Fausto Politino-LA RIVOLUZIONARIA ANNUNCIAZIONE DI CARAVAGGIO.
Professor Fausto Politino:”Caravaggio dipinge l’Annunciazione del Musée des Beaux-Arts di Nancy intorno al 1609. C’è chi ha giudicato l’opera incompiuta. Forse per il suo perenne fuggire dopo il soggiorno a Malta. Rispetto a quelle di Simone Martini del 1333 con l’arcangelo Gabriele che irrompe nella casa della Vergine a Nazareth e la Madonna che istintivamente si ritrae stringendo il mantello come a proteggersi; dell’affresco del Beato Angelico del 1438/40 ubicato nel convento di San Marco a Firenze che dipinge una scena disadorna e scarnificando le figure sprigiona un’atmosfera mistica; di Leonardo1472-1475 circa, che Imposta il racconto nel giardino esterno della casa della Vergine, l’iconografia classica è mutata. La prospettiva è nuova. L’impostazione rivoluzionata. Se prima l’angelo è rappresentato in piedi o in ginocchio di fronte a Maria con un accenno di inchino, Caravaggio ci mostra l’angelo, un uomo giovane con i capelli arruffati e il fisico non proprio perfetto, ancora in volo. Visto dall’alto con le spalle a chi guarda. Nella mano sinistra ostenta i gigli, simbolo di purezza. Da notare la postura di quel dito indice arcuato. Non indica solo che Maria è la prescelta. Vuole sottolineare che il comando divino non ammette tentennamenti. La sua immagine sovrasta quella della Madonna. Ed è lei ad essere inginocchiata. Nella sua veste blu. Con il capo abbassato e coperto. Le mani conserte sul petto. Nel suo volto si legge l’annuncio della Nascita e la futura passione. Il suo atteggiamento è di totale sottomissione e accettazione della parole dell’angelo e della volontà del Creatore”.
Articolo del Professor Fausto Politino di Conegliano Veneto-
Mentre ci prepariamo a Fara in Sabina a salutare l’estate, ci apprestiamo ad accogliere la magia e il fascino dell’autunno. A Fara in Sabina questa stagione è infatti perfetta per godersi il relax e soprattutto la bellezza del turismo lento. Viaggiare lentamente significa rinunciare alla frenesia e fare esperienze locali più autentiche, entrando in contatto con i luoghi e le persone che si incontrano durante il percorso. Niente di meglio allora di andare alla scoperta di un borgo incantevole, come quello medievale di Fara in Sabina, immerso in pittoreschi paesaggi. Questo borgo sorge su Colle Buzio, tra la verde e rigogliosa natura della Sabina e la valle del Tevere, in provincia di Rieti.
Autunno al borgo di Fara in Sabina-
Preparatevi dunque per una fuga autunnale indimenticabile, dove il turismo lento sarà la chiave per cogliere appieno la bellezza di questo suggestivo borgo medievale.
Il fascino del foliage: uno dei protagonisti indiscussi dell’autunno nel borgo di Fara in Sabina è il foliage. Le foglie degli alberi si tingono di giallo, arancione e rosso, creando uno spettacolo naturale mozzafiato. Passeggiare ad esempio nella pineta o lungo i sentieri del Parco della Rimembranza è un’esperienza rigenerante per corpo e mente.
FARA IN SABINA (RI). Il Museo Civico Archeologico Carro Eretum
Il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina, sito in piazza Duomo a Fara in Sabina: questo affascinante museo, ospitato all’interno del rinascimentale Palazzo Brancaleoni, espone i reperti che hanno consentito di ricostruire componenti importanti della vita e della cultura del popolo sabino. Da non perdere: la sala della Scrittura, interamente dedicata al cippo inscritto ritrovato nel greto del vicino fiume Farfa, la sala dedicata alla Tomba XXXVI di Colle del Forno e l’ultima esposizione che sarà allestita fino alla fine del mese di settembre. Si tratta di antichi resti di eccezionale importanza, che gettano nuova luce sulla storia di Fara in Sabina e i suoi dintorni: durante un intervento di bonifica dagli ordigni bellici, nei pressi della stazione di Passo Corese, è stata infatti incredibilmente rinvenuta una necropoli romana, ovvero ben 42 sepolture datate dal I al III secolo d.C. L’esposizione dunque include gli scheletri di una comunità vissuta qui oltre 1800 anni fa.
Autunno al borgo di Fara in Sabina-
Esplorare il borgo medievale: il borgo medievale di Fara in Sabina, con le sue stradine acciottolate, le case in pietra e gli antichi palazzi nobiliari (Palazzo Orsini, Palazzo Manfredi, Palazzo Martini), sprigiona un fascino particolare in autunno.
Autunno al borgo di Fara in Sabina-Lago di Baccelli Foto di Paolo Genovesi
Sapori d’autunno: la Sabina, in generale, è una terra ricca di storia, cultura e tradizioni. Ma è anche un paradiso per gli amanti degli agriturismi e dei prodotti genuini. Questa zona, immersa nel verde, offre infatti una vasta scelta di strutture dove potersi rilassare e soprattutto dove poter gustare i sapori di stagione della cucina locale. Tra gli agriturismi più caratteristici ci sono Agriturismo Santo Pietro, La Raja e Agriturismo Borghetto d’Arci.
Autunno al borgo di Fara in Sabina-Torre del Lago di Baccelli Foto di Paolo Genovesi
Immersione tra gli ulivi: la Sabina è una terra fortemente votata alla produzione dell’olio extravergine di oliva. Tutto il territorio comunale è infatti circondato da una natura rigogliosa. È possibile fare una passeggiata tra distese verdi di uliveti e vigneti che si alternano a boschi e radure. Inoltre, a Canneto Sabino (una piccola frazione del Comune di Fara) è possibile incontrare “L’Ulivone”, un ulivo millenario (considerato uno dei più antichi d’Italia) che rappresenta un vero e proprio monumento naturale. Viene anche chiamato “di Numa Pompilio”, perché la tradizione vuole che sia stato proprio il secondo Re di Roma, tra il 715 e il 673 a.C., a piantare questo esemplare.
Autunno al borgo di Fara in Sabina-Lago di Baccelli Foto di Paolo Genovesi
Tradizioni e folklore: l’autunno in questo territorio è ricco di feste di paese e tradizioni. Tra le diverse manifestazioni in programma, si può ad esempio partecipare al Festival dei prodotti biologici oppure al Festival della Famiglia. Per informazioni e prenotazioni contattare l’Ufficio Turistico Comunale in piazza Duomo, 2: 0765/277321 (gio. ven. sab. dome e festivi), 380/2838920 (WhatsApp), visitafarainsabina@gmail.com
Pausa romantica sulla terrazza Belvedere: questa maestosa terrazza, situata a pochi passi da piazza Duomo, è quasi un’opera d’arte. È infatti il luogo ideale per una pausa romantica e rilassante o per un aperitivo al tramonto. Da qui si può ammirare l’inconfondibile profilo del Monte Soratte e la valle del Tevere fino a Roma. Si racconta inoltre che da Fara in Sabina si possano contare fino a 92 campanili: Fara è infatti l’unico borgo della Sabina ad avere un panorama a 360°.
Scoprire il crocifisso di pelle umana: Fara in Sabina non è solo un gioiello architettonico, è anche un luogo avvolto nel mistero. Uno dei misteri più affascinanti del borgo riguarda il Duomo (Chiesa di Sant’Antonino Martire) che sobrio, ma affascinante, rappresenta un luogo intriso di eleganza, storia e leggende: sorge nel cuore del centro storico, in piazza Duomo, e si erge sui resti di una chiesa preesistente (oggi sotterranea) della prima metà del ‘300. Nasce tecnicamente come “Collegiata” tra il 1501 e il 1506, ossia come sede di residenza di un “collegio” di canonici. Al suo interno, tra pregevoli opere, si trova anche un crocifisso di inizio ‘600 polimaterico in cuoio, paglia e altre fibre vegetali: la tradizione però narra che la sua pregiata e dettagliata fattura sia data da un rivestimento in pelle umana.
L’autunno è un invito a rallentare, a godersi i piccoli piaceri della vita e a riscoprire la bellezza della natura. Concedersi una gita fuori porta a Fara in Sabina in questa stagione vuol dire quindi farsi conquistare dalla magia di questo borgo e dei suoi tesori tanto culturali quanto naturali.
Jack Kerouac,Scrittore e poeta, nato giovedì 12 marzo 1922 a Lowell, Massachusetts (USA – Stati Uniti d’America), morto martedì 21 ottobre 1969 a St. Petersburg, Florida (USA – Stati Uniti d’America)
Jack Kerouac
Jack Kerouac, E’ uno dei padri della beat generation, l’autore di Sulla strada (1957), lo scrittore che seppe intercettare in anticipo lo spirito di un Paese che stava cambiando, l’interprete di un desiderio di libertà e di profondità spirituale che erano nell’aria, prima degli hippy, di una ribellione contro la civiltà occidentale. I grandi spazi dell’America da attraversare coincidevano con quelli della coscienza. Ha ispirato molti, come Bob Dylan, come i movimenti pacifisti, con le sue idee e con il suo stile immediato, la prosa spontanea, rapsodica e jazz; e continua a ricorrere ancora oggi, nella nostra cultura, ad essere evocato, attraverso quel suo concetto geniale di vivere “on the road”. Jack Kerouac è nato cento anni fa, il 12 marzo 1922, a Lowell (Massachusetts), ed è morto giovane, a 47 anni nel 1969, per una emorragia addominale causata dall’alcolismo.
Poesie di Jack Kerouac
DULUOZ
Nome tratto da fonti
di primo mattino
Nella sede di un giornale
Tanti Anni Fa a Lowell Mass
Mentre gli uccelli cacavano
Sul canale
E Sperma galleggiava
Tra i Muri di Mattone
Di un Albeggiar di Fumo
Che usciva da un Camino
di Chtistian Hill
Ah Sire, Duluoz,
Re dei miei Pensieri,
Salve a te!
