Giorgio de Santillana-Le origini del pensiero scientifico-
Traduzione di Giulio De Angelis-A cura di Mauro Sellitto ADELPHI EDIZIONI
Risvolto della ADELPHI EDIZIONI.Se nel Mulino di Amleto ci ha introdotto al «pensiero arcaico», mostrandoci come il mýthos, che si vorrebbe contrapposto al lógos, sia invece a sua volta una «scienza esatta», qui Giorgio de Santillana si sofferma sull’impronta lasciata da quelle remote scaturigini sulla forma mentis tecnoscientifica. In questa cornice il «pensiero scientifico» delle origini, tra cesure e continuità rispetto a quello «mitico», assume connotazioni inedite, in un percorso millenario che va da Parmenide a Eraclito a Pitagora, dalla medicina della scuola ippocratica alla svolta fisicocosmologica di Leucippo e Democrito, dai sofisti e Gorgia alla grande cattedrale platonica e alla sintesi di Aristotele, per arrivare a Tolomeo e Plutarco. E alla fine del percorso risalterà nitidamente non solo come le conquiste della «scienza greca» siano state il punto di partenza della nostra scienza, ma anche come l’usurata contrapposizione tra sapere umanistico e scientifico costituisca, fin dalle origini, una prospettiva deviante e infondata.
In copertina
Pittore di Edimburgo, Odisseo e le Sirene (500 a.C. ca). Museo Archeologico Nazionale, Atene.
LE ORIGINI DEL PENSIERO SCIENTIFICO
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
Questo lavoro non vuol essere uno studio sistematico. Dati i limiti di spazio che gli furono rigidamente imposti, esso mira solo a impostare i temi fondamentali della scienza nel mondo antico, entro il quadro più generale del pensiero dei tempi, e presentandola sin dall’inizio come una componente essenziale della cultura in senso lato. Per chi vuole i particolari tecnici, vi sono già opere a sufficienza. La serie di cui questo è il primo volume è stata progettata in sostanza come una scelta di testi originali, accompagnati da una esposizione che ne fornisse il contesto storico. Le grandi idee attraverso cui il pensiero scientifico ha agito sulla cultura sono semplici e limpide nel sorgere. Il compito mio fu di coglierle in partenza e chiarirle, così che nei volumi che seguiranno per opera di vari autori, il lettore possa scorgerne lo svolgimento an che in chiavi diverse, e seguirne l’influenza, così di versa dalle previsioni, nella dialettica della storia $no ad oggi.
Il libro fu pensato e scritto in inglese. Al dottor Giulio De Angelis tengo ad esprimere la mia gratitudine per aver portato a buon termine una trasposizione che mi sembrava impossibile. Ma ove traspaia nel la versione quel che di piano, se non dimesso, di allusivo e di un po’ scherzoso è nell’indole dell’inglese d’oggi, e apparirà sempre estraneo alla natura del paludato parlare italiano, spero che il Discreto Lettore vorrà comprendere e perdonare.
Cambridge, Mass. Massachusetts Institute of Technology 12 marzo 1964
San Lorenzo Siro, Vescovo di Sabina e fondatore dell’Abbazia di Farfa.
Come mai San Lorenzo Siro, dalla lontana Siria venne a finire in Sabina? La Siria e la Palestina nel sec. V erano infestate dagli eretici ariani, i quali perseguitavano , in ogni modo, i fedeli cristiani. Allora molti lasciarono i loro paesi e vennero in Italia , specialmente a Roma per venerare le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo e quelle dei Martiri cristiani.
Tra costoro vi era anche San Lorenzo, con la sorella Susanna ed i fidi compagni Isacco e Giovanni. San Lorenzo , dopo una breve visita a Roma, prese ad evangelizzare l’Umbria e la Sabina.
San Lorenzo Siroè il fondatore dell’Abbazia di Farfa,in provincia di Rieti. Giunse in Italia dalla Siria nel V secolo, durante le persecuzioni degli eretici ariani in Oriente. Arrivato in Italia insieme alla sorella Susanna ed alcuni monaci si stabilì sul monte Luco sopra Spoleto inaugurandovi la vita eremitica e diffondendo tutto intorno le parole del Vangelo. Successivamente si trasferì in Sabina per evangelizzare anche questa terra confermando ovunque la sua predicazione con frequenti miracoli; fu detto il Santo Illuminatore per le guarigioni dalle malattie degli occhi e il Liberatore per la liberazione dai dragoni che infestavano quelle zone. Dopo aver evangelizzato l’Umbria e la Sabina divenne vescovo, infatti è quasi certa l’identificazione di Lorenzo Siro con il vescovo di Forum Novum (l’odierna Vescovio). Desideroso ormai di quiete pose lo sguardo sulle amene colline della vallata del Farfa, sul monte Acuziano, alle cui falde il deserto tempio di Vacuna e l’abbandonata villa romana andavano in rovina. Vacuna era una dea del popolo degli antichi Sabini, il suo culto molti secoli fa fu sostituito con quello della Madonna. A Farfa San Lorenzo Siro fermò il piede, riprese con i suoi compagni la vita eremitica e gettò le basi dell’Abbazia. Morì in odore di santità proprio a Farfa dove è sepolto, lasciando un ricordo destinato a durare nei secoli. La sua fama e quella del monastero da lui fondato si propagò nelle regioni vicine e molti vennero a Farfa per consacrarsi a Dio-[ Testo di Andrea Del Vescovo ]
San Lorenzo Siro Illuminatore di Farfa Abate
Il più antico documento che parla di san Lorenzo Siro è un Privilegio concesso da papa Giovanni VII nel 705 al ricostruttore del monastero di Farfa, Tommaso.All’inizio della Bolla, il papa afferma che il venerabile monastero di S.Maria fu fondato da “Laurentius quondam episcopus venerandae memoriae de peregrinis veniens in feudo, qui dicitur Acutianus, territorii Sabinensis” (Bull. romanum, ed. Taurin, I, p.213). Evidentemente all’inizio del sec.VIII, stando al testo, non erano molte le notizie che si avevano su questo vescovo monaco: proveniva dall’Oriente, ma non è precisata l’epoca e non è determinata la regione de peregrinis. Cronache posteriori, come il Libellus constructionis Farfensis di un anonimo del sec. XI (in Fonti per la Storia d’Italia, a cura di U.Balzani, XXXIII, pp.1 sgg.) ed il Chronicon farfense di Gregorio da Catino, del sec. XI (ibid., XXXIX, pp.1 sgg.), aggiungono altri particolari. L. forse originario della Siria abbandonò la propria patria con la sorella Susanna ed i discepoli Giovanni ed Isacco; venne a Roma e poi in Sabina ove fu nominato vescovo. In seguito, deposta la carica, fondò un monastero in un luogo dedicato precedentemente alla dea Vacuna; ciò si sarebbe verificato nel sec. V o VI. Analoghi particolari si trovano in s. Pier Damiani (PL, CXLV, coll. 425, 445). Come si può constatare, queste ultime notizie sono identiche a quelle riferite per s. Lorenzo, vescovo di Spoleto, per cui secondo il Lanzoni, è lecito argomentare che la leggenda dei Dodici Fratelli siri del sec. VIII (BHL, I, p.246, n.1620; Suppl., p.226, n. 5791m), fra cui è annoverato un Lorenzo, ha influenzato la storia dell’omonimo fondatore di Farfa. Di due personaggi se ne sarebbe fatto uno solo mettendo assieme le notizie riguardanti il vescovo di Spoleto e l’abate di Farfa. La scarsezza delle notizie può aver determinato i cronisti medievali a questa identificazione e confusione. Stando al Lanzoni si devono pertanto distinguere due Lorenzo: uno vescovo di Spoleto, l’altro abate di Farfa, vissuti in epoche molto diverse. Di un culto assai antico si ha menzione nel Martirologio di Farfa (cf. I. Schuster, in Revue Bénédictine, XXVII [1910], p. 86, nota 3): culto che ebbe un Ufficio proprio fino al 1636. Benedetto XIV lo estese alle diocesi della Sabina (cf. De servorum Dei beatificatione, IV, p. II, cap. VI, n. 2). La sua festa si celebra l’8 luglio.
