Pescara-Le 80 tavole dei famosi “Capricci” di Goya
sono riunite al Museo Paparella Treccia Devlet –
La mostra su Francisco Goya al Museo Paparella Treccia Devlet di Pescararesterà aperta al pubblico sino al 13 ottobre 2024.La mostra è curata da Michele Tavola, è caratterizzata dalla rapida successione delle incisioni lungo le pareti delle sale del museo. Durante il percorso il visitatore ha a disposizione una scheda illustrativa che descrive in maniera sintetica ogni opera, permettendo di comprendere ed approfondire le tematiche, i personaggi e gli aspetti più significativi rappresentati dall’artista all’interno delle sue illustrazioni. Oltre ad ospitare mostre temporanee, il museo custodisce una preziosa collezione di antiche maioliche di Castelli, raccolte e studiate in oltre quarant’anni di ricerca dal Processore Raffaele Paparella Treccia. La raccolta custodita all’interno di Villa Urania è composta da 146 esemplari prodotti tra il XVI ed il XIX Secolo, documentando l’evoluzione stilistica della maiolica castellana. Inoltre, il museo conserva prestigiosi dipinti che vanno dal 1400 al 1800.
Pescara-Museo Paparella Treccia Devlet
I “Capricci” di Francisco Goya
La serie completa delle 80 incisioni
a cura di Michele Tavola
dal 27 aprile al 13 ottobre 2024
Augusto Di Luzio–Presidente Fondazione Paparella Treccia
Carissime amiche, carissimi amici,
le attività espositive della Fondazione Museo Paparella Treccia proseguono con le opere di un artista da noi molto amato e che ha segnato la storia dell’arte mondiale producendo opere che hanno determinato il discrimine tra l’arte antica e l’arte moderna: Francisco Goya.
Nel 2013 abbiamo inaugurato la serie di mostre dedicate all’arte dell’incisione proprio con Goya, portando a Pescara la serie delle quaranta stampe de La tauromachia; nel 2023, dieci anni dopo, abbiamo deciso di riprendere il filone esponendo la serie completa di ottanta acqueforti dedicata a I disastri della guerra. Oggi, riportiamo in città Goya con una delle sue opere più celebri e controverse, le ottanta tavole de I capricci.
La mostra, che sarà inaugurata il 27 aprile p.v., è affidata alla cura del noto critico di grafica Michele Tavola, amico e collaboratore di lunga data del nostro Museo, conservatore museale presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia.
Quando furono pubblicati, nel 1799, I capricci suscitarono un grande scandalo, considerato che Goya, in essi, mise a nudo tutti i vizi, le contraddizioni e le ingiustizie della società spagnola del tempo, al fine di denunciarne le barbarie.
È il caso di ricordare che Francisco Goya è ritenuto universalmente, insieme con Rembrandt, Tiepolo, Manet, Picasso, Morandi, tra i più grandi incisori della storia dell’arte.
Per il valore internazionale dell’artista in mostra e per il prestigio del curatore dell’evento, ci aspettiamo una numerosa partecipazione di pubblico e in particolar modo ci auguriamo il coinvolgimento dei giovani.
È importante ricordare che durante la visita alle opere di Goya si avrà la possibilità di ammirare la prestigiosa collezione di 151 esemplari di antiche maioliche di Castelli, prodotte tra il 1500 e il 1800, realizzate dai più grandi e famosi autori, fra i quali Francesco e Carlo Antonio Grue, quest’ultimo ritenuto universalmente il campione della Maiolica barocca castellana.
Tutte le informazioni relative alla mostra potrete trovarle prossimamente sul nostro sito.
In attesa di incontrarvi in Museo, invio i miei più cordiali saluti.
Augusto Di Luzio–Presidente Fondazione Paparella Treccia
PESCARA-I “Capricci” di Francisco Goya-Autoritratto
PESCARA-I “Capricci” di Francisco Goya
PESCARA-I “Capricci” di Francisco Goya
Il Museo Paparella Treccia Devlet di Pescara
Il Museo è ospitato in una villa ottocentesca in stile eclettico sita nel cuore di Pescara, di fronte alla centralissima Piazza della Rinascita. Al suo interno è custodita la Collezione Paparella Treccia Devlet, frutto di 40 anni di ricerca e di studi del Professore Raffaele Paparella Treccia il quale ha donato la collezione e la villa a una fondazione intitolata a lui e a sua moglie Margherita Devlet. La raccolta è composta da 151 selezionati capolavori della maiolica artistica di Castelli, ordinati secondo un criterio cronologico, opera dei maggiori maestri castellani attivi tra il XVI e il XIX secolo, fra cui Francesco Grue (1618-1673), il figlio Carlo Antonio (1655-1723) e il nipote Francesco Antonio Saverio (1686-1746), nonché i principali esponenti delle famiglie Gentili, Cappelletti e Fuina. La decorazione delle ceramiche documenta il passaggio dallo stile “compendiario”, caratterizzato da un’essenzialità di elementi, a quello “istoriato” in cui ricorrono scene allegoriche, mitologiche, venatorie e belliche. Tra le opere di maggior pregio si segnalano la più completa testimonianza di un servito alle armi di età barocca, costituito da 19 esemplari con lo stemma del committente, eseguito nella bottega di Francesco Grue e famosi lavori di Carlo Antonio Grue, tra i quali il più antico esemplare castellano di zuppiera, e due pregevoli vasi da consolle prodotti per l’Imperatore Leopoldo I d’Austria, successivamente passati ai Savoia. Il Museo conserva anche prestigiosi dipinti ad olio, tra cui una Natività quattrocentesca, un autoritratto datato 1711 di Pietro Santi Bambocci e un acquerello su carta di Pio Joris, artista romano, del 1800. La Fondazione Paparella è impegnata a diffondere la conoscenza della maiolica di Castelli e, con le attività culturali e didattiche, a promuovere l’amore e l’interesse per l’Arte in genere.
Il Museo Paparella Treccia attualmente ospita, oltre alla collezione permanente di antiche maioliche di Castelli, anche la mostra temporanea dedicata alla serie completa delle ottanta incisioni dei Capricci di Francisco Goya, mostra curata dal critico d’arte Michele Tavola, che resterà aperta al pubblico sino al 13 ottobre 2024.
The Paparella Treccia Museum currently hosts, in addition to the permanent collection of ancient Castelli majolica, the temporary exhibition dedicated to the complete series of eighty engravings of the Capricci by Francisco Goya, an exhibition curated by the art critic Michele Tavola, which will remain open to the public until to 13 October 2024.
Il museo è aperto al pubblico dal martedì alla domenica dalle ore 9:30 alle 12:30 e dalle ore 16:30 alle 19:30.
Biglietto intero: € 7,00
Biglietto ridotto: € 5,00 (under 18, studenti, over 65, gruppi superiori alle 15 persone, soci ARCI, accompagnatori disabili, docenti di ogni ordine e grado)
Ingresso gratuito per bambini fino a 8 anni e per persone con disabilità certificata superiore al 74%.
Possibilità di visita guidata su prenotazione, 3 euro a persona oltre il costo del biglietto.
Per info: tel. 085 4223426 / +39 3756684180
e-mail: fondazionepaparella@gmail.com
*Museo Paparella – Viale Regina Margherita, 1 – 65122 PESCARA -Tel. e Fax 085 4223426 –
The museum is open from Tuesday to Sunday from 9.30am to 12.30pm and from 4.30pm to 7.30pm.
Full ticket: €7.00
Reduced ticket: €5.00 (under 18, students, over 65, groups of over 15 people, ARCI members, disabled companions, teachers of all levels)
Free entry: for children up to 8 years old and for people with certified disabilities greater than 74%.
Possibility of guided tour by reservation, 3 euros per person in addition to the cost of the ticket.
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Pescara-Museo Paparella Treccia Devlet
The Museum Paparella Treccia Devlet is in Nineteenth century house situated in the heart of Pescara, on the corner of the central square Piazza della Rinascita (Piazza Salotto). Inside, there is the precious and ancient ceramic collection of Castelli, the result of 40 years of research and study by Professor Raffaele Paparella Treccia, a famous orthopaedist, who donated his collection and his house to the Foundation, inaugurated in 1997, and named by him and his wife Margaret Devlet. Castelli, a small village in the province of Teramo, located near to the Gran Sasso Mountain, it has been over the centuries one of the largest centers for the ceramic productions. Its ceramics have crossed the borders of Abruzzo and Italy until to become, especially in the Sixteenth and Seventeenth centuries, the most popular and precious ceramics, also in the main European courts. The collection exhibited in the Museum consists of 151 selected masterpieces of the ceramic art of Castelli, the work of the great Castelli masters active between the Sixteenth and Nineteenth centuries, including Francesco Grue, his son Carlo Antonio Grue, his grandson Francesco Antonio Saverio and others such as Gentili, Cappelletti and Fuina, ordered chronologically, and exposed in the main rooms of the museum. The collection documents the transition from general “compendiario”, which defines white style, characterized by extreme simplicity of the elements (XVI century), until to the Baroque where are recurring historical scenes, religious and mythological (XVII and XVIII centuries), and finally with the Neoclassical and Rococò (XVIII and XIX centuries). The Museum also preserves prestigious oil paintings, including a fifteenth-century Nativity, a self-portrait (oil on canvas) dated 1711 by Pietro Santi Bambocci and a watercolour on paper by Pio Joris, roman artist, 1800. The Paparella Foundation is committed to spreading the knowledge of the majolica of Castelli, cultural and educational activities, to increase love and interest for Art.
Ilse Weber- Il libro Quando finirà la sofferenza? Lettere e poesie da Theresienstadt-
SHOAH- Versi dal lager. Il caso Ilse Weber-
Articolo di Anna Foa-
Fonte Avvenire giornale della CEI- mercoledì 16 gennaio 2013-
Ilse Weber
Il libro Quando finirà la sofferenza? Lettere e poesie da Theresienstadt, di Ilse Weber , è il frutto di due ritrovamenti: il primo del 1945, quando il marito di Ilse, Willi Weber, tornato da Auschwitz, riportò alla luce da dove le aveva sepolte, a Theresienstadt, una cinquantina di poesie composte nel campo dalla moglie Ilse, assassinata insieme con il figlio Tomáš ad Auschwitz. Il secondo è del 1977, ed è il ritrovamento delle lettere scritte da Ilse alla sua più cara amica, Lilian von Löwenadler, figlia di un diplomatico svedese che viveva in Inghilterra, a cui nel 1939 aveva affidato il primo figlio, Hanuš, per sottrarlo ai nazisti. Ebrea, nata a Witkowitz nel 1903, Ilse, nata Herlinger, scrisse poesie e fiabe per bambini fin da giovanissima, entrando a far parte del grande mondo intellettuale ceco. Come tutti gli ebrei cechi, era di lingua tedesca. Sposatasi con Willi Weber, Ilse si dedicò poi alla famiglia, pur senza interrompere la sua attività di scrittrice. Nel 1930 aveva già pubblicato tre fortunati libri di fiabe ed era divenuta una valente musicista. Patriota della sua Cecoslovacchia, diede al suo secondo bambino il nome di Tomáš in onore del presidente Masaryk. La Cecoslovacchia degli anni Trenta era un’isola di democrazia e una crogiolo di attività intellettuali, che spiccava nel panorama degli altri Stati dell’Europa orientale, sottoposti a regimi dittatoriali e caratterizzati dal prevalere dell’antisemitismo. Nel 1939, dopo l’occupazione nazista, i Weber decisero di mandare il primo figlio Hanuš in Inghilterra, affidandolo all’amica di Ilse, che lo avrebbe lasciato in Svezia presso sua madre e che sarebbe poi morta nel 1941. Il piccolo Weber partì così insieme ad oltre seicento bambini ebrei, sottratti ai nazisti grazie all’attività di salvataggio di un agente di borsa inglese, Nicolas George Winton, e spediti in treno nell’unico paese europeo che accettò di accoglierli, l’Inghilterra. Ilse non lo avrebbe più rivisto. Nel 1942, Ilse con il marito e il piccolo Tomáš furono deportati a Theresienstadt, “il ghetto modello” da cui partivano i trasporti per Auschwitz. Qui Ilse fece l’infermiera nell’ospedale dei bambini, creando per loro e per gli altri prigionieri poesie e canzoni, suonando per loro il liuto e la chitarra. Una sua poesia, <+corsivo>Le pecore di Lidice<+tondo>, suscitò violente reazioni da parte delle SS, senza fortunatamente che Ilse ne fosse individuata come l’autrice. Un’altra, Lettera al mio bambino, indirizzata al figlio Hanuš, fu tradotta e pubblicata nel 1945 in Svezia e Hanuš poté così leggerla. Nel 1944, Willi fu per primo deportato ad Auschwitz. Poco dopo anche Ilse e Tomáš furono inseriti in un “trasporto all’Est”. Sembra che Ilse abbia scelto volontariamente la deportazione per non abbandonare i bambini a lei affidati. E qui, insieme con loro, Ilse e Tomáš furono subito mandati alle camere a gas. Tornato a Praga dopo la guerra, Willi riprese con sé il figlio, che era vissuto in Svezia affidato alla madre di Lilian, Gertrud. Un ricongiungimento difficile, perché il ragazzo, dopo quei sei anni lontano, rifiutava di parlare con il padre su quanto era avvenuto durante la Shoah. Nel 1968, dopo l’invasione da parte dei russi, divenuto giornalista e legato alla primavera praghese, Hanuš fuggì in Svezia dove si stabilì. Lentamente, alla rimozione dei suoi primi anni si sostituì il desiderio di ricostruire la sua storia. Nel 1974, Willi si preparava a raggiungere in Svezia il figlio per collaborare ad un film sui campi di concentramento che questi stava preparando, quando morì improvvisamente d’infarto. Ora questo libro, con la presentazione di Hanuš e un’ampia prefazione di Ulrike Migdal, viene a riproporci la storia di Ilse e della sua famiglia.Se la storia dei Weber è in sé una storia straordinaria, le poesie composte nel campo da Ilse sono di una struggente bellezza, mentre le sue lettere a Lilian, che vanno dal 1933 al 1944, cioè fino alla deportazione a Auschwitz, sono un eccezionale e vivissimo ritratto, oltre che della sua vita, dei suoi affetti e della sua arte, anche del suo paese, la Cecoslovacchia, man mano che l’ombra dell’antisemitismo e di Hitler si faceva più vicina. Dopo la partenza del figlio, nel 1939, la maggior parte delle lettere sono indirizzate al bambino, che Ilse cerca di seguire a distanza, della cui educazione si preoccupa, di cui lamenta la pigrizia nello scrivere, di cui sollecita il mantenimento dell’appartenenza ebraica. Le ultime lettere sono da Theresienstadt, dove Ilse fa ancora in tempo, prima della deportazione, a piangere in una lettera alla madre di Lilian la morte dell’amica. Subito dopo, Auschwitz.
Articolo di Anna Foa-Fonte Avvenire giornale della CEI- mercoledì 16 gennaio 2013-
La resistenza di Aldo Braibanti –Storia di un partigiano vero, un combattente disposto a morire per la sua gente. Uno che ha avuto meriti infiniti per la cultura del suo Paese e che ha patito la galera fascista non meno della galera democristiana.