(Caccia un’altra lattina di birra)
QUALUNQUE MOMENTO
Qualunque momento hai voglia
Di scrivere una cazzuta poesia
Apri ‘sto libro
& Strilla nient’ altro
Che Crema
Strilla
Non ti scomare
Scorri
Scortica
Scrosta i bordi di Scrono
AllitteRa le Rane
Bekkek! Bekkek!
Koax! Koax!
Carra Quax!
Carra qualquus
Kerouacainius!
Jack Kerouac
PERSINO JOYCE
Persino lui, Joyce,
ha avuto l’amore
Persino i poeti ciechi.
IL POETA
Quante volte da quando
Ho visto il poeta
di Greenwich Village
Scorciare al lavoro nell’ alba grigia
Con la gavetta &
il taglio di capelli fuori moda
Occhi allo Hudson
Narici alla strada
All’inverno, al lavoro, alla carità,
Ai pasti, cibo di follia
Tante volte da quando
Ho visto il poeta
Che scriveva ritmi & rime
Incazzato tra Minetta’s
E Minetta Lane
Affrettarsi al Lavoro
Sessosico, sessitico, psico
analizzato?
Al lavoro nell’alba impoetica
Le mattine dopo essermi sbronzato
con Lucien & Allen
& gli Angeli Alleati
Nella Vasta Pesciaia
di Manhattan
O America!
O canti!
Poesie!
o Sax Alti! o Tenori!
Suonate!
(il Poeta è Morto).
Jack Kerouac
TUONO
Il tuono fa un frastuono
di rumore come finestre
Chiuse in silenzio
istericamente
Perciò Papi è caduto dalle scale
del tempo
Malgrado l’acquasanta
E tutti i vs. beveroni
nell’
Eternità.
LA ROSA
«Ah, Rosa»ho gridato,
«Risplendi nella Fosforescente
Notte.»
L’INSETTO
E al piccolo insetto che io sono
ho detto
«Insetto, detto, vetta, tetta del tempo,
Prova, prendi, prendi, spremi, vola,
L’amore traversa i t.i zigomi
Sulla fosforescente trasparente
ala
Del Metamorfosato Insetto
Kafkiano divora formaggio»
Jack Kerouac
L’ORRORE
Quindi ho visto l’orrore,
E ho gridato,
«Toglitimi di do sso».
L’errorrore mi ha messo osso
Per osso in un sacco di terra,
Poi mi ha arrostito in forno
D’infernocielo nell’alluminio
Di Diavolo Dio Gesù ,
Cioè la Vs. Santa Trinità.
I SORRISI
I sorrisi scostano la pelle delle guance
Da perle d’osso
E mostrano a chi guarda
Tremolare la crema
In occhi di pietra.
SULLE LACRIME
Lacrime è la mia fronte che si rompe,
Il lunato agitato
sedersi
In bui cimiteri di treni
Quando per vedere il volto di mia madre
Che richiamava dalla sua visione
Piansi alla comprensione
Della trappola mortalità
E del sangue personale della terra
Che mi aspettavano
Padre padre
Perché mi hai abbandonato?
Mortalità & repulsione
Scorrazzano per questa città
Infelicità è il mio secondo nome
Voglio essere salvato,
Affondato-non può essere
Non vuole essere
Mai fu fatta per essere
Così da vomitare!
DA VECCHIO
Quando comincerò a invecchiare
E forse sentirò .il braccio sinistro
intorpidirsi
E il cervello resistita speranza,
Siederò addormentato
L’energia soffocata esaurita
nel mio occhio
E l’amore fuggito da me
Quando la peggior notizia
Mi fu portata
Ed esultai di essere solo
Di ormai essere morto
Ho avuto la visione del
santo
Misconosciuto & troppo stanco
per spiegare il perché
E di dolci intenzioni
un altro giorno-
Persino Stanley Gould
andrà in cielo.
LO SO
Lo so che non so scrivere
versi
Ma questo è il mio libro
di righine lattine
Di birra e allora compatiscimi
invisibile
Lettore lasciami pasticciare
anche
Quando ho i postumi & sono senza
idee.
Jack Kerouac
DIO
Seduto sui nostri significati
Egomaniaco Dio,
Solitaria macchia d’olio luccico di pioggia
È solito irritarci per di più
Nel Reale.
SPERANZE
La poesia non lo sa:
Il condizionatore
Disusato d’inverno
È come le mie speranze
Un po’ dentro, un po’ fuori,
Verdi su ruota bianca,
Buone solo a gettare
Un’ombra lunga
Nella livida luce della strada.
55° Chorus
Un giorno o l’altro alzeranno monumenti
costruiti in onore dei folli
quelli che oggi stanno in manicomio
Come primi pionieri del concetto
per il quale se perdi la ragione
attingi al sapere più perfetto
Il quale è immune da predicati
quali «lo sono,. io voglio, io ragiono -»
-immune dal dire: «Lo farò»
– Immune
Immune anche da follia in virtù
del non contatto
Ma per intanto questi medici
deterministi credono davvero
che un matto è matto –
E per questo hanno eretto una religione
da un miliardo di dollari, detta Psico-medicina,
e ah –
Be’ apprenderemo la normalità
dell’Ard Bar
Al mattino, alle volte, da soli
Blues
Parte delle stelle mattutine
La luna e la posta
L’insaziabile X, il dolore delirante,
– la luna Sittle La
Pottle, teh, teh, teh, –
I poeti in vecchie stanze gufose
che scrivono curvi parole
sanno che le parole furono inventate
perché il nulla era nulla
Usando le parole, usate le parole,
le X e gli spazi vuoti
E la pagina bianca dell’Imperatore
E l’ultimo dei Tori
Prima che la primavera si metta in moto
Sono una montagna di nulla
di cui volenti o nolenti disponiamo
Così di notte contratteremo
nel mercato delle parole.
Poesia
Il jazz s’è suicidato
Fate che la poesia non faccia la stessa fine
Non temiate
l’aria fredda della notte
Non date retta alle istituzioni
quando trasformate i manoscritti in
arenaria
non inchinatevi né fate a cazzotti
per i pionieri di Edith Wharton
o per la prosa alla nebraska di ursula major
no, statevene nel vostro giardinetto
& ridete, suonate
il trombone di mollica
& se poi qualcuno vi regala perline
ebree, marocchine, o vattelappesca,
addormentatevi con quella collana al collo
È probabile che facciate sogni più belli
La pioggia non c’è
non ci sono più me
te lo dico io, ragazzo,
affidabile come la merda.
Jack KEROUAC50esimo anniversario della morte di Jack Kerouac il padre della Beat Generation- Jack Kerouacè considerato uno dei più importanti scrittori americani e padre fondatore della Beat Generation. Grazie alle sue idee di libertà, alla sua costante ricerca di realizzazione personale attraverso nuove strade senza mai piegarsi alle convenzioni sociali e grazie al suo stile immediato e concitato totalmente nuovo nel panorama letterario americano, Kerouac divenne, infatti, fonte d’ispirazione di un’intera generazione. La Beat Generation fu un movimento culturale americano costituito da vari autori – come Allen Ginsberg, William S. Burroughs, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Gary Snyder, Michael McClure, Charles Olson e ovviamente Jack Kerouac – che influenzò profondamente la società del tempo, portando alla luce il disagio che stavano vivendo le nuove generazioni e il contrasto tra ciò che la propaganda del governo vendeva come sogno americano e la realtà del dopoguerra.