Erik Larson-Il giardino delle bestie Berlino 1934-Neri Pozza Editore
Traduttore Raffaella Vitangeli-Neri Pozza Editore
Descrizione del libro di Erik Larson.Questo libro narra della storia vera di William E. Dodd e di sua figlia Martha, un padre e una giovane donna americani che si ritrovano improvvisamente trapiantati dalla loro accogliente casa di Chicago nel cuore della Berlino nazista del 1934. Sessantaquattro anni, snello, gli occhi grigio-azzurri e i capelli castano chiaro, nel 1933 William E. Dodd è un rispettabile professore di storia all’università di Chicago. Mentre siede alla sua scrivania all’università, Dodd riceve una telefonata da Franklin Delano Roosevelt, il presidente degli Stati Uniti, che gli annuncia la sua intenzione di nominarlo a capo della rappresentanza diplomatica americana a Berlino. Ed è cosi che, al loro arrivo, William e Martha si ritrovano ad attraversare una città addobbata di immensi stendardi rossi, bianchi e neri; a sedere negli stessi caffè all’aperto frequentati dalle SS in uniforme nera; a passare davanti a case con balconi traboccanti di gerani rossi; a fare acquisti nei giganteschi empori della città, a organizzare tè, aspirare le fragranze primaverili del Tiergarten, il parco principale di Berlino; ad avere rapporti sociali con Goebbels e Göring, in compagnia dei quali cenare, danzare e divertirsi allegramente; finché, alla fine del 1934, accade un evento che smaschera la vera natura di Hitler e del potere a Berlino, la grande e nobile città che agli occhi di padre e figlia si svela per la prima volta come un immenso Tiergarten, un giardino delle bestie.
Erik Larson
Erik Larson
Biografia di Erik Larson-Nato a Brooklyn 1954- Collaboratore di Time, New Yorker, Atlantic Monthly, Harper’s e altre prestigiose riviste americane, ha scritto numerose opere, tra le quali si segnalano Isaac’s Storm (1999) e The Devil in the White City: Murder, Magic and Madness at the Fair That Changed America (2003), libro vincitore dell’Edgar Award in the Best Fact Crime 2004. In Italia sono già stati pubblicati Il giardino delle bestie (Neri Pozza, 2012) e Guglielmo Marconi e l’omicidio di Cora Crippen (Neri Pozza, 2014).
Nel 2015 esce Scia di morte. L’ultimo viaggio del Lusitania, ricostruzione dell’affondamento di un transatlantico americano ad opera della marina militare tedesca, avvenuto nel 1915. Nel 2016 pubblica Il diavolo e la città bianca.
Vive a Seattle con la moglie e tre figlie.
DESCRIZIONE –TORRETTA TROILI– Nota di Roberto Castracane-Fotoreportage di Franco Leggeri-Al punto di congiunzione delle Vie Aurelie, Vecchia e Nuova, un centinaio di metri sulla destra(spalle a piazza Irnerio) si trova Via dei Faggella dove è situata la Torretta TROILI che prende il nome degli ultimi proprietari che hanno posto sul fronte dell’edificio il loro stemma marchionale. La Torretta , a basa quadrata, misura 5 metri per lato ed è alta 8 metri. La struttura muraria è tipica del Medioevo. L’edificio è stato realizzato con materiali di recupero, laterizi, sfridi di marmo, scaglie di selce, il tutto tenuto insieme da una abbondante malta. Lo spessore del muro della Torretta è di circa un metro, quindi, non particolarmente eccezionale. Nella parte superiore la struttura è di uno spessore inferiore al metro. La Torretta si affacciava , ora è circondata da alti edifici, sul Fosso di Val Canuta e in ottima posizione , a suo tempo, per poter sorvegliare il territorio e gli eventuali eserciti che si avvicinavano a Roma protetti dalla Campagna e per evitare di essere avvistati se avessero utilizzato la Via Aurelia. La Torretta fu utilizzata come punto Trigonometrico dall’Istituto Geografico Militare(IGM), ora Punto Fiduciario. Il luogo su cui sorge la Torretta è noto con l’appellativo “CONNEOLUS” ed è ricordato tra i possedimenti della Chiesa romana sin dai tempi di Papa Onorio I (625-638) . La successiva trasformazione del nome in “CANUTOLI” , testimoniata in documenti del secolo XI, ci fa meglio intendere la derivazione originaria del termine , oggi VALCANNUTA, dalla presenza nella zona di numerosi canneti.Il “fundus “ appartenne , sin dal XIII secolo alla Basilica di San Pietro. In seguito fu venduto alla Famiglia Santacroce.La Torretta, anche se oggi è stata trasformata in abitazione, è abbastanza ben conservata nella sua struttura originale.
Con la locuzione Campagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino. Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
-Ricerche Bibliografiche di Franco Leggeri per l’Associazione CORNELIA ANTIQUA-
Fotoreportage di Franco Leggeri per l’Associazione CORNELIA ANTIQUA-
Roma-Torretta TROILIAssociazione CORNELIA ANTIQUA-Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali.Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo !Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–Roma-Torretta TROILIAssociazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-Roma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILI
Roma Gianicolo-Monumento ad Anita Garibaldi–Fotoreportage di Franco Leggeri–Anita Garibaldi si spegne la sera del 4 agosto 1849: non aveva ancora 28 anni. Al Gianicolo a Roma , un bel monumento dove si trova la tomba di Anita ,illustra, con fervore patriottico, il momento più tragico della rivoluzione italiana del 1849.Una statua equestre in bronzo raffigura l’eroina dei due mondi in uno degli episodi più celebri della sua vita: la cattura nell’accampamento di Sao Luis. Qui sono custodite le sue spoglie, riesumate dalla sua tomba di Nizza e trasportate in Italia nel 1932.
Roma Gianicolo-Monumento ad Anita Garibaldi
Associazione CORNELIA ANTIQUA– Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali.Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo !Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–
Roma Gianicolo-Monumento ad Anita GaribaldiRoma Gianicolo-Monumento ad Anita Garibaldi
Roma Gianicolo-Monumento ad Anita GaribaldiRoma Gianicolo-Monumento ad Anita GaribaldiRoma Gianicolo-Monumento ad Anita GaribaldiRoma Gianicolo-Monumento ad Anita Garibaldi-
ANITA GARIBALDI –Breve biografia
(30 agosto 1821- 4 agosto 1849)
Ana Maria De Jesus Ribeiro nasce il 30 agosto 1821 nello Stato di Santa Caterina nell’estremo sud del Brasile. È la terzogenita di dieci figli di una famiglia contadina povera e, proprio per emanciparsi da una condizione di estrema indigenza, a soli 14 anni va in moglie a Manuel Giuseppe Durante de Aguiera, calzolaio: una convivenza, secondo i biografi, destinata a durare poco tempo.