Articolo di Francesco Simoncini
Pensare alla resistenza da questo cubicolo di stanzetta è ostico. La Resistenza è davvero un’esplosione architettonica di spazi e dolori e lancinanti vittorie. È un estendersi fino ai limiti estremi della propria coscienza, oppure un tuffo nell’angustia del fratricidio. Torniamo a questa stanzetta. Penso ad un resistente di prima categoria come fu Aldo Braibanti. Arrestato due volte, una delle quali a Villa Triste, a Firenze, tra le grinfie di quel criminale di guerra che fu Mario Carità. Torturato e poi rilasciato tornò ad impegnarsi nella resistenza con Giustizia e Libertà, segnato nella mente e nel corpo. Si laureò in filosofia: fu studioso di Spinoza e Giordano Bruno. Passò poi in forze al PCI.
Dopo la guerra fu attivo funzionario comunista, responsabile del settore giovanile, mi pare. Poi lasciò tutto, scrisse una lettera al Comitato Centrale in cui dichiarava la propria inadeguatezza al ruolo di funzionario. Si dedicò alla ceramica e alle formiche. Come Nabokov fece scienza della passione per le farfalle così lui fece per le formiche. Ne divenne studioso accanito. Mirmecologia, si chiama così quella scienza. La ceramica non fu che un aspetto della versatilità del suo ingegno vocato all’arte. Non sto qui a dire della sua produzione artistica, filmica, drammaturgica, letteraria in senso ampio. Fu amico e collaboratore di Carmelo Bene, per dirne solo uno: perché in effetti fu conosciuto e apprezzatissimo da tutta l’intellettualità italiana del dopoguerra.
Nel 1964, nel novembre, Braibanti viene arrestato. Perché, secondo l’accusa, ha plagiato un giovane ventiquattrenne, Giovanni Sanfratello. Chi muove l’accusa è il padre del giovane, che si appella ad una legge fascista, vecchia di più di trent’anni, all’epoca: legge che verrà abrogata nell’ottantuno, con sentenza della Corte Costituzionale. Ma nel sessantaquattro è purtroppo ancora in vigore. Quella costituita da Braibanti e da Sanfratello è una coppia omosessuale come quelle che oggi si incontrano molto frequentemente, e a parte i cromagnon fascisti, nessuno può commentare alcunché. Vivono insieme, come è normale che sia per una coppia. Si tratta di un quarantenne e di un venticinquenne. Non siamo fuori dalla norma, se norma ci può essere. Ma Braibanti sarà condannato a nove anni di galera, poi ridotti a sei in appello, poi ulteriormente ridotti a due per il suo passato da partigiano. Solo gli intellettuali scenderanno in campo per lui: Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Elsa Morante, Marco Bellocchio – a onor del vero anche il Partito Radicale di Marco Pannella si farà sentire. Marco Pannella ne ricaverà anche un processo per calunnia.
Piace qui ricordare che Sanfratello, nonostante i ripetuti elettroshock a cui sarà sottoposto (più di venti), chiuso in manicomio, non riconoscerà mai di essere stato plagiato; tra le misure assurde che saranno adottate nei suoi confronti c’è il divieto assoluto di leggere libri che abbiano meno di cento anni, per dire. Dopo aver scontato la condanna, Aldo Braibanti si ritirerà sempre più in sé stesso. Non smetterà di produrre capolavori di cui qui non è il caso di parlare. Morirà indigente, protetto dai quindicimila euro di reddito garantiti dalla Legge Bacchelli, a 91 anni, nel 2014.
Ho cercato di raccontare la storia di un partigiano vero, un combattente disposto a morire per la sua gente. Uno che ha avuto meriti infiniti per la cultura del suo Paese e che ha patito la galera fascista non meno della galera democristiana. Il venticinque aprile del quarantacinque non finì niente. Perché i soliti fascisti ricoprirono le stesse cariche di prima. Giudici, Prefetti, Militari, Giornalisti, Prelati, Politici. E quel che è peggio, il fascismo continuò ad essere pane quotidiano della cultura – tutta – di questo irriconoscente Paese.
Siamo tutti Aldo Braibanti.
Aldo Braibanti
Aldo Braibanti (Fiorenzuola d’Arda, 17 settembre 1922 – Castell’Arquato, 6 aprile 2014) è stato uno scrittore, sceneggiatore e drammaturgo italiano. Intellettuale, partigiano antifascista e poeta, nella sua vita si è occupato di arte, cinema, politica, teatro e letteratura, oltre ad essere un esperto mirmecologo.
Articolo di Francesco SIMONCINI-Fonte Ass. La Città Futura- Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi-
Sintesi del libro ” i poeti che fecero la Rivoluzione-” di Davide Brullo -Pietroburgo, novembre 1917. I bolscevichi guidati da Lenin prendono il Palazzo d’Inverno. La Rivoluzione russa è una rivoluzione politica, ma anche “estetica”. La Rivoluzione politica è anticipata da una rivoluzione delle arti e dei generi letterari che comincia nel 1905 e si accende, con forza definitiva, dagli anni Dieci. Intorno agli accadimenti della Rivoluzione converge un numero eccezionale di poeti e scrittori, unico nella storia della letteratura occidentale. In forme diverse, tutti, da Aleksandr Blok – che nel 1917 è segretario del Comitato che deve giudicare i funzionari zaristi – a Vladimir Majakovskij, il “megafono” della nuova Russia – e il più estremo avanguardista – da Boris Pasternak a Valerij Brjusov, che con nonchalance passa dalle convinzioni ‘di destra’ alla fede comunista – con tanto di onorificenze di Stato – da Sergej Esenin, antesignano delle rockstar, a Vladislav Chodasevic, Andrej Belyj, Velemir Chlebnikov e Nikolaj Tichonov, si appassionano alla Rivoluzione. Queste personalità eccezionali, a cui dobbiamo aggiungere, tra i tanti, i nomi di Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Nikolaj Gumilëv, Osip Mandel’stam, pubblicano tra il 1915 e il 1922 alcune delle opere letterarie più importanti del secolo. Questa è la loro storia. Questa è l’antologia dei poeti e degli scrittori che fecero la rivoluzione.
Descrizione
Pietroburgo, novembre 1917. I bolscevichi guidati da Lenin prendono il Palazzo d’Inverno. La Rivoluzione russa è una rivoluzione politica, ma anche “estetica”. La Rivoluzione politica è anticipata da una rivoluzione delle arti e dei generi letterari che comincia nel 1905 e si accende, con forza definitiva, dagli anni Dieci. Intorno agli accadimenti della Rivoluzione converge un numero eccezionale di poeti e scrittori, unico nella storia della letteratura occidentale. In forme diverse, tutti, da Aleksandr Blok – che nel 1917 è segretario del Comitato che deve giudicare i funzionari zaristi – a Vladimir Majakovskij, il “megafono” della nuova Russia – e il più estremo avanguardista – da Boris Pasternak a Valerij Brjusov, che con nonchalance passa dalle convinzioni ‘di destra’ alla fede comunista – con tanto di onorificenze di Stato – da Sergej Esenin, antesignano delle rockstar, a Vladislav Chodasevic, Andrej Belyj, Velemir Chlebnikov e Nikolaj Tichonov, si appassionano alla Rivoluzione. Queste personalità eccezionali, a cui dobbiamo aggiungere, tra i tanti, i nomi di Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Nikolaj Gumilëv, Osip Mandel’stam, pubblicano tra il 1915 e il 1922 alcune delle opere letterarie più importanti del secolo. Questa è la loro storia. Questa è l’antologia dei poeti e degli scrittori che fecero la rivoluzione.
I Vangeli di Ostromir -custoditi a San Pietroburgo
I Vangeli di Ostromir sono stati inclusi nel Registro internazionale dell’Unesco custoditi a San Pietroburgo . I Vangeli di Ostromir sono uno dei piu’ antichi documenti scritti nella versione russa dell’antico slavo. L’opera risale al 1057 e fu commissionata dal podesta’ di Novgorod, Ostromir, per la Cattedrale di Santa Sofia. Viene considerato il primo libro russo benche’ “I salmi di Novgorod”, scoperti nel 2000 su quattro tavolette cerate, abbiano probabilmente una eta’ superiore, forse di alcuni decenni.
Dal XI secolo e’ pervenuto fino a noi in 294 fogli di pergamena scritti in carattere onciale, con miniature e inserti decorativi. Attualmente i Vangeli vengono custoditi nella Biblioteca nazionale di San Pietroburgo.
Materiale fornito da Olga V. Petukhova.
I Vangeli di Ostromir in russo Остромирово Евангелие?, Ostromirovo Evangelie sono una delle opere più antiche scritte in lingua slava orientale. Furono composti dal diacono Gregorio per il PosadnikOstromir di Novgorod, nel 1056 o 1057, forse come dono per un monastero. Un gran numero di manoscritti russi si sono conservati a Novgorod poiché, a differenza degli altri centri, quest’ultima non fu mai occupata dai Mongoli[1].
Il libro è un manoscritto miniato, lezionario dei Vangeli, contenente unicamente letture per i giorni festivi e le domeniche. È scritto in una larga grafia onciale, in due colonne, su 294 fogli di pergamena della dimensione di 20 x 24 cm. Ogni pagina contiene 18 linee. L’opera è conclusa da una nota del redattore riguardante le circostanze della sua creazione. Al proprio interno si possono rinvenire i ritratti di tre evangelisti, dipinti da due differenti artisti, nonché numerosi elementi decorativi. La stretta rassomiglianza tra tale libro e il Lezionario di Mstislav ha suggerito agli storici la circostanza che entrambe le opere furono create seguendo il medesimo prototipo, ora perduto. I due artisti che hanno creato i ritratti degli evangelisti furono profondamente influenzati dagli analoghi modelli bizantini, ma le pagine raffiguranti Marco e Luca sembrerebbero derivare da piastre smaltate bizantine piuttosto che da manoscritti.
Storia recente
Si pensa che il libro sia stato trasferito da uno dei monasteri di Novgorod al Cremlino moscovita, dove è registrato per la prima volta nel 1701. Pietro il Grande diede ordine fosse trasportato a San Pietroburgo dove non fu fatta più menzione dello stesso fino al 1805, quando lo si rinvenne in una stanza di Caterina II.
I Vangeli furono quindi conservati alla Biblioteca Imperiale della capitale, dove sono ad oggi presenti. Aleksandr Vostokov fu il primo a studiarli a fondo, dimostrando che lo slavo ecclesiastico del manoscritto rifletteva il retroterra linguistico, l’antico slavo orientale, del suo compositore. La prima copia fu pubblicata sotto la supervisione del medesimo Vostokov nel 1843.
Nel 1932 la copertina tempestata di gemme, indusse un ladro a rompere la custodia ove era contenuta l’opera e a rimuoverne la copertina danneggiando la rilegatura delle pergamene.
Fonte-Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
Vangeli di OstromirVangeli di OstromirVangeli di OstromirVangeli di OstromirVangeli di OstromirVangeli di OstromirVangeli di OstromirVangeli di Ostromir
Descrizione -Prima, donna. Margaret Bourke-White, il volume che ripercorre le vicende e il lavoro di una delle figure più rappresentative ed emblematiche del fotogiornalismo internazionale. Una donna che, con le sue immagini, le sue parole e tutta la sua vita, è stata in grado di creare un personaggio forte e invidiabile costruendo il mito attraente di se stessa.
Pioniera dell’informazione e dell’immagine, Margaret Bourke-White ha esplorato ogni aspetto della fotografia: dalle prime immagini dedicate al mondo dell’industria e ai progetti corporate, fino ai grandi reportage per le testate più importanti come Fortune e Life; dalle cronache visive del secondo conflitto mondiale, ai celebri ritratti di Stalin prima e poi di Gandhi (conosciuto durante il reportage sulla nascita della nuova India e ritratto poco prima della sua morte); dal Sud Africa dell’apartheid, all’America dei conflitti razziali fino al brivido delle visioni aeree del continente americano. E a un certo punto sarà Margaret Bourke-White stessa che accetta di porsi davanti e non dietro all’obiettivo, diventando a sua volta il soggetto di un reportage in cui il collega Alfred Eisenstadt documenta la lotta della fotografa contro il morbo di Parkinson, malattia che la porterà alla morte. Una battaglia in cui non avrà paura di mostrarsi debole e invecchiata, nonostante un’eleganza e un buon gusto a cui non rinuncerà mai, confermandosi ancora una volta la prima in tutto.
“Se ti trovi a trecento metri di altezza, fingi che siano solo tre, rilassati e lavora con calma”, era il motto di Margaret Bourke-White. Il libro pubblicato da Contrasto ne ripercorre i molti primati, raccontati lungo un doppio binario. Attraverso undici capitoli, che corrispondono ad altrettante fasi della vita della fotografa, la potenza delle immagini si accosta a quella della forte voce di Margaret Bourke-White. È infatti lei che, in prima persona, scrive e racconta il suo lavoro, le avventure vissute, le sfide vinte. Una scrittura visiva, che completa e arricchisce la storia di ogni sua memorabile fotografia.
Margaret Bourke-White-Prima, donna
Ecco gli 11 capitoli tematici:
– L’incanto delle acciaierie mostra i primi lavori industriali di Margaret, da quando nel 1928 apre un suo studio fotografico a Cleveland;
– La sezione Conca di polvere documenta invece il lavoro sociale realizzato dalla fotografa negli anni della Grande Depressione nel Sud degli USA;
– LIFE si concentra invece sulla lunga collaborazione di Bourke-White con la leggendaria rivista americana. Per LIFE Bourke-White realizzerà la copertina e i reportage del primo numero e tanti altri ancora lungo tutta la sua vita;
– Sguardi sulla Russia inquadra il periodo in cui Margaret Bourke-White documentò le fasi del piano quinquennale in Unione Sovetica fino ad arrivare a realizzare anni dopo – quando già era scoppiata la Seconda guerra mondiale – il ritratto di Stalin in esclusiva per LIFE;
– La sezione Sul fronte dimenticato documenta gli anni della guerra, quando per lei fu disegnata la prima divisa militare per una donna corrispondente di guerra. Sono gli anni in cui Bourke-White, al seguito dell’esercito USA sarà in Nord Africa, Italia e Germania;
– La sezione Nei Campi testimonia l’orrore al momento della liberazione del Campo di concentramento di Buchenwald( 1945) quando, come ha dichiarato la fotografa, “per lavorare dovevo coprire la mia anima con un velo”;
–L’India raccoglie il lungo reportage compiuto dalla fotografa al momento dell’indipendenza dell’India e della sua separazione con il Pakistan. Tra le altre immagini, in mostra anche il celebre ritratto del Mahatma intento a filare all’arcolaio;
– Sud Africa è la documentazione del grande paese africano durante l’Apartheid;
– Voci del Sud bianco è il lavoro a colori del 1956 dedicato al tema del segregazionismo del Sud degli USA in un paese in trasformazione;
– In alto e a casa raccoglie alcune tra le più significative immagini aeree realizzate dalla fotografa nel corso della sua vita;
– Il percorso termina con La mia misteriosa malattia, una serie di immagini che documentano la sua ultima, strenua lotta, quello contro il morbo di Parkinson di cui manifesta i primi sintomi nel 1952 e contro cui combatterà con determinazione. In questo caso, è lei il soggetto del reportage, realizzato dal collega Alfred Eisenstaedt che ne testimonia la forza, la determinazione ma anche la fragilità.
Margaret Bourke-White-Prima, donna
A conclusione di questo percorso biografico, accanto al testo della curatrice del volume Alessandra Mauro, chiude il libro un monologo di Concita De Gregorio. Attraverso esso, come in un lungo flusso di coscienza, è sempre la voce di Margaret Bourke-White che mette il punto sulla propria storia per raccontare la sua ricerca della “misura del fuoco”, mostrando quella capacità visionaria e insieme narrativa in grado di comporre le “storie” fotografiche dense e folgoranti che sono arrivate fino a noi.