Jack Kerouac nasce a Lowell, Massachusetts, il 12 marzo 1922 come Jean-Louis Kerouac, in una famiglia di origini franco-canadesi. I suoi primi anni d’infanzia furono sereni, nonostante la morte del fratello maggiore Gerard quando Jack aveva solo quattro anni, trauma che lo colpì molto e che lo accompagnerà per tutta la vita. Verso i sedici anni, però, la situazione in casa cominciò a peggiorare: gli affari del padre andavano male e l’uomo iniziò a bere e ha giocare d’azzardo. Le uniche consolazioni per Jack erano la scuola, dove già si notava la sua passione per la letteratura e il suo talento per la scrittura, e Mary Carney, una ragazza irlandese e suo primo amore, sentimento che ispirerà l’opera Maggie Cassidy. Dopo il liceo si trasferì a New York per frequentare la Horace Mann Preparatory School, dove emersero tutte le potenzialità di Jack, sia in campo letterario che sportivo. In questo periodo cominciò a frequentare anche i circoli artistici e culturali dove conobbe alcune delle persone che ispireranno i suoi lavori. Kerouac iniziò quindi a frequentare la Columbia University, che però abbandonò molto presto per arruolarsi nell’esercito dopo essere rimasto sconvolto dall’attacco giapponese a Pearl Harbor del 1941, ed infatti nel 1942 si imbarcò come sguattero per la marina mercantile. Ma anche questa esperienza non durò a lungo: nel 1943 venne riformato per inadeguatezza al servizio militare a seguito di una diagnosi che lo attestava come uno “psicopatico costituzionale e personalità schizoide, ma non psicotica”. Torna quindi a casa dei genitori lavorando come marinaio. Il 1944 fu un anno molto importante per lui. Conobbe Lucien Carr, William S Burroughs e Allen Ginsberg, il nucleo originale della Beat Generation. Queste conoscenze, oltre ad irresistibili stimoli intellettuali, gli portarono un arresto per favoreggiamento in un caso di omicidio e per pagarsi la cauzione fu costretto a sposare la ricca ragazza che frequentava all’epoca, Edie Parker. Il matrimonio però durò pochissimo: Jack abbandonò la moglie per continuare i suoi vagabondaggi in città insieme ai suoi amici artisti. Nel 1945 Jack incontrò Neal Cassady, un ladro d’auto di vent’anni appena uscito dal riformatorio. Lo scrittore lo vedeva come il simbolo più puro dell’emarginazione e rimase affascinato dalla sua personalità travolgente, tanto da farne il protagonista del suo libro Sulla Strada (On the Road), e fu per raggiungere Neal a Denver che nel 1947 Kerouac si mise per la prima volta sulla strada, in viaggio per il Nord America. Tra il 1949 e il 1950 arrivarono le prime soddisfazioni professionali, una casa editrice comprò e pubblicò La città e la metropoli. Fu un successo ma ancora non faceva di Kerouac uno scrittore del tutto riconosciuto. Tornò a New York e li conobbe e sposò Joan Haverty. Anche questo matrimonio durò solo qualche mese. Dopo la separazione la donna scoprì di essere incinta, ma lo scrittore non volle mai riconoscere la bambina. Nel 1953 Kerouac cominciò ad elaborare con più consapevolezza il suo rivoluzionario metodo di scrittura: una prosa spontanea, immediata, composta da associazioni di idee – rese a un ritmo quasi musicale – dove le convenzioni sociali e la punteggiatura non venivano più rispettate. Stile che trovò la sua prima espressione ne I sotterranei, scritto a seguito della fine di una storia avuta con una ragazza appena uscita da un ospedale psichiatrico che gli spezzò il cuore tradendolo con un suo amico. In quello stesso periodo, non riuscendo a far pubblicare le sue opere già concluse, Jack cadde in depressione e si lasciò andare nel bere. Fu solo nel 1957 che il tanto agognato successo arrivò. Il romanzo Sulla Strada venne pubblicato e fu incredibilmente amato dalla critica e dal pubblico, venendo addirittura definito sul New York Times “una vera e propria opera d’arte”. Nonostante la fama, però, Kerouac rimaneva irrequieto ed era atterrito dall’idea che i suoi successivi lavori non avrebbero potuto riscuotere all’altrettanta approvazione. E così fu. Tutti i suoi libri pubblicati dopo furono stroncati dalla critica, fatto che lo portò a metà del 1960 ai limiti di un tracollo psico-fisico, aggravato dall’alcolismo e da una dipendenza da droghe che ormai lo consumava. Gli anni che ne seguirono non fecero che aggravare le sue condizioni e la sua depressione, nonostante gli sforzi della sua famiglia e della casa editrice che cercavano in tutti i modi aiutarlo a uscirne. Tra i vari sforzi di rilanciarlo e di ispirare la sua vena narrativa vi fu un viaggio in Italia su invito della casa editrice Arnoldo Mondadori Editore. L’esperienza fu disastrosa e si concluse a Napoli dove Jack in un’intervista si mise a difendere l’intervento americano nel Vietnam suscitando molte opposizioni e polemiche. Tornò in America in condizioni sempre più precarie ricevendo un nuovo duro colpo nel 1968, quando l’amato amico Neal Cassady fu trovato morto in una stazione. Un giorno di ottobre nel 1969 Jack accusò forti dolori all’addome e venne portato all’ospedale: il suo fegato aveva ceduto per la cirrosi epatica. A quarantasette anni, il 21 ottobre 1969, Jack Kerouac morì.Jack Kerouac
WOLFGANG AMADEUS MOZART- Il 5 dicembre 1791 moriva a 35 anni
–Articolo di Daniela Musini-
Già nell’Autunno del 1791, durante una passeggiata al Prater, il meraviglioso parco di Vienna, Mozart aveva confidato alla moglie Konstanze il timore di essere stato avvelenato con una qualche sostanza a lento rilascio.
Male stava male davvero: da qualche giorno era debolissimo, camminava a fatica e le gambe la sera si gonfiavano a dismisura.
Non che Wolfgang, anzi, Johannes Chrysostomus Wolfgang Theophilus, avesse mai goduto di buona salute! Tutt’altro. Alto poco più di 1 metro e mezzo, il viso butterato dal vaiolo, una deformazione all’orecchio sinistro e una malformazione congenita ad un rene, era anche affetto da un lieve rachitismo e una forte miopia.
Non solo: pare soffrisse anche della “sindrome di Tourette” che gli faceva fare movimenti inconsulti e dire parolacce e frasi irripetibili al limite della blasfemia (di cui peraltro sono piene le sue lettere) e che alimentava il suo essere irridente, impudente e dispettoso come un folletto.
Ma era un Genio. Assoluto. Unico.
WOLFGANG AMADEUS MOZART
Iniziò a scrivere a 6 anni e nella sua breve vita creò 626 composizioni che hanno spaziato in tutti i generi musicali, moltissime delle quali sono assurte a capolavori immortali e, al di là del nitore formale e del perfetto equilibrio architettonico, celano le vertigini dell’incipiente Romanticismo e le abissali profondità dell’animo umano.
Da piccolo lui e la sua talentuosa sorellina Nannerl avevano stupito le Corti di mezza Europa suonando con strabiliante bravura il clavicembalo; a sei anni, di fronte ad una divertita Maria Teresa, Imperatrice d’Austria, disse tutto serio alla piccola figlia di quest’ultima, Maria Antonietta (che di anni ne aveva 5) «da grande ti sposerò.»
Se la cosa si fosse avverata l’esistenza di quella bimba sarebbe stata assai diversa: sarebbe diventata la moglie di un Genio incompreso, povero e strambo e non quella di Luigi XVI di Francia, non avrebbe consigliato al popolo affamato di mangiare brioches (secondo una credenza popolare mai suffragata da prove certe) e la sua testa non sarebbe rotolata sotto la lama della ghigliottina.
Le cose sarebbero andate diversamente, come sappiamo, anche per il giovane Wolfgang che, innamorato perso della volubile cantante lirica Aloysia Weber, fu da lei illuso e respinto; deluso e affranto, ripiegò sulla di lei sorella Kostanze dalla quale ebbe 4 figli, due dei quali morirono in tenerissima età e con lei condivise un’esistenza che, come spesso accade agli enfants prodiges, da sfavillante divenne opaca e struggente.
Il bimbetto stupefacente era diventato un compositore troppo ardito e innovatore per essere davvero compreso e osannato in vita come avrebbe meritato e la frustrazione, le amarezze e le delusioni costellarono la sua breve esistenza.
Lavorava come un pazzo, Wolfgang, componendo in modo compulsivo, strapazzando il suo fisico gracile che cercava di corroborare con l’immancabile Schwartzpulver, un tonico allora in voga a base di lombrichi e cuore di rana e, soprattutto, con il “liquore di van Swieten” che conteneva un’alta percentuale del tossico mercurio.
Fu questo quindi ad avvelenarlo, e non il pur malevolo e invidioso musicista Antonio Salieri (tesi quest’ultima fantasiosa e affascinante ripresa anche dal regista Milos Forman nel suo capolavoro “Amadeus”).
Povero Wolfgang, con la sua mania dei ricostituenti e le nottate trascorse in bianco ad assecondare il suo disperato furor creativo!
Nell’ultimo anno di Vita la situazione precipitò: non fu solo il suo fisico ad essere minato, ma anche la sua mente, presto abitata dai demoni della depressione.
Una notte, durante un temporale, uno sconosciuto bussò alla sua porta e gli commissionò un Requiem per la morte di un grande personaggio.
Lo sconosciuto altro non era che il servitore del Conte Walseg-Stuppach, un musicista dilettante che in realtà voleva solo appropriarsi della sua musica e farla passare per propria nella cerimonia di commemorazione dell’amata moglie.
WOLFGANG AMADEUS MOZART
Ma nella mente devastata di Wolfgang quel visitatore misterioso divenne un messaggero di morte. Della propria morte. E il magnificente Requiem che si apprestò a comporre, la Musica per la sua dipartita dal mondo.
Non riuscì a completare questo ennesimo capolavoro, Mozart (ci penserà il suo allievo Franz Xaver Sussmayr a farlo) perché nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 1791, dopo aver composto la struggente “Lacrimosa”, spirò tra le braccia della moglie.
Indebitato com’era, al suo povero funerale, avvenuto sotto una tormenta di neve, a seguire il feretro solo la moglie e i due figlioletti.
Fu inumato nel cimitero viennese di San Marco in una tomba senza nome, come allora era d’uso per decreto dell’Imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena che aveva ordinato che i corpi fossero sepolti senza bara e non imbalsamati.
Quando Kostanze tornò l’indomani per portargli un fiore, complice l’ulteriore copiosa nevicata della notte e la mancanza di qualsiasi segno di riconoscimento, vagò per ore nel cimitero spettrale e non riuscì a rintracciarla.
Il più grande ed incompreso Genio della Musica fu condannato a giacere in un’anonima e sconosciuta tomba.
Ma c’è un mistero che aleggia attorno a lui e che riguarda un teschio, conservato al Mozarteum di Salisburgo e che molti sostengono appartenga al musicista.
Gli indizi a favore sono molti: corrispondono le dimensioni, il difetto dell’orecchio sinistro, la frattura alla testa, che Mozart si era procurato in effetti cadendo (e che negli ultimi mesi gli aveva procurato cefalee lancinanti), e, particolare inquietante, quel laccio di ferro che il sacrestano di San Marco, Joseph Rothmayer, gli aveva messo al collo per conferire a quel povero corpo nudo un seppur sinistro segno di riconoscimento.
Che quel povero teschio appartenga davvero a Wolfgang Mozart non lo sappiamo, ma una cosa è incontrovertibile: egli vivrà per sempre, attraverso la sua eccelsa Musica, nei secoli dei secoli.
-Roma, MunicipioXIII: il Castello della Porcareccia-
Roma, Municipio XIII -Franco Leggeri Fotoreportage- : il Castello della Porcareccia – Quartiere Casalotti. Fuori dal traffico della Via Boccea, in una discontinuità edilizia, c’è il Castello della Porcareccia, noto anche con il nome “Castello aureo”, che domina il suo borgo medievale. Il fortilizio, in posizione strategica, è costruito su di uno sperone roccioso. Anticamente vi era una torre di avvistamento, ora scomparsa. Il Castello nel corso dei secoli è stato, più volte, rimaneggiato e, rispetto alla costruzione originale, ora si vedono modifiche strutturali evidenti. Il toponimo deriva da “Porcaritia”.