Ana, detta Anita, conosce Garibaldi quando lei ha 18 anni e lui, già oltre la trentina, è impegnato a guidare le truppe farroupillas, ‘straccione’, e repubblicane del Rio Grande del sud in lotta per la propria indipendenza dall’Impero brasiliano. Così il generale racconta l’incontro: “Entrammo, e la prima persona che si affacciò al mio sguardo era quella il cui aspetto mi aveva fatto sbarcare. Era Anita! La salutai finalmente, e le dissi: ‘Tu devi essere mia!’ Parlavo poco il portoghese, ed articolai le proterve parole in italiano. Comunque io fui magnetico nella mia insolenza. Avevo stretto un nodo, sancita una sentenza, che solo la morte poteva infrangere. Io avevo incontrato un tesoro proibito, ma un tesoro di gran prezzo”. Il 16 settembre 1840 nasce Menotti Domingo, mentre il matrimonio tra i due sarà celebrato nella chiesa di San Francesco a Montevideo, il 26 marzo 1842. Sempre nella capitale uruguaiana, nel 1843 viene al mondo Rosita, che morirà ad appena due anni. Nel 1845 vede la luce Teresita e nel 1847 Ricciotti. Nel 1848 Anita e i figli seguono Garibaldi in Italia, intenzionato a battersi nella Prima guerra d’indipendenza. La famiglia si sistema a Nizza, ma Anita non sopporta a lungo la separazione dal marito e lo raggiunge a Roma nel febbraio 1849 per partecipare all’eroica vicenda della Repubblica romana. In aprile riparte per Nizza per rivedere i figli e nel mese di giugno rientra fortunosamente in città nonostante l’assedio francese. Intanto, mentre la situazione di Roma si fa sempre più disperata, procede la sua quinta maternità. Uscita da Roma a cavallo, il 2 luglio 1849, insieme al marito e a circa 4000 combattenti della Repubblica Romana, Anita partecipa al disperato tentativo di Garibaldi di raggiungere Venezia, ultimo baluardo della resistenza italiana ed europea al ricostituito potere austriaco. Con l’incoraggiamento di reazionari e moderati ben quattro eserciti, per un totale di 65mila uomini in armi, danno la caccia alla colonna garibaldina che fame, diserzioni e agguati contribuiscono progressivamente a decimare. Anita sta male: alle sofferenze della gravidanza si aggiungono le fatiche della fuga, gli strapazzi e una febbre malarica probabilmente contratta dalla giovane donna nella campagna romana in uno dei suoi pericolosi rientri a Roma. Prima Todi, poi la Repubblica di San Marino, quindi Cesenatico accolgono generosamente i superstiti garibaldini. Qui Garibaldi e le 162 camicie rosse superstiti requisiscono sei bragozzi da pesca e tentano di raggiungere Venezia. L’audace iniziativa non riesce. Intercettate le imbarcazioni dalla marina austriaca, Garibaldi e Anita, ormai allo stremo, si ritrovano in fuga nella paludi di Comacchio aiutati solo da pochi amici fidati trai quali il celebre Colonnello Leggeri.
Associazione CORNELIA ANTIQUA– Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali.Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo !Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–
Giovanni Franzoni, al secolo Mario Franzoni, più noto come Dom Franzoni (Varna, 8 novembre 1928 – Canneto di Fara in Sabina, 13 luglio 2017), è stato un teologo e scrittore italiano.
Biografia di Giovanni Franzoni-Nato a Varna, in Bulgaria, dove i genitori si erano stabiliti per motivi di lavoro, tornò in Italia e trascorse la propria adolescenza a Firenze. Franzoni venne poi ammesso all’Almo collegio Capranica di Roma e iniziò la formazione al sacerdozio, nell’ordine benedettino, compiendo gli studi teologici presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. Fu ordinato sacerdote nel 1955 ed iniziò ad insegnare storia e filosofia nel collegio dell’abbazia benedettina di Farfa. Nel marzo 1964 fu eletto abate dell’abbazia di San Paolo fuori le mura a Roma e, in tale veste, partecipò alle ultime due sessioni del Concilio Vaticano II, risultando il più giovane tra i padri conciliari.
In quegli anni avviò l’esperienza della comunità cristiana di base di San Paolo, in cui si coniugava l’ascolto del Vangelo con la lettura delle situazioni politiche ed ecclesiali e la presa di posizione in senso progressista e marxista. Alcune di queste scelte, come l’opposizione al concordato tra Stato e Chiesa, la condanna verso la guerra in Vietnam e la solidarietà con le lotte operaie dell’autunno caldo, gli procurarono la contrarietà della Santa Sede che lo invitò a dimettersi dalla carica di abate, il 12 luglio 1973, pochi giorni dopo aver pubblicato la lettera pastorale La terra è di Dio. La goccia che fece traboccare il vaso fu l’aperta critica, espressa da alcuni membri della comunità cristiana di base, verso le operazioni finanziarie compiute dallo IOR che, nella primavera del 1973, avevano ricevuto la ferma deplorazione del sistema bancario internazionale.
Giovanni Battista Franzoni
« La verità è che da parte della gerarchia non si nega il diritto ad una scelta, si nega il diritto ad una scelta opposta a quella che la gerarchia stessa ha compiuto. »
(dal corsivo di Fortebraccio, Dalla parte di lor signori, l’Unità, 25 giugno 1972)
Nel 1974 prese apertamente posizione per la libertà di voto dei cattolici al referendum sul divorzio, definendolo «un bisturi necessario» e sottolineando che il matrimonio non poteva essere un sacramento per i non cattolici. Seguirono forti critiche dalle gerarchie ecclesiastiche, non meno che dagli esponenti politici della Democrazia Cristiana e la mediazione di Mario Agnes, presidente dell’Azione cattolica, oltre al sostegno espresso da David Maria Turoldo, Ernesto Balducci e Carlo Carretto, non bastarono ad evitare la sospensione “a divinis” di dom Franzoni. Il 2 agosto 1976, dopo il suo dichiarato appoggio al PCI durante la campagna elettorale, fu dimesso dallo stato clericale .
Giovanni Battista Franzoni
Continua, da allora, la sua attività di animatore della comunità di San Paolo e del coordinamento nazionale delle comunità cristiane di base, cui affianca una feconda attività di riflessione in campo ecumenico e solidale, anche collaborando con la rivista “Confronti”, da lui fondata nel 1973 con il nome di “Com-Nuovi tempi”. È uno dei protagonisti del dialogo dei cristiani con il mondo marxista e con i movimenti di liberazione in America Latina ed è impegnato nel movimento per la pace, fino alla fondazione dell’associazione “Amicizia Italia-Iraq – L’Iraq agli iracheni” (2003).
Nel 1991 si è sposato con Yukiko Ueno, una giornalista giapponese atea, conosciuta in Nicaragua alla fine degli anni ottanta. Il matrimonio è stato celebrato, con rito civile, presso l’ambasciata italiana a Tokyo.
È socio onorario dell’associazione Libera Uscita per la depenalizzazione dell’eutanasia, dopo aver assunto una posizione piuttosto critica sul caso di Eluana Englaro: l’ex prelato ha infatti dichiarato che quella della ragazza poteva definirsi “non più vita, ma tortura”[7]. Alle elezioni politiche del 2006 ha votato per il Partito dei Comunisti Italiani e alle europee del 2009 concede la sua preferenza alla Lista Anticapitalista.
Giovanni Battista Franzoni
Opere
La terra è di Dio. Lettera pastorale, Roma, COM, 1973; Roma, Com nuovi tempi, 2003.
Il mio regno non è di questo mondo. Una risposta alla notificazione della CEI sul Referendum, Roma, COM, 1974.
Omelie a San Paolo fuori le Mura, Milano, A. Mondadori, 1974.
Le comunità di base. Per la riappropriazione della parola di Dio, dei gesti sacramentali, dei ministeri, dell’autonomia politica dei credenti, Genova, Lanterna, 1975.
Tra la gente, Roma, CNT, 1976.
Il posto della fede, Roma, Coines, 1977.
Il diavolo, mio fratello, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1986.
Le tentazioni di Cristo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1990.
La solitudine del samaritano. Una parabola per l’oggi, Roma, Theoria, 1993. ISBN 88-241-0321-9.
Farete riposare la terra. Lettera aperta per un Giubileo possibile, Roma, EdUP, 1996. ISBN 88-86268-26-2.
Merda. Note di teologia delle cose ultime, Roma, EdUP, 1997. ISBN 88-86268-32-7.
Giobbe, l’ultima tentazione, Roma, Com nuovi tempi, 1997.
Lo strappo nel cielo di carta. Riso, fecondità, cibo: note di teologia delle cose ultime, Roma, EdUP, 1999. ISBN 88-86268-63-7.
Il valore dei valori. Il processo dell’educazione e la formazione della persona, con Francesco Florenzano e Salvatore Natoli, Roma, EdUP, 1999. ISBN 88-86268-71-8.
Le ombre di Wojtyla, con Mario Alighiero Manacorda, Roma, Editori Riuniti, 1999. ISBN 88-359-4801-0.
Anche il cielo è di Dio. Il credito dei poveri, Roma, EdUP, 2000. ISBN 88-86268-92-0.
La donna e il cerchio, Roma, Com nuovi tempi, 2001.
Ofelia e le altre, Roma, Datanews, 2001. ISBN 88-7981-162-2.
La morte condivisa. Nuovi contesti per l’eutanasia, Roma, EdUP, 2002. ISBN 88-8421-049-6.
La solitudine del samaritano, ovvero L’elogio della compassione, Roma, ICONE, 2002. ISBN 88-87494-26-6.