I fotografi vivono tutto molto velocemente; l’esperienza ci insegna ad affinare il più possibile la nostra abilità, ad afferrare al volo i tratti salienti, i punti forti di una situazione. Quel momento perfetto e denso di significato, essenziale da catturare, spesso è il più effimero e le possibilità di approfondimento sono rare. Scrivere un libro è il mio modo di digerire le esperienze che vivo.
Margaret Bourke-White
Kit di 8 cartoline di Margaret Bourke-White Dimensioni: 12x17cm-
Soggetti: Ritratto Margaret Bourke-White Montana 1936 Diga Fort Peck Gandhi con l’arcolaio In volo su Manhattan La fila per il pane Il funerale di Gandhi New York
Margaret Bourke-White-CARTOLINE
Soggetti: Ritratto Margaret Bourke-White Montana 1936 Diga Fort Peck Gandhi con l’arcolaio In volo su Manhattan La fila per il pane Il funerale di Gandhi New York
Articolo di Hilda Girardet -Cinquanta anni fa “Com – Nuovi Tempi”
Articolo di Hilda Girardet-4 ottobre 2024-Confronti celebra in questi giorni i cinquant’anni della fusione dei due settimanali Nuovi Tempi e Com. Il 6 ottobre 1974 il pastore valdese Giorgio Girardet, fondatore nel 1967 e direttore di Nuovi Tempi, e dom Giovanni Franzoni, direttore del cattolico Com – ex abate benedettino della Basilica di San Paolo Fuori Le Mura e sospeso a divinis per le sue posizioni a favore dell’obiezione di coscienza e poi del divorzio – misero a segno una operazione che ha dell’incredibile, rinunciando entrambi al proprio giornale per costituirne uno comune. Una operazione che tra l’altro intercettò un bisogno reale, visto che si passò in breve dai 5/6000 ai 30.000 abbonati!
Giovanni Battista Franzoni
La decisione della fusione venne presa in pochi mesi, anche se secondo le prassi dell’epoca ebbe diversi passaggi: decine e decine di assemblee dei lettori, consultazioni pubbliche e degli organi proprietari, dibattiti e discussioni anche accese. Lo scopo dichiarato era di far confluire e dare voce al “movimento” che aveva visto la partecipazione di gruppi di protestanti “marginali”, redattori e lettori di Nuovi Tempi, e cattolici di base o “del dissenso” come erano chiamati allora.
Un’operazione ecumenica? In parte lo fu, ma secondo modalità e intenti peculiari. Certo non fu un ecumenismo “istituzionale”: non si trattò di far dialogare due realtà ecclesiali mettendo a confronto questioni dogmatiche e pratiche di fede alla ricerca di un terreno comune. Neppure si trattò da parte evangelica della volontà di far conoscere il protestantesimo a un Paese cattolico, ancora fortemente integrista e confessionale. Se fu ecumenismo lo fu in un senso diverso. Così lo spiegava Nuovi Tempi (19/5/1974): «… il dato confessionale (…) viene fortemente relativizzato perché ciascuno è posto dall’evangelo di fronte alla necessità di superare la propria storia e riconoscere le cose nuove che il Signore prepara per il suo popolo. Non era del resto questo lo spirito originario dell’ecumenismo? … un movimento in cui tutte le chiese riconoscevano di doversi convertire e non le une alle altre ma tutte al Signore».
La creazione di un unico settimanale fu una conseguenza, lo “sbocco naturale” si disse allora, delle esperienze in cui cattolici e evangelici si erano trovati come credenti fianco a fianco a percorrere un cammino comune all’interno delle lotte e in solidarietà con gli oppressi. Ribadendo che lo scopo del giornale è «riconoscere i segni del Signore che viene in mezzo agli eventi contraddittori del presente», Girardet scriveva il 6 ottobre: «Il giornale nasce dunque come un segno di speranza. Quella salvezza o “liberazione” che Gesù ha compiuto nella sua morte e risurrezione e che l’evangelo annuncia, noi la viviamo già oggi, mentre si realizza nella storia (parzialmente, ma in modo reale) nelle lotte che in tutto il mondo i popoli oppressi e le classi sfruttate combattono per costruire una società più umana»”
Il linguaggio, forse desueto, esprimeva la volontà di essere presenti all’interno della società, inseriti nelle sue lotte per la giustizia e i diritti civili e sociali. È difficile per chi non l’ha vissuto rendersi conto di quegli anni, spesso schiacciati nel ricordo dal peso dei successivi anni di piombo… difficile immaginare la tensione ma anche le speranze che mossero alla partecipazione migliaia e migliaia di studenti, operai, insegnanti, donne, intellettuali, artisti, ecc.
Furono anni tumultuosi, ricchi di creatività e novità radicali, immaginazione, discussioni, battaglie ideologiche, scontri ideali, a volte materiali; anni conflittuali che generarono reazioni e controreazioni anche cruente: solo nel 1974 ci furono due tentativi di colpo di stato e due attentati fascisti: a maggio quello di piazza della Loggia e ad agosto l’Italicus. Un decennio, a dalla fine degli anni ’60, che trasformò in profondità la società italiana in tutti i suoi ambiti inclusi quelli ecclesiastici.
Mentre i protestanti, dopo anni di dibattiti sul nodo fede e politica, stavano lavorando alla costituzione della Federazione delle chiese evangeliche (la prima fu quella giovanile, la Fgei), in ambito cattolico la Chiesa di Roma uscita dal Vaticano II registrò sommovimenti profondi e mobilitazioni di grandi entità: già nel ’69-70 con l’Isolotto prendevano vita le prime Comunità di base. Nel ’72, dalla crisi de Il Regno, nasceva il settimanale Com; mentre circa duemila preti davano vita al Movimento del 7 novembre (che terrà la sua prima assemblea nell’Aula Magna della Facoltà valdese di Teologia a Roma). Il 1973 sarà l’anno di una ulteriore diffusione del “dissenso” cattolico, delle sue comunità che si diedero una struttura di collegamento e del coordinamento delle riviste cattoliche e protestanti (Idoc, Testimonianze,Nuovi Tempi,Com, Gioventù Evangelica, ecc.) (https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL5000085090/2/la-diffusione-comunita-evangeliche-movimento-7-novembre-3.html&).
Su un versante più “politico” il 1973 segnò l’infrangersi dell’unità del mondo cattolico incarnato dalla Democrazia cristiana: un colpo decisivo venne dalla vittoria del “no” del referendum sul divorzio del maggio ’74 (vero terreno di esperienze condivise tra protestanti e cattolici), seguito il 21 settembre dalla nascita dei Cristiani per il Socialismo. Quattro mesi dopo nascerà COM Nuovi Tempi!
Certo 50 anni sono tanti, troppe le cose cambiate per rintracciare parallelismi, analogie o somiglianze. Non esiste più il “movimento”, finita la lotta di classe, chiusi gli orizzonti, negata qualsiasi possibilità di alternativa al quadro economico e politico attuale: difficilissimo coltivare la speranza in un mondo più giusto, tanto che perfino riconoscere i “segni dei tempi” appare utopistico. Eppure, anche oggi come allora le vittime delle guerre e delle tante ingiustizie richiedono ascolto, solidarietà, vicinanza e un annuncio che – come recita la Confessione di fedediAccra pronunciata tutti insieme nel culto di apertura del sinodo valdese-metodista di quest’anno – sappia porsi con coraggio a fianco degli oppressi nella prospettiva della giustizia e della pace.
Com – Nuovi Tempi
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Cleonice Tomassetti-Capradosso di Petrella Salto (Rieti)
massacrata dai nazifascisti nell’eccidio di Fondotoce (oggi Verbania Cusio Ossola), il 20 giugno 1944.
Pubblicazione parziale dalla Ricerca storica di Franco Leggeri per ANPI Comitato antifascista della Sabina
Fonte- DONNE E UOMINI DELLA RESISTENZA-
Cleonice Tomassetti, detta Nice, donna di straordinarie scelte, che da un paesino del Lazio
la portano a Roma e poi a Milano, fino a quella ultima scelta che la condurrà alla morte: unirsi ai combattenti per la libertà.
Tra di loro, lei appare, sotto un cartello, tenuto da due giovani: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”.
Sembra essere lei a guidarli, nel viaggio da Intra a Fondotoce, dove verrà fucilata a soli 33 anni il 20 giugno 1944 con altri 42 giovani partigiani.
Cleonice Tomassetti
Donne e Uomini della Resistenza in Sabina.
Ricerca storica a cura di Franco Leggeri per ANPI Comitato antifascista della Sabina.
Capradosso di Petrella Salto -La storia di Nice, Cleonice Tomassetti, staffetta partigiana di Capradosso fucilata a Fondotoce di Verbania Cusio Ossola il 20 giugno 1944.Cleonice Tomassetti non era una maestra di scuola, non era una staffetta, non aveva un marito tra i partigiani. Non fece neppure in tempo a combattere la guerra di liberazione. Era una donna che aveva fatto la propria scelta spontaneamente. Non amo la parola “martire”, ma se c’è una martire – cioè una testimone – della Resistenza italiana, è Cleonice Tomassetti.
LA STORIA-
Era il 20 giugno del 1944 quando la giovane staffetta reatina, incinta di quattro mesi, venne massacrata nell’eccidio di Fondotoce (oggi Verbania Cusio Ossola). Unica donna del gruppo di 43 partigiani catturati dai nazifascisti nel corso dei rastrellamenti effettuati nei giorni precedenti. Era una maestra che aveva lasciato la sua terra per insegnare a Milano, quando nell’aprile del ’44 decide di seguire il suo compagno nella resistenza in Val d’Ossola, per compiere le missioni assegnatole.
Era la sola donna del gruppo di 43 partigiani fucilati dai nazifascisti a Fondotoce. Nella foto allegata, è presente in prima fila, proprio sotto il cartello sul quale gli aguzzini, in modo provocatorio hanno messo la scritta “Sono questi i liberatori/ d’Italia/ oppure sono i banditi?”, visibilmente rassegnata al suo destino. Le donne di Novrego, provincia di Milano, vedendo Cleonice con le vesti strappate dalle botte e sevizie subite, le avevano offerto un abito nuovo, un omaggio alla salvaguardia della dignità anche se destinata a compiere l’ultimo viaggio. Dal racconto di un sopravvissuto, l’avvocato e magistrato Emilio Liguori pare che ai propri aguzzini, poco prima di essere condotta alla fucilazione, la Tomassetti abbia detto loro: “Se volete mortificare il mio corpo è superfluo il farlo, esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, quello non lo domerete mai”.
La fotografia del corteo la ritrae in prima fila. Sono 42 uomini e una donna che vanno a morire. I nazifascisti li fanno sfilare sul lungolago di Intra. Davanti hanno messo i due prigionieri più alti, che reggono un cartello: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”. Lei è in mezzo, sotto la scritta. È vestita con cura, quasi con eleganza: scarpe nere con il tacco, maglia chiara, gonna scura, un cappello bianco, una borsa stretta al grembo. Ma non sono i suoi vestiti. Fino a poche ore prima indossava stracci coperti di sangue. Le mogli di altri prigionieri le hanno portato qualcosa da mettersi, per andare incontro alla fine con dignità.
Cleonice Tomassetti
Fuori dal paese li fanno salire su un camion per il trasporto del bestiame. Ma li fanno scendere al paese successivo, Pallanza, per mostrarli agli abitanti. Poi di nuovo un tratto in camion, e un’altra sfilata, a Suna. Infine l’ultima tappa, Fondotoce, dove vengono fucilati al crocevia subito fuori il paese.
Cleonice Tomassetti
Nel loro libro di memorie, Il Monterosa è sceso a Milano, Pietro Secchia e Cino Moscatelli la chiamano Cleonice Tommasetti e scrivono che è una maestra di scuola, staffetta partigiana, incinta di quattro mesi del marito, anche lui salito in montagna. È la versione che si ritrova in tutte le opere in cui la donna di Fondotoce viene citata. Fino a quando nel 1981 un altro partigiano, Nino Chiovini, pubblicherà una sua inchiesta (ora ristampata da una piccola casa editrice di Verbania, la Tararà), che restituisce alla vittima la sua storia e la sua identità, a cominciare dal nome.
Penultima di sei fratelli, Cleonice nasce il 4 novembre 1911 a Petrella Salto, nella frazione di Capradosso. Il suo nome significa “gloriosa nella vittoria”. Petrella è un villaggio sulle montagne tra il Lazio e l’Abruzzo, passato alla storia perché lassù visse segregata Beatrice Cenci (1577-1599), la ragazza che con i fratelli uccise il padre che la violentava e fu per questo decapitata a Castel Sant’Angelo, davanti a una folla in tumulto. Anche Cleonice ha un padre che la tormenta. Famiglia contadina, un piccolo podere, più pietra che terra. La madre muore, il fratello Aldovino e la sorella Pierina vanno a Roma a cercare lavoro. Lei è una ragazza molto intelligente, ma deve abbandonare la scuola per lavorare a casa e nei campi. A 16 anni resta incinta. Cleonice fugge dalla violenza paterna e si rifugia a Roma dalla sorella, ma il bambino nasce morto. Trova lavoro come cameriera.
Cleonice Tomassetti
A 22 anni lascia anche Roma e arriva a Milano, dove lavora come commessa e cameriera. Conosce un assicuratore, Mario Nobili, che ha lasciato la moglie dopo aver scoperto che lei lo tradiva con un sacerdote. Nobili è antifascista. Si incontra con un gruppo di amici che condividono le sue idee: si vedono a Milano in Galleria. Ci sono Melina Mistretta, proprietaria di una pensione in via Santa Radegonda, dove Cleonice è stata a lavorare, Piero Paci, violinista, e un sarto, Eugenio Dalle Crode. La sua testimonianza è importante, perché è nella sua bottega che matura il destino di Cleonice Tomassetti, che a Milano chiamano la Nice.
(1vedi nota a fondo pagina)-
Eugenio è zoppo, detesta i fascisti e nel ’24 brucia in pubblico una copia del loro giornale, “L’eco del Piave”; le camicie nere lo costringono a marciare per il paese, saltellando sulla sua unica gamba, con il gagliardetto nero in mano. A Milano diventa amico di Mario Nobili e poi di Cleonice Tomassetti.
Cleonice Tomassetti
“Ai primi del ’44 il mio amico Mario Nobili fu ricoverato all’ospedale con la meningite: dopo pochi giorni morì. Aveva 36 anni. Dopo la morte di Mario, Nice veniva quasi tutti i giorni nella mia sartoria a lavorare qualche ora. Un giorno del mese di giugno del ’44 passò da me a provare un vestito Sergio Ciribi, il figlio maggiore di una famiglia di miei vecchi clienti. Era presente la Nice. A un certo punto Sergio mi disse: “Sa, signor Eugenio, che hanno chiamato la mia classe, il primo semestre del ’26? È sul giornale di oggi. Ma io non mi presento – continuò, conoscendo le mie idee antifasciste -, vado in montagna con i partigiani”. Sergio non aveva ancora finito di parlare, che la Nice disse: “Allora ci vengo anch’io”. Lei, le decisioni le prendeva così, all’improvviso. Sergio in principio disse che non era possibile, che dove sarebbe andato non era posto per donne, ma lei insistette […].Partirono qualche giorno più tardi”.
Sergio Ciribi e Giorgio Guerreschi decidono di unirsi alla formazione Valdossola. Con loro c’è Cleonice Tomassetti. E c’è Edvige Ciribi, la madre di Sergio, che non vuole lasciarlo viaggiare da solo e ha portato anche l’altro figlio quindicenne, Giancarlo.