Il Castello della Porcareccia-cortile interno
Nel passato questa era una località al centro di boschi di querce e, quindi , luogo più che mai adatto all’allevamento dei maiali. Il primo documento che parla del Castello è una lapide del 1002, che si trova nella Chiesa di Santa Lucia delle Quattro Porte ,dove si legge che un prete “romanus” dona la tenuta della Porcareccia ai canonici di Monte Brianzo. Nel 1192 Papa Celestino III dà la cura del fondo ai canonici di Via delle Botteghe Oscure. Il Papa Innocenzo III affidò una parte della tenuta all’Ordine Ospedaliero di Santo Spirito. La tenuta passò, dopo la crisi fondiaria del 1527, ai principi Massimo e nel 1700 ai Principi Borghese, quindi ai Salviati e ai principi Lancellotti, ora la proprietà del Castello è della Famiglia Giovenale che lo possiede dal 1932.
Il Castello della Porcareccia
Il portale d’ingresso è imponente e su di esso vi è lo stemma di Sisto IV. Prima di accedere al cortile interno, nel “tunnel”, in alto, si notano dei fori passanti sedi di una grata metallica che, alla bisogna, era calata per impedire assalti e irruzioni di nemici . Nel giardino interno del Castello vi è, in bella mostra, una stele commemorativa di un funzionario imperiale delle strade di Roma . La stele probabilmente era riversa in terra perché presenta evidenti segni di ruote di carro. Vicino vi è una lapide funeraria con incisi dei pavoni, antico simbolo di morte. Sono visibili altri reperti di epoca romana, come frammenti di capitelli e spezzoni di colonne. In bella mostra, montata alla rovescia, vi è una vecchia macina a mano per il grano, una simile è nel cortile della chiesa di Santa Maria di Galeria. Nel piazzale interno c’è la chiesetta di Santa Maria la cui costruzione risale al 1693.
Il Castello della Porcareccia
Ciò che colpisce nella chiesa è la bellezza dell’Altare realizzato in legno intagliato, come dice uno dei proprietari, il Sig. Pietro Giovenale:”l’Altare è stato costruito dai prigionieri austriaci della Grande Guerra che qui erano stati internati”. Nel 1909, giusto un secolo fa, in questa chiesa celebrava la Messa il giovane prete Don Angelo Roncalli, il futuro Papa Buono, Giovanni XXIII il quale veniva in questi luoghi per goderne la bellezze naturali e gustare ”la buona ricotta” della via Boccea che Gli veniva offerta dai pastori ; a ricordo di questa visite, all’interno della chiesa, per desiderio della Famiglia Giovenale, il Vescovo della Diocesi di Porto e Santa Rufina, Mons. Gino Reali, nel 2004 inaugurò una lapide. La tenuta della Porcareccia fu anche antesignana della “guerra delle quote latte”; Ci narra la storia che nel periodo di carestia si diede il massimo sviluppo all’allevamento dei suini per sfamare la popolazione di Roma, come si legge in una bolla di Papa Urbano V nel 1362 che decretava “libertà di pascolo ai suini in qualsiasi terreno e proprietà…”. Per segnalare la presenza degli animali furono messi dei campanelli alle loro orecchie e chiunque ne impediva il pascolo incorreva in pene severissime.
Articolo e Fotoreportage di Franco Leggeri
N.B. Le foto originali sono di Franco Leggeri- Fonte articolo: Autori Vari- Si Evidenzia e voglio ricordare che gli Alunni di Casalotti hanno realizzato un pregevole lavoro sulle origini e la Storia del Castello. L’Intervista con il Sig. Giovenale è di Franco Leggeri- Si chiarisce che l’articolo è solo una piccola sintesi ricavata da un lavoro molto più esaustivo e completo relativo al Medioevo e i sistemi difensivi della Campagna Romana – TORRI SARACENE-TORRI DI SEGNALAZIONI – Monografia e ricerca storica i biblioteca di Franco Leggeri pubblicazione a cura dell’Associazione DEA SABINA.
Il Castello della PorcarecciaIl Castello della PorcarecciaIl Castello della Porcareccia
Primo Levi -Poesie-Ritroviamo nel volume le poesie scritte a caldo dopo Auschwitz, riarse da quell’esperienza, e poi, più avanti nel tempo, i testi ispirati a una vena didascalico-morale rara nel Novecento italiano. Qui di seguito diamo la premessa scritta da Levi per il suo libro.
SHEMÀ
(anche epigrafe che apre Se questo è un uomo)
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi.
AGLI AMICI
Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita:
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso
Che l’autunno sia lungo e mite.
16 dicembre 1986
LE PRATICHE INEVASE
(una poesia che parla in qualche modo magari un po’ nascosto del suo suicidio)
Signore, a fare data dal mese prossimo
Voglia accettare le mie dimissioni.
E provvedere, se crede, a sostituirmi.
Lascio molto lavoro non compiuto,
Sia per ignavia, sia per difficoltà obiettive.
Dovevo dire qualcosa a qualcuno,
Ma non so più che cosa e a chi: l’ho scordato.
Dovevo anche dare qualcosa,
Una parola saggia, un dono, un bacio;
Ho rimandato da un giorno all’altro. Mi scusi,
Provvederò nel poco tempo che resta.
Ho trascurato, temo, clienti di riguardo.
Dovevo visitare
Città lontane, isole, terre deserte;
Le dovrà depennare dal programma
O affidarle alle cure del successore.
Dovevo piantare alberi e non l’ho fatto;
Costruirmi una casa,
Forse non bella, ma conforme a un disegno.
Principalmente, avevo in animo un libro
Meraviglioso, caro signore,
Che avrebbe rivelato molti segreti,
Alleviato dolori e paure,
Sciolto dubbi, donato a molta gente
Il beneficio del pianto e del riso.
Nel troverà traccia nel mio cassetto,
In fondo, tra le pratiche inevase;
Non ho avuto tempo per svolgerla. E’ peccato,
Sarebbe stata un’opera fondamentale.
19 aprile 1981
ALZARSI
(anche epigrafe de La Tregua)
Sognavamo notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
“Wstawac”:
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
“Wstawac”.
11 gennaio 1946
APPRODO
Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro sé mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati;
E siede e beve all’osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
Felice l’uomo come sabbia d’estuario,
Che ha deposto il carico e si è tersa la fronte
E riposa al margine del cammino.
Non teme né spera né aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.
10 settembre 1964
LA BAMBINA DI POMPEI
Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si è fatto nero.
Invano, perché l’aria volta in veleno
È filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l’orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta è stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull’altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.
20 novembre 1978
PARTIGIÀ
Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
Quelli che restano hanno i capelli bianchi
E raccontano ai figli dei figli
Come, al tempo remoto delle certezze,
Hanno rotto l’assedio dei tedeschi
Là dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
Altri rosicchiano la pensione dell’Inps
O si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’è congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
Con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sarà duro,
ci sarà duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci,
Diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
Perché nell’alba non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno è nemico di ognuno,
Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
La mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non è mai finita.
23 luglio 1981
IL SUPERSTITE
a B. V.
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’è.
“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è colpa mia se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni”.
4 febbraio 1984
CANTO DEI MORTI INVANO
Sedete e contrattate
A vostra voglia, vecchie volpi argentate.
Vi mureremo in un palazzo splendido
Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco
Purché trattiate e contrattiate
Le vite dei vostri figli e le vostre.
Che tutta la sapienza del creato
Converga a benedire le vostre menti
E vi guidi nel labirinto.
Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,
L’esercito dei morti invano,
Noi della Marna e di Montecassino
Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:
E saranno con noi
I lebbrosi e i tracomatosi,
Gli scomparsi di Buenos Aires,
I morti di Cambogia e i morituri d’Etiopia,
I patteggiati di Praga,
Gli esangui di Calcutta,
Gl’innocenti straziati a Bologna,
Guai a voi se uscirete discordi:
Sarete stretti dal nostro abbraccio.
Siamo invincibili perché siamo i vinti.
Invulnerabili perché già spenti:
Noi ridiamo dei vostri missili.
Sedete e contrattate
Finché la lingua vi si secchi:
Se dureranno il danno e la vergogna
Vi annegheremo nella nostra putredine.
14 gennaio 1985
(purtroppo il danno e la vergogna durano, mio povero Primo…)
Ad ora incerta raccoglie sessantatré poesie e dieci traduzioni. Le poesie coprono un arco di quarant’anni, dal 1943 (Crescenzago) al 1984, quando Levi usava pubblicarle sulle pagine culturali del quotidiano torinese «La Stampa».
Primo Levi -Poesie
Ritroviamo nel volume le poesie scritte a caldo dopo Auschwitz, riarse da quell’esperienza, e poi, più avanti nel tempo, i testi ispirati a una vena didascalico-morale rara nel Novecento italiano. Qui di seguito diamo la premessa scritta da Levi per il suo libro.
«In tutte le civiltà, anche in quelle ancora senza scrittura, molti, illustri e oscuri, provano il bisogno di esprimersi in versi, e vi soggiacciono: secernono quindi materia poetica, indirizzata a se stessi, al loro prossimo o all’universo, robusta o esangue, eterna o effimera. La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi?
Uomo sono. Anch’io, ad intervalli irregolari, «ad ora incerta», ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti. Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale.
Primo Levi»
Introduzione di Primo Levi alla prima edizione Garzanti 1984, collana «Poesie».
La poesia di Levi ragiona, descrive (animali, soprattutto), gioca con le parole, si lancia verso geografie lontane e verso storie sprofondate nel mito. Gli esercizi di traduzione riguardano un anonimo scozzese del Seicento, Rudyard Kipling e soprattutto – otto testi su dieci – Heinrich Heine: versioni, come dice lo stesso autore, «più musicali che filologiche, e piuttosto divertimenti che opere professionali». A seguire un brano critico del poeta Giovanni Raboni.