Eutanasia. Pragmatismo, cultura, legge, Roma, EdUP, 2004. ISBN 88-8421-097-6.
Del rigore e della misericordia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005. ISBN 88-498-1198-5.
Autobiografia di un cattolico marginale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, ISBN 978-88-498-39604-7.
Opere
Giovanni Battista Franzoni
I, Le cose divine. Omelie (1970-73), Il posto della fede (1977), Roma, EdUP, 2006. ISBN 88-8421-130-1.
II, I beni comuni. La terra è di Dio (1973), Farete riposare la terra (1996), Anche il cielo è di Dio (2000), Roma, EdUP, 2006. ISBN 88-8421-162-X.
IV, La donna e il cerchio spezzato. La donna e il cerchio (2001), Ofelia e le altre (2002), Roma, EdUP, 2010. ISBN 978-88-8421-220-7.
Descrizione del libro di Herman Hesse -C’è santo più italiano di Francesco? Nacque nel cuore verde d’Italia,fu un giovane gaudente, persino un po’ scapestrato,amava gli amici, le feste, l’allegria,si divertiva a cantare e comporre canzoni…
Ma non era un pusillanime nè un viziato damerino e combattè nella guerra fratricida tra assisani e perugini, nella quale fu fatto prigioniero…
Una vita, la sua, da tipico rampollo della ricca borghesia del tempo(suo padre era un mercante di tessuti).
Poi un giorno la crisi religiosa che lo trasforma in un altra persona…nel’poverello’ di Assisi,nel ‘giullare di Dio’,sbeffeggiato dagli amici di un tempo,ripudiato e denunciato dal padre.
Egli è il santo della povertà estrema,assoluta eppure gioiosa,dell amore panico per ogni essere vivente,perche tutto è stato creato e voluto da Dio,anche il dolore,anche le malattie,anche nostra sora Morte corporale a cui nessuno può scampare…
Dopo la sua di morte i seguaci si divisero tra coloro che vollero rimanere fedeli ai rigidi dettami del maestro e coloro che ritennero più ragionevole ammorbidirne il pauperismo assoluto, radicale…
Ma questa è un’altra storia.
Hermann HesseHermann Hesse
Biografia breve di Herman Hesse Scrittore tedesco (Calw, Württemberg, 1877 – Montagnola, presso Lugano, 1962).Autore tra i più significativi della prima metà del Novecento, nelle sue opere esplorò i territori della ricerca spirituale individuale spingendosi oltre ogni convenzione culturale e letteraria. Influenzato di lontano dal pietismo fiorito nella patria sveva, si rivolse al mondo orientale alla ricerca di un’umanità purificata, al di là dei contrasti del mondo moderno; determinante a tale riguardo fu l’incontro con la psicanalisi. Premio Nobel per la letteratura nel 1946, tra le sue opere più importanti occorre citare Demian (1919), Siddhartha (1922) e Der Steppenwolf (1927). Vita-Figlio di un missionario protestante e della figlia di un missionario cultore di orientalistica, fu anch’egli avviato a studi teologici, che però non concluse. Dedito stabilmente alla letteratura a partire dal 1904, si trasferì in Svizzera, di lì intraprendendo viaggi fra cui particolarmente importante quello compiuto in India nel 1911. Durante la prima guerra mondiale, cui fu avverso quale pacifista e antinazionalista, si occupò di assistenza ai prigionieri. Divenne cittadino svizzero nel 1923. Fra i molti riconoscimenti che ottenne nella seconda parte della sua lunga vita figura anche il premio Nobel per la letteratura (1946).
Hannah Arendt, La banalità del male : Eichmann a Gerusalemme
Tradotto da Piero Bernardini- Prefazione di Ezio Mauro-
Feltrinelli Editore
Descrizione- Sono passati sessant’anni da quando questo libro di Hannah Arendt uscì per la prima volta. Il resoconto del processo a Eichmann, con la sua analisi di come lo sterminio di gran parte degli ebrei d’Europa – una delle più terribili manifestazioni del Male – si fosse concretizzata a opera di uomini normalissimi, non ha perso nulla della rilevanza che aveva nel 1963. Anzi, se possibile, il suo valore si è andato accrescendo, suffragato da numerosi drammatici esempi di crudeltà e massacri perpetrati da organizzazioni e Stati che fondavano (e fondano) il perseguimento dei crimini più atroci su individui come Eichmann: persone sprovviste di qualsiasi tipo di eccezionalità, semplicemente concentrate sulla corretta esecuzione del compito loro assegnato dall’autorità. Il Male che Eichmann incarna, infatti, appare alla Arendt “banale”, e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori più o meno consapevoli non sono che piccoli, grigi burocrati. I macellai di questo secolo non hanno la “grandezza” dei demoni: sono dei tecnici, si somigliano e ci somigliano. È una verità che ciascuno è chiamato a tenere presente, specialmente in un’epoca di rinnovate tensioni, guerre e atrocità, come quella che stiamo vivendo. L’onestà intellettuale che Arendt mette in campo in questo libro, e che le valse anche diversi attacchi dallo stesso mondo ebraico, è l’unica arma che ci permette di riconoscere il Male, anche nelle sue forme più banali, quelle che potrebbero allignare in ciascuno di noi.
Hannah Arendt
Biografia di Hannah Arendt – Hannover 1906 – New York 1975–nasce da una famiglia ebrea ad Hannover, dopo gli studi universitari fu costretta ad abbandonare la Germania per motivi politici. Si rifugiò prima in Francia e poi si trasferì negli Stati Uniti d’America, dove continuò l’attività di ricerca fino alla morte . Cominciò la sua ricerca con la tesi di dottorato in filosofia sul concetto di amore in Sant’Agostino, pubblicata nel 1929. Tra i suoi maestri ricordiamo Heidegger, con il quale ebbe una relazione sentimentale Husserl. L’opera che la renderà famosa in tutto il mondo fu il saggio del 1951, intitolato “Le origini del totalitarismo”, a cui nel 1958 seguirà “La condizione umana”, titolo voluto dall’editore americano, mentre la Arendt preferiva il titolo di “Vita Activa”, conservato nella traduzione italiana del libro del 1964.
Il Borgo di TRAGLIATA-La Storia di Tragliata in pillole-Franco Leggeri Fotoreportage–Al km 29 della Via Aurelia, tra Torrimpietra e Palidoro, sulla destra, in direzione delle colline, si dirama la Via del Casale Sant’Angelo, che porta verso Bracciano.Percorrendo questa strada che si snoda in aperta campagna tra i grandi poderi coltivati o lasciati a pascolo per bovini e ovini, sulla destra al km 8,5 si diparte la via di Tragliata che porta al castello omonimo per terminare dopo pochi chilometri al crocevia con la Via di Santa Maria di Galeria, Via dell’Arrone e la Via di Boccea. Il toponimo di Tragliata, riportato in antichi documenti come Talianum o Taliata, sembra derivare da “tagliata”, nome dato ai sentieri scavati nel tufo di origine etrusca. Il Castello di Tragliata-Località molto suggestiva, abitata fin dall’antichità più remota, come testimoniato da ritrovamenti etruschi e romani inglobati nelle costruzioni successive. Il castello, eretto tra il IX e il X secolo, aveva una funzione di difesa e di avvistamento ed era collegato visivamente con altre torri circostanti, come la vicina Torre del Pascolaro; trasformato successivamente in un grande casale ad uso abitativo ed agricolo, in alcuni tratti si possono notare avanzi di muratura precedente appartenenti alle opere di sostegno del fortilizio. Allo stato attuale, Tragliata si presenta come un borgo in magnifica posizione elevata, situato com’è su di una specie di rocca isolata in mezzo alla vallata del Rio Maggiore, ed è costituito da vari fabbricati che si affacciano su di un grande spazio erboso.I fianchi della collina sono scavati in più parti dalle tipiche grotte, utilizzate nel corso dei secoli come magazzini o ricovero di animali. Di proprietà privata, il castello è stato recentemente convertito in azienda agrituristica adibita a ricezione. Interessanti i grandi silos sotterranei di epoca etrusca utilizzati per la conservazione dei cereali.
