Découvrez au Musée Jacquemart-André des trésors de la Galleria Borghese de Rome-
Alla Galleria Borghese di Roma-Du 6 septembre 2024 au 5 janvier 2025, pour son exposition de réouverture après plus d’un an de travaux entrepris sous la conduite de l’Institut de France, le Musée Jacquemart-André présente au public une quarantaine de chefs-d’œuvre de la célèbre Galleria Borghese de Rome.
Galleria Borghese
Ce partenariat exceptionnel entre les deux institutions offre une occasion unique d’admirer à Paris un ensemble d’œuvres majeures d’artistes célèbres de la Renaissance et de la période baroque rarement prêtées à l’étranger,du Caravage à Botticelli, en passant par Raphaël, Titien, ou encore Véronèse, Antonello da Messina et Bernin… Cette exposition star de la rentrée rendra aussi hommage à des peintres moins connus du grand public, tels qu’Annibal Carrache, Guido Reni, Le Cavalier d’Arpin, Jacopo Bassano et à des peintres nordiques ayant séjourné en Italie (Rubens, Gerrit von Honthorst…).
La présentation des œuvres dans une scénographie audacieuse d’Hubert Le Gall éclaire à la fois l’histoire de la collection et le sens des grandes thématiques explorées par les artistes.
Galleria Borghese de Rome
Scipion Caffarelli-Borghese (1577-1633), neveu du pape Paul V, est en effet entré dans l’Histoire comme l’exemple du grand collectionneur et mécène. Il est issu d’une noble famille d’origine siennoise installée à Rome au XVIe siècle. La Villa Borghese Pinciana sort de terre au XVIIe siècle. Le puissant homme d’Église italien a voulu faire construire un palais à la romaine, entouré de jardins. Un cadre luxueux pour mettre en valeur tableaux et sculptures qui composaient sa collection. Par ses goûts, sa curiosité et son éducation, Scipion Borghèse a pu rassembler quelques-uns des plus beaux chefs-d’œuvre des artistes de son temps. La Villa (devenue aujourd’hui Galerie) était un vrai temple de l’art, et symbole de la puissance économique et culturelle de l’Italie.
L’exposition sera accompagnée d’un catalogue, ouvrage de référence en langue française sur la collection de peintures de la Galerie Borghèse.
Commissaires de l’exposition :
-Francesca Cappelletti, directrice de la Galleria Borghese à Rome, spécialiste du baroque italien.
-Pierre Curie, conservateur du musée Jacquemart-André depuis janvier 2016 et co-commissaire de toutes ses expositions.
VISITES GUIDÉES ALTRITALIANI
Altritaliani se réjouit de pouvoir vous proposer deux dates de visites guidées par Barbara Musetti, docteur en histoire de l’art, pour découvrir ces chefs-d’œuvre de la Collection Borghese à Paris. Visites-conférences en langue italienne ouvertes à tous et toutes sur inscription (15 personnes maximum). Durée 1h15.
DATES :
mardi 24 septembre à 15h45 – rendez-vous sur place à 15h30
ou mardi 15 octobre à 16h30 – rendez-vous sur place à 16h15
Prix unique: 34€ à régler par chèque à Altritaliani à l’inscription (billet d’entrée, audiophones et conférence). Pas de réductions possibles pour les participants à une visite de groupe selon les nouvelles directives reçues du musée…
Michèle Gesbert est née à Genève. Après des études de langues et secrétariat de direction elle s’installe à Paris dans les années ’70 et travaille à l’Ambassade de Suisse (culture, presse et communication). Suit une expérience associative auprès d’enfants en difficulté de langage et parole. Plus tard elle attrape le virus de l’Italie, sa langue et sa/ses culture(s). Contrairement au covid c’est un virus bienfaisant qu’elle souhaite partager et transmettre. Membre-fondatrice et présidente d’Altritaliani depuis 2009. Coordinatrice et animatrice du site.
Articolo di Renato Caputo:”Stato e società civile nel giovane Karl Marx”-
Karl Marx
Al contrario delle illusioni degli idealisti, per Karl Marx nella modernità a dominare è il duro realismo, il particolarismo imperante nella società civile con il suo fondamento meramente empirico, immediato: il bisogno pratico dell’individuo egoista, la brama di profitto e l’implacabile legge del mercato.
La rivoluzione politica borghese ha costituito per Karl Marx e Friedrich Engels un progresso decisivo nella storia spazzando via la commistione immediata di vita sociale e politica propria del mondo feudale che separava il cittadino dalla comunità statuale, negando ogni sovranità popolare, essendo il popolo confinato in una serie di corporazioni, ceti e gilde gelose custodi delle proprie libertà-privilegi. “L’emancipazione politica è al tempo stesso la dissoluzione della vecchia società. La rivoluzione politica è la rivoluzione della società civile. Quale era il carattere della vecchia società? La feudalità. La vecchia società civile aveva immediatamente un carattere politico ossia gli elementi della vita borghese, come per esempio la proprietà, famiglia o il tipo di lavoro erano, nella forma della signoria fondiaria, del ceto e della corporazione, innalzati a elementi della vita statale. In tale forma essi determinavano il rapporto del singolo individuo verso la totalità dello Stato, vale a dire il suo rapporto politico, cioè il suo rapporto di separazione ed esclusione dalle altre parti costitutive della società civile. Quell’organizzazione della vita del popolo, infatti, non elevava il possesso e il lavoro ad elementi sociali, ma piuttosto portava a compimento la separazione dalla totalità statale e li costituiva (possesso e lavoro) in società particolari all’interno della società” [1].
Dunque, nel sistema feudale l’uomo non era libero, né la società civile indipendente, ma la posizione dell’individuo rispetto allo Stato era fissata dalla nascita e le libertà in quanto privilegi determinavano sfera politica e civile. Come osserva a ragione a questo proposito Marx: “le funzioni e le condizioni vitali della società civile rimanevano ancor sempre politiche, anche se politiche nel senso della feudalità, ovvero che escludevano l’individuo dalla totalità statale, trasformavano il rapporto particolare della sua corporazione con la totalità dello Stato nel suo proprio rapporto universale con la vita del popolo, così come la sua determinata attività e situazione civile nella sua attività e situazione universale. Come conseguenza di questa organizzazione, l’unità dello Stato, come coscienza, volontà e attività dell’unità dello Stato, il potere universale dello Stato, appare altrettanto necessariamente come affare particolare di un sovrano separato dal popolo e dai suoi servitori” [2]. D’altra parte a un certo grado di sviluppo dei mezzi di produzione e di scambio, feudali “le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate” [3].
La rivoluzione “fece necessariamente a pezzi (… ) tutte le espressioni della separazione tra il popolo e la sua comunità” [4] e sostituì al privilegio quale espressione politica dell’età feudale “il diritto puro e semplice, il diritto uguale” [5]. In tal modo la gestione della cosa pubblica, dello Stato cessava d’esser affare particolare d’un sovrano o d’un ceto politico particolare per divenire “affare universale”.
Nella fase più radicale e avanzata della lotta per il potere le esigenze politiche erano talvolta entrate in contraddizione con il loro presupposto strutturale, la proprietà privata borghese, fondamento della società civile moderna. Tale contraddizione era stata astrattamente superata mediante il terrore. I giacobini si erano illusi di poter riplasmare, configurare lo Stato politico moderno sul modello antico, reprimendo nel terrore le “manifestazioni vitali” della società civile borghese. “Robespierre, Saint-Just ed il loro partito sono caduti perché hanno scambiato la comunità antica, realisticamente democratica, che poggiava sul fondamento della schiavitù reale, con lo Stato moderno rappresentativo, spiritualisticamente democratico, che poggia sulla schiavitù emancipata, sulla società civile. Che colossale illusione essere costretti a riconoscere e sanzionare nei diritti dell’uomo la società civile moderna, la società dell’industria, della concorrenza generale, degli interessi privati perseguenti liberamente i loro fini, dell’anarchia, dell’individualità naturale e spirituale alienata a se stessa, e volere poi nello stesso tempo annullare nei singolo individui le manifestazioni vitali di questa società, e volere modellare la testa politica di questa società nel modo antico!” [6].