«[…] a me sembra che la scrittura poetica di Levi abbia, sin dall’inizio […], lo stesso solenne acume morale, la stessa forza di memoria, ammonimento e pietà, che rendono così sostanziosa, così giusta, così naturalmente memorabile la sua prosa. […] In Levi lo scatto, l’impulso iniziale di ogni singola poesia […] nasce dalla ragione, dalla lettura morale della realtà, da quella capacità di capire la propria sofferenza e di vivere la propria indignazione come patrimonio comune a tutti gli uomini, che formano la peculiarità e oserei dire l’insostituibilità della sua prosa».
Giovanni Raboni, Primo Levi un poeta vero ad ora incerta, «La Stampa», 17 novembre 1984, poi nell’antologia critica che chiude l’edizione economica di Ad ora incerta, Garzanti, Milano 1990.
Ad ora incerta vinse nel 1985 il Premio Abetone della Provincia di Pistoia e il Premio nazionale Giosué Carducci di Pietrasanta. Per sottile ironia, il penultimo testo della raccolta, Pio, consiste in un rovesciamento parodico della celebre Il bove di Carducci
Primo Levi –
Primo Lèvi, scrittore ebreo italiano (Torino 1919-1987), giunse alla letteratura attraverso la tragica esperienza vissuta nei lager che lo segnò fino al punto di diventare per lui un’ossessione che lo portò dopo tanti anni al suicidio. Il racconto delle traversie subite ad Auschwitz è consegnato a Se questo è un uomo (1947), denuncia della tragica e subumana vita nel lager. Dopo la raffinata e complessa raccolta di racconti Lilit e altri racconti (1981), ebbe un grande successo con Se non ora, quando? (1982, premio Viareggio e premio Campiello) in cui narra, in chiave epica e picaresca, l’epopea di un gruppo di partigiani dalla Russia a Milano.
Nato il 31 luglio del 1919 a Torino, da genitori di religione ebraica, Primo Levi si diploma nel 1937 al liceo classico Massimo D’Azeglio e si iscrive al corso di laurea in chimica presso la facoltà di Scienze dell’Università di Torino. Nel ’38, con le leggi razziali, si istituzionalizza la discriminazione contro gli ebrei, cui è vietato l’accesso alla scuola pubblica. Levi, in regola con gli esami, ha notevoli difficoltà nella ricerca di un relatore per la sua tesi: si laurea nel 1941, a pieni voti e con lode, ma con una tesi in Fisica. Sul diploma di laurea figura la precisazione: «di razza ebraica». Comincia così la sua carriera di chimico, che lo porta a vivere a Milano, fino all’occupazione tedesca: il 13 dicembre del ’43 viene catturato a Brusson e successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli, dove comincia la sua odissea. Nel giro di poco tempo, infatti, il campo viene preso in gestione dai tedeschi, che convogliano tutti i prigionieri ad Auschwitz.
È il 22 febbraio del ’44: data che nella vita di Levi segna il confine tra un “prima” e un “dopo”.
«Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi» (P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi 1998, p. 15).
In fretta e sommariamente viene effettuata una vera e propria selezione: «In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente» (Op. cit., p. 17).
L’autore è deportato a Monowitz, vicino Auschwitz, in un campo di lavoro i cui prigionieri sono al servizio di una fabbrica di gomma. Al lager, persi nei loro pensieri, presi da mille domande, da ipotesi continue che per quanto catastrofiche, non si avvicinano neanche lontanamente alla verità, si ritrovano ,in pochissimo tempo, rasati, tosati, disinfettati e vestiti con pantaloni e giacche a righe. Su ogni casacca c’è un numero cucito sul petto. I prigionieri vengono marchiati come bestie. Il loro compito: lavorare, mangiare, dormire, OBBEDIRE. Il loro intento: sopravvivere. Dietro quel numero non c’è più un uomo, ma solo un oggetto: häftling, cioè “pezzo”. Se funziona, va avanti. Se si rompe, è gettato via.
“Se questo è un uomo” di PRIMO LEVI
Levi è l’häftling 174517. Funzionante.
Primo Levi è tra i pochissimi a far ritorno dai campi di concentramento. Ci riesce fortunosamente, grazie a una serie di circostanze e solo dopo un lungo girovagare nei Paesi dell’est.
Quale testimone di tante assurdità, sente il dovere di raccontare, descrivere l’indescrivibile, affinchè tutti sappiano, tutti si domandino un perché, tutti interroghino la propria coscienza: comincia a scrivere, elaborando così il suo dolore, il suo annientamento, il suo avventuroso ritorno a casa. Nel ’47, rifiutato dalla Einaudi, il manoscritto Se questo è un uomo è pubblicato dalla De Silva editrice.
Il libro ottiene un discreto successo di critica ma non di vendita. Solo nel ’56 la Einaudi comincia a pubblicare tutti i suoi lavori: Se questo è un uomo è tradotto in diverse lingue, La Tregua vince la prima edizione del Premio Campiello. Nel ’67 raccoglie i suoi racconti in un volume intitolato Storie naturali adottando lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Nel ’71 esce Vizio di forma, nuova serie di racconti e nel ’78 La chiave a stella che vince il Premio Strega. Nel ’81 viene edita un’antologia personale dal titolo La ricerca delle radici nella quale sono raccolti tutti gli autori che hanno contato nella formazione culturale dell’autore. Nel novembre dello stesso anno esce Lilìt e altri racconti e l’anno successivo Se non ora quando? che vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello.
“Se questo è un uomo” di PRIMO LEVI
Nel frattempo Levi lavora anche come traduttore. Nell’ottobre del ’84 pubblica Ad ora incerta e a dicembre Dialogo in cui riporta una conversazione avuta con il fisico Tullio Regge. Nel novembre dello stesso anno esce l’edizione americana del Sistema periodico e nel gennaio del ’85 una cinquantina di scritti pubblicati precedentemente su diverse testate, raccolti in un volume unico intitolato L’altrui mestiere. Nel 1986 pubblica I sommersi e i salvati.
L’ 11 Aprile 1987, in un periodo di depressione, ancora tormentato dai ricordi di Auschwitz, Primo Levi muore suicida nella sua casa di Torino. Dirà di lui Claudio Toscani: «L’ultimo appello di Primo Levi non dice non dimenticatemi, bensì non dimenticate».
Hilda Doolittle Poetessa statunitense (Bethlehem, Pennsylvania, 1886 – Zurigo 1961), nota con le iniziali H. D. In Europa dal 1911. Aderì fin dall’inizio al movimento imagista, nel cui orientamento la sua arte è rimasta anche dopo che il movimento finì praticamente dissolto. Sposò nel 1913 R. Aldington, dal quale divorziò nel primo dopoguerra. Le sue prime poesie apparvero sulla rivista Poetry nel 1913. Pubblicò in seguito i volumi: Sea garden (1916), Hymen (1921), Heliodora and other poems (1924), Palimpsest (1926, romanzo), Hedylus (1928, romanzo), Hedgehog (1937), The walls do not fall (1944), Flowering of the rod (1946), By Avon river (1949), Tribute to Freud (1956, con alcune lettere inedite di Freud all’autrice), il madrigale Bid me to live (1960) e il poema Helen in Egypt (1961).
Euridice
I
Così mi hai riportata indietro,
io che avrei potuto camminare con i vivi
sulla terra,
io che avrei potuto dormire tra i fiori vivi
finalmente;
così per la tua arroganza
e la tua spietatezza
sono riportata indietro
dove i licheni morti grondano
ceneri morte sul muschio del frassino;
così per la tua arroganza
io sono distrutta infine,
io che avevo vissuto incosciente,
che ero stata quasi dimenticata;
se tu mi avessi lasciata aspettare
sarei passata dall’apatia
alla pace,
se tu mi avessi lasciata riposare con i morti,
avrei dimenticato te
e il passato.
Giglio di mare
(da Sea Garden, 1916)
Giunco,
squarciato e strappato
ma doppiamente ricco –
le tue grandi cime
fluttuano sui gradini del tempio,
ma tu sei spezzato dal vento.
La corteccia del mirto
è punteggiata da te,
le squame sono distrutte
dal tuo stelo,
la sabbia spezza i tuoi petali,
lo solca con lamina dura,
come selce
su pietra brillante.
Eppure benché il vento
frusti la tua corteccia,
sei sollevato,
sì – benché sibili
per ricoprirti di schiuma.
Euridice (VII)
(da The God, 1913-17)
Almeno io ho i fiori per me stessa,
e i miei pensieri, nessun dio
me li può prendere,
ho il fervore di me stessa per presenza
e il mio stesso spirito per luce;
e il mio spirito con la sua perdita
sa questo;
benché piccola contro il buio,
piccola contro le rocce informi,
l’inferno deve spaccarsi prima che io sia perduta;
prima che io sia perduta,
l’inferno si deve aprire come una rosa rossa
per far passare i morti.
[31]
(The Walls Do Not Fall, in Trilogy, 1944)
Nostalgia, esaltazione,
nocciolo d’infuocate elucubrazioni,
appunti scritti in margine,
palinsesto indecifrabile, coperto di scarabocchi
con troppe emozioni in conflitto,
ricerca d’una definizione finita
dell’infinito, scivolando
in vaghe asserzioni cosmiche,
in facili sentimenti,
pratica di conto corrente spirituale,
con il dare-avere troppo nettamente marcati,
ridda d’immagini incontrollate,
appunti numerici d’equazioni psichiche,
rune, superstizioni, evasioni,
invasione della super-anima in una coppa
troppo fragile, in un vaso troppo angusto,
in vaghe asserzioni cosmiche,
in facili sentimenti,
pratica di conto corrente spirituale,
con il dare-avere troppo nettamente marcati,
ridda d’immagini incontrollate,
appunti numerici d’equazioni psichiche,
rune, superstizioni, evasioni,
invasione della super-anima in una coppa
troppo fragile, in un vaso troppo angusto,
troppo poroso per contenere il traboccare
dell’acqua-che-sta-per-divenir-vino
alle nozze; ricerca sterile,
arroganza, certezza, penosa reticenza,
presunzione, intrusione d’allusioni
improprie, forzate;
illusioni di dei perduti, di démoni;
gioco d’azzardo con l’eternità,
iniziata alla saggezza segreta,
sposa del regno,
miraggi, ritorno d’antichi valori,
interessa perduta, pazzia.