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Il Borgo di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATAI Fontanili della Campagna Romana-Borgo TragliataIl Borgo di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATAPietra miliare Via di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATAI Fontanili della Campagna Romana-Borgo TragliataIl Borgo di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATAIl Borgo di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATAOLYMPUS DIGITAL CAMERABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATASat’ISIDORO BORGO di TRAGLIATAChiesa di SANT’ISIDORO Sat’ISIDORO BORGO di TRAGLIATAChiesa di SANT’ISIDORO Sat’ISIDORO BORGO di TRAGLIATAChiesa di SANT’ISIDORO Sat’ISIDORO BORGO di TRAGLIATAChiesa di SANT’ISIDORO Sat’ISIDORO BORGO di TRAGLIATAChiesa di SANT’ISIDORO Sat’ISIDORO BORGO di TRAGLIATAChiesa di SANT’ISIDORO Sat’ISIDORO BORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATABORGO di TRAGLIATAFontanile della Campagna Romana di via di TragliataBORGO di TRAGLIATA
David Maria Turoldo- Poesie di un prete “ Resistente”
Biografia di David Maria Turoldo nasce il 22 novembre del 1916 a Coderno, in Friuli, nono di dieci fratelli. Nato come Giuseppe Turoldo, a tredici anni entra nel convento di Santa Maria al Cengio per far parte dei Servi di Maria, a Isola Vicentina, là dove si trova la sede del Triveneto della Casa di Formazione dell’Ordine Servita. È qui che trascorre l’anno di noviziato; dopo avere assunto il nome di fra’ David Maria, emette la professione religiosa il 2 agosto del 1935. Nell’ottobre del 1938 pronuncia i voti solenni a Vicenza.
David Maria Turoldo
Gli studi accademici
Intrapresi gli studi di teologia e di filosofia a Venezia, nell’estate del 1940 Turoldo viene ordinato presbitero nel santuario della Madonna di Monte Berico dall’arcivescovo di Vicenza ,monsignor Ferdinando Rodolfi. Nello stesso anno viene inviato a Milano, al convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo al Corso.
Per circa un decennio si occupa di tenere la predicazione della domenica in Duomo, su invito dell’arcivescovo Ildefonso Schuster, mentre insieme con il suo confratello Camillo de Piaz, compagno di studi nell’Ordine dei Servi, si iscrive all’Università Cattolica di Milano. Qui David Maria Turoldo si laurea l’11 novembre del 1946 in filosofia con una tesi intitolata “La fatica della ragione – Contributo per un’ontologia dell’uomo”, con il professor Gustavo Bontadini. Quest’ultimo successivamente gli propone di diventare suo assistente presso la cattedra di Filosofia Teoretica. Anche Carlo Bo gli offre un ruolo come assistente, ma per l’Università di Urbino, cattedra di Letteratura.
Dopo aver collaborato in modo attivo con la resistenza antifascista in occasione dell’occupazione nazista di Milano, David Maria Turoldo dà vita al centro culturale Corsia dei Servi e sostiene il progetto del villaggio Nomadelfia fondato nell’ex campo di concentramento di Fossoli da don Zeno Saltini.
David Maria Turoldo negli anni ’50
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta pubblica la raccolta di liriche “Io non ho mani”, con cui si aggiudica il Premio letterario Saint Vincent, e l’opera “Gli occhi miei lo vedranno”, proposta nella collana Lo Specchio di Mondadori.
Nel 1953 Turoldo è costretto a lasciare Milano, e si trasferisce prima in Austria e poi in Baviera, dove soggiorna presso i conventi dei Servi locali. Nel 1955 viene trasferito a Firenze, al convento della Santissima Annunziata, dove ha modo di conoscere il sindaco Giorgio La Pira e padre Ernesto Balducci.
Obbligato ad andare via anche dal capoluogo toscano, dopo un periodo di peregrinazioni lontano dall’Italia torna in patria e viene assegnato a Udine, al convento di Santa Maria delle Grazie. Nel frattempo si dedica alla realizzazione di un film, con la regia di Vito Pandolfi, intitolato “Gli ultimi” e tratto dal suo racconto Io non ero fanciullo. La pellicola, che rappresenta la povertà della vita rurale in Friuli, viene presentata nel 1963 ma non apprezzata dal pubblico locale, che la considera poco rispettosa.
Gli ultimi anni
In seguito Turoldo individua nell’antico Priorato cluniacense di Sant’Egidio in Fontanella un luogo in cui dare vita a un’esperienza religiosa comunitaria nuova, che coinvolga anche i laici: vi si insedia il 1° novembre del 1964, dopo aver ricevuto il consenso di Clemente Gaddi, il vescovo bergamasco.
Qui fa costruire una casa per l’ospitalità, che prende il nome di Casa di Emmaus in riferimento all’episodio biblico della cena di Emmaus, con Gesù che si manifesta ai discepoli dopo essere risorto.
Alla fine degli anni Ottanta David Maria Turoldo si ammala per un tumore al pancreas: muore all’età di 75 anni il 6 febbraio del 1992 a Milano, nella clinica San Pio X. I funerali vengono celebrati dal cardinale Carlo Maria Martini, che pochi mesi prima aveva assegnato a Turoldo il Premio Giuseppe Lazzati.
“Il caso Turoldo” di Davide Toffoli, (Ladolfi, 2021)
A cura di Gisella Blanco
Due occhi che puntavano come spade, così come fa la dolcezza più tagliente. David Maria Turoldo, il poeta prete “rosso”, è stato l’autore su cui è ricaduta la scelta del titolo della tesi di Davide Toffoli, laureando in Lettere a Roma con Biancamaria Frabotta. Con questa curiosa narrazione, una “anomala prefazione”, formata attraverso gli scambi su Whatsapp della stessa Frabotta con Toffoli, inizia il saggio “Il caso Turoldo – Liturgia e poesia di un uomo”, pubblicato per Ladolfi Editore nel 2021.
Scegliere ciò che poteva essere “altro da sé” in modo radicale era uno degli intenti di Toffoli che, di certo, al momento della decisione, non avrebbe immaginato la “comunione”, seppur laicissima, che si sarebbe venuta a creare tra lui e questo misterioso poeta del Novecento italiano. Con la vestitura, Turoldo scelse due nomi emblematici con i quali da quel momento in poi si sarebbe fatto chiamare: David, il giovane pastore vittorioso su Golia, e Maria, la madre di tutti da cui apprendere l’arte della parola, il “linguaggio dell’Amore”.
Turoldo era un frate antifascista che, però, vedeva nella vita un valore da tutelare in senso sovrapartitico, era un innovatore che desiderava cambiare l’inaccessibilità linguistica della funzione religiosa, era un frate per cui la fede è “entrare in conflitto”.
La sua poesia era un tutt’uno con la vita, le azioni, la resistenza, le iniziative filantropiche, il cinema, gli articoli di giornale, le omelie: “Nessuno creda che si possa staccare la poesia dalla vita; la poesia non è un esercizio letterario”. E, in effetti, come ha specificato Fernando Bandini, “parlare della poesia di padre David coi puri strumenti della critica letteraria, esaminare i suoi testi come mero discorso poetico separandoli dalla testimonianza della sua vita, non sarebbe un’operazione legittima”. Se interpretare i testi di un autore anche attraverso la sua biografia è atto di per sé insidioso, poiché può condurre a rintracciare nelle parole ciò che in effetti non vi risiede, in linea per altro con il pensiero strutturalista, nel caso di Turoldo non si potrebbe fare altrimenti, essendo la sua poetica legata a doppia mandata alle vicende e alle attività di un vissuto sorprendente ed estremamente ricco di esperienze.
“Il poeta è un crocefisso, è un profeta, un povero e grande uomo, molto raro. Così sarà la poesia a salvare il mondo, o meglio, anche la poesia”, e ancora: “Essere cristiani vuol dire essere uomo che resiste anche in funzione della società”, affermava Turoldo, fermamente convinto di come la fede cristiana, e Dio, potessero non risiedere sempre nei dettami della Chiesa. D’altronde, non gli interessavano la figura istituzionalizzata del prete, i giochi di potere istituzionalizzati, i ruoli stereotipati che non avessero una reale base sociale: Turoldo portava scompiglio, metteva in dubbio le piramidi ecclesiastiche e pungolava le coscienze a tutte le latitudini:
“Finalmente ho disturbato la quiete di questo convento altrove devo fuggire a rompere altre paci”.