Il rischio è pazzesco, perché anche i tedeschi stanno andando a cercare i partigiani. L’11 giugno è cominciato un grande rastrellamento; ma la Nice e gli altri non lo sanno. Arrivano in treno a Laveno, prendono il battello per Intra, poi si incamminano a piedi. Sergio e Giorgio credono di riconoscere il sentiero che sale in Val Grande, Nice li segue, la madre di Sergio torna indietro. Non lo rivedrà più. “Non seppi nulla fino alla fine della guerra – ha raccontato Edvige Ciribi -.
Cleonice Tomassetti
Sergio, Giorgio e Nice risalgono la valle a piedi. Camminano per tutto il giorno, fino a quando non arrivano in una baita isolata, dove accendono il fuoco e passano la notte, mentre fuori infuria un temporale. Al mattino Nice si accorge di avere una zecca conficcata in una gamba, i ragazzi gliela tolgono. Appoggiato a una parete c’è un fucile, collegato con un filo a una bomba, che per un soffio non esplode. Si sente sparare in lontananza, poi si vedono i primi tedeschi: è il rastrellamento che avanza.
21 giugno 1945-Ritaglio giornale prima commemorazione ricorenza dell’eccidio
I tre fanno appena in tempo a nascondere il fucile e a concordare una versione comune: scartata l’idea di inventare storie improbabili, decidono di confessare; sono in montagna a cercare i partigiani per unirsi a loro, ma non li hanno ancora trovati. I tedeschi e le SS italiane li prendono subito a calci e pugni; poi cominciano gli interrogatori. Ha raccontato Giorgio Guerreschi: “Noi dicemmo, come d’accordo, la verità, ma capimmo subito che non eravamo creduti. Allora la donna, che ci vedeva come ragazzini, disse che noi non avevamo colpa, che era stata lei a convincerci a salire in montagna. “Sono ancora ragazzi, la colpa è soltanto mia” aggiunse. (…) a un certo punto cominciò a inveire in romanesco contro di lui, mandandolo a quel paese. Era una donna decisa. Ci misero tutti e tre contro un muro della baita e piazzarono un mitragliatore che lasciò partire una lunga raffica sopra le nostre teste; era chiaro che volevano terrorizzarci con una finta fucilazione”.
Si scende a piedi verso il lago, poi la notte ci si stende per terra su teli mimetici. Prosegue la testimonianza di Guerreschi: “La Nice fu assegnata a un giaciglio, con un ufficiale. Durante la notte, da quella parte, vennero rumori come di colluttazione; immaginai che qualcuno stava tentando di farle violenza. Sia per la distanza dal punto in cui si trovava, sia per il mio stato di prostrazione, non posso affermare niente di preciso, ma quell’impressione mi è rimasta in mente. Il mattino successivo intercettai alcune occhiate allusive tra i soldati”.
Lungo la strada il reparto incontra un partigiano ferito, con un proiettile nella coscia: lo finiscono con una raffica di mitra. I prigionieri subiscono altre torture: le SS vogliono sapere dove sono i compagni. Assicurano una corda a un albero, la avvolgono attorno al collo di Nice, che viene sollevata da terra, più volte; quando sta per svenire, le gettano addosso un secchio d’acqua; poi ricominciano. Ma lei non può raccontare cose che non sa. Allora la colpiscono sulla schiena con un bastone. Alla fine Cleonice Tomassetti e Sergio Ciribi vengono chiusi nelle cantine di Villa Caramora, una casa ottocentesca sul lungolago di Intra, insieme con decine di partigiani e di sospetti catturati nel rastrellamento. Tra loro c’è un medico antifascista. Il suo nome è Emilio Liguori. Dopo un mese di carcere a Torino sarà liberato e scriverà di getto un memoriale, Quando la morte non ti vuole, che è anche l’unica testimonianza della breve e dolorosa prigionia di Cleonice.
“La scena che si presentò al mio sguardo, dopo l’ingresso in cantina di tanti disgraziati, fu delle più penose alle quali io abbia mai assistito. Penso che un branco di lupi famelici, quando capita in mezzo a un gregge di pecore, usi verso le proprie vittime una ferocia meno accesa, meno sadica di quella dei soldati tedeschi verso i poveri partigiani rastrellati in Val Grande. I pugni, le pedate, i colpi di calcio di moschetto, le nerbate non si contavano più. Era una vera gragnuola che si abbatteva inesorabile su dei miseri corpi già grondanti sangue, su dei visi già tumefatti. Gli aguzzini sembravano presi nel turbine di un sadico furore. Notai che tra i partigiani vi era una donna, di statura media, di colorito bruno, sui venticinque anni. Anche a costei non furono risparmiati i maltrattamenti, anzi, starei per dire che la dose delle angherie sia stata nei suoi confronti maggiore. Mi parve che, quando arrivava il suo turno, il nerbo si abbassasse sulle sue spalle con maggior furore e più violenti fossero i calci che la raggiungevano da ogni parte. Eppure la coraggiosa donna non solo incassò ogni colpo senza emettere un grido ma, calma e serena, faceva coraggio agli altri giovani, malconci da quella furia bestiale”.
Cleonice Tomassetti
Verso le cinque del pomeriggio si sentono arrivare soldati e automezzi. I guardiani si preparano. Alcuni si sistemano la divisa, altri si tolgono la mimetica e restano in camicia e pantaloncini marroni. Qualcuno verifica il funzionamento dell’arma. Tutti si pettinano, poi controllano nello specchietto che hanno con sé che la riga dei capelli sia in ordine: saranno scattate delle fotografie. Annota il medico prigioniero: “Mi pareva di essere stato portato nei camerini degli artisti, prima che essi diano inizio alla rappresentazione”. La donna fu colpita atrocemente da più di uno schiaffo e da uno sputo sul viso. Non si scompose; incassò impassibile, e poi fiera, con aria ispirata, quasi trasumanata, disse parole che per mio conto la rendono degna di essere paragonata a una donna spartana, o meglio ancora a un’eroina del nostro Risorgimento: “Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che la vostra è opera vana; quello non lo domerete mai”. Poi, rivolta ai compagni: “Ragazzi, viva l’Italia, viva la libertà per tutti!” gridò con voce squillante. Anima grande! So (per avermelo confidato un poliziotto, un bolzanese che accompagnò il triste corteo fino al luogo dove avvenne l’esecuzione e vi assistette) che, durante tutto il tragitto di circa cinque chilometri da Intra a Fondotoce, essa continuò a conservare una calma e una serenità incredibile in una donna: e tale calma e tale serenità seppe, per virtù dell’esempio, comunicare agli altri suoi compagni di sventura. Avanzò per prima verso i carnefici, guardandoli fieramente negli occhi. Le sue ultime parole furono: “Viva l’Italia!”. Come lei morirono sotto le raffiche delle mitragliatrici i suoi quarantadue compagni. Ignoro il nome di questa donna, ma farò di tutto, quando tempi migliori e maggior libertà me lo consentiranno, per conoscerlo e additarlo alla pubblica ammirazione”.
Il racconto del dottor Liguori è un documento eccezionale, ma contiene due errori.
Cleonice Tomassetti
Non ci si deve stupire che sia stata una donna a trasmettere calma e serenità a 42 uomini destinati alla morte; e non tutti i compagni di Cleonice Tomassetti spirarono sotto i colpi del plotone d’esecuzione. Uno di loro, Carlo Suzzi, ferito, sopravvisse per miracolo, tornò a unirsi ai partigiani della divisione “Valdossola”, scelse il nome di battaglia “Quarantatré”; e poté testimoniare come la Nice si comportò.
Prima i tedeschi mettono i condannati in fila con la faccia verso il lago, armeggiano alle loro spalle, sparano in aria per simulare l’esecuzione. Poi li caricano sui camion, ma a ogni raggruppamento di case li fanno sfilare col cartello. Si arriva così a Fondotoce. Neppure il prete può avvicinarsi. Tutti devono sdraiarsi per terra, e tre alla volta passano sotto le raffiche del plotone. Nice è la prima a morire. Ha raccontato Carlo Suzzi, il superstite: “Bisognava vedere il coraggio di questa ragazza, che durante il percorso ripeteva a tutti: “Mostriamo a questi signori come noi sappiamo morire”. E lei per prima è caduta da eroe”.
“Ero in contatto con il Cln di Milano – scrive ancora Edvige Ciribi -. Quando c’era un’esumazione venivo avvertita; fui presente al disseppellimento dei fucilati di Baveno, poi in un altro luogo. Quando esumarono quelli di Fondotoce, ero là: riconobbi subito mio figlio dai capelli cortissimi, perché in prigione a Como era stato rasato a zero. Aveva la fronte squarciata. Conservo ancora alcuni ritagli dei vestiti che indossava. Avevo saputo che tra i fucilati c’era una donna. Quando vidi il cadavere, non feci fatica a riconoscerlo per quello della signorina Nice. Decidemmo di portare a Milano la salma di nostro figlio e quella della signorina. Erano morti nello stesso luogo; che riposassero insieme. Furono sepolti nel cimitero di Greco, poi furono trasferiti al cimitero Monumentale, nel campo della gloria”.
Cleonice Tomassetti non era una maestra di scuola, non era una staffetta, non aveva un marito tra i partigiani. Non fece neppure in tempo a combattere la guerra di liberazione. Era una donna che aveva fatto la propria scelta spontaneamente. Non amo la parola “martire”, ma se c’è una martire – cioè una testimone – della Resistenza italiana, è Cleonice Tomassetti.
Nota 1. “Sono nato a Susegana, in provincia di Treviso – ha raccontato Eugenio Dalle Crode -. Nell’autunno del 1917 abitavo a Nervesa, sulla riva destra del Piave. Gli austriaci avevano sfondato a Caporetto e si avvicinavano al fiume. La gente fuggiva; un giorno partì anche la mia famiglia; tutto il paese, anzi. Eravamo sulla strada per Montebelluna; nel cielo passò un aereo, che si abbassò e sganciò alcune bombe su di noi: una scheggia mi colpì alla gamba destra, che mi dovettero amputare sopra il ginocchio. Avevo soltanto otto anni. Quando fui in età di lavoro imparai il mestiere del sarto: è un lavoro che si può fare anche con una gamba sola”.
La foto a colori allegata al post è stata elaborata da Julius Backman Jääskeläinen giovane Architetto svedese che fra l’altro è abilissimo nel trasformare a colori le immagini storiche, generalmente in bianco e nero.
La Casa della Resistenza di Fondotoce ha scritto a Julius Backman Jääskeläinen chiedendogli di sottoporre alla colorazione l’immagine dei nostri martiri, ritratti il 20 giugno 1944 prima della loro barbara fucilazione.
Ecco il sorprendente risultato!
Vedere i loro volti, i loro abiti, le divise militari e l’ambiente circostante a colori crea una emozione unica, ci fa avvicinare a quel terribile istante, ci rende vivida e tragica la loro sorte.
“La storia è accaduta a colori”, così come a colori furono visti i nostri poveri martiri da pochi testimoni e che oggi grazie a Julius, anche a noi è data la possibilità, attraverso un ipotetico viaggio nel tempo, di avvicinarci così tanto a loro e alla loro sofferenza.
La Casa della Resistenza di Fondotoce sorge entro un parco di 16.000 mq. adiacente al luogo in cui il 20 giugno 1944 furono fucilati dai nazifascisti 43 partigiani e copre una superficie di circa 1.600 mq.
-Ricerca storica ia cura di Franco Leggeri-
Poesia di Franco Leggeri.
Pensiero per Nice –Cleonice Tomassetti-
Petrella Salto (Rieti) 1911 – Uccisa dai nazifascisti-Fondotoce (Verbania) 1944
Cleonice Tomassetti
NICE/ROSSO SABINA e L’età nuda dell’anima.
Nice, tu ,come Gramsci , hai odiato gli indifferenti.
Nice differente dall’indifferenza
Hai respirato Gramsci
Nice hai inciso le note libere della tua voce
Tra la Rocca di Petrella
Dove indugia la dolcezza della nebbia.
Nice aspettavi la luna rossa,
tu che conoscevi solo quella nera.
Nice hai contato, con rabbia, pazientemente,
mille lune per un’alba di libertà
Nice hai spaccato il gelo della fonte
Dove hai bagnato il pane
E bevuto l’acqua ,
Nice hai corso a perdifiato tra i castagni
e i chiaroscuri paralleli all’alba.
Nice hai quasi, finalmente, raggiunto le braccia della libertà
Mentre il tuo sogno metteva radici
in una terra lontana,
dove la luna brucia le onde del lago,
ma uno sguardo freddo ha ucciso
le trame dolci dei tuoi capelli.
Nice ora sei libera dalle maglie della catena,
vola Nice, vola in alto , lontano dalla terra brulla,
terra rossa del tuo sangue .
Nice, ti prego, corrodi la notte con i tuoi occhi e libera il tuo grido di libertà.
Nice ho raccolto, una ad una, le tue lacrime per dissetare il seme di una Italia libera.
-Ricerca storica ia cura di Franco Leggeri-
Cleonice TomassettiCleonice Tomassetti
Cleonice Tomassetti-Nata a Capradosso di Petrella Salto (Rieti) il 4 novembre 1911-Era la sola donna del gruppo di 43 partigiani, fucilati dai nazifascisti (soltanto uno di loro, Carlo Suzzi, si salvò), a Fondotoce.
La Tomassetti è stata solennemente ricordata nel 2010 a Capradosso, nella ricorrenza della strage, dai suoi compaesani, che si sono ripromessi di celebrarne ancora il sacrificio, in occasione del centenario della nascita.
Cleonice durante gli anni della Seconda guerra mondiale abitava a Milano, dove si era trasferita dal Reatino per fare la maestra.
Quando il suo compagno era passato nella Resistenza aveva deciso di raggiungerlo e, nell’aprile del 1944 la giovane donna era entrata come staffetta nella stessa formazione partigiana.
Pochi mesi di impegno contro i nazifasciti, poi a Novegro (MI), dove la ragazza era in missione, la cattura da parte dei tedeschi e il suo trasferimento, prima nell’asilo infantile di Malesco e poi a Intra, a Villa Calamora.
Ore di maltrattamenti e di pestaggi per tutti coloro che i tedeschi hanno rastrellato e, con l’aiuto dei repubblichini, ristretto negli scantinati di Malesco e Intra.
Anche su “Nice”, che è incinta di quattro mesi, si accaniscono (come testimonierà poi l’avvocato e magistrato Emilio Liguori), i suoi aguzzini.
Sarà lei che, al fianco del tenente Ezio Rizzato, aprirà la colonna che, a piedi (fiancheggiata dai nazisti), si fermerà soltanto a Fondotoce, dove i tedeschi hanno deciso di dare una lezione ai “banditi” e alla popolazione che li aiuta (e che continuerà ad aiutarli), anche se sono arrivati da Intra a Fondotoce portando un grande cartello dove era scritto “Sono questi i liberatori/ D’ITALIA/ oppure sono i banditi?”
Cleonice sarà con Rizzato tra i primi che, a gruppi di tre, saranno fucilati dai tedeschi.
La donna fu colpita atrocemente da più di uno schiaffo e da uno sputo sul viso. Non si scompose; incassò impassibile, e poi fiera, con aria ispirata, quasi trasumanata, disse parole che per mio conto la rendono degna di essere paragonata a una donna spartana, o meglio ancora a un’eroina del nostro Risorgimento:
“Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che la vostra è opera vana; quello non lo domerete mai”. Poi, rivolta ai compagni: “Ragazzi, viva l’Italia, viva la libertà per tutti!” gridò con voce squillante. Anima grande!