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
[1]
(Tribute to the Angels, in Trilogy, 1945)
Ermete Trismegisto
è patrono degli alchimisti;
suo dominio è il pensiero;
scaltro, creativo, curioso,
suo metallo è il mercurio;
poeti, ladri e oratori sono i suoi clienti;
ruba, quindi, Oratore
e saccheggia, o Poeta,
prendi quel che l’antica chiesa
trovò nella tomba di Mitra,
candela, scritture, sonaglio,
prendi quel che la nuova chiesa ha disprezzato
rotto e frantumato;
raccogli i frammenti di vetro infranto
e col tuo soffio e il fuoco
fondi e integra,
re-invoca, ri-crea
opale, onice, ossidiana,
ora dispersi in schegge
calpestate da tutti.
[9]
(The Flowering of the Rod, in Trilogy, 1946)
Non è fantasia poetica
ma realtà biologica,
è un fatto: sono un’entità
come l’uccello, l’insetto, la pianta
o la cellula d’alga;
io vivo; io sono viva;
sta attento, ignorami,
rinnegami, non riconoscermi,
evitami; perché questa realtà
è contagiosa – estasi.
HEAT
O wind, rend open the heat,
cut apart the heat,
rend it to tatters.
Fruit cannot drop
through this thick air—
fruit cannot fall into heat
that presses up and blunts
the points of pears
and rounds the grapes.
Cut the heat—
plough through it,
turning it on either side
of your path.
CALORE
O vento, strappa il calore,
dividi il calore,
laceralo in stracci.
La frutta non riesce a cadere
attraverso questa aria densa―
la frutta non può cadere nel calore
che schiaccia e smussa
le punte delle pere
e arrotonda l’uva.
Taglia il calore―
apriti un varco attraverso di esso,
ruotandolo in ogni lato
del tuo cammino.
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
LETHE
Nor skin nor hide nor fleece
Shall cover you,
Nor curtain of crimson nor fine
Shelter of cedar-wood be over you,
Nor the fir-tree
Nor the pine.
Nor sight of whin nor gorse
Nor river-yew,
Nor fragrance of flowering bush,
Nor wailing of reed-bird to waken you,
Nor of linnet,
Nor of thrush.
Nor word nor touch nor sight
Of lover, you
Shall long through the night but for this:
The roll of the full tide to cover you
Without question,
Without kiss.
LETE
Né la pelle né il cuoio né la lana
ti copriranno,
né la tenda cremisi né l’elegante
rifugio di legno di cedro sarà su di te,
né l’abete
né il pino.
Né la vista del ginestrone né della ginestra
né il tasso di fiume,
né la fragranza di un cespuglio in fiore,
né il pianto di una cannaiola a svegliarti,
né il fanello
né il tordo bottaccio.
Né la parola né il tocco né la vista
di un amante, tu
bramerai tutta la notte solo questo:
lo srotolarsi dell’alta marea che ti copre
senza dubbio,
senza bacio.
Traduzioni di Arianna Giovannini
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
L’evoluzione della poesia modernista: la visione poetica di Hilda Doolittle | L’Altrove
Hilda Doolittle, nota al mondo letterario come HD, è una figura fondamentale nel canone della poesia modernista, spesso trascurata nelle discussioni dominate dai suoi contemporanei maschi come EzraPound e TS Eliot. Tuttavia, i suoi contributi al movimento modernista sono profondi e trasformativi, catturando temi complessi di identità, genere e mitologia, nonché una distinta precisione linguistica che la contraddistingue. Questo saggio approfondisce l’opera poetica di HD, esaminando la sua voce unica, le preoccupazioni tematiche e le innovazioni stilistiche, che insieme illuminano la sua visione e consolidano la sua importanza nel panorama della letteratura del XX secolo.
Nata nel 1886 a Bethlehem, Pennsylvania, HD è cresciuta in una famiglia profondamente influenzata dal ricco arazzo della letteratura classica. La posizione di suo padre come professore di matematica e la discendenza di sua madre collegata all’influente poeta e critico, Theodore H. Doolittle, hanno fornito un ambiente stimolante per le sue ricerche intellettuali. Fu durante i suoi anni di formazione presso l’Università della Pennsylvania e in seguito nelle sue interazioni con i circoli d’avanguardia in Europa che HD avrebbe affinato la sua voce poetica. Divenne parte integrante del movimento Imagist, che sosteneva la chiarezza di espressione, la precisione delle immagini e l’economia ritmica, principi che risuonano attraverso il suo lavoro.
HD emerse nell’arazzo in divenire del modernismo insieme a una comunità di scrittori che cercarono di liberarsi dalle convenzioni della poesia vittoriana. Nei suoi primi lavori, in particolare nella raccolta Sea garden
(1916), esemplifica i principi dell’Imagismo attraverso il suo meticoloso uso di immagini e attenzione al mondo naturale. La poesia “Sea Iris” funge da prima illustrazione di questo aspetto. Attraverso il suo linguaggio preciso, cattura la tensione tra il fisico e il metafisico, illustrando come la natura possa evocare risonanze emotive più profonde:
Gli iris del mare sono di due colori; il bianco, luminoso nella luce dello scintillio dell’acqua, e il blu profondo, scuro, galleggiante, immobile.
In queste righe, HD evoca un immaginario vivido che invita il lettore a sperimentare la bellezza viscerale del mare, accennando anche alla dicotomia tra luce e oscurità, galleggiabilità e immobilità. Tali giustapposizioni riflettono le sue preoccupazioni per la dualità, un tema ricorrente che riecheggia in tutto il suo corpus di opere.
Mentre HD continuava a sviluppare la sua voce, la sua poesia iniziò a riflettere un profondo impegno con i miti antichi e gli archetipi femminili come mezzo per esplorare identità e genere. Le sue raccolte, in particolare “Helen in Egypt” (1961), offrono un riesame delle narrazioni classiche, accostandole a temi contemporanei di agency e resilienza femminile. Qui, HD riconfigura il mito di Elena di Troia, che è stata storicamente ritratta come una vittima passiva del destino, in una figura di forza e autonomia. Intrecciando storie antiche con l’esperienza personale, HD trascende i confini tra lo storico e il personale, suggerendo che le storie delle donne sono state ampiamente emarginate o travisate.
Il rapporto di HD con il mito di Eco esemplifica ulteriormente la sua esplorazione tematica di voce e silenzio. In The Walls Do Not Fall (1944), che affronta l’impatto della seconda guerra mondiale, gli echi del passato diventano un motivo potente, suggerendo come la storia riverberi nel presente, in particolare per le donne le cui voci sono state soffocate o rese inudibili. Il suo desiderio di connessione e comprensione in mezzo al caos emerge in modo toccante in versi che riflettono sia disperazione che resilienza, utilizzando il motivo dell’eco per evocare un senso di continuità anche di fronte alla desolazione.
Nelle sue opere successive, HD ha ulteriormente interrogato la nozione di identità, spesso attingendo alle sue esperienze e lotte con la salute mentale, in particolare la sua battaglia contro la depressione e le conseguenze delle sue relazioni tumultuose. La raccolta “Trilogy”, composta durante i suoi anni in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale, incarna la sintesi delle sue influenze eclettiche: mitologia, femminismo e traumi personali. Il verso è intriso di una cupa meditazione sulla perdita e il rinnovamento, ma conserva una qualità eterea che cattura il potenziale trasformativo dell’arte.
Stilisticamente, la poesia di HD è caratterizzata dalla sua fluidità e densità, caratterizzata da versi liberi e strutture frammentate che sfidano le forme convenzionali. Il suo uso dell’enjambement crea un senso di movimento e urgenza, costringendo il lettore a impegnarsi con il testo a un livello più profondo. Inoltre, la sua profonda attenzione al suono e al ritmo le consente di infondere le sue immagini con profondità emotiva, elaborando versi che risuonano con il lettore sia sensualmente che intellettualmente.
L’eredità poetica di HD è una testimonianza del suo spirito innovativo e del suo incrollabile impegno nell’esplorare le complessità dell’esperienza umana attraverso la lente del modernismo. Le sue opere sfidano i lettori a considerare l’intersezione tra identità, mito e memoria, mentre le sue immagini vivide e la sua voce unica continuano a parlare al discorso artistico contemporaneo. Mentre studiosi e lettori rivisitano i suoi contributi, diventa innegabilmente chiaro che HD non solo occupa il suo legittimo posto all’interno del canone modernista, ma funge anche da profonda influenza per le future generazioni di poeti che navigano nelle complessità delle loro narrazioni. Nel celebrare Hilda Doolittle, dobbiamo riconoscerla come qualcosa di più di una semplice partecipante al movimento modernista; è una forza fondamentale il cui lavoro ci invita ad approfondire l’interazione tra testo, identità e il potere duraturo dell’espressione artistica.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Ricordata prevalentemente per la sua partecipazione alla nascita del movimento imagista guidato da Ezra Pound, con il quale ebbe una relazione nell’adolescenza, si distaccò con la maturità dallo stile modernista per abbracciare temi mitologici e personali, influenzati in parte dalle teorie psicoanalitiche di Carl Gustav Jung.
Se la sua lirica Oread (“Oreade”) venne giudicata da Pound come il miglior esempio poetico imagista, già ai tempi della prima guerra mondiale le sue opere, sia per il linguaggio e per gli argomenti si accostarono ai modelli dell’antica Grecia. Dal 1918 H.D. tradusse classici greci, tra i quali l’Ippolito di Euripide.