Nel fuoco della lotta la differenza fra emancipazione politica e sociale tendeva a sfumare, dal momento che la rivoluzione costituiva un passaggio necessario e decisivo alla realizzazione d’entrambe e l’inadeguato sviluppo delle forze produttive impediva il porsi di problematiche che non corrispondevano a un bisogno storico reale. Così i giacobini, per difendere la rivoluzione di contro a conservatori e reazionari, avevano finito per doverne combattere lo stesso presupposto reale, la struttura sociale per cui si battevano, come appare evidente nel conflitto con la Montagna e i Girondini.
La rivoluzione permanente, dunque, non poteva superare il momento del terrore quale negazione determinata del feudalesimo, ma solo astratta delle proprie basi strutturali, della proprietà privata, se in contrasto con le superiori esigenze dello Stato che le impedivano di realizzare l’emancipazione sociale. “Certo: in tempi in cui lo Stato politico nasce violentemente, come Stato politico, dalla società borghese, quando l’emancipazione umana cerca di realizzarsi sotto forma di emancipazione politica, lo Stato può e deve giungere fino a sopprimere la religione, ad annientare la religione; ma solo nel modo in cui perviene a sopprimere la proprietà privata, cioè coll’imposizione di un limite massimo, colla confisca, coll’imposta progressiva, appunto come giunge alla soppressione della vita con la ghigliottina. Nei momenti in cui la vita politica sente più specialmente se stessa, essa cerca di soffocare il proprio presupposto, la società borghese e i suoi elementi, e di porsi per l’uomo come la reale e perfetta vita del genere umano. E questo può aver luogo soltanto tramite una violenta opposizione alle proprie condizioni di vita, solo in quanto la rivoluzione si dichiari permanente, e il dramma politico termina perciò necessariamente con la restaurazione della religione, della proprietà privata, di tutti gli elementi della società borghese, come la guerra si conclude con la pace” [7]. L’emancipazione politica è, in effetti, “gravata da un limite interno, strutturale, che le impedisce di rispondere alla questione cui essa conduce (con il suo stesso «fallimento»), quella dell’avvento dell’universalità concreta” [8].
Non erano sorte le condizioni oggettive per l’emancipazione sociale, in quanto “una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che non siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza” [9]. Né era sorta l’esigenza soggettiva nei suoi rappresentanti più avanzati – non essendo germogliato un bisogno effettivo dell’emancipazione sociale neppure nei sanculotti.
Dunque, solo la prima negazione: la rivoluzione della società civile, la dissoluzione dei precedenti assetti di proprietà su cui si fondava il feudalesimo era conforme ai bisogni effettuali dell’epoca, mentre la seconda negazione era destinata a restare un mero dover essere [10]. La borghesia manteneva salde nelle proprie mani le redini del processo storico e così, compiuta la prima negazione, la seconda venne archiviata, ridotta dal Termidoro a fantasma o utopia. Del resto, “non basta che il pensiero spinga verso la realizzazione; la realtà stessa deve spingersi verso il pensiero” [11]. Tanto più che “la sentimentale borghesia ha dovunque sacrificato la rivoluzione al suo dio, la Proprietà. La controrivoluzione ora ripudia questo dio” [12]. Riassumendo: non appena la furia trasformatrice dell’intero assetto della vecchia società si arrestò, il poetico, l’epico cittadino rivoluzionario lasciava progressivamente il campo al prosaico uomo borghese [13].
Articolo di Renato Caputo
Note:
[1] B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, traduzione italiana di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, p. 197.
[2] Ibidem.
[3] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista [1848], in Id., Opere complete 1845-1848, vol. VI, tr. it. di P. Togliatti, Ed. Riuniti, Roma 1978, p. 491.
[4] B. Bauer, K. Marx, La questione…, op. cit., p. 197
[5] K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, tr. it di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 311.
[6] Id., La sacra famiglia [1845], traduzione italiana di A. Zanardo, Editori riuniti, Roma 1967, p. 160.
[7] B. Bauer, K. Marx, La questione…, op. cit., pp. 368-69.
[8] E. Kouvélakis, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in «Marxismo Oggi» 1, Milano 2005, p. 74.
[9] K. Marx, Per la critica dell’economia politica [1859], tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Editori Riuniti, Roma, 19693, p. 5.
[10] Così, per esempio, “fintanto che le forze produttive non sono ancora abbastanza sviluppate da rendere superflua la concorrenza, e quindi continueranno a provocare sempre di nuovo la concorrenza, le classi dominate vorrebbero l’impossibile se avessero la «volontà» di abolire la concorrenza e con essa lo Stato e la legge. Del resto, prima che le condizioni siano sviluppate al punto di poterla produrre, questa «volontà» nasce soltanto nell’immaginazione degli ideologi.” K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, tr. it di F. Codino, Ed. Riuniti, Roma 1967, p. 314.
[11] K. Marx, Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione [1843], in Id., Scritti politici giovanili, a cura di Luigi Firpo, Einaudi, Torino 1975, p. 406.
[12] K. Marx, F. Engels, Opere complete, marzo 1853 – febbraio 1854, tr. it. di F. Codino, vol. XII, Ed. Riuniti, Roma 1978, p. 39.
[13] Non appena la potenza trasformatrice si arresta, proprietà privata e religione finiscono per riprodursi su nuove basi. Prodotto della rivoluzione politica, anche al di là degli scopi dei differenti attori, non è altro che la rivoluzione borghese, il cui risultato sancisce quali leggi dello Stato i rapporti fondamentali della società civile. Il dibattito sul superamento dello Stato in Marx è in parte viziato dal fatto che il giovane Marx aveva in mente lo Stato hegeliano-borghese, lo Stato politico de La questione ebraica, lo Stato che definisce democratico. Solo in seguito al sorgere dell’idea di uno Stato socialista questa problematica sarà in parte superata.
Fonte- Associazione La Città Futura- | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi – Articolo di Renato Caputo
Il Castello di Boccea- Articolo e Fotoreportage di Franco Leggeri-Il Castello sorge sul “fundus Bucciea” che domina la valle del fiume Arrone e il fondo denominato anticamente “Ad Nimphas Catabasi”, sito al decimo miglio dell’antica via Cornelia,(domina il ristorante i SALICI sito sulla via Boccea).