Al grido si uniranno i suoi compagni Giovanni Alberti, Carlo Antonio Beretta, Angelo Bizzozero, Emillio Bonalumi, Luigi Brioschi, Luigi Brown, Dante Capuzzo, Sergio Ciribì, Giuseppe Cocco, Adriano Marco Corna, Achille Fabbro, Olivo Favaron, Angelo Freguglia, Franco Ghiringhelli, Cosimo Guarnieri, Franco Marchetti, Arturo Merzagora, Rodolfo Pellicella, Giuseppe Perraro, Marino Rosa, Aldo Cesare Rossi, Carlo Sacchi, Renzo Villa, Giovanni Volpati e altri quattordici che all’esumazione non poterono essere identificati.
Carlo Suzzi, Da alcuni decenni si era trasferito a vivere in Thailandia. Fu l’unico sopravvissuto dell’eccidio nazifascista del 20 giugno 1944 a Fondotoce, noto come la strage dei 42 Martiri. L’essere sopravvissuto alla fucilazione gli valse il soprannome di “43”, nome di battaglia che portò combattendo nella divisione partigiana Valdossola
Sul sacrificio di Cleonice e dei suoi compagni a Fondotoce, Nino Chiovini ha scritto un libro; i martiri sono ricordati anche con un “sentiero Chiovini”.
Fonte-da DONNE E UOMINI DELLA RESISTENZA-immagini Cleonice Tomassetti- il macabrio corteo con Cleonice unica donna – e in primo piano – lapide in memoria dell eccidio-
Pubblicazioni: numerose pubblicazioni di lezioni e temi riguardanti la pace editi dall’associazione Primalpe
La Scuola di pace di Boves è un’istituzione senza fini di lucro, voluta, deliberata dall’amministrazione comunale di Boves ed è un luogo dove si insegna la pace
Il Teatrino al forno del pane “Giorgio Buridan” (UILT, Unione Italiana Libero Teatro) che presenta
lo spettacolo CLEONICE di Maria Silvia Caffari, venerdì 9 febbraio ore 21 all’Auditorium Borelli.
Cleonice Tomassetti, detta Nice, donna di straordinarie scelte, che da un paesino del Lazio
la portano a Roma e poi a Milano, fino a quella ultima scelta che la condurrà alla morte: unirsi ai combattenti per la libertà.
Tra di loro, lei appare, sotto un cartello, tenuto da due giovani: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”.
Sembra essere lei a guidarli, nel viaggio da Intra a Fondotoce, dove verrà fucilata a soli 33 anni il 20 giugno 1944 con altri 42 giovani partigiani.
Descrizione del libro di Roberto Bizzocchi.Per obbligo e per piacere, quasi tutti abbiamo letto i Promessi sposi. Una diffusione enorme che ha reso i personaggi, tanti episodi, tante espressioni tipiche familiari, anzi proverbiali della nostra cultura. Un romanzo che ha davvero fatto l’Italia, almeno nei suoi aspetti migliori, grazie a un messaggio politico e pedagogico che è tempo di riscoprire.
Forse perché lo leggiamo troppo presto o forse perché siamo costretti a farlo a scuola, sta di fatto che, in generale, abbiamo una opinione abbastanza grigia e sfocata dei Promessi sposi. Spesso ci rimanda un’immagine di compunzione religiosa e di moderatismo accomodante simile a certe vecchie fotografie che troviamo nelle case dei nostri nonni e che faticano a parlarci ancora. Ecco, vi invitiamo a (ri)leggere i Promessi sposi in modo un po’ diverso dal solito, cioè in compagnia non di un letterato, ma di uno studioso di storia d’Italia. Scopriremo così che i Promessi sposi hanno un carattere fortemente politico e ci dicono moltissimo sulla nostra storia, non solo quella del Seicento, sul nostro carattere nazionale, sull’impronta che il cattolicesimo ha lasciato, nel bene e nel male, nella nostra coscienza morale. Torneranno alla luce l’importanza e il valore del messaggio ideologico al cuore di questo romanzo: una morale privata basata su libertà di scelta e responsabilità individuale, per uomini e donne; un illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una consapevolezza acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli.
Roberto Bizzocchi
Introduzione
Tutti abbiamo in mente almeno un personaggio, un episodio, una battuta dei Promessi sposi: il romanzo è nella coscienza degli Italiani.
È stato anche molto, e molto bene, studiato, insieme con le altre opere di Manzoni, dagli specialisti di letteratura, che tuttora vi scoprono e ce ne spiegano nuovi pregi e ricchezze; ci dimostrano sempre di più che è davvero una miniera inesauribile. Da parte mia, su Manzoni e sui Promessi sposi assumo in questo libro un punto di vista particolare, quello di un lettore appassionato che di mestiere non fa l’italianista ma lo storico. Mi sono convinto sempre più nel corso degli anni, non solo leggendo e rileggendo ma anche riflettendo su quanto succede nel nostro paese, che il romanzo contenga un programma etico-politico per lo Stato e la nazione italiani molto importante e tuttora vivo e valido. I Promessi sposi ci dicono moltissimo sulla nostra storia, non solo quella del Seicento, sul nostro carattere nazionale, sull’impronta che il Cattolicesimo ha lasciato, nel bene e nel male, nella nostra morale, e lo fanno in un’attitudine non descrittiva ma propositiva, suggerendo, appunto, delle linee di comportamento su questioni cruciali.
La patina di compunzione religiosa e moderatismo accomodante di cui a volte – forse meno oggi che in un passato di forti contrapposizioni ideologiche – si è voluto rivestire il romanzo, così facendogli torto e invecchiandolo, va rimossa anche alla luce di un confronto serrato con la cultura letteraria e politica dell’Italia e dell’Europa del Settecento e dell’Ottocento. Ritengo che tale confronto aiuti a mettere in evidenza alcuni aspetti decisivi sia di modernità che di radicalismo propri di Manzoni: perciò gli ho dedicato molta parte del libro. Tratto i Promessi sposi e le altre principali opere di Manzoni in costante riferimento a quelle dei suoi contemporanei italiani ed europei ed è su questa base che sostengo la positività e l’attualità del messaggio ideologico manzoniano, in quelle che mi paiono le sue componenti essenziali, oltre all’ispirazione cristiana: identità pubblica nazionale in chiave europea e non nazionalista; morale privata basata sulla libertà di scelta e sulla responsabilità individuale, e ciò sia per gli uomini che per le donne; illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una percezione acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli che vi operano.
Ho scritto un libro spero non privo di quella che si chiama in linguaggio accademico serietà scientifica, anche se non ho potuto farlo da specialista della materia. L’ho comunque scritto cercando di evitare pesantezze erudite e pensando a un pubblico che comprenda chi voglia rinfrescare una lettura giovanile di Manzoni e del suo romanzo, e anche chi ogni giorno ha il dovere professionale di renderli attrattivi per una classe di adolescenti. Quest’ultimo dev’essere – lo immagino – un compito impegnativo. Ma per le ragioni che ho esposto sopra, e che mi auguro verranno via via illustrate e approfondite nel corso del libro, sono convinto che sia addirittura fondamentale: Manzoni ha parlato agli Italiani della loro storia e della loro identità, ponendo problemi che restano centrali e indicando soluzioni che ancora ci riguardano, noi tutti e non meno degli altri i più giovani fra di noi.
Anche perciò dedico il libro a due Italiani giovanissimi: Samuele e Matilde.
1. Latinorum
Siccome non ha il coraggio di respingere le minacce dei bravi di don Rodrigo, don Abbondio deve tener buono Renzo, accampando pretesti per non celebrare il matrimonio. Quando comincia a snocciolargli gli ostacoli alle nozze, gli «impedimenti dirimenti», che sono poi una sfilza di parole latine, il ragazzo ha un brusco moto d’impazienza: «Si piglia gioco di me? Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?».
Qui latinorum è una parola nuova. Prima esisteva solo in latino, come genitivo plurale maschile dell’aggettivo latinus (e dunque da tradurre: dei latini); ma in un discorso in italiano, e in questa accezione polemica, l’ha utilizzata per primo, come reinventandola, proprio Manzoni. Il suffisso -orum si prestava bene a quanto c’era anche di scherzoso nell’invenzione. Clausole quali -orum, -um, -bus evocano spiccatamente, in una percezione popolare, la natura complicata ed esotica del latino; e il gioco non è finito coi Promessi sposi. Ce lo ricorda, nel film del 1961 di Sergio Corbucci I due marescialli, il comico Totò, impersonando un ladruncolo travestito da prete che recita ad alta voce orazioni pseudolatine per evitare l’arresto da parte del maresciallo dei carabinieri Vittorio De Sica: «Dominus […] in autobus, et linoleum mea in Colosseum. Mortis tua e tu’ patri et tu’ nonni in cariolam mea. Omnibus […] Linoleum, linoleum, linoleum […]. Ora pro nobis, ora pro nobis. Autobus, autobus».
I contesti delle due scene sono molto diversi, ma non incomunicabili, e il loro confronto, a prescindere dallo squilibrio dell’impegno e della resa artistica, è molto istruttivo. In quel film Totò impersona un latitante alle prese con l’autorità, il quale per altro cerca di proteggersi proprio sotto il manto di un’altra autorità, la tonaca di un membro della Chiesa, la sacra istituzione che nell’anno di ambientazione del film, il 1943, e anche in quello della sua realizzazione, il 1961, ancora adottava come lingua ufficiale il latino, che avrebbe abbandonato nella liturgia appena poco dopo, col Concilio Vaticano II (1962-1965). Come accade spesso nei film di Totò, la contrapposizione fra l’uomo del popolo e il rappresentante dell’autorità è sfumata, fin quasi all’accostamento fraterno nel caso in cui il secondo sia incarnato da un attore meno elegante e più bonaccione di De Sica: esemplare il brigadiere Aldo Fabrizi in Guardie e ladri (1951) di Mario Monicelli e Steno. Manzoni invece è radicale, perché la sua visione è dicotomica: Renzo è un giovane onesto il quale non fa che reclamare il rispetto dei suoi diritti, mentre il parroco si sta di fatto rendendo complice di una violenza. L’episodio del romanzo propone uno scontro netto, dove la distinzione fra ragione e torto risalta bruciante e il danno subito dalla vittima grida all’ingiustizia e spinge all’insubordinazione. Il potere si è fatto prepotenza e il latino si manifesta come la lingua del sopruso.
C’erano delle ottime ragioni per presentare le cose in questo modo. Per molti secoli – che comprendevano sia il periodo in cui Manzoni scriveva, il primo Ottocento, sia quello di cui scriveva, il primo Seicento – il latino fu in Europa anche il mezzo e il simbolo della discriminazione fra potenti e umili, ricchi e poveri. Era la lingua della Chiesa cattolica (ma non era del tutto sparito neppure dalle confessioni protestanti, benché esse promuovessero la Bibbia in volgare); era la lingua del diritto e della diplomazia; deteneva un ruolo ora rilevante ora addirittura dominante nelle scuole; e veniva anche visto come un vero e proprio status symbol. Insomma era la lingua di chi sa, può, possiede, si mostra e comanda. L’attitudine che si assumeva nei suoi confronti era perciò un affare denso di significato politico.
Ricordiamo alcuni fatti e alcune opinioni – queste ultime sicuramente note a Manzoni – che servono a comprendere in un contesto più ampio la sua posizione. Il grande pensatore John Locke, un padre del liberalismo moderno, scrisse in inglese i suoi Pensieri sull’educazione (1693), ma vi sostenne che la conoscenza del latino era «assolutamente necessaria per un gentiluomo». Appunto, per un gentiluomo. I sovrani riformatori del Settecento illuminato favorirono l’istruzione elementare dei loro popoli e nella Lombardia di Maria Teresa d’Asburgo le scuole primarie, siccome dovevano preparare alle superiori, comprendevano qualche elemento di latino. Quelle scuole erano gratuite, ma per partecipare alle lezioni di latino bisognava pagare una tassa di 20 soldi al mese, dunque i poveri vi rinunciavano. Non sorprende che i legislatori della Rivoluzione francese, per quanto ammiratori – come vedremo – dell’Antichità classica, cercassero di ridurre l’invadenza del latino come lingua (il provvedimento relativo è del 25 ottobre 1795) e che il loro orientamento fosse condiviso dai patrioti italiani del triennio giacobino 1796-1799. Uno di questi, che si chiamava Domenico Sgargi, il 16 piovoso dell’anno VI repubblicano, cioè il 4 febbraio 1798, pronunciò nel primo Circolo costituzionale del Genio democratico di Bologna un infiammato Discorso risguardante li ostacoli, che nel governo dispotico si oppongono al progresso dell’arti, e delle scienze. Imputato principale, il latino: «una lingua da pochi studiata, da pochi intesa, da pochissimi con qualche eleganza parlata», e perciò denunciato come il più subdolo fra i mezzi usati dai tiranni per perpetuare «l’ignoranza del Popolo». Tuttavia appena pochi anni più tardi, sotto il regime progressista ma autoritario di Napoleone, il clima era già cambiato. Durante il Consolato, nel 1802, l’insegnamento nei licei francesi fu riorganizzato intorno alla matematica e al latino, e sotto l’Impero un decreto del 17 marzo 1808 decise che per laurearsi era necessario saper «comporre in latino e in francese su un soggetto ed entro un tempo dati», mentre un altro del 13 agosto 1810 stabilì una regola che ricorda da vicino quella della Lombardia asburgica: «Tutti gli allievi di una scuola dove s’insegni il latino saranno tenuti al pagamento di una tassa».
Leggiamo cosa pensavano del latino due celebri scrittori francesi contemporanei di Manzoni. Il primo, François-René de Chateaubriand, è stato un grande romantico, tradizionalista e spiritualista. Nel suo Genio del Cristianesimo (1802), nello sciogliere un inno poetico all’uso del latino nella liturgia, ha introdotto delle considerazioni liricheggianti e irrazionalistiche che vanno molto al di là dell’accettazione di una pratica ortodossa: «una lingua antica e misteriosa, una lingua che non varia nel tempo, si adatta bene a venerare l’Essere eterno, incomprensibile, immutabile […]. Le orazioni in latino sembrano raddoppiare il sentimento religioso della folla. Come spiegarlo, se non quale effetto naturale della nostra propensione al segreto?». Il secondo, Joseph de Maistre, è stato invece un razionalista lucido e mordace, apertamente reazionario e forcaiolo (è lo stesso dell’elogio del boia e della divinità della guerra), una specie di Voltaire a rovescio. Il suo trattato Sul Papa, concluso nel 1817 e pubblicato nel 1819, comprende una digressione in lode del latino: «Nata per comandare, questa lingua comanda ancora dai libri di coloro che la parlarono. È la lingua dei Romani conquistatori, è la lingua dei missionari della Chiesa romana […]. Quanto al popolo, se non ne comprende le parole, tanto meglio. Il rispetto ci guadagna, e l’intelligenza non ci perde […]. Comunque sia, la lingua della religione deve stare fuori dalla portata dell’uomo».
Manzoni si colloca evidentemente proprio dalla parte opposta: non era meno cattolico né meno latinista di Chateaubriand e de Maistre, ma non condivideva né il latinorum misticheggiante del primo né quello più esplicitamente prevaricatore del secondo.