Nel periodo londinese diresse brevemente la rivista letterariaThe Egoist, vicina alla poetica di Pound e T.S. Eliot, e nel dopoguerra intensificò la pubblicazione di raccolte poetiche, come Hymen (“Imene”) (1921) e Heliodora and Other Poems (“Eliodora ed altre poesie”) (1924).[1]
Scrisse inoltre testi teatrali, adattamenti del teatro greco fra cui Hippolytus temporizes (“Ippolito temporeggia”) (1927), e numerosi romanzi.
Si sposò con Richard Aldington, ebbe una figlia, Perdita, da un’altra relazione, fu intima di D.H. Lawrence. Rimase permanentemente in Europa, ed ebbe una lunga relazione con la poetessa Bryher (pseudonimo di Annie Winifred Ellerman), con cui fondò la rivista cinematografica Close-up e la casa di produzione POOL. Di questa rimane solo il film Borderline, che annuncia i temi della produzione letteraria tardiva di H.D., quali l’inconscio e gli stati mentali.
Durante la seconda guerra mondiale la scrittrice raccolse le sue poesie di matrice religiosa nell’opera Tribute to the Angels (“Omaggio agli angeli”) (1945).
Si rivelò interessante anche il saggio psicoanalitico intitolatoTribute to Freud (1956), impreziosito dall’aggiunta delle lettere scambiate tra i due personaggi.
Opere
Poesia
Sea Garden (1916)
The God (1917)
Translations (1920)
Hymen (1921)
Heliodora and Other Poems (1924)
Hippolytus Temporizes (1927)
Red Roses for Bronze (1932)
The Walls Do Not Fall (1944)
Tribute to the Angels (1945)
Trilogy (1946), trad. Trilogia, a cura di Marina Camboni, Caltanissetta: Sciascia, 1993
Flowering of the Rod (1946)
By Avon River (1949)
Helen in Egypt (1961)
Hermetic Definition (1972)
Prosa
Notes on Thought and Vision (1919)
Paint it Today (scritto nel 1921, pubblicato nel 1992)
Asphodel (scritto nel 1921–22, pubblicato nel 1992)
Palimpsest (1926)
Kora and Ka (1930)
Nights (1935)
The Hedgehog (1936)
Tribute to Freud (1956), trad. I segni sul muro, con alcune lettere inedite di S. Freud all’autrice, trad. di Massimo Ferretti, Roma: Astrolabio, 1973
Visions and Projections (1982), trad. Visioni e proiezioni, a cura di Marina Vitale, Napoli: Liguori, 2006 ISBN 978-88-207-4014-6
Majic Ring (scritto nel 1943–44, pubblicato nel 2009)
The Sword Went Out to Sea (scritto nel 1946–47, pubblicato nel 2007)
White Rose and the Red (scritto nel 1948, pubblicato nel 2009)
The Mystery (scritto nel 1948–51, pubblicato nel 2009)
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
Fonte – Enciclopedia Treccani on line–Hilda Doolittle Poetessa statunitense (Bethlehem, Pennsylvania, 1886 – Zurigo 1961), nota con le iniziali H. D. In Europa dal 1911. Aderì fin dall’inizio al movimento imagista, nel cui orientamento la sua arte è rimasta anche dopo che il movimento finì praticamente dissolto. Sposò nel 1913 R. Aldington, dal quale divorziò nel primo dopoguerra. Le sue prime poesie apparvero sulla rivista Poetry nel 1913. Pubblicò in seguito i volumi: Sea garden (1916), Hymen (1921), Heliodora and other poems (1924), Palimpsest (1926, romanzo), Hedylus (1928, romanzo), Hedgehog (1937), The walls do not fall (1944), Flowering of the rod (1946), By Avon river (1949), Tribute to Freud (1956, con alcune lettere inedite di Freud all’autrice), il madrigale Bid me to live (1960) e il poema Helen in Egypt (1961).
Plinio il Vecchio -Amore per la natura, la terra, le tradizioni agricole .
Il nome di Plinio è indissolubilmente legato all’immane tragedia dell’eruzione del Vesuvio del 79 d. C., ed egli è diventato il simbolo dello studioso che sacrificò la propria vita alla scienza (“protomartire della scienza sperimentale” lo ha definito Italo Calvino), e dell’uomo generoso che accorse in aiuto degli sventurati còlti di sorpresa dal tremendo cataclisma. È necessario tuttavia notare che il suo interesse fu sempre rivolto all’osservazione e alla descrizione dei più minuti e svariati aspetti del mondo vegetale, minerale, umano, più che alla speculazione pura, o alla ricerca delle cause dei fenomeni naturali.
Con l’ascesa al potere di Vespasiano e il mutamento di clima politico seguìto alla morte di Nerone e al periodo di anarchia militare degli anni 68/69 d.C., Plinio (chiamato in seguito il Vecchio per distinguerlo dal nipote Plinio il Giovane), che aveva rifiutato ogni incarico sotto gli imperatori Claudio e Nerone preferendo dedicarsi agli studi, vide riaprirsi la strada della carriera politica. La sua fedeltà alla dinastia Flavia non era dovuta né a opportunismo personale, né a piaggeria di cortigiano,ma a condivisione ideale dei suoi valori. Accettò dunque di essere più volte procuratore in varie province dell’Impero,incarico che gli permise ampi sopralluoghi di carattere naturalistico, etnografico, geografico, in terre straniere. Fu poi nominato capo della flotta ancorata a capo Miseno, e qui trovò la morte durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. mentre si recava a portare soccorso alle popolazioni colpite da quel tragico evento naturale (della morte di Plinio durante l’eruzione del Vesuvio si è parlato in Umbrialeft del 27/2/2015)
Plinio il Vecchio naturalis
Nulla è rimasto di altre sue opere, ma la“NaturalisHistoria”, dedicata a Tito, figlio di Vespasiano e pubblicata nel 77, gli ha riservato nei secoli grande fama. L’importanza di questa poderosa opera enciclopedica, preziosa per quasi tutte le discipline scientifiche, è incalcolabile. Le notizie in essa riportate sono trentaquattromila (frutto della consultazione di duemila volumi di cinquecento autori), e spaziano dalla geografia alla cosmologia, dall’antropologia alla etnografia, dalla zoologia alla biologia e alla medicina, dalla metallurgia alla mineralogia, con ampi excursus anche di storia dell’arte.
Dovunque lo portarono i diversi incarichi della sua carriera, Plinio osservò con un genuino interesse naturalistico-scientifico l’infinita varietà dei fenomeni della natura, la fauna, la flora, gli usi e i costumi degli uomini. Annotava le osservazioni dal vivo, e gli appunti delle sue quotidiane letture che poi costituirono il materiale per la composizione della “NaturalisHistoria”, sintesi enciclopedica dell’universo naturale, ma scritta in funzione dell’uomo.
Al mondo vegetale Plinio dedica un’attenzione particolare: sorprendente è il suo spirito di osservazione rivolto alle più comuni piante spontanee. Troviamo dappertutto tracce di esperienze vissute, echi di cose viste e non soltanto lette: i luoghi dell’infanzia nella campagna lombarda, i paesaggi lacustri, i canneti, i salici presso le acque del lago Lario, la fertile e lussureggiante terra nei dintorni di Pompei dove egli soggiornò negli ultimi anni della sua vita, ma anche le fitte foreste di alberi di alto fusto che “aggiungono ombra al cielo” nei territori germanici dove si era recato come Ufficiale di cavalleria, i desolati paesaggi che si affacciano sul mare del Nord le cui terre flagellate continuamente dalle onde dell’oceano sono prive di alberi e di ogni vegetazione. Con semplicità e simpatia è svolta la trattazione delle più umili piante degli orti: la lattuga, il cavolo, il basilico, la rughetta, la ruta, la menta, la malva, l’origano, accompagnate sempre da brevi note sui rimedi contro le malattie o gli insetti che le infestano.
In giorni come i nostri, nei quali si fa un gran parlare di cibi transgenici, giova forse ricordare il sarcasmo di questo autore che non finisce mai di stupirci con le sue “anticipazioni”, contro i prodotti creati artificialmente, come ad esempio gli asparagi: la natura aveva creato gli asparagi di bosco, in modo che chiunque potesse raccoglierli dove spuntavano, ma “ecco che compaiono gli asparagi coltivati, e Ravenna ne produce di tali che raggiungono il peso di una libbra. Che prodigi operano i buongustai!” Parlando poi della differenza di sapore tra i frutti o gli ortaggi selvatici e quelli coltivati, egli nota che i primi hanno sempre un sapore più intenso e gradevole.
Plinio il Vecchio naturalis
Se i profumi dell’Arabia e dell’India e la loro importazione e diffusione gli suggeriscono considerazioni moralistiche contro il lusso, anche il desiderio di prodotti alimentari sempre più raffinati, riservati ai ricchi, suscitano la sua riprovazione: “la forza del denaro può tutto, e anche l’alimentazione si differenzia a seconda degli strati sociali: un pane raffinato, elaborato, prodotto con le migliori farine riservato ai ricchi e un altro più rozzo per la plebe”. Senza dubbio tale atteggiamento non è dettato da istanze di democrazia, ma da un’etica conservatrice diffidente nei confronti dell’evoluzione economica, della trasformazione dei metodi produttivi, dell’allargamento dei mercati, dell’importazione di prodotti stranieri che cambiano i costumi e le abitudini tradizionali. Tale posizione ideologica induce l’Autore a considerare l’eccesso di raffinatezza causa di decadenza, e le nuove inquietanti forme di lusso e di ricercatezza pericolose per gli equilibri sociali.
Trattando delle essenze odorose estratte dalle piante non potevano mancare le frecciate contro il lusso, tanto più deplorevole in quanto costringe a sborsare fino a quattrocento denari per poter disporre di modeste quantità di profumo, un lusso dunque “fra tutti il più vano; infatti le perle e le gemme almeno passano agli eredi, le vesti durano nel tempo: i profumi invece si dissolvono istantaneamente e muoiono appena nati. Il loro massimo pregio è che quando passa una donna, la sua scia attira anche chi è affaccendato in tutt’altre cose”.