Con l’amico, confidente e compagno di avventure Padre De Piaz, tra le varie imprese condivise, c’è la proposta della messa in italiano, affinché il sacerdote non fosse l’unica parte attiva della celebrazione. Pur non essendo un prete moderno, poiché era molto attaccato alla tradizione come necessaria sorgente di novità, le sue idee non avevano timore di andare in contrasto con dogmi, preconcetti e ingiuste disuguaglianze. Come specifica Frabotta, tra le voci poetiche per lui più incisive Toffoli individua un poeta come Giorgio Caproni, la sua patoteologia ultima, la sua ricerca dell’inesistenza di Dio per rintracciarne la radice più profonda – e per questo nascosta – nel dramma della condizione umana.
“Sia in Caproni sia in Turoldo si respira la necessità di perdersi, di smarrirsi, per cercare di trovarsi realmente e la consapevolezza che mai si può approdare a qualcosa di effettivamente definitivo. Anche il paesaggio, del resto, li accomuna: una sorta di non luogo che potrebbe essere ovunque (di sicuro lontano dal caos cittadino) e che mette l’uomo in ascolto e al cospetto di se stesso”, sostiene convintamente Toffoli.
Un esistenzialismo kierkegaardiano che non si limitava all’osservazione del disfacimento del reale ma provava a trovare non solo una chiave di lettura teologale ma anche fattiva, in quell’operosità concreta per la quale il suo insegnamento risulta sincero anche alle analisi più scettiche.
I suoi versi, la cui scrittura proteiforme si mostra incredibilmente coesa a livello formale, nonostante il lasso temporale ampio – gran parte della sua vita – che ha interessato la sua attività letteraria, è ricca di umanissime palinodie e continui, legittimi ripensamenti ideali su Dio, sul concetto di divinità, sull’uomo e sul rapporto tra dio e l’uomo.
Lungo l’asse – articolato e fin troppo eterogeneo, forse, per essere unificato – della poesia religiosa del Novecento, tra Rebora, Betocchi, Guidacci e Testori per fare solo alcuni dei nomi più rilevanti tra cui, di certo, c’è anche Turoldo, ma senza dimenticare lo stesso Caproni, e Ungaretti e Luzi, si possono indagare, nella poesia di Turoldo, grandi ascendenze da quell’ermetismo esistenziale che ha fatto emergere alcuni dei linguaggi più eleganti e più penetranti del Secolo Breve.
Eppure, è all’Infinito di Leopardi che Turoldo si riferisce per individuare nel suo contraddittorio e talvolta lugubre Nulla una specie d’eternità che atterrisce e incanta gli esseri viventi, protési in un continuo spasmo verso la speranza, che talvolta coincide con la bellezza, forma più compassionevole e gioiosa del sublime leopardiano. Ma per Turoldo, “se vuoi vedere Dio, devi guardare in faccia un uomo”.
Un uomo, non l’uomo bensì un singolo individuo qualunque, mostruoso e peccatore che sia. Un messaggio che, in favore di una misericordia profondamente fondata sulla realtà, propone un’immagine di dio che soffre e compartecipa delle fragilità del proprio creato. Tutti concetti che sono compatibili con l’altra linea stilistica che, pur non coincidendo pienamente con la scrittura di Turoldo, ne sanciva alcuni degli aspetti formali e, cioè, un “rarefatto realismo”, come ebbe a commentare Zanzotto.
Anche in base a ciò, non stupisce la grande amicizia con Pasolini, con cui condividevano molti topoi delle loro poetiche, seppur con svariate differenze di postura autoriale. Il tema della madre, per esempio, se per Pasolini era elaborato come dramma di non sentirsi mai del tutto uscito dall’utero materno, per Turoldo era la ricerca di una figura originativa, dalle sembianze marianiche e dal timbro non solo educativo ma anche rassicurante. Il Friuli, terra d’origine di entrambi i poeti, era un paesaggio idilliaco, insieme interiore ed esteriore, da cui ritrovare nuovi approdi luminosi.
Il profetismo engagé, pregnante in ambo le poetiche, era forse semplicemente una riflessione così imperniata nel presente da mettere in luce il probabile futuro di tutti. Il cinema era una passione comune, e la ricerca disperata di Dio non lasciava scampo né a Pasolini né a Turoldo, ciascuno con il proprio modo di intendere la divinità anche in base alla percezione del corpo personale e di quello sociale. Se la parola poetica di Pasolini, secondo lo stesso Zanzotto e Agosti, era “fuori di sé”, distorcente anche per via delle ibridazioni con la cronachistica, quella di Turoldo rimase “in sé”, seppur sempre mutevole ed eterodossa.
Le esperienze di Turoldo, dalla missione nei lager, assieme a Camillo De Piaz, in cui sperimentò di camminare sulla “sabbia dolente” degli intrasportabili, uomini bruciati sul posto e, soprattutto, durante la quale si rese conto non solo dell’ostruzionismo ma della corruzione delle autorità italiane, americane ed ecclesiastiche, fino all’avventura di Nomadelfia come vita comunitaria che non piacque al Vaticano per lo “scandalo della fratellanza”, furono molteplici e attivamente politiche, e, per questo, misero in luce gli aspetti più biechi dell’organizzazione della Chiesa, nonché i suoi rapporti non sempre lineari con lo Stato.
Anche l’incontro con Don Milani, altro prete tutt’altro che canonico, fu di grande rilievo, così come l’opinione di Turoldo sul caso Moro e, in generale, sulla possibilità che la cristianità non fosse monopartitica e non si identificasse in modo cieco e ben poco spirituale con una sola fazione politica. La sinistra cattolica, esperienza breve ma significativa cui Turoldo aderì con convinzione, fu l’emblema di come sia possibile, benché complicato, mantenere la propria integrità valoriale contro il pensiero imposto dai gruppi di potere, finanche quelli religiosi.
Nelle opere inerenti all’ultima parte della sua vita, in cui Turoldo fu colto da una grave malattia, il referente, il tu, è sempre più chiaro e, insieme, più dubitativo: dio o non dio?
È dio, ma è anche il sé annichilito – o esaltato – dai sovrumani silenzi leopardiani in cui l’infinito è sostituito da un nulla che atterrisce sia l’uomo che la divinità. Una “alterità che incombi dentro la parte più profonda di noi”. Il Nulla li inerisce entrambi, uomini e divinità, li spaura e ne fa emergere il valore reciproco. Il Grande Male, onnipresente, è anche il piccolo “mio male” di ogni giorno.
Il timore della inutilità del quotidiano fa da contraltare alla paura della morte, un calice amaro necessario, talvolta salvifico, che avvicina il poeta all’esperienza di Cristo (“un volto cercato da tutte le fedi”, ecco che Turoldo dà una soluzione al rapporto tra i non fedeli e Cristo), pur rimanendo uomo e vivendo il dubbio che ha attraversato tutta l’esistenza turoldiana e ne ha reso l’opera trasversale a credenze e fedi.
Il dubbio, d’altronde, “è gravido”, sprona non solo al dialogo con il dio ma anche e soprattutto al confronto. Un confronto violento, reso con l’audace metafora degli amanti (tema comune con Testori) che non trovano pace, e rintracciano nella tensione al tradimento e al peccato gli estremi gesti di richiesta d’amore:
“O forse il peccato è un gesto folle per cercarti? Pace non c’è per gli amanti,
lo sai!”.
E ancora:
“Almeno un poeta ci sia per ogni monastero: qualcuno che canti le follie di Dio”:
Così compare un dio che si strugge per l’infelicità e la malattia dei suoi uomini, insalvabili per il loro stesso agognato libero arbitrio. E il poeta è sempre più vicino alla figura cristica, terrena, carnale, disperata.
Turoldo torna all’idea tormentata della necessità di distruggere la divinità per riacquisirne la prossimità ontologica, in un percorso condiviso con il fratello ateo: ecco che Padre Turoldo, sul letto di morte, ha saputo parlare al proprio dolore, e a quello di tutte le donne e di tutti gli uomini, anche non credenti – compresa chi scrive – ma che condividono con lui, cercatore del Verbo tra le parole del creato, il difficile cammino nella coscienza, fideistica e non, in un moto di compassionevole empatia sovrareligiosa e profondamente spirituale da cui tutti dovremmo imparare.
