
io lo so, mio Dio, che t’amerei ancora.
Amarti è mia felicità tanto quanto mio dovere.
Non mi accordare nulla, dunque, anche se t’imploro:
l’amore che ho per te non ha bisogno di speranza.
( Teresa d’Avila Carmelitana scalza)
anno 4 – N° 18
13 Dicembre 2019
Santa Teresa d’Avila (Teresa de Cepeda y Ahumada) nacque a Gotarrendura, Avila, il 28 marzo del 1515. Nel 1534 entrò nell’ordine del Carmelo. Fondò diversi conventi che chiamo “colombaie della Vergine”, con l’aiuto del monaco carmelitano Juan de Yepes Álvarez, più conosciuto come San Giovanni della Croce, uno dei più grandi poeti di lingua spagnola. Insieme fondarono l’Ordine dei Carmelitani scalzi. Santa Teresa morì ad Alba de Torres il 4 ottobre 1582. Fu canonizzata nel 1622 e proclamata Dottore della Chiesa da Paolo VI nel 1970.
Santa Teresa compose molte poesie ed ebbe la fama di essere una brava “tracciatrice di versi”. Li scriveva per rendere meno monotona, con una spruzzata di sorrisi, la vita dei suoi conventi e la stanchezza dei suoi continui viaggi di fondatrice. È comunque difficile individuare le vere poesie della Santa. C’erano tra le sue consorelle altrettante buone “tracciatrici di versi” come, per esempio, María de San José. Quelle sicuramente sue superano di poco la trentina. Ne abbiamo appena pubblicate 15 con la versione in italiano a opera dell’infaticabile Emilio Coco.
MUERO PORQUE NO MUERO
Vivo sin vivir en mí
y de tal manera espero,
que muero porque no muero.
Vivo ya fuera de mí,
después que muero de amor,
porque vivo en el Señor,
que me quiso para sí:
cuando el corazón le di
puso en mí este letrero:
Que muero porque no muero.
Esta divina prisión,
del amor con que yo vivo,
ha hecho a Dios mi cautivo
y libre mi corazón;
y causa en mí tal pasión
ver a mi Dios prisionero,
que muero porque no muero.
¡Ay, qué larga es esta vida!
¡Qué duros estos destierros!
Esta cárcel y estos hierros
en que el alma está metida!
Sólo esperar la salida
me causa un dolor tan fiero,
que muero porque no muero.
¡Ay, qué vida tan amarga
do no se goza el Señor!
Porque si es dulce el amor,
no lo es la esperanza larga:
quíteme Dios esta carga,
más pesada que el acero,
que muero porque no muero.
Sólo con la confianza
vivo de que he de morir,
porque muriendo el vivir
me asegura mi esperanza;
muerte do el vivir se alcanza,
no te tardes, que te espero,
que muero porque no muero.
Mira que el amor es fuerte;
vida, no me seas molesta,
mira que sólo me resta
para ganarte o perderte.
Venga ya la dulce muerte,
el morir venga ligero
que muero porque no muero.
Aquella vida de arriba,
que es la vida verdadera,
hasta que esta vida muera,
no se goza estando viva:
muerte, no me seas esquiva;
viva muriendo primero,
que muero porque no muero.
Vida, ¿qué puedo yo darte
a mi Dios, que vive en mí,
si no es el perderte a ti
para merecer ganarte?
Quiero muriendo alcanzarte,
pues tanto a mi Amado quiero,
que muero porque no muero.
MUOIO PERCHÉ NON MUOIO
Vivo ma in me non vivo
e fino a tal punto spero
che muoio perché non muoio.
Vivo ormai fuori di me
dopo esser morta d’amore,
perché vivo nel Signore,
che mi ha voluta per sé:
quando gli ho dato il mio cuore
vi ha scritto queste parole: Che muoio perché non muoio.
Questa divina prigione,
dell’amore con cui io vivo,
Dio ha reso mio prigioniero
e ha liberato il mio cuore;
e mi dà tanta passione
veder Dio mio prigioniero che muoio perché non muoio.
Com’è lunga questa vita!
Com’è duro quest’esilio!
Il carcere e questi ceppi
in cui l’anima si trova!
Solo aspettarne l’uscita
mi causa un tale dolore, che muoio perché non muoio.
Ah, che vita così amara
se non si gode il Signore!
Perché se è dolce l’amore,
non lo è la lunga speranza;
toglimi Dio questo peso,
più pesante dell’acciaio, che muoio perché non muoio.
Vivo con la sicurezza
che un giorno dovrò morire,
perché il vivere, morendo,
mi assicura la speranza;
morte in cui vita s’ottiene,
non tardare, che ti aspetto, che muoio perché non muoio.
Guarda che l’amore è forte;
vita, non mi molestare,
guarda che solo mi resta
perderti per guadagnarti.
Venga ormai la dolce morte,
venga il morir senza indugio che muoio perché non muoio.
Quella vita di lassù
che è la sola vera vita,
fino a che questa non muore,
non si gode essendo viva:
morte, non essermi schiva;
che io viva morendo prima, che muoio perché non muoio.
Vita, che altro posso dare
al mio Dio che vive in me,
se non il perdere te
per poterti guadagnare?
Voglio morendo raggiungerti,
ché bramo tanto il mio Amato, che muoio perché non muoio.
Matilde Juva Branca -Bella come una dea, elegante come una diva
Articolo di Anselmo Pagani
Bella come una dea, elegante come una diva-La cantante lirica Matilde Juva Branca ci osserva con una punta di distaccata alterigia, consapevole del proprio fascino.
Indossa un prezioso abito di seta nera, dal quale fuoriescono i candidi pizzi che ne orlano la camicia in corrispondenza del petto e delle maniche.
“Ritratto di Matilde Juva Branca”, di Francesco Hayez, 1851, G.A.M., Milano
Nella mano sinistra impugna un guanto di pelle foderata che fa da pendant con quello che le ricopre la destra, in una posizione che ricorda un famoso capolavoro rinascimentale, “l’Uomo col guanto” di Tiziano.
La sua figura slanciata e sensuale è esaltata al vitino che, stretto nel busto rigido tipico di quegli anni, ne esalta il generoso décolleté trasformandola in un’icona della femminilità, accresciuta dai lunghi capelli neri arricciati all’ultima moda.
Figlia del facoltoso mercante e mecenate Paolo Branca, insieme alle sorelle Matilde animò uno dei più prestigiosi e attivi salotti culturali della Milano di metà Ottocento.
Il celebre ritrattista Francesco Hayez così ci presenta, in un dipinto realizzato nel 1851, una delle più note “star” dell’epoca, una Signora che fece letteralmente perdere la testa a tanti uomini, inclusi politici quali il Conte di Cavour e compositori del calibro di Donizetti e Rossini, che le dedicarono alcune arie.
Peccato però che le loro recondite speranze siano andate deluse, perché Matilde fu sempre un esempio di perfetta moralità e fedeltà coniugale, restando fedele al marito Giovanni Juva, che per immortalarne la bellezza commissionò quest’opera ad uno dei più famosi e ben pagati artisti dell’epoca.
Rimasto di proprietà della famiglia sino al 1893, quando fu donato al Comune di Milano, è strano che un simile capolavoro non abbia inizialmente ottenuto il meritato apprezzamento, dovendo attendere fino alla Biennale di Venezia del 1922 per conoscere la giusta fortuna.
Accompagna questo scritto il “Ritratto di Matilde Juva Branca”, di Francesco Hayez, 1851, G.A.M., Milano
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.