Sempre in materia di divagazioni vegetali, l’uso di trattare gli alberi in modo da rimanere nani (come accade oggi, con una moda importata dal Giappone) induce il “naturalista” Plinio a scrivere con disgusto: “l’uomo ha inventato persino l’aborto degli alberi!” Non disdegna però, da uomo pratico e realista quale egli è, tutte le invenzioni della tecnica che hanno reso la vita dell’uomo, e soprattutto dell’agricoltore, notevolmente più agevole e produttiva: vere e proprie conquiste dell’ingegno umano sono dunque giustamente considerati l’aratro, la zappa, i rastrelli, le chiavi, le serrature.
In materia di agricoltura Plinio si mostra particolarmente esauriente: egli infatti scrive in modo che anche i contadini possano capire, e a tal fine lascia una numerosa serie di notizie a volte più accurate di quelle che scrittori dedicatisi esclusivamente ad argomenti agricoli, come Columella, avevano registrato.
Plinio giunge fino a informarci sull’uso e le qualità dei concimi animali. È perciò frequente imbattersi in consigli che restano validi ancora oggi e di uso comune nelle nostre campagne, ovviamente dove si coltiva ancora in modo non industriale: concimare il terreno irrorandolo con acqua dove sono stati messi a macerare i lupini, usare spruzzature di zolfo e calce sulle chiome e i fusti degli alberi per evitare malattie parassitarie, spargere il terreno di cenere per arricchirlo di sostanze minerali, rincalzare le radici di una pianta perché l’ardore del sole non le bruci, zappettarla all’intorno per rendere più friabili le zolle ed eliminare le erbacce, e tanti altri gesti millenari, nati dall’amore dell’uomo per la terra e dal suo bisogno di renderla più fertile.
Naturalmente anche non manca neanche un vero repertorio di notizie curiose sui primati in altezza o in larghezza, in peso o leggerezza, di alcuni esemplari di piante e di vegetali, oltre a una serie di consigli alimentari che anticipano i più moderni principi dietetici: ad esempio, poiché in una società opulenta i corpi sono appesantiti, Plinio propone fra i molti rimedi l’uso di vegetali e di carni bianche.
Alle proprietà medicamentose delle piante, delle erbe e degli ortaggi, è riservata una apposita trattazione. Singolare, ma completamente attendibile, è quanto Plinio dice dell’umile ma salutare lattuga e delle sue proprietà medicamentose: ha effetti rinfrescanti, elimina il senso di fastidio allo stomaco, stimola l’appetito, placa gli impulsi sessuali, concilia il sonno. A riprova delle prodigiose qualità di questo ortaggio, è riportato il fatto abbastanza noto che Augusto, il primo imperatore romano, grazie ai consigli di Musa, suo medico personale, riuscì a guarire dai suoi disturbi gastrici, proprio con l’uso della lattuga.
Campagna Romana
Nelle pagine dedicate alla coltivazione dei campi e degli orti, e ai consigli per i trattamenti delle piante tipicamente italiane, più che altrove si sente l’anima contadina di Plinio, il quale, anche mentre i suoi incarichi di funzionario del Palazzo lo tenevano chiuso nella sede degli archivi imperiali, non perdeva la mentalità e la sensibilità di chi ama la terra e le tradizioni agricole, come era stato per Virgilio. In tal modo mentre egli enumera le specie vegetali, abbandona spesso l’arida veste del compilatore o dell’agronomo, e il suo gusto per l’erudizione o il collezionismo di dati, per ascoltare l’anima della terra, il suo respiro quando viene liberata dalle erbacce, la sua felicità quando è vangata o arata per accogliere nuove sementi, e vede con stupore sempre nuovo il ripetersi miracoloso dei cicli produttivi, i colori dei suoi prodotti, lo spuntare di nuove gemme sui rami degli alberi dopo la potatura. Così egli sente gli alberi come creature viventi, che soffrono quando sono attaccate da parassiti, flagellate dalla grandine, o abbattute dal fulmine, ma ancor più quando è l’incuria degli uomini a procurare loro danni irreparabili.
Plinio aveva sempre vissuto con ammirevole “spirito di servizio”, distinguendosi in operosità, sete di sapere, interesse per ogni forma di conoscenza. Si era imposto di dedicare ogni momento disponibile del giorno e molte ore della notte allo studio diceva infatti che vivere è vegliare (“vita, vigilia est”).
Morì all’età di 56 anni, ma poté orgogliosamente consegnare ai posteri la sua miniera di notizie, documento d’inestimabile valore, ma anche testimonianza d’una eccezionale dedizione alla propria vocazione conoscitiva e insieme umanitaria, testimoniata da un quasi volontario incontro con la morte, mentre tutti, durante l’eruzione del Vesuvio, cercavano disperatamente di fuggirla.
Risvolto«C’è una grande differenza fra me e Anna Frank. Io sono sopravvissuta» – questo è il bilancio di Masha Rolnikaite. Il suo diario, che prende avvio nel 1941, è stato scritto su fogli volanti, mandato a memoria, annotato su sacchi di cemento, copiato su minuscole striscioline poi nascoste in una bottiglia – e infine trasferito, nella primavera del 1945, su carta. All’inizio, Masha è una bambina di tredici anni che assiste allo smantellamento della Vilna ebraica – la «Gerusalemme dell’Europa orientale» – e annota ogni cosa, sinché la madre, ritenendo troppo pericoloso anche solo registrare ciò che accade, glielo vieta. Del resto, a Masha e agli altri come lei sarà vietato tutto – tranne l’esecuzione di lavori sempre più brutali e avvilenti. Acquaiola in un’azienda agricola, spaccapietre nel Lager, bestia da soma in una tenuta della Pomerania, Masha non sembra tuttavia poter smettere di osservare, e raccontare, l’odio senza fine dei carnefici, la metamorfosi di civilissimi vicini di casa in spietati collaborazionisti, le connivenze e le ambiguità del Consiglio ebraico, insomma ogni anello di quella catena di orrori che, per rassicurarci, pretendiamo di conoscere bene, ma che libri come questo ci costringono invece a ripercorrere, impietriti, come per la prima volta.
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14 20121 – Milano Tel. +39 02.725731 (r.a.) Fax +39 02.89010337
Découvrez au Musée Jacquemart-André des trésors de la Galleria Borghese de Rome-
Alla Galleria Borghese di Roma-Du 6 septembre 2024 au 5 janvier 2025, pour son exposition de réouverture après plus d’un an de travaux entrepris sous la conduite de l’Institut de France, le Musée Jacquemart-André présente au public une quarantaine de chefs-d’œuvre de la célèbre Galleria Borghese de Rome.
Galleria Borghese
Ce partenariat exceptionnel entre les deux institutions offre une occasion unique d’admirer à Paris un ensemble d’œuvres majeures d’artistes célèbres de la Renaissance et de la période baroque rarement prêtées à l’étranger,du Caravage à Botticelli, en passant par Raphaël, Titien, ou encore Véronèse, Antonello da Messina et Bernin… Cette exposition star de la rentrée rendra aussi hommage à des peintres moins connus du grand public, tels qu’Annibal Carrache, Guido Reni, Le Cavalier d’Arpin, Jacopo Bassano et à des peintres nordiques ayant séjourné en Italie (Rubens, Gerrit von Honthorst…).
La présentation des œuvres dans une scénographie audacieuse d’Hubert Le Gall éclaire à la fois l’histoire de la collection et le sens des grandes thématiques explorées par les artistes.
Galleria Borghese de Rome
Scipion Caffarelli-Borghese (1577-1633), neveu du pape Paul V, est en effet entré dans l’Histoire comme l’exemple du grand collectionneur et mécène. Il est issu d’une noble famille d’origine siennoise installée à Rome au XVIe siècle. La Villa Borghese Pinciana sort de terre au XVIIe siècle. Le puissant homme d’Église italien a voulu faire construire un palais à la romaine, entouré de jardins. Un cadre luxueux pour mettre en valeur tableaux et sculptures qui composaient sa collection. Par ses goûts, sa curiosité et son éducation, Scipion Borghèse a pu rassembler quelques-uns des plus beaux chefs-d’œuvre des artistes de son temps. La Villa (devenue aujourd’hui Galerie) était un vrai temple de l’art, et symbole de la puissance économique et culturelle de l’Italie.
L’exposition sera accompagnée d’un catalogue, ouvrage de référence en langue française sur la collection de peintures de la Galerie Borghèse.
Commissaires de l’exposition :
-Francesca Cappelletti, directrice de la Galleria Borghese à Rome, spécialiste du baroque italien.
-Pierre Curie, conservateur du musée Jacquemart-André depuis janvier 2016 et co-commissaire de toutes ses expositions.
VISITES GUIDÉES ALTRITALIANI
Altritaliani se réjouit de pouvoir vous proposer deux dates de visites guidées par Barbara Musetti, docteur en histoire de l’art, pour découvrir ces chefs-d’œuvre de la Collection Borghese à Paris. Visites-conférences en langue italienne ouvertes à tous et toutes sur inscription (15 personnes maximum). Durée 1h15.
DATES :
mardi 24 septembre à 15h45 – rendez-vous sur place à 15h30
ou mardi 15 octobre à 16h30 – rendez-vous sur place à 16h15
Prix unique: 34€ à régler par chèque à Altritaliani à l’inscription (billet d’entrée, audiophones et conférence). Pas de réductions possibles pour les participants à une visite de groupe selon les nouvelles directives reçues du musée…
Michèle Gesbert est née à Genève. Après des études de langues et secrétariat de direction elle s’installe à Paris dans les années ’70 et travaille à l’Ambassade de Suisse (culture, presse et communication). Suit une expérience associative auprès d’enfants en difficulté de langage et parole. Plus tard elle attrape le virus de l’Italie, sa langue et sa/ses culture(s). Contrairement au covid c’est un virus bienfaisant qu’elle souhaite partager et transmettre. Membre-fondatrice et présidente d’Altritaliani depuis 2009. Coordinatrice et animatrice du site.
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