Ciò detto, si capisce che il latino in sé non si esauriva certo nel latinorum. Benché lingua del comando, dell’imperialismo e – lo abbiamo appena intuito – del colonialismo che si profilava dietro l’evangelizzazione, il latino era stato però fino a tutta l’epoca moderna anche la lingua della cultura e della scienza. Allora l’inglese dell’odierna globalizzazione era ben di là da venire, mentre il francese dei Lumi cominciò a farsi largo solo nel corso del Settecento. Intanto serviva una lingua per capirsi fra intellettuali e studiosi dei vari paesi d’Europa, e questa fu il latino.
Il più rappresentativo intellettuale del Rinascimento, Erasmo da Rotterdam, scrisse in latino le sue opere, fra cui la più famosa, Laus stultitiae, l’elogio della follia (1511). L’esposizione della teoria eliocentrica in un trattato sulle rivoluzioni delle sfere celesti fu fatta dall’astronomo polacco Niccolò Copernico nel De revolutionibus orbium coelestium (1543). Per restare in materia, Galileo Galilei scrisse in italiano il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), ma la fortuna europea dell’opera dipese dalla sua traduzione latina del 1635. Un altro libro che ebbe un decisivo impatto innovatore, perché distingueva la conoscenza matematica dalle altre come l’unica certa, fu il Discorso sul metodo (1637). L’autore, René Descartes, più universalmente noto come Cartesius, lo pubblicò in francese, ma poi rivide personalmente il testo della traduzione latina. La dimostrazione del carattere storico e relativo della Bibbia e la prima grande affermazione, su questa base, dello spirito critico e della libertà di pensiero furono attuate dal filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza, nel 1670, nel Tractatus theologico-politicus. Anche la teoria della gravitazione universale fu poi esposta da Isaac Newton in latino nei Principia Mathematica (1687), e pure in latino da Linneo la classificazione del mondo naturale nel Systema Naturae (1735). Ancora nel 1791, cioè due anni dopo la presa della Bastiglia, lo scopritore del rapporto tra forza elettrica e moto animale, Luigi Galvani, espose le sue ricerche nel De viribus electricitatis in motu muscolari.
Ma non contava solo l’aspetto della comunicazione europea dei contenuti del pensiero di questo o quell’autore che lavorava nel suo rispettivo paese di appartenenza. Infatti qualcuno di loro, prima ancora di porsi problemi di comunicazione, mostrava di apprezzare le spiccate qualità del latino nell’espressione stessa di quei contenuti. Uno fu Blaise Pascal, uno scrittore e spirito religioso molto ammirato da Manzoni e molto influente su di lui, e sul quale torneremo. Pascal era anche un matematico. In una lettera del 29 luglio 1654 a un collega, dopo aver cominciato a esporgli le sue scoperte sul calcolo delle probabilità nella loro comune lingua francese, si arrestò di colpo: «Par exemple, et je vous le dirai en latin, car le français n’y vaut rien: Si quotlibet litterarum, verbi gratia octo», eccetera. Proprio così: per spiegarsi meglio Pascal abbandona il francese, che non funziona più, e passa al latino.
Fermiamoci qui. Dobbiamo riavvicinarci alla letteratura e a Manzoni. Lo faremo osservando che nel corso del Settecento l’onnipotenza del latino fu messa in discussione da parte di coloro che sottoponevano a critica ogni aspetto dell’eredità del passato, gli Illuministi. Il confronto fra le posizioni di due di loro ci avvierà a capire in quale più precisa direzione si sarebbe ormai trovato incanalato, negli anni di formazione di Manzoni, il precedente universalismo latino. I due sono lo scienziato Jean Baptiste d’Alembert e il filosofo Denis Diderot, i due direttori dell’Encyclopédie, il monumentale manifesto dell’Illuminismo francese. Proprio nel suo Discorso preliminare all’Enciclopedia, risalente al 1751, d’Alembert prendeva già atto, non senza qualche sfumatura di rammarico, che il latino era in crisi e destinato in futuro a un uso residuale. Invece Diderot nel Progetto di una università per il governo di Russia, steso fra il 1775 e il 1776 per la zarina di Russia Caterina II, negò al latino qualsiasi rimpianto: non serve a nessuno, scrisse, «tranne che ai poeti, agli oratori, agli eruditi, e a simili tipi di letterati di professione, il che vuol dire a tutta gente che è la meno necessaria alla società».
Insomma, siamo arrivati al punto: il latino e noi, letterati di ieri e di oggi, cultori, autori, lettori di opere di umane lettere. Nei paesi di lingua neolatina e in primo luogo in Italia, latino e letteratura hanno avuto storicamente un rapporto strettissimo, quasi una vera e propria identificazione. È un’eredità dell’Umanesimo, con la sua riscoperta e promozione, anzi esaltazione, degli autori classici, e dopo circa sette secoli questa eredità mantiene una sua forza. Attenzione, però: fra i letterati di ieri e quelli di oggi, per quanto tuttora affratellati da vincoli non facili da spiegare ma profondissimi, da una sorta di ineffabile omertà di fondo, c’è una differenza decisiva. Se si escludono gli specialisti e gli insegnanti di lingue classiche e qualche altro personaggio di eccezionale competenza (diciamolo col poeta latino Giovenale: «rara avis», uccello raro), i letterati di oggi sono per lo più dei latinisti magari volonterosi, ma un po’ impacciati, e comunque limitati. Per esempio: quanti di loro sono davvero in grado di tradurre all’impronta un capitolo delle storie di Tito Livio? E un’ode di Orazio? E quanti versi di poesia latina ricordano e possono recitare a memoria?
A me, che ho studiato lettere tutta la vita, risuona ancora in mente, circa mezzo secolo dopo averlo imparato, un verso delle Georgiche di Virgilio. Lo ricordo, come mi fu insegnato, proprio in metrica, cioè cogli accenti tutti spostati, ma corrispondenti al ritmo della lettura poetica: «Sèd fugit ìntereà fugit ìrreparàbile tèmpus»: ma fugge intanto, fugge irreparabilmente il tempo. Facciamoci un’idea di confronto. Nella sua autobiografia Vittorio Alfieri, vissuto fra 1749 e 1803, racconta le sue prodezze di collegiale: nei suoi momenti migliori sfiorava i 400 versi delle Georgiche declamati a memoria senza interruzione. Non mi vorrò mica paragonare con Alfieri? Certo che no, ma il problema non è lui, è il suo anonimo compagno di classe con cui Vittorio era sempre in gara: «L’emulazione – scrive il poeta – mi si accrebbe, per l’incontro di un giovine che competeva con me nel fare il Tema, ed alcuna volta mi superava; ma vieppiù poi mi vinceva sempre negli esercizj della memoria, recitando egli sino a 600 versi delle Georgiche di Virgilio d’un fiato, senza sbagliare una sillaba».
Bisogna riflettere su una testimonianza come questa per capire cosa fossero il latino, la poesia latina per i letterati grandi e piccoli di un tempo, anche per i loro più oscuri colleghi o condiscepoli. Ce l’avevano non solo in testa, ma nel sangue, come un modo di pensare e di essere. Manzoni non fa eccezione. Senza diventare un grande filologo, anche grecista, come Leopardi, divorato dall’ardore solitario di uno studio matto e disperatissimo nella biblioteca familiare di Recanati, Alessandro ha però fatto i suoi bei studi classici seguendo il normale percorso di un giovane nobile educato nei collegi religiosi: mentre nutriva una fiera avversione per gli insegnanti, a suo parere ipocriti e mediocri, e scriveva contro di loro qualche intemperante ragazzata di cui si sarebbe poi pentito dopo il ritorno alla fede cattolica, s’impadroniva dei poeti latini e della loro lingua con una passione e una competenza che non lo avrebbero più abbandonato.
Tutti i suoi scritti lungo tutta la sua vita testimoniano una familiarità confidente coi classici, sempre citati con sicurezza e disinvoltura, e c’è un episodio che spiega a meraviglia la sua appartenenza a quella illustre tradizione. Molto dopo gli anni di collegio, nel 1868 – aveva ormai 83 anni –, durante una passeggiata nei giardini pubblici di Milano, vide degli uccelli chiusi in gabbia, e il suo amore per la libertà gli ispirò l’idea che quelli si rivolgessero con un moto d’invidia alle anatre che scorrazzavano sullo stagno. Da questa ispirazione è nata una poesia, una specie di scherzo garbato e serio sulle diverse condizioni dei viventi. Noi, che siamo letterati diversamente, oltre che inferiormente, rispetto a lui, ai volatili prigionieri faremmo dire: «Anatre fortunate cui sorride l’aria aperta, e cui si offre libero nella sua ampiezza lo spazio dello stagno!». Ma l’inventore del latinorum non aveva perso la pratica dell’antico collegiale coi distici elegiaci latini: «Fortunatae anates quibus aether ridet apertus, / Liberaque in lato margine stagna patent!». Sì, Manzoni ha composto la sua ultima poesia in latino: Volucres, uccelli.
Questa familiarità si era già palesata nel modo più intimo e toccante che si possa immaginare. Fra i poeti latini amati da Manzoni il prediletto fu Virgilio, il poeta della natura e dell’amore, della tragedia della guerra e dell’umanità dolorosa. Studiato e tradotto in collegio, gli è rimasto sempre nella mente e nel cuore. Sotto l’ala di Virgilio era avvenuto l’esordio di Alessandro in poesia, a dodici anni, nel 1797, con un’esercitazione sul secondo libro dell’Eneide di cui ci è rimasto un piccolo frammento sul cavallo di Troia. Leggiamolo con la tenerezza che merita il primo balbettamento di un futuro grande poeta: «Destrier si formi, e sia ben vuoto in mezzo, / dentro poniamvi quanti mai vi possano / soldati star». Virgilio fu poi sempre un riferimento dominante per lo scrittore maturo, che fra l’altro gli dedicò una entusiastica analisi in quella mirabile summa di storia della letteratura universale che è il trattato Del romanzo storico, concepito nel 1827 e pubblicato nel 1850. Siccome non è possibile citare tutta quell’analisi, accontentiamoci di farlo con la frase che ne costituisce il succo: «Avere accennato ciò che la poesia vuole, è avere accennato ciò che Virgilio fece, in un grado eccellente».
Il rapporto è ancora più intrinseco, proprio perché la memoria virgiliana di Manzoni toccava davvero le corde più delicate del suo sentimento. Nel sesto libro dell’Eneide, prima di far scendere il protagonista nell’Ade, l’Aldilà pagano, e lì fargli avere la rivelazione della futura grandezza politica di Roma, Virgilio descrive il tempio di Apollo a Cuma e spiega perché Dedalo non è riuscito a raffigurarvi, fra le altre scene, quella della morte del figlio Icaro. Ci si è provato due volte, ma due volte il cuore non gli ha retto e due volte gli sono cadute le mani di padre addolorato: «Bis patriae cecidre manus». Questa espressione virgiliana, che è anche volgarizzata nell’uso quotidiano – mi cadono le mani, mi fai cadere le braccia –, Manzoni l’ha ripresa già nel Cinque maggio, raccontando come Napoleone abbia tentato più volte invano di lasciare ai posteri la sua autobiografia: «E sull’eterne pagine / Cadde la stanca man!». Ma l’ha nuovamente ripresa, a distanza di tredici anni, per un’occasione molto più personale: il giorno di Natale del 1834, primo anniversario della morte prematura della sua amatissima moglie, ha cominciato a comporre un’ode religiosa sul tema (che vedremo per altri versi cruciale) dell’onnipotenza di Dio e dello smarrimento umano di fronte alla morte dei giusti e degli innocenti, Il Natale del 1833. Ne restano una trentina di versi, sofferti, interrotti, incompiuti. Arrendendosi di fronte alla piena del proprio dolore, Manzoni ha siglato la rinuncia con le due parole che gli risalivano dal fondo del cuore: cecidre manus.
Insomma, Manzoni aveva tutte le carte in regola per appartenere alla gloriosa tradizione classica della letteratura italiana, quella cui fra Sette e Ottocento erano appartenuti e appartenevano – ben inteso, ognuno con la sua specifica personalità – Parini, Alfieri, Monti, Foscolo, autori tutti importanti nella sua formazione giovanile. Una tale appartenenza comportava non solo venerazione e dimestichezza rispetto ai poeti classici, specie quelli latini, ma anche volontà di imitarli e proseguirli in uno stile alto e raffinato di scrittura, comprensivo dell’uso della mitologia pagana come fonte d’ispirazione tuttora valida per la poesia moderna.
Su questa linea Manzoni compose fra l’altro, nel 1809, un poema mitologico dedicato a Urania, che sta, per così dire, a mezza via tra la Musogonia di Monti e LeGrazie di Foscolo. Eccone il contenuto. Dopo una tenzone fra poeti greci che aveva visto vincitrice Corinna, aiutata dalle Grazie, lo sconfitto Pindaro viene confortato nel Parnaso, il monte del dio Apollo e delle Muse, da una di loro, Urania appunto, che gli spiega che Giove ha inviato Muse e Grazie sulla terra per ispirare i poeti nella loro funzione civilizzatrice. Il giovane Alessandro si augura di essere annoverato fra questi: «Mi sollecita amor che Italia un giorno / Me de’ suoi vati al drappel sacro aggiunga, / Italia, ospizio de le Muse antico». Come si vede, il poemetto è naturalmente scritto in endecasillabi sciolti, cioè non rimati, il metro regale della storia della poesia classica italiana, usato in una vastissima produzione che si attesta sui livelli qualitativi più diversi, ma che comunque comprende anche i Sepolcri di Foscolo e l’Infinito di Leopardi. Il dato più interessante è però che Manzoni aveva già allora qualche dubbio su quanto stava facendo.
Lo impariamo da due sue lettere all’amico francese Claude Fauriel. Nella seconda, del 6 settembre 1809, forse riferendosi proprio a Urania o forse a un’altra composizione neoclassica cui sta lavorando, Manzoni esprime un giudizio seccamente negativo. Traduco: «Sono molto scontento di questi versi, soprattutto perché non presentano nessun motivo d’interesse; non bisogna farne così; magari in futuro ne farò di peggiori, ma non così». La prima, scritta il 9 febbraio 1806 in italiano, è anche più importante, perché consiste in un esplicito e ampio confronto con la tradizione classica. Il giovane poeta se ne sente e vuole esserne parte, ma sa già sottoporla a uno sguardo critico. Ha ricevuto da Fauriel degli elogi per i suoi versi In morte di Carlo Imbonati, gli stessi che saranno elogiati poco dopo anche in una nota dei Sepolcri. Imbonati era stato il compagno di sua madre a Parigi e Alessandro lo celebra, senza averlo conosciuto, come un «giusto solitario», un modello di rigore morale e dedizione al generoso e disinteressato studio degli antichi. Rispetto all’Urania, qui siamo in un’altra stanza dell’illustre palazzo del Neoclassicismo: intemerata onestà e fierezza, solitudine dell’intellettuale, disprezzo verso il presente «secol sozzo» e dunque esaltazione dei predecessori più indignati, il tragico Alfieri, «che ne le reggie primo / L’orma stampò dell’Italo coturno» (il coturno era lo stivaletto calzato dagli attori delle tragedie greche e romane), e il satirico Parini, «scola e palestra di virtù».