Castello di Boccea
Si accede da una via sterrata all’interno della campagna e, come d’incanto, si vedono i resti del vecchio castello, luogo dove albergano le fiabe e ciò che rimane di una architettura delle allucinazioni per chi ha voglia di emozioni, le grandi emozioni, con un percorso iniziatico alla fantasia. Della vecchia costruzione , oltre ai cunicoli e gallerie, è visibile il Torrione, costruito in pietra selce e mattoni con rinforzi di possenti barbacani, necessari per contenere ed arginare il progressivo cedimento del banco tufaceo che costituisce la base naturale del fabbricato. Il Castello domina i boschi dove, nel 260 d.C. furono martirizzate S.s. Rufina e Seconda, mentre nelle vicinanze, al XIII miglio della stessa via Cornelia, nel 270 d.C. sotto l’Imperatore Claudio il Gotico, subirono il martirio Mario e Marta con i figli Audiface ed Abachum, famiglia nobile di origine persiana, come si legge nel Martirologio Romano”Via Cornelia melario terbio decimo ad urbe Roma in coementerio ad Nimphas, sanctorum Marii, Marthae, Audifacis et Abaci, martyrum”. Le prime tracce cartacee documentali del Castello si trovano nella bolla di Papa Leone IV, conservata negli archivi vaticani,tomo I pag. 16, con la quale si conferma la donazione al monastero di San Martino del “fundus Buccia” e delle chiese dei Santi Martiri Mario e Marta. Il Papa Adriano IV nel 1158 confermò alla basilica vaticana il Castello e i fondi di Atticiano, Colle e Paolo. In un antico atto conservato in Vaticano, al fascicolo 142,si legge che nel 1166 Stefano, Cencio e Pietro, fratelli germani e figli del fu Pietro di Cencio, cedettero a Tebaldo, altro fratello, la loro porzione del Castello di “Buccega”. Sempre dal medesimo archivio si apprende che Giacomo, Oddo, Francesco e Giovanni di Obicione, Senatori di Roma nell’anno 58 ( 1201), stabilivano che la basilica di San Pietro possedesse e godesse tutti i beni e gli abitanti del Castello di Buccia fossero sotto la protezione del Senato. Si stabilì che anche i canonici del Castello usufruissero dei privilegi e consuetudini accordati ai loro vicini, cioè come l’esercitavano nei loro castelli i figli di Stefano Normanno, Guido di Galeria e Giacomo di Tragliata (Vitale, “Storia diplomatica dei Senatori di Roma”, pag. 74 ). Da una bolla di Gregorio IX del 1240 si ha notizia di un incendio che distrusse il Castello e che il Pontefice ordinò di prelevare il denaro necessario alla ricostruzione direttamente dal tesoro della Basilica Vaticana (Bolla vaticana Tomo I, pag.124).In un lodo del 1270,che tratta di una lite di confini della tenuta,si menziona tra i testimoni Carbone,Visconte del Castello di Boccea. Il Castello subì nel 1341 l’attacco di Giacomo de’ Savelli, figlio di Pandolfo che, dopo averlo preso, scacciò gli abitanti e lo incendiò. Papa Benedetto XII, che era ad Avignone, scrisse al Rettore del patrimonio di San Pietro di”costringere quel prepotente a risarcire il danno”. Dopo il saccheggio da parte del Savelli il luogo rimase deserto secondo il Nibby mentre il Tomassetti, nella sua opera (pag.153) ci descrive il castello e la tenuta ancora abitato da una popolazione di 600 anime, cifra ricavata dalle quote sulla tassa del sale dell’anno 1480/81, durante il papato di Sisto IV. Della trasformazione da Castello a Casale di Boccea, moderna denominazione, si trova traccia nel Catasto Alessandrino del 1661,dove la costruzione viene indicata come “Casale con Torre”. Va ricordato che da 20 ettari di uliveto di Boccea si produceva l’olio destinato ai lumi della Basilica Vaticana, come si può desumere dalla cartografia seicentesca di G.B.Cingolani dove si legge”seguita a destra il procoio pure detto delle Vacche Rosse del Venerabile Capitolo di San Pietro, chiamato Buccea, olium Buxetum”. Attualmente il Casale di Boccea è in ristrutturazione con destinazione turistico-alberghiera, con un grande ristorante nel quale troneggia un imponente camino seicentesco in pietra. Altre tracce del passato sono i vari stemmi papali inseriti nei muri ed un frantoio manuale di recente ritrovamento, del tutto simile a quelli del Castello della Porcareccia e di Santa Maria di Galeria.
– articolo e foto di FRANCO LEGGERI
Castello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di Boccea
La Chiesetta è stata edifica dal Sig. Enrico SCORSOLINI a perenne memoria di ALBERTO FALCIANI. La chiesetta fu inaugurata da S.E. Monsignor Tito Mancini Vescovo ausiliare di Porto e Santa Rufina , Segretario particolare di S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT. L’inaugurazione avvenne il 16 maggio 1965.La bella chiesetta di campagna fa parte della Parrocchia di Sant’Isidoro di Tragliata, vi si celebra la Messa domenicale e tutti i pomeriggi alle ore 16:00 si recita il Santo Rosario .
S.E. Monsignor Tito Mancini, Vescovo Ausiliare per la Diocesi di Porto e Santa Rufina.
S.E. Monsignor Tito Mancini, Vescovo Ausiliare per la Diocesi di Porto e Santa Rufina.
Biografia-S.E. Monsignor Tito Mancini-Il Vescovo Pietro Mancini nacque a Bologna il 24 novembre 1901. Trasferitosi a Firenze entrò giovanissimo nel Convitto della Calza da dove , ordinato sacerdote insieme a Mons. Bagnoli il 25 luglio 1925, uscì per dedicarsi al ministero.
Il quel 25 luglio 1925 furono ordinati preti anche Don Antonio Pettini, Don Romano Rastrelli, Don Serafino Ceri.
A Don Mancini si deve la costruzione della nuova Chiesa parrocchiale di Santa Maria a Coverciano .
Dopo aver svolto il ministero a Coverciano per un certo periodo , cioè sino al mese di agosto del 1933, Don Tito Mancini passo alla Marina Militare con il grado di Capitano dedicandosi all’assistenza religiosa dei marinai; ma i parrocchiani di Coverciano non lo dimenticarono e quando arricchirono di un nuovo concerto di campane il loro campanile vollero che una campana fosse dedicata a San Tito al ricordo proprio di Don Tito Mancini.
Ben presto Don Tito Mancini dovette lasciare il ministero a favore dei marinai perché chiamato a Roma al seguito del Cardinale francese Eugenio Tisserant il quale ripose ogni fiducia nel sacerdote calzista. Ben presto, il 29 gennaio 1947, Don Mancini divenne Vicario Generale della Diocesi di Ostia Porto e Santa Rufina delle quali era titolare il Cardinale Tisserant, e poi lo stesso Cardinale ottenne , nel 1960, dalla Santa Sede che Monsignor Mancini gli fosse assegnato come Vescovo Ausiliare e fu lo stesso Cardinale Tisserant a consacrare.
Si legge nel settimanale “Vita” nell’edizione del 4 aprile 1962 , in un lungo articolo dal titolo TISSERANT a pag. 43 :” il 29 gennaio 1961 il Cardinale Tisserant, versò non poche lacrime di commozione mentre consacra Vescovo Mon. Tito Mancini, assegnatogli come Ausiliare.
Prosegue il cronista:” sembra che consagri Vescovo un figlio.” Era questo il commento dei presenti. Dopo la cerimonia di investitura gli invitati fecero al Cardinale le congratulazioni per aver ottenuto un Vescovo Ausiliare per la Diocesi, il Cardinale rispose così:”Non dovete rallegrarmi con me perché ho avuto il Vescovo Ausiliare, ma perché ho avuto Questo Ausiliare, Mons. Tito Mancini .” Appena aver pronunciato queste parole il Cardinale fece un gesto che commosse profondamente i presenti e il Vescovo Mancini: si sfilò dal dito l’anello episcopale che egli aveva ricevuto 24 anni prima nel giorno della sua propria consacrazione e lo donò al sua neo Ausiliare….”.
Il 28 febbraio 1967 Mons. Tito Mancini passò a reggere le Diocesi di Nepi e Sutri nella Tuscia laziale.
L’attività pastorale di Monsignor Tito Mancini ,molto intensa , diede ottimi frutti. A questo proposito giova ricordare ciò che il parroco Don Alberto Benedetti attestò di lui ancora vivente:” dalla mente e dal cuore…Mancini trae motivo per portare la fiaccola della Fede e l’ardore della Carità in ogni angolo della Diocesi, con semplice umiltà aiuta i parroci , sostituisce quelli improvvisamente impediti per malattia o impegni , nella celebrazione della Santa Messa…” Monsignor Tito Mancini morì a Sutri, rimpianto del clero e dal popolo, dal 4 marzo 1969 è sepolto all’interno della Cattedrale della Diocesi di Porto e Santa Rufina a La Storta vicino al Cardinale Eugenio Tisserant , Monsignor Luigi Martinelli,Monsignor Pietro Villa e Vescovo Andrea Pangrazio, come si legge nell’epigrafe .
S.E. Monsignor Tito Mancini, Vescovo Ausiliare per la Diocesi di Porto e Santa Rufina. con il Cardinale EUGENIO TISSERANT
Ricerche bibliografiche, foto d’archivio e foto originali sono di Franco Leggeri-
CAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINICAMPAGNA ROMANA Cappellina SCORSOLINIS.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT impone la berretta a Monsignor Tito MANCINI .(25 dicembre 1960)Monsignor Tito MANCINI accompagna S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT nella visita dei Borghi dell’ENTE MAREMMAMonsignor Tito MANCINI(dietro vestito di nero) accompagna S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT nella inaugurazione del Collegio Sant’Eugenio –LA STORTA .Monsignor Tito MANCINI (di profilo primo da sx) accompagna S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT nella visita dei Borghi dell’ENTE MAREMMA
Itzhak Katznelson “Il canto del popolo ebraico massacrato”
Itzhak Katznelson- poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto
Yitzhak Katzenelson nacque nel 1886 in Bielorussia, ma presto si trasferì con la famiglia a Lodz, in Polonia, dove aprì una scuola e si dedicò alla Letteratura, scrivendo sia in yiddish, sia in ebraico. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifugiò a Varsavia, dove assisté all’agonia del ghetto.