“Dal dubbio germinano le mie radici
* * *
Le madri sono oggetti contundenti
la mano armata del dio
che vuole in pugno ogni bambino
e vuole romperlo in due – una metà
da stringere forte, l’altra da lasciare
all’abbandono –, sono le madri
un opaco paradiso una promessa
non mantenuta, sono la voce petulante
e cruda che risuona l’ora prima della morte.
Impara presto, bambina, che la crudeltà
è l’ultima salvezza, ricomponi la frattura,
vomita via ogni nome che non sia il tuo,
cercati due occhi nuovi, uccidi la madre
cattiva e poi rinnega quella buona:
non è mai esistita.
*
Il bianco coniglietto di Alice
si è ammalato, non ha più tempo
non ha più corse, la bambina lo guarda
preoccupata, lo pettina con una spazzola
cento e più volte, lo bagna in un’acqua
di sapone e di lacrime, lo accarezza piano
sulla testa, gli sfiora le zampe che si aprono
come piccoli ventagli quando l’aria calda
del fon gli smuove il mantello, bianco
cotone che sprigiona aroma di fieno,
adesso guarisci, gli dice contro il musetto
ingiallito, mentre pensa che dio non esiste,
altrimenti non potrebbe guardare morire
le anime candide, bambini che perdono i denti
da latte coniglietti affamati, le prede del mondo,
corri e nasconditi, gli sussurra, ma lui è già altrove,
nel paese senza meraviglie la Regina di Cuori
ha tagliato il cordone e la bambina precipita,
diventa sempre più piccola, le si apre un vortice
dentro la pancia, al posto dell’ombelico: ora
conosce il bianco orrore della perdita, o della nascita.
*
Occhi neri a precipizio
sempre paura sempre sola
bambina piccina cuore friabile
sbranato a morsi, cresce pane
nel tuo petto per il pettirosso
del libro delle fiabe, cresci obliqua
per non farti male, ferita dal vento in pieno
volto, volo d’ali spiumate, piccola scintilla
di fuoco brucia la città dei balocchi
il dio dei bambini rotti non ti ascolta:
e tu corri a nasconderti dalla fame,
nel luogo segreto dei bottoni
̶ mettili in fila, inghiottili ̶
prima che ti chiudano la bocca.
Va scomparendo
Va scomparendo perfino
l’intelligenza dei fanciulli,
e gli adulti non hanno più memoria:
anche la lingua va morendo,
né ci sarà la Neolingua a salvarci:
ci saranno solo dei segni
e dei grugniti…
se appena qualcuno mostrerà
di comprendere, si dirà:
“è intelligente”!
E continueremo
ad ingannarci:
illusi di aver capito.
*
David Maria Turoldo
“O sensi miei…”
Poesie 1948-1988
Biblioteca Universale Rizzoli (Milano, 2002)
Note introduttive di Andrea Zanzotto e Luciano Erba
Da: Mia Apocalisse
Tempo verrà
Tempo verrà che non avrete un metro
di spazio per ciascuno:
lo spazio di un metro
che sia per voi. Tutti
vi dovrete rannicchiare:
nemmeno coricati!
Se pure non sarete
accatastati uno sull’altro.
Allora uno resterà soffocato
dal ribrezzo dell’altro.
Non avrà spazio
neppure il pensiero
e tutto sarà nel Panottico:
pupilla di un
Polifemo
fissa al centro del cielo:
non ci sarà un solo angolo,
un remoto angolo
per il più segreto
dei pensieri.
Il cuore sarà cavo
come il buco nero
in mezzo alle galassie.
La mente di tutti
una lavagna nera…
Un groviglio di fili
senza corrente
i sentimenti
a terra.
*
David, è scaduto il tempo
David, è scaduto il tempo d’imbarco!
Ora il tuo posto
è la lista d’attesa.
Grazia rara è
se ancora qualcuno conservi
(con molte incertezze) memoria
del tuo nome, almeno
il sospetto
che tu sia esistito.
Premono formicai di anonimi
alle stazioni della metropolitana.
Moltitudini che urlano
invocando di salire,
a grappoli.
Tutti sconosciuti l’uno all’altro
ignoto il proprio volto
perfino a te stesso,
e il volto del proprio padre:
anche lui sbarcato
a forza dal predellino dell’ultimo tram
nella notte.
*
E non hanno
E non hanno neppure
la gioia di andare
come tu andavi (oh David)
imperioso alla conquista!
E non importava sapere di cosa,
bastava la fede
almeno nell’uomo!
Ora nessuno sa
in quale direzione andare,
e tutti cercano una maniglia
nel vuoto:
o appena si affacciano
alla linea gialla della strada
subito vengono
da forze misteriose.
ribattuti indietro.
e continuano a urlare
ma nessuno sa cosa.
Tutti dentro una luce sempre uguale,
al neon:
e sola
continuerà a brillare,
appena sorridente
la gigantografia
in fosforescenza
del GRANDE FRATELLO
onnivedente,
COME STA SCRITTO!
E anche in piccole foto,
o di varia grandezza,
ma sempre uguali, a miriadi
a ogni pulsante appese:
appese agli stipiti e agli archi delle vie,
appese, le più grandi ai frontali dei palazzi
e negli stadi
e dai rosoni delle chiese,
COME STA SCRITTO:
anche le chiese
saranno allora
la STESSA COSA.
Né alcuno che possa dire
che nome porta o chi sia!
E tutti nel feroce
invincibile sospetto
l’uno dell’altro…
Non due fedi
O papa, sorridi
(non ridano solo le tue labbra)
sorridi dentro
spera
confida.
Pace a te, o papa,
non temere!
Allora non affonderai
camminando sulle acque:
altri crederanno per te
nella cruciata ora della decisione.
Non sentirti solo, o papa,
nel giardino dei dubbi.
Credi, ti amiamo
e ti «compatiamo»
filialmente.
Da te stesso liberati, o papa,
uccidi la tua ombra che t’insegue:
il mondo non ti è nemico,
abbi fede in lui
e nel Dio che l’ama
fino alla fine,
e sia un’unica fede.
Non due fedi, o papa.
Credi all’unità
dei giorni e delle opere,
alla creazione che è unica.
Puoi essere voce di due infallibilità
che tutto, chiesa e fabbrica e studi
è inesauribile invenzione
di un medesimo Spirito:
uno è l’uomo,
uno e amorosamente operante
Iddio nell’uomo.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” )
ALTRA SALMODIA ALLA PACE
a «Testimonianze» e a tutti i comitati di pace
La pace è l’Eden,
l’Armonia da sempre agognata,
giardino dell’Alleanza
che sta nel cuore della terra,
giardino da sempre rimpianto.
Anche le fiere dei campi ti piangono, o Pace,
anche il leone e la tigre ti piangono,
con ululati dalle selve piangono
l’orrendo disordine
non necessario.
La coesione della pietra è santa,
la massa compatta delle acque,
santa la coesione degli astri.
Uomini, non violate il Sacrario dell’atomo,
non entrate nel Santo dei santi
perché morirete: Scienziati,
non fate della sua casa
una spelonca di ladri.
La pace è l’Eden che deve inverarsi,
il Sogno reale e necessario
che attraversa l’intera creazione.
Creature tutte all’opera:
che deve venire la Pace
che deve farsi la Pace;
che si faccia la Pace su tutta la terra:
e l’uomo è la sola coscienza
a proclamare che Egli esiste.
Francesco, riprendi a cantare
per frate sole e sora luna
«et per aere et nubilo et sereno»,
perfino alla morte diciamo: o sorella!
Ma siano tutte le creature a cantare.
Uomini, tornate fanciulli,
rompete le spade e nessuno
continui a trafiggere il cuore alle cose
come han trafitto il costato di Cristo.
Questo è l’irreparabile Male
il Male che non ha nome:
l’incubo non della morte,
dell’«0ltre-morte»,
il Grande Nulla che incombe.