I versi per Imbonati restano fedeli alla linea. Ma la risposta agli elogi di Fauriel è straordinariamente problematica e acuta. L’interlocutore doveva aver scritto qualcosa in favore dell’endecasillabo sciolto, il metro usato anche qui da Manzoni, il quale proprio da questo parte per proporre una concentrata sintesi di critica letteraria fra antichi e moderni: «Lo Sciolto parmi veramente il più bello dei nostri metri, quando è ben maneggiato. Parmi ch’esso abbia, come l’esametro latino, il pregio di prendere ogni colorito». Al solito, i classici incombono, e infatti seguono riferimenti ammirati a Virgilio e Orazio. Poi, tornando alla poesia italiana, un’osservazione non scontata: la rima non è una difficoltà in più, al contrario, coi suoi vincoli essa ispira di per sé nuovi pensieri allo scrittore, sicché sono invece proprio gli endecasillabi non rimati il vero banco di prova delle «virtù poetiche», e «il Parini è sommo scrittore di versi sciolti perché le aveva tutte». Su questa conclusione la partita sembra chiusa nella scia della fedeltà alla linea, sotto il segno di un suo esimio rappresentante, e invece, con uno scarto netto, il discorso si riapre, in un modo, appunto, acutamente problematico.
Manzoni ragiona sul poemetto Il Giorno, l’incompiuto capolavoro di Parini. Si tratta della severa e polemica descrizione di come sciupasse la sua giornata un giovane nobile del tempo. Il nobile milanese Manzoni conosceva benissimo il contesto e le ragioni della satira, perché essa era maturata nella Milano degli anni Sessanta del Settecento, sullo sfondo delle discussioni illuministiche del giornale «Il Caffè», con la presenza dei fratelli Pietro e Alessandro Verri e di Cesare Beccaria, che fra l’altro era stato suo nonno materno. Conosceva di sicuro anche un aspetto particolarmente delicato dei costumi di quell’epoca, che costituisce, per così dire, il quadro della rappresentazione del Giorno, e cioè il fatto che il «giovin signore» protagonista dell’opera fosse un cavalier servente, ovvero un cicisbeo, accompagnatore ufficiale di una dama maritata a un altro uomo, «la pudica d’altrui sposa a te cara», come Parini la definisce mordacemente, rivolgendosi al suo eroe negativo in un verso che torna più volte quasi invariato nel poema. Manzoni ha sempre glissato sul cicisbeismo, che aveva inciso in modo determinante sulla vita di sua madre, e noi ci torneremo, per lo stretto necessario, solo quando più avanti occorrerà parlare delle figure femminili da lui create.
In questa lettera IlGiorno viene esaltato come esemplare nelle intenzioni rispetto allo scopo più alto dell’arte, «d’erudire cioè la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell’utile», ma viene anche fatto oggetto, quanto ai risultati, di un giudizio, a ben vedere, molto negativo: semplicemente, è troppo difficile, quindi alla fin fine poco utile. Parini, «quel sommo uomo», «non ha fatto che perfezionare di più l’intelletto e il gusto di quei pochi che lo leggono e l’intendono; fra i quali non v’è alcuno di quelli ch’egli s’è proposto di correggere». Questo giudizio merita un commento: i corrigendi sono i nobili dal Settecento in poi, a cominciare da quelli dell’illuminata Milano. Davvero gli esponenti del ceto dirigente della Parigi d’Italia non capiscono IlGiorno? Non è che Manzoni sta un po’ esagerando? Facciamo comunque un sondaggio su di noi.
In una delle sezioni del poema, intitolata Il Vespro, s’immagina che sul far della sera il cavalier servente conduca in carrozza la sua bella, pudica sposa d’altrui, ad incontrare altre dame e altri accompagnatori con cui scambiare – diremmo noi – quattro chiacchiere in amicizia sulle ultime novità. Niente di astruso, anzi. Ma il poeta trova ineluttabile che ciò sarà l’occasione per spettegolare malignamente sulle assenti, il cui arrivo per altro è prossimo, e rivolgendosi all’Amicizia, intesa come dea, la invita a moderare le linguacce delle presenti e ad ispirare al «giovin signore» un atteggiamento parimenti discreto e generoso, appunto da vero amico e non da sparlatore. L’ho riportata, riassumendo e parafrasando, a modo mio. Ecco Parini: «Tu fra le dame / sul mobil arco delle argute lingue / i già pronti a scoccar dardi trattieni, / s’altra giugne improvviso a cui rivolti / pendean di già: tu fai che a lei presente / non osin dispiacer le fide amiche: / tu le carche faretre a miglior tempo / di serbar le consigli. Or meco scendi; / e i generosi ufici e i cari sensi / meco detta al mio eroe; tal che, famoso / per entro al suon delle future etadi, / e a Pilade s’eguagli e a quel che trasse / il buon Tesèo da le tenarie foci».
Bello ed elegante, in una felice chiave ironica, ma in effetti non proprio facilissimo. Non saprei dire se davvero nessuno dei destinatari corrigendi poteva capire; quanto a me, mi sono districato da solo fra i versi che giocano sulla repressione della maldicenza nei confronti della dama non ancora arrivata, ma per gli ultimi due ho avuto bisogno di un supporto proprio per apprezzare la felice ironia. Il galante cicisbeo si mostrerà un vero amico se si comporterà come due eroi della mitologia classica: il primo è citato, Pilade, sempre fedele compagno delle peripezie del cugino Oreste; il secondo è Ercole. La definizione di quest’ultimo richiede un’ulteriore spiegazione: fra le sue varie magnanime prodezze c’è quella di aver liberato dall’Oltretomba Teseo, a sua volta definito buono perché vi aveva accompagnato Piritoo (che neppure Ercole riuscì a liberare); le tenarie foci, che traducono le tenarias fauces delle Georgiche di Virgilio, sono appunto il luogo d’entrata (o meglio: uno dei possibili luoghi d’entrata) nell’Oltretomba secondo gli antichi, il capo Tenaro, l’odierno Matapàn, sulla punta della penisola del Mani nel Peloponneso.
È estremamente interessante il modo in cui, nella sua lettera a Fauriel, Manzoni motiva la difficoltà di capire Parini e nell’insieme la poesia classica italiana; la presenta in effetti come un problema di lingua: «Per nostra sventura, lo stato dell’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l’ignoranza quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi lingua morta». Cioè, sullo sfondo della storica disunione politica, non esiste una lingua condivisa da tutti gli Italiani e naturalmente usata sia nel parlato che nello scritto. A vent’anni Manzoni aveva già ben chiaro un rovello su cui avrebbe riflettuto e lavorato durante tutta la sua lunga vita (anche su questo torneremo), e ciò già nell’ottica, che qui si delinea nelle frasi successive e che egli avrebbe poi sempre mantenuto, del confronto con la Francia, una nazione più fortunata perché da secoli unita e libera. Ma in questo testo rivelatore c’è dell’altro: si legge fra le righe, ma c’è di sicuro. Perché in fin dei conti Parini è comprensibile da qualsiasi italiano che possieda una buona cultura classica, dunque qui non c’è solo la presa d’atto della mancanza di una lingua nazionale, ma anche – inseparabile da questo rilievo – l’insoddisfazione per una letteratura accessibile solo ai pratici sia di «carche faretre» che di «tenarie foci», per una letteratura, insomma, privilegio di pochi intellettuali raffinati, patrimonio – per dirla con polemica impazienza – dei soli esperti di latinorum.
Queste considerazioni ammirate ma critiche sul Giorno contengono la promessa degli Inni sacri, le prime poesie religiose di Manzoni dopo la sua cosiddetta conversione, cioè il suo sofferto processo di riavvicinamento alla fede cattolica che una pittoresca leggenda vorrebbe frutto di una sorta di folgorazione avvenuta il 2 aprile 1810 nella chiesa parigina di San Rocco, la quale, peraltro, commemora in una lapide il presunto miracolo. Tranne la Pentecoste, lungamente elaborata fra 1817 e 1822, gli Inni sacri, composti fra 1812 e 1815, non si possono forse definire dei capolavori, ma la loro prima edizione nel 1815 segna comunque una svolta nella storia della letteratura italiana. Ancora alla vigilia dell’inizio in Italia della polemica fra Classicismo e Romanticismo, Manzoni taglia già i ponti col primo e lo fa in una sua maniera molto peculiare, destinata a segnare la propria adesione al secondo e a condizionare il profilo che esso avrebbe preso nella letteratura italiana. Si tratta di una scelta che ha la forza della coerenza e della semplicità: la letteratura ha senso solo se non è un gioco di corte o d’accademia, ma una pratica morale in rapporto con l’umanità vivente, l’umanità nuova del Cristianesimo; e ha valore solo se può arrivare a tutti gli esseri umani.
Non deve stupire il fatto che Manzoni realizzi il distacco dalla scuola classica che era stata anche la sua, e dunque una innovativa cesura nella cultura letteraria italiana, con delle poesie che celebrano argomenti quali la Resurrezione, il Nome di Maria, il Natale, la Passione, la Pentecoste. La novità stava nella combinazione di due elementi: quelle poesie trattavano di argomenti familiari a tutti e – non meno importante – lo facevano in versi non sciolti ma rimati, come nelle canzonette da imparare a memoria, e in una lingua e in uno stile ‘facili’. Ecco per esempio nel primo degli Inni, La Risurrezione, il tema, così squisitamente cattolico, della carità: «Sia frugal del ricco il pasto; / ogni mensa abbia i suoi doni; / e il tesor negato al fasto / di superbe imbandigioni, / scorra amico all’umil tetto, / faccia il desco poveretto / più ridente oggi apparir».
Ho dovuto prudentemente racchiudere fra virgolette l’aggettivo ‘facili’, perché stiamo pur sempre parlando di poesie del primo Ottocento. Per intenderci: non sono facili, nel senso di facilmente comprensibili a tutti, come i testi di qualche successo popolare di Gianni Morandi o Vasco Rossi, ma facili come i meno astrusi (ce ne sono di più e di meno) fra i libretti dell’opera lirica italiana dell’età di Manzoni. E non per nulla un collaboratore del giornale liberale «Il Conciliatore», Giovanni Battista De Cristoforis, che in materia la pensava diversamente da Chateaubriand e de Maistre, lodò più tardi gli Inni sacri perché gli ricordavano gli antichi canti d’Israele compresi da ogni fedele: «Così dalla sacra poesia intesa e sentita profondamente da tutti, perché dettata nel linguaggio che tutti parlavano, sommo veniva l’interesse al rito; e la preghiera non pronunziavasi da fredde labbra d’idioti che non l’intendessero, ma partiva caldissima dai cuori compunti».
Era una novità che non fu apprezzata da tutti. Lo scarto rispetto a secoli di poesia classicheggiante risultava sovversivo, e – questo non va dimenticato – una sovversione letteraria può adombrarne una anche più pericolosa. Nella cultura della Restaurazione pesava ancora molto un atteggiamento per il quale la definizione più esatta è dopo tutto quella un po’ più generica e onnicomprensiva: tradizionalismo conservatore. C’era, e si esprimeva nelle sedi adeguate delle accademie e delle composizioni auliche, una tradizione letteraria classica da omaggiare e perpetuare, corrispondente a un ordine delle cose che era insieme sociale e culturale, ordine che si stava ricomponendo dopo la bufera rivoluzionaria e napoleonica e che anche in campo ecclesiastico vedeva il ripristino delle antiche gerarchie e la riscossa delle componenti meno aperte e illuminate. Insomma, tutto doveva tornare al suo posto, e tutti al loro; il che poi voleva dire, nell’ambito del sapere, stare da una parte o dall’altra del discrimine segnato dall’appartenenza o meno a un’élite in grado di comprendere, per esempio, IlGiorno di Parini, o almeno di provarcisi.
Senza bisogno di essere de Maistre o Chateaubriand, un cattolico benpensante italiano poteva così reagire a una raccolta di ‘facili’ inni sacri con una ostilità feroce, che per noi risulta molto istruttiva circa la natura dell’opera aggredita. Leggiamo qualcosa dai Dubbi intorno gl’Inni Sacri pubblicati nel 1829, l’anno stesso della sua prematura morte, da un giovane abate empolese, Giuseppe Salvagnoli Marchetti: «Manzoni avea regalato all’Italia molte cose non italiane […]. Non invidio il Manzoni; perché non ho mai invidiato chi segue false immagini di bene e di vero». «Non ho letto i Promessi sposi»: questa ha tutta l’aria di una bugia, dato che nello stesso 1829 Salvagnoli Marchetti scrisse in una rivista romana un articolo contenente un riassunto del romanzo a dir poco offensivo. E quanto propriamente agli Inni, poiché era troppo per un abate criticarne il contenuto, ecco cento e passa pagine di puntigliose e sprezzanti critiche sulla metrica, la lingua, lo stile, tutti contrari a «quell’aurea sentenza del Parini», che in poesia bisogna essere chiari e immediatamente intellegibili.
Gli Inni sacri incomprensibili, all’opposto del Giorno? Non sto forzando il testo. I Dubbi di Salvagnoli Marchetti sono in effetti costruiti interamente su questo assunto che, se proposto in buona fede, costituirebbe un gigantesco paradosso. Sarebbe la dimostrazione di un attaccamento a suo modo commovente a una forma espressiva inseparabile dalle «carche faretre» e dalle «tenarie foci». Ma forse la buona fede dell’abate non era a prova di bomba. C’è un punto della sua argomentazione da cui sembra emergere l’involontaria ammissione di un fastidio poco limpido. Nel suo attacco contro la Pentecoste egli cita i versi sull’elemosina che il ricco deve fare al povero con discrezione, il tema socialmente sensibile che abbiamo appena incontrato nella Risurrezione: «Cui fu donato in copia, / doni con volto amico, / con quel tacer pudico, / che accetto il don ti fa». Ecco il commento: «Confesso la mia ignoranza; ma senza che l’autore mi spieghi con altre parole il suo pensiero, io non so giungere a intendere i quattro ultimi versi di questa strofe, per quanto mi vi affatichi, e mi lambicchi il cervello».
Siamo onesti: le uniche difficoltà di questi versi stanno – ed è, se mai, un piccolo appunto che potremmo muovere noi a Manzoni, ma in senso opposto alle critiche dell’abate – nella contrazione «cui», che vale latinamente «colui al quale», e nella parola «copia». Quest’ultima non significa, ovviamente, «riproduzione identica», bensì, come in latino, «abbondanza», perché «cui fu donato in copia» è una maniera per indicare poeticamente il ricco, colui al quale fu dato in abbondanza. Dunque Manzoni chiede per una volta al lettore uno sforzo di comprensione verso un uso un po’ letterario di una costruzione e di una parola, riavvicinate alla matrice latina. Figuriamoci se Salvagnoli Marchetti ignorava questa matrice! E comunque l’abate non ha giustificazione nella sua pretesa ignoranza di un concetto che ha una fonte famosa, e, soprattutto, evangelica: «Quando fai elemosina non sappia la tua mano sinistra cosa fa la destra, perché la tua elemosina resti segreta».
Ma è proprio qui il problema: questo lettore di gusto classico e di cultura conservatrice non accetta il respiro sinceramente evangelico, e dunque propriamente egualitario, che Manzoni è riuscito a dare alla sua stupenda rappresentazione della manifestazione dello Spirito Santo. In questo rifiuto non c’è distinzione fra contenuto e linguaggio poetico e le critiche al linguaggio hanno un nocciolo ideologico durissimo, perché rifiutare la poesia degli Inni sacri era il modo di restare legati a un classicismo socialmente connotato, in quanto riservato a pochi. Quando ostentava di non capire – e senza spiegarne, come correttezza avrebbe imposto, il motivo – l’abate stava comunque dalla parte del latinorum di don Abbondio: ciò che davvero lo disturbava era un inquietante sentore di insubordinazione.