Nel 1943 la moglie e i suoi due figli minori furono uccisi. Lui, insieme al figlio maggiore, fu portato a Vittel, in Francia. Qui scrisse Il canto del popolo ebraico massacrato. Il 29 aprile 1944 fu deportato ad Auschwitz, dove fu subito eliminato.
La voce di Yitzhak Katzenelson è la voce di Giobbe, un Giobbe della modernità. Una voce dinnanzi alla quale l’intera umanità si arresta turbata. Si tratta di un’opera che non può essere paragonata a nessun’ altra nella storia della Letteratura mondiale: è la voce di un condannato a morte, fra centinaia di migliaia di condannati a morte, consapevole del suo destino di uomo e del destino del suo popolo.
La voce di Yitzhak esce dal grembo di “cieli nulli e vuoti”, impassibili al compiersi del massacro insensato e ingiustificato della
Itzhak Katznelson (Karėličy, 1º luglio 1886 – campo di concentramento di Auschwitz, 1º maggio 1944) è stato un poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto.-tradotto da Helena Janeczek
Il canto del popolo ebraico massacrato
I Canta
1
«Canta! Prendi in mano la tua arpa, vuota, svuotata e misera,
sulle sue corde fini getta le dita pesanti
come cuori, come cuori afflitti. Canta l’ultimo canto,
canta degli ultimi ebrei in terra d’Europa».
2
– Come posso cantare? Come posso aprir la bocca,
se sono rimasto io da solo –
mia moglie e i miei due bambini- orrore!
Inorridisco d’orrore…si piange! Sento ovunque un pianto-
3
«Canta, canta! Alza la tua voce afflitta e rotta,
cerca, cerca lassù in alto, se c’è ancora Lui,
e cantagli…cantagli l’ultimo canto degli ultimi ebrei,
vissuti, morti, non sepolti e non più…»
4
– Come posso cantare? Come posso alzar la testa?
Deportata mia moglie e il mio Benzion e il mio Yomele- un bimbo –
Non li ho più qui con me e non mi lasciano più!
O ombre oscure della mia luce, o ombre fredde e cieche.
5
« Canta, canta un’ultima volta qui sulla terra,
getta indietro la testa, fissa gli occhi su di Lui
e cantagli un’ultima volta, suonagli la tua arpa:
qui non ci sono più ebrei! Massacrati, e non più qui!».
6
– Come posso cantare? Come posso fissare gli occhi e alzar la testa?
Una lacrima ghiacciata mi si è appiccicata all’occhio…
vorrebbe staccarsi, strapparsi via dall’occhio
– e non può cadere, Dio mio!
7
«Canta, canta, alza il tuo sguardo cieco al cieli alti,
come ci fosse un Dio lassù nei cieli…salutalo, saluta con la mano-
come se da lassù una grande fortuna ci splendesse e ci illuminasse!
Siedi sulle rovine del tuo popolo massacrato e canta!
8
– Come posso cantare? Se il mondo per me è deserto?
Come posso suonare con le mani rotte?
Dove sono i miei morti? Io cerco i miei morti, Dio, in ogni rifiuto,
in ogni mucchio di cenere…O, ditemi dove siete.
9
Gridate da ogni pezzo di terra, da sotto ogni pietra,
da ogni grano di polvere, da tutte le fiamme, tutto il fumo-
è il vostro sangue e succo, è il midollo delle vostre membra,
è la vostra anima e carne! Gridate, Gridate forte!
10
Gridate dai visceri delle fiere nel bosco, dai pesci nello stagno-
Vi hanno mangiati. Gridate dai forni, gridate grandi e piccoli:
voglio uno strepito, un lamento, una voce, voglio una voce da voi,
gettare uno sguardo muto, ammutolito sul mio popolo massacrato-
e voglio cantare…sì…datemi l’arpa- io suono!
3-5.10.1943.
IX Ai cieli
1
Così ebbe principio, incominciò…Cieli, dite perché, dite per chi?
Perché sulla terra tutt’intera ci tocca essere tanto umiliati ?
La terra, sordomuta, ha come chiuso gli occhi…Ma voi, voi cieli, voi avete visto,
stavate a guardare voi, lassù dall’alto; eppure non vi siete capovolti!
2
Non si è rannuvolato il vostro azzurro, scontato azzurro, splendeva falso come sempre,
il sole rosso come un boia crudele ha continuato a girare in tondo,
la luna, vecchia sgualdrina peccatrice, andava a passeggiare in voi la notte,
e le stelle sconce brillavano, strizzavano gli occhietti come topi.
3
Via! Non voglio alzar lo sguardo, non voglio vedervi, non voglio saper nulla di voi!
O cieli falsi e bugiardi, o lassù nell’alto bassi cieli! Quanto mi addolora:
Io vi credevo un tempo,vi confidavo gioia e tristezza, riso e pianto,
ma voi non siete meglio della schifosa terra, del grande mucchio di letame!
4
Io vi lodavo, cieli, io vi inneggiavo in ogni mia canzone, ogni mio canto-
io vi amavo come si ama una moglie; lei non c’è più, disciolta come schiuma.
io somigliavo sin dalla mia infanzia il sole in voi, il sole fiammeggiante del tramonto
alla mia speranza: “così svanisce la mia speranza, così muore il mio sogno!”
5
Via!Via! Vi siete fatti beffa di noi tutti, beffati il mio popolo, beffata la mia stirpe!
Da sempre voi ci sbeffeggiate: già i miei padri, i miei profeti sbeffeggiavate!
A voi, a voi – alzavano gli occhi, alla vostra fiamma si accendevano,
i più fedeli a voi qui sulla terra che sulla terra si struggevano per voi.
6
A voi anelavano….a voi per primi esclamavano: haazinu!- Ascoltate!
E solo poi la terra. Così il mio Mosè e cosi Isaia, il mio Isaia: shimu!- Udite!
E shomu! gridava Geremia: shomu! A chi, se non a voi? Perché d’un colpo vi siete estraniati?
O aperti e vasti cieli, luminosi e alti cieli! voi siete tali quali alla terra.
7
Non ci conoscete, non ci riconoscete più- perché? Saremo poi
tanto diversi, tanto cambiati? Ma se siamo gli stessi ebrei di sempre-
e anche molto migliori…Io no! Non voglio paragonarmi ai miei profeti, non devo,
ma loro, tutti quegli ebrei portati a morire, i milioni massacrati ora –
8
Loro sì, sono migliori: più provati, purificati dall’esilio! E quanto vale
uno dei grandi ebrei di allora di fronte a un piccolo, semplice, qualsiasi ebreo di oggi
in Polonia, Lituania, Volinia, in ogni terra d’esilio, – in ogni ebreo si lamenta e grida
un Geremia, un Giobbe disperato, un re deluso intona il Qohelet.
9
Non ci conoscete, non ci riconoscete più, nessuno: come fingessimo di essere altri.
Ma noi siamo gli stessi, gli ebrei di sempre, e come sempre pecchiamo contro noi stessi,
e come sempre rinunciamo alla nostra felicità e vogliamo ancora salvare il mondo-
E voi, com’è che siete così azzurri, voi cieli azzurri, mentre ci stanno massacrando, com’è che siete così belli?
10
Come Saul, il mio re, nella mia pena cercherò la maga,
troverò la strada disperata e scura per Endor,
e chiamerò fuori dalle tombe tutti i miei profeti e tutti implorerò: guardate, guardate in alto
ai vostri chiari cieli e sputate loro in faccia: “che siate maledetti, maledetti!”