Abbiamo violato il Sacrario
profanato il Santo dei santi:
messe le mani sull’atomo,
rotta la diga sull’abisso,
ci siamo creduti «Despoti».
Abbiamo perduta l’Amicizia delle cose,
la Grande Comunione:
tornare indietro
sarà ancora possibile?
Questo è l’Eden che deve inverarsi
il giardino dell’Alleanza,
il Sogno dell’universo.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” )
David Maria Turoldo
Il trattato dal titolo “David Maria Turoldo, il Resistente”, a cura di Guerino Dalola, in collaborazione con Donatella Rocco, Antonio Santini, Mino Facchetti, Pierino Massetti, Gian Franco Campodonico e di ANPI Franciacorta, consiste in un importante saggio autoprodotto con il patrocinio di vari enti e associazioni, tra cui la Città di Chiari, il Comune di Coccaglio, il Comune di Cologne, i Servi di Maria – provincia di Lombardia e Veneto e l’associazione Gervasio Pagani.
Padre David Maria Turoldo è un frate morto nel 1992. Su padre David Maria Turoldo, che fu poeta, filosofo, sacerdote, autore, traduttore, fondatore di riviste e giornali, sono stati pubblicati centinaia di libri e documenti, ma senza dare ampia notizia sulla sua partecipazione alla Resistenza del 1943-45 contro il nazifascismo. Padre David Maria Turoldo è stato un grande Resistente a Milano, ma era in contatto anche con la Resistenza bresciana, soprattutto nella zona della Franciacorta.
Secondo Turoldo la figura del Partigiano riveste certamente una eccezionale e fondamentale importanza, ma in uno specifico momento e in una determinata situazione. Invece, sempre secondo Turoldo, essere Resistente è una scelta di vita che non può verificarsi solo in un determinato tempo e in uno spazio contingente. La Resistenza, i Resistenti attuano un impegno quotidiano, da realizzarsi nel percorso di ogni giorno, senza distrazioni, nel corso di una intera esistenza. La liberazione autentica dell’umanità, oltre che dal nazifascismo e dalle dittature, richiede una militanza, una acribia nel tempo, un impegno molto più profondo sul piano culturale, relazionale, politico, sociale, familiare. L’impegno del Resistente non ha fine e scadenze, perché la libertà non si rinnova da sola, ma deve essere sempre riconquistata con l’impegno di ognuno di noi. Infatti la Resistenza non è mai finita.
Turoldo non ha mai voluto schierarsi con nessun partito politico, perché, lui stesso spiegherà, la libertà, la costruzione di un mondo migliore, i diritti delle persone, la solidarietà, il progresso alternativo che non è tale se non è per tutti, il soccorso a chi vive nell’indigenza, a chi vive nelle difficoltà, a chi vive nel bisogno, il rispetto di tutte le fedi politiche e religiose, non sono istanze appartenenti all’uno o all’altro schieramento partitico, ma sono valori appartenenti alla nostra comune umanità.
Per il Resistente il vero campo di lotta è la normalità, la testimonianza, non solo con le parole, ma con esempi di vita. Il Resistente non è solo antifascista. La vera scelta del Resistente è un’alternativa totale, a favore di una società, di un contesto sociale, completamente diversi, per una nuova presente e futura umanità, perché la pace non è solo mancanza di guerra, ma è nonviolenza, è costruzione di convivenza solidale e fraterna.
Le esperienze di Turoldo furono molteplici come Partigiano in una delle vicende più importanti della sua vita: la Resistenza. Ma le fonti storiche non danno ricostruzione storiografica editata di ampio respiro di padre Turoldo per la sua attività nella lotta di Liberazione nazionale e per il contributo notevole che ha offerto nella ricostruzione morale e materiale del nostro Paese. “Una lacuna nella storia del pensiero democratico e antifascista di impronta cattolica alla quale bisognerebbe pensare di porre rimedio”, così scrive Aldo Aniasi, comandante partigiano, assessore e sindaco di Milano, deputato e ministro socialista e presidente della FIAP federazione italiana associazioni partigiane. Scrive sempre Aldo Aniasi, che come uomo della Resistenza padre Turoldo privilegiò sempre una scelta unitaria, lo spirito unitario della Resistenza, lo spirito dell’unità antifascista. Intrattenne rapporti con comunisti, socialisti, azionisti e incontrava personaggi come Eugenio Curiel, Rossana Rossanda e altri importanti dirigenti della sinistra.
Uno dei risultati più significativi dell’intero lavoro di confronto e dialogo realizzato nel convento di San Carlo a Milano per iniziativa di padre Turoldo e padre De Piaz è la nascita e la diffusione – soprattutto da parte di Teresio Olivelli, Claudio Sartori ed altri collaboratori bresciani – del giornale clandestino antifascista “Il ribelle”. Anche la predicazione in Duomo su incarico del Cardinale Schuster diventa espressione della Resistenza di padre Turoldo. Appena dopo la Liberazione del 25 Aprile 1945, saranno ventinove i Lager visitati da padre Turoldo alla ricerca di sopravvissuti e riuscirà a riportare in salvo a casa circa duecento prigionieri. Scrive Turoldo “Una sola possibilità affinché non si ripeta quanto è avvenuto: ricordare e capire, far ricordare e far capire… Così ho visto la sola Europa possibile, quella della solidarietà dei sopravvissuti”. Scrive Ernesto Balducci “Il grande dono di David è di essere nato povero, in mezzo ai poveri, agli ultimi… David è rimasto un povero. I poveri sono fuori del perimetro della storia”. In occasione degli appositi referendum, padre Turoldo vota contro l’abrogazione del divorzio e dell’aborto, perché i principi religiosi non possono essere imposti a chi non crede: la religione va spiegata e proposta, mai imposta con una legge. Nella primavera del 1978, padre Turoldo, insieme al confratello De Piaz, avvia una trattativa con le Brigate Rosse, per la liberazione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. L’iniziativa a cui partecipa anche il vescovo di Ivrea monsignor Luigi Bettazzi, presidente di Pax Christi, viene bloccata dall’opposizione delle autorità ecclesiastiche.
La Corsia dei Servi e Nomadelfia furono le iniziative più care sia a Turoldo sia a padre De Piaz, basate su concetti di primaria importanza: tanto la fede che le scelte politiche diventano operative e efficaci solo nell’ambito di una cultura che permetta di uscire dall’inerzia di una fede accolta solo per tradizione e pregiudizio, per tentare invece una rigenerazione dalla vera cultura con maggior impulso possibile.
Invitato a un congresso sul disarmo nel febbraio 1978, Turoldo ebbe l’occasione di incontrare Carlo Cassola, che lo invitò al convegno nazionale della LDU- Lega per il Disarmo Unilaterale. Gli aderenti attuali della Lega per il Disarmo Unilaterale sotto la sigla “Disarmisti Esigenti” stanno lavorando all’interno della campagna ICAN – International Campaign to Abolish Nuclear Weapons e con molte altre associazioni del panorama italiano affiliate a ICAN, tra cui anche PeaceLink- Telematica per la Pace, alla ratifica del trattato ONU, il TPAN, per la proibizione delle armi nucleari, varato a New York a palazzo di vetro nel luglio 2017 da 122 nazioni e dalla società civile organizzata in ICAN. ICAN grazie alla costituzione del trattato Onu per l’abolizione delle armi nucleari è stata insignita Premio Nobel per la Pace 2017. E poi ricordiamo la Salmodia della Speranza che attraversa la drammatica esperienza dell’Europa prima e durante la Seconda Guerra Mondiale: il trionfo dei dittatori, il nazismo, il fascismo, il razzismo, i grandi massacri, i Lager, Hiroshima e Nagasaki, la Resistenza. Per una Chiesa che accoglie i diversi, gli emarginati, gli oppressi, gli ultimi, le vittime di cui tutti siamo parte nel contesto sociale, comunitario, culturale e nel mondo, nel terribile deserto della sopraffazione e della violenza dove tante voci chiedono libertà, giustizia e verità per tutti quegli innocenti che ancora nascono solo per morire.
Laura Tussi – PeaceLink, Campagna “Siamo tutti Premi Nobel per la Pace con ICAN” Fabrizio Cracolici – ANPI sezione Emilio Bacio Capuzzo Nova
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