11
Voi cieli stavate a guardare da lassù quando hanno portato i bambini del mio popolo
– per navi, su treni, a piedi, in pieno giorno e nella notte scura- a morire,
milioni di bambini, mentre li ammazzavano, hanno alzato le mani a voi- non vi siete commossi,
milioni di nobili madri e padre- non si è accapponata la vostra azzurra pelle.
12
Voi avete visto i Yomele di undici anni, semplice gioia! gioia e bontà,
e i Benzion, i piccoli geonim così seri e studiosi…consolazione di tutto il creato!
Avete visto le Hanne che li hanno avuti e consacrati a Dio nella sua casa,
e siete rimasti a guardare…Non avete nessun Dio in voi, cieli! Cieli da niente, cieli smagliati!
13
Non avete nessun Dio in voi! Aprite le vostre porte, cieli, aprite e spalancate
e lasciate entrare tutti i bambini del mio popolo massacrato, del mio popolo torturato,
aprite per la grande ascensione: tutto un popolo crocefisso con gravi sofferenze
deve entrare in voi…Ciascuno dei miei bambini massacrati può essere il loro Dio!
14
O cieli desolati e vuoti, o cieli come un deserto vasti e desolati,
io ho perso in voi il mio unico Dio, e a loro averne tre non basta:
il Dio degli ebrei, il suo spirito e l’ebreo della Galilea che giustiziarono, sono pochi:
ci hanno spediti tutti quanti in cielo, – o schifosa e vigliacca idolatria!
15
Rallegratevi, cieli, rallegratevi!- Eravate poveri, adesso siete ricchi,
che messe benedetta- tutto, tutto un intero popolo, che gran fortuna, vi è stato regalato!
Rallegratevi cieli lassù con i tedeschi, e i tedeschi si rallegrino quaggiù con voi,
e un fuoco dalla terra salga fino a voi e divampi un fuoco da voi fino alla terra.
26.11.1943
Breve Biografia-Yitzhak Katzenelson nacque nel 1886 in Bielorussia, ma presto si trasferì con la famiglia a Lodz, in Polonia, dove aprì una scuola e si dedicò alla Letteratura, scrivendo sia in yiddish, sia in ebraico. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifugiò a Varsavia, dove assisté all’agonia del ghetto.
Nel 1943 la moglie e i suoi due figli minori furono uccisi. Lui, insieme al figlio maggiore, fu portato a Vittel, in Francia. Qui scrisse Il canto del popolo ebraico massacrato. Il 29 aprile 1944 fu deportato ad Auschwitz, dove fu subito eliminato.
La voce di Yitzhak Katzenelson è la voce di Giobbe, un Giobbe della modernità. Una voce dinnanzi alla quale l’intera umanità si arresta turbata. Si tratta di un’opera che non può essere paragonata a nessun’ altra nella storia della Letteratura mondiale: è la voce di un condannato a morte, fra centinaia di migliaia di condannati a morte, consapevole del suo destino di uomo e del destino del suo popolo.
La voce di Yitzhak esce dal grembo di “cieli nulli e vuoti”, impassibili al compiersi del massacro insensato e ingiustificato della
Torre Pellice-Iniziato il convegno storico numero 63 della Società di Studi valdesi
Torre Pellice – 6 settembre 2024-Iniziato ieri pomeriggio alle 15:30 a Torre Pellice nell’aula sinodale (via Beckwith 2) la 63ma edizione del Convegno storico della Società di studi valdesi, dal titolo «Come si fa una letteratura. Lingue, testi e culture nell’autunno del Medioevo valdese».
Le tre giornate, che si possono seguire anche in streaming sul canale YouTube della SSV o sulla sua pagina Facebook si aprono con il saluto di Gian Paolo Romagnani, presidente della Ssv. Seguiranno, in due sessioni moderate rispettivamente da Andrea Giraudo (organizzatore del convegno) e Attilio Cicchella, le relazioni di Philippe Martel («Ecrire en “langue vulgaire” dans les Alpes du Sud au Moyen Age»); Aline Pons e Matteo Rivoira («Storia linguistica dei valdesi: il contributo della dialettologia»); Lorenzo Ferrarotti («Dialetto-lingua locale e varietà “alte” in Piemonte tra Medioevo e Rinascimento»); Andrea Giraudo («Per un repertorio digitale dell’occitano alpino medievale»). A seguire, visita alla mostra esposta al Centro culturale valdese, «Valdo e i valdesi tra storia e mito».
Torre Pellice-Iniziato il convegno storico numero 63 della Società di Studi valdesi
Il convegno, che è aperto a tutti gli interessati, proseguirà domani con una intensa giornata che comincerà alle 9 con la terza sessione, moderata da Laura Ramello, e le relazioni di Caterina Menichetti («Intorno all’edizione degli Atti degli apostoli. Problemi testuali e messa in contesto»); Joanna Poetz («La réception de la littérature “hussite” dans les manuscrits vaudois»); Matteo Cesena («Il ms. Dublin, Trinity College Library, 269 e i corpora valdese e cataro. Annotazioni codicologiche e paleografiche»); seguirà un momento di discussione e la pausa.
I lavori riprendono alle 11 guidati da Lothar Vogel, con le relazioni di Laura Ramello («La letteratura francoprovenzale nel Medioevo. Un itinerario fra generi, testi e temi»); Federica Fusaroli («Testi e manoscritti in lingua d’oc tra Provenza e Delfinato»); Attilio Cicchella («Prime indagini sulla letteratura devota in volgare italiano nei primi secoli della stampa piemontese»). Si conclude alle 13 dopo un momento di discussione
Nel pomeriggio, dalle 15, sessione presieduta da Laura Gaffuri, intervengono Lothar Vogel («I testi dei manoscritti valdesi: testimoni di una cultura teologica») e Micol Long («“Sentimenti del corpo” e “sentimenti dell’anima”: sensi ed emozioni nei sermoni valdesi medievali»). Dopo la discussione e la paura, si riprende alle 16,30 con Laura Gaffuri («La predicazione cattolica nel Piemonte sabaudo del Qattrocento»); Ludovic Viallet («Pastorale et lutte contre l’hérésie entre Dauphiné et Méditerranée – fin XVe – début XVIe siècle»).
Sabato, giornata conclusiva moderata da Caterina Menichetti, dalle 9 alle 12, intervengono Paolo Rosso («Ambiti di formazione e di circolazione di cultura giuridica in area pinerolese e nelle valli valdesi nel tardo medioevo»); Marco Fratini («Cultura visiva nel Pinerolese tardomedievale»); Andrea Maraschi («La formazione medico-scientifica dei barba: tra contesto e tradizione»). Discussione, conclusioni e chiusura del convegno alle 12.
Per info: 0121-932765; e-mail: segreteria@studivaldesi.org; www.studivaldesi.org
Pola vuole Dante Alighieri. Ma Dante pose lì il confine dell’Italia-
Pola, città oggi non Italiana, vuole Dante Alighieri. Ma Dante pose lì il confine dell’Italia – Si parla sempre di difendere i confini degli altri, mentre qualcuno vorrebbe cancellare i nostri, o quelli che rimangono ancora.
Non si parla mai di ciò che avviene o è avvenuto ieri dei Nostri confini, spesso ceduti per qualche spicciolo o… Svenduti ceduti, regalati in maniera tacita e silenziosa, spesso all’oscuro degli stessi Italiani, per evitare …
Così come, scusate il raffronto, sembra avvenire oggi con le Aziende Italiane, oggi scomparse o in mano a stati esteri.
E’ in questa ottica che rileviamo ciò che scrive la Pregiatissima “Accademia di Alta Cultura” a firma del Suo Presidente Giuseppe Bellantonio, che riproponiamo a seguire, per evidenziare una “strana” richiesta del Vicesindaco di Pola.
La richiesta del busto di Dante Alighieri, portato da Pola a Venezia, dove oggi è esposto all’Arsenale, da chi fu costretto a fuggire dalla città Italiana.
Pola, citta brutalmente strappata, insieme ad altre città e territori, all’Italia ed agli Italiani, tra Foibe, persecuzioni criminali ad opera dei comunisti Titini, attentato nella spiaggia di Vergarolla dove si è compiuto un ed r massacro con il più alto numero di morti mai avvenuto nella storia della Repubblica Italiana, e dove tantissimi i bambini furono polverizzati per te t cui si è persa ogni traccia.
Noi lo abbiamo ricordato recentemente, anche se le istituzioni, troppo spesso, dimenticano, con la complicità di tanti Media che tacciono o… negano.
Dante Alighieri
Non vogliamo entrare nel merito della questione, ma solo ricordare, in questa tg fase, che riportare a Pola il busto originale di Dante Alighieri, sarebbe un vergognoso affronto verso tutti quegli italiani cacciati brutalmente da quella città e che con grande rischio hanno voluto togliere il Busto di chi nel tempo indicava il limite dei confini Italiani già nel Suor tempo, quando scrisse la Divina Commedia.
Affronto contro chi ha difeso l’Italia ed i suoi confini, sentendosi appartenente all’Italia, quindi Italiano, Nazario Sauro, che ben spiega la Sua appartenenza all’Italia nella lettera al Figlio scritta in punto di morte, o Cesare Battisti….
Affronto di tutti gli Italiani che sono stati vilmente, brutalmente infoibati.
Affronto di tutte le donne che sono state brutalizzate, violentate, ed uccise o buttate nelle foibe…
Affronto di tutta quella popolazione costretta ad esulare e disperdersi nel mondo, dopo una vera e propria “Pulizia Etnica” perpetrata nel silenzio delle blateranti Organizzazioni Internazionali e di una ignobile complicità dei Governi Nazionali ancora ad oggi.
Affronto a quegli Italiani cacciati dagli stessi Italiani a Bologna 18 febbraio 1947. “L’orologio segnava le 12 e l’altoparlante annunciava l’entrata in stazione di un treno pieno di profughi istriani, giuliani e dalmati… Molti di loro sono donne e vecchi, ma ci sono anche tanti bambini…. “
Tratto da :“Il treno della VERGOGNA” di cui pochi sanno…
E, potremmo continuare.
Ci chiediamo quindi perché dovremmo concedere ciò che è Italiano?
Facciano pure un calco del busto, ma che non sia l’originale.
Il popolo Italiano ha già dato tanto, derubato o svenduto che sia.
Ieri la Corsica, poi Nizza ecc. ceduti, attraverso trattati, per pochi spiccioli a causa di debiti…. poi, dopo la seconda guerra mondiale, L’Istria, la Dalmazia, e Fiume.
Oggi la Francia pretenderebbe il Monte Bianco, e la Svizzera Campione d’Italia?
Ricordiamo, tornando alla storia dell’area di Pola:
L’accordo di Osimo (in francese Traité d’Osimo; in inglese Treaty of Osimo; in serbo-croato Osimski ugovor) è un accordo, siglato a Osimo il 10 novembre 1975 tra i ministri degli affari esteri di Jugoslavia e Italia.
Il trattato di Osimo fu il primo accordo internazionale i cui negoziati per l’Italia non vennero curati dal Ministero degli affari esteri. Le trattative furono condotte deliberatamente in maniera riservata.
Fu ratificato dall’Italia il 14 marzo 1977 (legge n. 73/77) ed entrò in vigore l’11 ottobre 1977
Una vicenda di sangue Italiano, con migliaia di morti, feriti e deportati, ad oggi non si conoscono le cifre ufficiali, contrattati estorti, imposti, e… dove ancora, pur ratificati, non trovano riscontro ed applicazione per gli Italiani, dovrebbe finire a “Tarallucci e Vino” con l’ennesima remissione dell’Italia, e degli Italiani?
Ettore Lembo
“Perché usare l’Italianissimo simbolo di Dante Alighieri per “strane” rivendicazioni?”
“Una notizia apparsa sui mezzi di informazione alla vigilia di Ferragosto, riportava – cito testualmente dallo ‘strillo’ – “L’accorato appello di Bruno Cergnul, vicesindaco di Pola, di riavere il busto di Dante apposto sulla facciata dell’Arsenale…” di Venezia
Lo dico con franchezza, la notizia – ufficiale e riconducibile a una ‘accorata’ esternazione di un vicesindaco la cui origine è certamente italiana, e che in loco rappresenta proprio le sensibilità e le possibili istanze della minoranza Italiana di Pola – ha suscitato in me una certa curiosità ma anche sorpresa e meraviglia.
Ammetto che – per rinfrescare la memoria – sono riandato indietro all’immediatezza di un dopoguerra più che sfortunato per le popolazioni Italiane di Nord-Est, e in particolar modo quelle di Istriani, Fiumani e Dalmati, ricche di amor patrio e di un forte radicamento alle tradizioni, ai ricordi, alle fatiche, spese per generazioni nel segno di una schietta italianità. Eh sì! Perché è impossibile non ricordare che proprio quelle terre – e come non ricordare anche le questioni e le tensioni legate alle nostre amate e italianissime città di Trento e Trieste – costituirono momento di vero e proprio cruento baratto tra gli Alleati vincitori della II° Guerra Mondiale e il tetro regime che in Jugoslavia era sottoposto a Josip Tito e ai suoi esecutori, qual era Milovan Dilas. Come non ricordare la vera e propria persecuzione etnica che subirono pesantemente e drammaticamente gli Italiani che risiedevano in quelle terre, e i cui uomini avevano versato il loro sangue per l’Italia: come non ricordare il cruento, canagliesco, sterminio – il numero degli Italiani allora uccisi pecca tuttora per difetto – degli Italiani di tutte le età infoibati per mano di bande e militari Jugoslavi, uccisi sì per feroce odio etnico ma anche per derubare quella povera gente di terre, case e beni personali, costringendola all’esilio. Bande cui si unirono, con pari efferatezza, anche miserabili, infami, Italiani: altrettanto violenti, ladri e sanguinari, che forti della forza delle armi e vantando spesso la loro dichiarata appartenenza a bande pseudo-partigiane, saccheggiavano, stupravano ferocemente, uccidevano senza pietà, anche consumando vendette per antiche invidie o rancori prescindendo così da altre motivazioni di tipo etnico e/o politico.
Nel rispolverare vecchi testi, ho ritrovato il Trattato Dini-Granic – “Trattato tra la Repubblica Italiana e la Repubblica di Croazia concernente i diritti delle Minoranze; Zagabria, 5 novembre 1996” – che all’Art. 3 recita “Tenendo conto dei documenti internazionali rilevanti accennati nel preambolo, la Repubblica di Croazia, nell’ambito del suo territorio, si impegna ad accordare alla minoranza italiana l’uniformità di trattamento nel proprio ordinamento giuridico al più alto livello acquisito; questa unitarietà può essere acquisita attraverso l’estensione graduale del trattamento accordato alla minoranza italiana nella ex zona ‘b’ sul territorio della repubblica di Croazia tradizionalmente abitato dalla minoranza italiana e dai suoi membri”.
Leggendone, mi è sorta una domanda: l’esternazione con toni ‘accorati’ di Bruno Cergnul, vicesindaco di Pola, intesa a ottenere in restituzione’ del busto di Dante, allora portato in Italia dai profughi e oggi collocato in una nicchia sulla facciata dell’Arsenale a Venezia, al pari di ogni azione della vita quotidiana, ha delle motivazioni: ma di quale tipo? Credo poco a una boutade personale: quindi, l’antico quesito cui prodest si pone, proprio per voler risalire alle pulsioni che possano aver mosso il vicesindaco Cergnul a formulare la particolare richiesta, fors’anche potenziale causa del possibile rinfocolarsi di polemiche e idonea a riaccendendo dolori mai sopiti.
Lo ha fatto per motivazioni squisitamente di tipo ‘culturale’? Come “stava qui” e “qui“ deve tornare? Voglia cortesemente chiarirlo.
Lo ha fatto per motivazioni ideologiche, fors’anche di segno politico, personali e/o collettive? Anche in questo caso, voglia cortesemente chiarirlo.
Lo ha fatto per una motivazione di tipo sociale, o per captare la possibile benevolenza di una qualche ‘parte’? Sia cortese nel chiarirlo.
In ogni caso, di norma, per aderire a una qualsiasi richiesta, è buona norma verificarne lo spessore e le reali motivazioni che possano rendere il richiedente credibile e meritevole di attenzione, piuttosto che i contenuti della richiesta stessa; nel particolare, una tematica fatta di pesi e contrappesi: impossibili da ignorare.
Proprio riandando all’Art.3 sopra menzionato è notorio – e il vicesindaco, proprio perché rappresentante in loco della minoranza italiana, non può non sapere – che proprio alcune parti essenziali dello stesso siano tuttora disattese, e non certo da parte Italiana.
Ad esempio sono cadute nel vuoto le richieste di parte Italiana di dar luogo a una doppia toponomastica tanto negli atti istituzionali che nelle cartine; l’utilizzo anche della lingua Italiana nelle indicazioni descrittive dei luoghi di interesse turistico e naturalistico; l’applicazione della legge croata che stabilisce ‘Il diritto all’educazione e istruzione nella Lingua e nella scrittura delle minoranze nazionali nella Repubblica di Croazia’, come pure per quanto riguarda l’applicazione concreta delle ‘modello C’, ovverosia ‘l’insegnamento viene svolto in Lingua croata, ma un monte ore che può variare da due a cinque ore settimanali viene dedicato all’insegnamento della Lingua e della cultura della minoranza nazionale nello specifico Lingua e letteratura, geografia, storia, arte musicale, arte figurativa’, che – è di tutta evidenza – includa l’utilizzo e il rispetto della lingua italiana (cfr. Fiume 6-1-2017, comunicaz. della Unione Italiana dal titolo ‘Il diritto all’educazione e istruzione nella Lingua e nella scrittura delle minoranze nazionali nella Repubblica Croazia’; cfr. intervento 7-12-2016 del Presidente della ‘Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani Fiumani e Dalmati’, dr. Antonio Ballarin, nel corso delle cerimonie per la ‘Celebrazione dei 25 anni dell’Unione Italiana ed i 20 anni del Trattato tra la Repubblica Italiana e la Repubblica di Croazia concernente i diritti minoritari’).
Quindi, parlando un linguaggio piano e rispettoso verso il vicesindaco, chiederei se sia per lui ‘normale’ o meno formulare richieste pretendendone attenzione e soddisfazione, mentre da controparte Croata molte e più serie inadempienze di Atti ufficiali, formali e istituzionali, restano irrisolte: nonostante il trascorrere del tempo.
E ancora: se i profughi Italiani nell’abbandonare le loro case e le loro cose, ritennero di portare con sé ‘quel’ busto di Dante fu perché esso era testimonianza di cultura, patria e di libertà, Italiane: in esso fu anche riposto simbolicamente lo stesso affetto che si rivolge a un familiare, a un parente, trasmettendolo di mano in mano mettendolo così in salvo da mani diversamente degne. Proprio la raffigurazione di Dante Alighieri, tra i massimi rappresentanti della Cultura e della Storia Italiane, che non si poteva lasciare nelle mani di chi tale Storia, tale Cultura, tale respiro antico, non rispettava e anzi offendeva e combatteva aspramente. E ritengo che queste considerazioni – proprio alla luce delle motivazioni relative alla perdurante e tenace in applicazione di parte delle intese istituzionali tra Italia e Croazia – abbiano mantenuto la propria attualità.
La stessa impossibilità si riverbera sul rilascio di una eventuale copia proprio di ‘quel’ busto di Dante. Dall’originale dovrebbe ricavarsi un calco da poter lavorare: ma il calco, a contatto con l’originale, ne trarrebbe un quid di immateriale ma esistente: un pezzo dello spirito di quella scultura, se vogliamo. Uno spirito meno peregrino di ciò che possa sembrare. La scultura in questione, così come ogni opera d’Arte, ha in sé la scintilla creativa dell’Artista che la concepì, e tale scintilla permea la scultura stessa. L’Artista in questione fu lo scultore – ma anche pittore, deputato, Direttore e Professore presso il Regio Istituto di Belle Arti di Roma – Ettore Ferrari: lo stesso dalle cui mani capaci ebbe vita anche la Statua di Giordano Bruno, collocata tuttora a Campo de’ Fiori, a Roma. Ferrari – i cui valori erano e sono ben noti, essendo stati improntati nel segno degli Ideali di Tolleranza, Libertà e Fraternità – realizzò per la Città di Pola, un busto dedicato a Dante Alighieri, dando così testimonianza e corpo ancorché simbolico ad alcuni celebri versi danteschi “Sì come a Pola presso del Quarnaro / Che Italia chiude e i suoi termini bagna.”. (cfr. Inferno, Canto IX, versi 113, 114).
Certamente, anche l’Artista non avrebbe accettato né gradito – né lo farebbe ora – che la sua opera, con tutto ciò che in essa fosse ed è tuttora riposto e rappresentato, non fosse più nelle mani di coloro cui essa era stata solennemente destinata e quindi consegnata: autentici Italiani, dignitosi e di forte personalità, e non certo gente da ‘poco’. Opera Italiana, di uno scultore Italiano, fatta per la comunità di Italiani residenti allora a Pola, rappresentante anche un Autore e una Cultura unicamente Italiani.
Egregio vicesindaco, se permette un sommesso e rispettoso suggerimento; se proprio dovesse accontentarsi di un calco, ma non di ‘quel’ calco, non è meglio comprare un oggetto similare da qualche parte in uno dei negozi lì presenti? Potrà così dire ‘è mio’, è ‘nostro’, anche con enfasi: lo avrà acquistato con i suoi mezzi, e sarebbe veramente e totalmente ‘suo’. E se lo volesse potrà ancor più adoperarsi, con l’usuale vigore che le gocce di sangue Italiano che scorrono nelle sue vene certamente le danno, a far sì che proprio la minoranza italiana presente a Pola, possa lì godere appieno dei propri diritti.
E ciò con buona pace di Dante Alighieri, di Ettore Ferrari e delle sensibilità, affatto irrilevanti, di quanti allora subirono offese e violenze inenarrabili, e che dovettero abbandonare terre, case e oggetti di famiglia, ma che non vollero abbandonare il loro simbolo di cultura e italianità, in territorio e in mani non italiane, fors’anche insanguinate.”
Accademia di Alta Cultura Il Presidente Giuseppe Bellantonio
Roma- Municipio XIII, Quartiere Casalotti-Le Catacombe della via Boccea-
Franco Leggeri Fotoreportage –
Il Vescovo della Diocesi di Porto e Santa Rufina, recentemente scomparso, ha riportato al culto dei fedeli e all’attenzione degli archeologi le Catacombe dei Santi martiri MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC- Il 19 gennaio 1994 ,festa di San Mario, il Mons. Diego BONA guidò una processione di circa 500 fedeli verso le Catacombe ripristinando così un’antica tradizione popolare che si era persa nel corso degli anni. Nei pressi delle Catacombe vi è una piccola chiesetta dedicata a San Mario e Marta, eretta nel 1700 e restaurata nel 1871. In questa chiesetta ,nel 1909, il giovane sacerdote Don Giuseppe RONCALLI, futuro papa Giovanni XXIII- il Papa Buono, venne a celebrare la messa in memoria del fratello Mario. Papa Giovanni XXIII amava la via Boccea e la Campagna Romana durante le sue escursioni egli si deliziava nel gustare “ la buona ricotta di Boccea” che Gli veniva offerta dai pastori romani. A ricordo della presenza in questi luoghi di Papa Giovanni è stata posta in essere, nel 2004, una epigrafe marmorea nella chiesetta di Santa Maria sita all’interno del Castello della Porcareccia nel quartiere Casalotti.
Mons. Diego BONA- Vescovo della Diocesi di Porto e Santa RufinaCastello della Porcareccia-Epigrafe Papa Giovanni XXIII
Santi MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC.
Breve Storia dei Santi MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC.
Ultimo santuario della via Cornelia era quello dei martiri MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC. Nel Martirologio Geronimiano sono ricordati il 16 e 20 gennaio. Sembrerebbe che il vero dies natalis fosse il 20 gennaio, in cui sono stati commemorati nel Sacramentario Gelasiano antico ( Saccr.Gel.,p.131; nel Gelasiano di S.Gallo invece sono anticipati al giorno 19 e vi mancano ABACUC e AUDIFAX (Gel. S. Gallo, p.20) .Di questi Martiri non si hanno notizie sicure.Secondo la passio (Acta SS. Gennaio, II, Parigi, 1863, pp. 578-583.) Mario e Marta erano nobili persiani; al tempo di Claudio il Gotico vennero a Roma , insieme con i figli Abacuc e Audifax per venerare i sepolcri degli Apostoli e aiutare i carcerati per la Fede.Arrestati a loro volta furono condannati dal prefetto Musciano e condotti sulla “ via Cornelia miliaro tertio decimo ad Nymphas Catabassi”: Mario, Abacuc e Audifax furono “decollati sub arenario” e i loro corpi bruciati; Marta invece “in Nympha necata est”. La Matrona Felicita raccolse i resti dei primi tre, Mario,Abacuc e Audifax, ed il corpo di Marta dal pozzo in cui era stato gettato, e li seppellì “ sub die tertio decimo Kalendas febraurium” (B.SS.VIII, p.165. Dall’indicazione topografica “ ad Nymphas” è nata la fantomatica martire Ninfa-cf.B.SS.,IX,p.1009).
I corpi dei Martiri sarebbero stati trasferiti da Papa Pasquale I nella Basilica di S. Prassede ( Lib. Pont.II, p. 64.).
Franco Leggeri Fotoreportage-Foto Gallery e Articolo sono di Franco Leggeri-
Le Catacambe della via BocceaLe Catacambe della via BocceaLe Catacambe della via BocceaLe Catacambe della via BocceaCampagna Romana -Fontanile delle CATACOMBE DI BOCCEAFontanile della Campagna Romana -Fontanile delle CATACOMBE DI BOCCEALe Catacambe della via BocceaLe Catacambe della via BocceaLe Catacambe della via BocceaLe Catacambe della via BocceaLe Catacambe della via BocceaLe Catacambe della via BocceaLe Catacambe della via BocceaLe Catacambe della via BocceaLe Catacambe della via BocceaSanti MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC.Monsignor Diego Natale Bona
Professore Nicola Cabibbo e la riabilitazione di Galileo Galilei.
Articolo dell’Ingegnere Andrea Natile.
Professore Nicola Cabibboe la riabilitazione di Galileo Galilei- In qualità di presidente della Pontificia Accademia delle scienze , che ha il compito di consigliare il pontefice su tutte le tematiche scientifiche, Nicola Cabibbo ha più volte avuto l’occasione di esprimere le sue opinioni sul rapporto fra fede e scienza. E’ intervenuto nel complesso dibattito fra teoria dell’evoluzione e interpretazione letterale del testo biblico per sottolineare la posizione della Chiesa cattolica in merito.
Durante la sua permanenza all’accademia, e sotto il pontificato di papa Giovanni Paolo II, sono avvenute sia la definitiva riabilitazione di Galileo Galilei, sia la sostanziale ammissione che la teoria dell’evoluzione non è in contrasto con la dottrina cattolica.
Galileo Galilei
A chi manifestava contro l’insegnamento della teoria di Darwin nelle scuole e la presenza nei libri di testo della teoria dell’evoluzione rispose:
«Oggi tra gli scienziati cattolici è chiarissimo che si può benissimo credere nell’evoluzionismo e nella Creazione. Dire il contrario è come sostenere che la Terra è piatta o il Sole si muove perché così diceva la Bibbia.»
(Nicola Cabibbo)
Nicola Cabibbo Roma, 10 aprile 1935 è stato un importante fisico italiano, maestro, tra gli altri del recente premio Nobel, Giorgio Parisi.
I suoi studi sull’interazione debole, nati per spiegare il comportamento delle particelle strane, ha portato all’introduzione nella fisica delle particelle dell’angolo di Cabibbo.
Si laurea in fisica nel 1958 con una tesi sul decadimento dei muoni e le interazioni deboli e diviene subito ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare prima a Roma e poi ai laboratori nazionali di Frascati.
Ricercatore al CERN di Ginevra, nel 1963, pubblica l’articolo che lo renderà famoso nella comunità scientifica. Propone l’introduzione dell’angolo di Cabibbo per spiegare i cambiamenti di sapore dei quark durante le interazioni deboli. Questo articolo, nel 2006, è stato valutato come la pubblicazione più citata di tutti i tempi.
Nel 1966 alla Sapienza di Roma ottiene la cattedra di fisica teorica per poi diventare professore ordinario di fisica delle particelle elementari.
Continua i suoi periodi di studio e insegnamento all’estero: è componente dell’Institute for Advanced Study di Princeton, visiting professor alle università di Parigi, New York, Syracuse, ed è nuovamente al CERN dal 2003 al 2004.
Il suo impegno non solo accademico, gli ha visto ricoprire importanti incarichi istituzionali; è stato presidente dell’INFN, e presidente dell’ENEA, socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, e membro della National Academy of Sciences degli Stati Uniti d’America.
Dal 9 giugno 1986 è stato membro e dal 1993 presidente della Pontificia Accademia delle Scienze
Nicola Cabibbo, che da lungo tempo soffriva di una malattia tumorale, è morto la sera del 16 agosto 2010 all’Ospedale Fatebenefratelli di Roma.
Giorgio Parisi, lo cita con affetto durante il discorso di ringraziamento per il conferimento del premio Nobel per la fisica 2021.
E’ passata un po’ d’acqua sotto i ponti dai tempi in cui il Cardinale Bellarmino disse a Galileo che non era prudente esprimere certe eresie. Anche la Chiesa deve adeguarsi.
Les décors peints de l’avant-nef de Farfa en Sabine- Préface par Herbert L.Kessler-
Viella Libreria Editrice
Sinossi del libro di Julie Enckell Julliard-Au seuil du salut offre, pour la première fois, une étude approfondie des décors peints dans l’abbatiale de Farfa entre le XIème et le XIIIème siècles. Les vestiges, qui se trouvent dans la partie Est de l’église médiévale, sont tour à tour identifiés, analysés dans leur fonction symbolique et liturgique, puis replacés dans le contexte spécifique de leur réalisation. L’ouvrage permet ainsi de mesurer, par le biais de l’analyse du décor mis en ouvre dans la deuxième partie du XIème siècle, l’importance capitale que revêtit l’abbaye de Farfa dans le cadre de l’essor du mouvement de la Réforme grégorienne. Le deuxième volet de l’étude met en lumière les spécificités d’un Jugement dernier plus tardif en grande partie resté inédit.
«Au seuil du salut redonne […] à Farfa sa juste place sur la carte de l’art médiéval italien et européen, à un moment critique et encore trop sous-estimé. […] En tenant pleinement compte de la complexité des ambitions, des fonctions, des sources et de la réception d’un monument aussi significatif, ce livre nous offre un paradigme de la recherche en histoire de l’art» (d’après la Préface de Herbert L. Kessler).
INDICE
Herbert L. Kessler, Préface
Introduction
I. Le développement du monastère
1. Les faits historiques. 2. Les données archéologiques.
II. La premiere phase de décoration
1. Fragments, formes, couleurs. 2. Dater les peintures. 3. Un sarcophage déplié. 4. L’incidence de la liturgie. 5. Saint Benoît et Grégoire le Grand : modèles des réformateurs au XIe siècle.
III. La deuxieme phase de décoration
1. Les fragments peints du chœur carré. 2. Datation des peintures.
Conclusion
Liste des abbés de Farfa
Bibliographie
Crédits des illustrations
L’Autore Julie Enckell Julliard ha conseguito il dottorato in Storia dell’arte all’Università di Losanna ed è attualmente conservatrice al Musée Jenisch di Vevey in Svizzera
Viella Libreria Editrice
Via delle Alpi 32 – 00198 Roma Tel. 06.8417758 – Fax 06.85353960
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.