2. La gran madre de’ Fabj e de’ Scipioni
Il latinorum non era però solo letteratura, ma anche storia – e che storia! Il titolo di questo capitolo è un endecasillabo scritto dal giovane Manzoni nel 1801 e si riferisce ad alcuni dei più gloriosi protagonisti della storia dell’antica Roma.
I Fabi erano i membri della gens Fabia, un clan patrizio che si era assunto il compito di combattere, come singola famiglia ma nell’interesse della Repubblica, dei nemici insidiosi, gli abitanti di Veio, che oggi sarebbe Isola Farnese, un borgo situato una quindicina di chilometri a nord di Roma (le prime imprese dell’Urbe caput mundi avevano una scala un po’ ridotta). Purtroppo, però, il 13 febbraio del 477 a.C. i Fabi, resi imprudenti da qualche precedente successo, si fecero cogliere alla sprovvista presso il fiume Cremera dai Veienti, che li sconfissero e li massacrarono tutti: per la precisione 306, come ci informa Tito Livio, lo storico principale cantore della grandezza romana, il quale per altro non manca di aggiungere che il Fabio n. 307 era stato lasciato a casa perché ancora bambino e che così questa eroica gens poté continuare a produrre alla patria uomini illustri, preziosi per i momenti difficili.
Difficilissimo fu, due secoli e mezzo più tardi, il momento della minaccia portata a Roma da Annibale. Per fortuna c’era, appunto, a disposizione un discendente del n. 307, Quinto Fabio Massimo, detto Cunctator, cioè il Temporeggiatore, colui che evitando una battaglia campale logorò le forze del condottiero cartaginese, salvando così la Repubblica. E con questo (e ormai in una dimensione molto maggiore) siamo arrivati ai più importanti fra gli Scipioni, che erano un ramo di un’altra gens patrizia, la gens Cornelia: Publio Cornelio Scipione, detto Africano perché vincitore contro Annibale della battaglia di Zama e della seconda guerra punica, e il suo nipote adottivo Publio Cornelio Scipione Emiliano, trionfatore della terza guerra punica e distruttore delle città di Cartagine e di Numanzia.
Noi oggi abbiamo bisogno di rinfrescarci la memoria, ma quando scriveva questo verso il sedicenne Alessandro aveva ben presenti quei fatti esemplari (tale, nella sua risonanza mitica, anche la battaglia del fiume Cremera). Aveva soprattutto le idee chiare: la «gran madre» dei Fabi e degli Scipioni è Roma antica come patria eletta della Libertà. Infatti, nei versi fra cui si trova quello citato, la Libertà in persona appare al giovane poeta tenendo in mano lo spadone, «il brando scotitor de’ troni», col quale gli antichi Romani hanno vinto e soggiogato i nemici oppressori, costringendoli ad abbassare le loro già tracotanti fronti, a «curvar l’alte cervici umili e proni». Non si tratta dunque di una Libertà qualsiasi, indifferenziata e per tutti gli usi, ma della libertà di una patria repubblicana, generatrice di valorosi combattenti, indomita contro i tiranni; insomma, una libertà rivoluzionaria.
In effetti, il poemetto comprendente tutto ciò, intitolato appunto Del Trionfo della Libertà, riguarda la Rivoluzione francese. L’adolescente Manzoni ne celebra i contenuti a suo parere più autentici: il radicalismo giacobino, l’intransigenza anticlericale, l’integerrimo distacco dal denaro, il generoso spirito di sacrificio per il bene pubblico; tutti valori che però gli sembrano ora traditi nella realtà del dominio francese in Italia, sicché non spende una sola parola d’elogio per il Primo Console Napoleone (potrà legittimamente ricordarlo nel Cinque maggio definendovi se stesso «vergin di servo encomio»), mentre celebra la morte eroica del giovane generale Desaix, il quale con la sua intrepida carica contro gli Austriaci ha propiziato la vittoria della Rivoluzione a Marengo.
D’accordo: chi da ragazzo non è rivoluzionario – diceva Winston Churchill – è senza cuore (non commentiamo il seguito: chi lo rimane da vecchio, è senza cervello). Ma cosa c’entrano i Fabi e gli Scipioni? E non basta, perché nel poemetto dedicato alla rivoluzione contemporanea questi antichi Romani sono in prestigiosa e numerosa compagnia di concittadini non preoccupati dei propri rischi, ma solo del trionfo della Libertà: «Un bel drappello eletto / Di lor che sordi furo al proprio danno, / Caldi d’amor di Libertade il petto». Il secondo dei quattro canti dell’opera elenca questi eroi ed eroine della tradizione, che forse molti di noi hanno già incontrato sui banchi di qualche classe scolastica: Collatino che si è vendicato dello stupro commesso dal figlio del tiranno Tarquinio il Superbo, sua moglie Lucrezia che ha preferito il suicidio all’infamia, Lucio Giunio Bruto che ha avuto la fermezza di mandare a morte i figli complici di Tarquinio (sì, viene ammirato anche lui), Muzio Scevola che non ha temuto di porre sul braciere la sua imprecisa mano destra, Clelia che è scappata dal nemico attraversando a nuoto il Tevere, Orazio Coclite che ha retto l’assalto di un intero esercito sul ponte Sublicio; e altri ancora, fino a culminare nell’eroe per eccellenza della Libertà, il tirannicida per antonomasia, il secondo Bruto, Marco Giunio Bruto, quello che con Cassio ordì la congiura delle Idi di Marzo contro Giulio Cesare (e cui Manzoni qui fa pronunciare, con un bel colpo di divinazione, una dura invettiva contro il Papato: «Ahi cara patria! Ahi Roma! ah! non più Roma…»).
Insomma, la Rivoluzione evoca l’antica Roma: e questa non s’identifica certo tutta col latinorum reazionario! Anzi, qui latinità si accoppia con libertà (potenzialmente o attualmente rivoluzionaria): un binomio da fare inorridire l’abate Salvagnoli Marchetti, per non dire de Maistre, ma sicuramente non meno valido né meno importante dei loro: latinorum e conservazione, o latinorum e sopraffazione. Nella storia della cultura politica italiana ed europea il modello di Roma antica, spesso insieme con quello delle città greche, Atene e soprattutto Sparta, aveva ispirato – per dirla in termini un po’ semplificati – non il regresso ma il progresso, non l’obbedienza ma la ribellione.
Certo, non fu sempre così: Roma era anche un modello imperiale, anzi il modello imperiale per eccellenza. Qui non c’entra l’uso fatto di quell’imperialismo in epoca fascista (con tanto di effetti tuttora vistosi nel profilo urbanistico e monumentale della nostra capitale); ben prima era stato il nostro poeta sommo, Dante, a pensare a Roma proprio in quel senso, tanto da condannare i cesaricidi Bruto e Cassio nel fondo dell’Inferno, mostrandoli addirittura maciullati insieme con Giuda, il traditore per antonomasia, dalle tre bocche di Lucifero, «sì che tre ne facea così dolenti». Tuttavia, in tanti non sono poi stati per nulla d’accordo con Dante; il ripensamento che hanno fatto della storia dell’antica Roma si è manifestato come elogio della libertà e teorizzazione della democrazia. Durante l’età moderna quasi tutti veneravano l’Antichità in quanto tale, come maestra di pensiero e di vita, sicché dominava comunque il Classicismo; ma per molti, e molto importanti autori di quell’età, fino a comprendere il giovane Manzoni, ciò significò più in particolare esaltazione della virtù repubblicana, con buona pace del latinorum dei letterati cortigiani e reazionari.
Bisognerebbe partire dai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, dove a inizio Cinquecento Machiavelli propone a modello gli atti eroici dei primi tempi di Roma narrati da Livio sotto Augusto, primo imperatore, il quale però si presentava come il restauratore dei più autentici e originari valori romani. Ma è più stringente, oltre che più rapido, concentrarsi sulla cultura del Settecento, toccandone due aspetti: la riflessione sulla grandezza degli Antichi (in generale, perché ci sono anche i Greci, ma soprattutto antichi Romani) svolta dai pensatori della Francia dei Lumi (che naturalmente avevano letto anche Machiavelli); la celebrazione degli Antichi da parte dei letterati italiani (occorre appena aggiungere che anche loro avevano letto Machiavelli). Per Alessandro in collegio valeva ovviamente questa seconda celebrazione; ma per Manzoni maturo, profondo conoscitore della cultura francese, sarebbe poi stata anche più importante la prima riflessione.
Montesquieu ha dato un contributo essenziale alla nascita del pensiero politico liberale, con la teoria della divisione dei poteri e della necessità di limitare l’esercizio della sovranità. Nella parte iniziale del suo capolavoro, Lo spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, c’è una elaborata distinzione fra i vari sistemi di governo, comprendente una famosa equazione fra quello repubblicano e la pratica della virtù. Leggiamo un breve passo (IV.4) che ci farà capire come lo spirito di questo maestro di liberalismo, razionalità e moderazione si scaldasse al ricordo delle imprese degli eroi antichi. Montesquieu non riporta l’elenco che Livio ha diffuso fino a Manzoni e oltre, ma noi intendiamo comunque bene cosa ha in mente: «La maggior parte dei popoli antichi vivevano sotto governi che avevano la virtù per principio; e quando questa vi era in pieno vigore, vi si facevano cose che oggi non vediamo più, e che sbigottiscono le nostre piccole anime».
Rousseau si spinge anche oltre. La sua presenza è cruciale, perché di lui Manzoni scrisse una volta che le sue idee sono all’origine di tutti i più decisivi cambiamenti avvenuti poi nella società europea; e lo scrisse a ragione. Qui concentriamoci sul trattato Il contratto sociale (1762), che ha definito i termini della democrazia e della sovranità popolare. In questo capolavoro Rousseau analizza sistematicamente le istituzioni dell’antica Roma, ritenendole evidentemente un punto di riferimento per il moderno governo democratico, e a questa analisi dedica quasi per intero il libro quarto dell’opera (quarto su quattro, non su quaranta). In un altro suo scritto, sul governo della Polonia (1772), se n’è uscito in una battuta di ammirazione complessiva che ricalca quella che abbiamo letto qui sopra di Montesquieu: «Quando si legge la storia antica, si è come trasportati in un altro universo, e fra altri esseri […] Le anime forti degli antichi sembrano agli altri delle esagerazioni della storia». Torna di nuovo in mente la galleria eroica che già conosciamo e che Rousseau rielaborò in vari luoghi della sua produzione nell’ottica politicamente radicale che gli era propria: nell’interesse generale il popolo sovrano deve saper resistere anche ai ricatti dell’umanitarismo. Ciò, fino all’estremo: il secondo Bruto deve difendere la Repubblica uccidendo Cesare, e il primo deve farlo decretando addirittura la morte dei propri figli.
Nel corso del Settecento, soprattutto della seconda metà del secolo, simili fieri e talora spaventosi esempi di virtù favorirono una profonda trasformazione nella cultura artistica e letteraria, introducendovi una gravità morale e un impegno politico che potevano far presagire cambiamenti tempestosi. Nel caso delle opere figurative il proposito degli autori non è sempre facile da intendere univocamente. Per fare solo un esempio, il famoso dipinto di Jacques-Louis David rappresentante i littori (cioè gli ufficiali) che riportano a Bruto i corpi dei figli giustiziati, eseguito precisamente nel 1789, è ed era interpretabile, in chiave antirussoviana, anche come manifestazione di raccapriccio verso un rigore orrendamente eccessivo. Ma per la formazione del giovane Manzoni contavano i poeti, e le loro parole erano più esplicite. Ascoltiamo quelle del più significativo a questo riguardo, Vittorio Alfieri, di cui già sappiamo dai versi in morte di Imbonati che «nelle reggie primo / L’orma stampò dell’Italo coturno».
Negli anni immediatamente precedenti la Rivoluzione francese Alfieri compose le due tragedie Bruto primo e Bruto secondo, rispettivamente dedicate al punitore dei propri figli e al cesaricida. Lo fece anche in polemica con Voltaire, che oltre mezzo secolo prima aveva rappresentato un Brutus (è il primo Bruto) che irritava il tragediografo italiano perché la dura vicenda esemplare vi veniva annacquata da una complicazione amorosa e il rigore libertario vi appariva minacciato da qualche cedimento filomonarchico: «Che Bruti, che Bruti di un Voltaire? – scrisse in quella stessa autobiografia dove aveva riferito le gare di memoria sulle Georgiche di Virgilio – io ne farò dei Bruti, e li farò tutt’a due». Il contenuto ideologico della sua ispirazione lo si trova esplicitato in un suo scritto quasi contemporaneo, il trattato Della Tirannide (1777): «Nelle repubbliche vere, amavano i cittadini prima la patria, poi la famiglia, quindi sé stessi: nelle tirannidi all’incontro, sempre si ama la propria esistenza sopra ogni cosa». Ecco il succo – evidentemente – del Bruto primo, ma in realtà anche del Bruto secondo, perché Alfieri vi fa propria la tradizione secondo cui Cesare, amante della madre di Bruto, ne sarebbe stato il padre naturale. Dunque le due tragedie esibiscono lo stesso eroico patriottismo superiore a ogni affetto privato: come il primo Bruto manda a morte i figli, il secondo partecipa, consapevolmente, all’uccisione del padre.
Del resto, fra i due Bruti, somiglianza ed emulazione, in una gara di magniloquenza enfatica per la quale non è facile assegnare la palma della vittoria. Qui e là, senza neanche l’ombra di una donna, solo amanti della libertà, tiranni e popolo. È tutto uno snudare brandi, gonfiare petti e offrirsi in sacrificio. Smentendo il pensoso Virgilio, che nell’Eneide (VI.823) lo aveva definito infelice, e animato, oltre che dall’amor di patria, da un’infinita brama di gloria («laudum immensa cupido»), il primo Bruto di Alfieri chiarisce il punto ai suoi concittadini: «In me non entra / per ciò di stolta ambizione il tarlo: / d’onori, no, (benché sien veri i vostri) / ebro non son: di libertade io ’l sono; / di amor per Roma; e d’implacabil fero / abborrimento pe’ Tarquini eterno». Agli stessi cittadini poi, nel finale, mentre si concede la debolezza di non contemplare l’esecuzione dei figli che egli stesso ha imposto, raccomanda però di far tesoro dell’esempio: «Farmi del manto è forza / agli occhi un velo… Ah! Ciò si doni al padre… / Ma voi, fissate in lor lo sguardo: eterna, / libera or sorge da quel sangue Roma». Memore di tanta grandezza, il secondo Bruto, nel cercare di convincere Cesare a deporre il potere, gli spiega, citando il proprio antico omonimo, che un libero romano non potrà mai riconoscersi figlio di un tiranno: «Ho nome / Bruto; ed a me sublime madre è Roma. / Deh! Non sforzarmi a reputar mio vero / genitor solo quel romano Bruto, / che a Roma e vita e libertà, col sangue / de’ proprj suoi svenati figli, dava». Ma Cesare ormai è schiavo della sua corruzione politica, sicché in chiusura della tragedia non resta che il tirannicidio con le sue cruente ripercussioni. Bruto proclama: «A morte, / a morte andiamo, o a libertade.» Il popolo risponde: «A morte, / con Bruto a morte, o a libertà si vada».
Quando Alfieri scriveva questi versi altisonanti, la Rivoluzione francese non era ancora scoppiata, ma quella americana era già finita con successo; e non per nulla il Bruto primo è dedicato «al chiarissimo e libero uomo il generale Washington», con la motivazione che «il solo nome del liberator dell’America può stare in fronte della tragedia del liberatore di Roma» (il Bruto secondo è dedicato «al popolo italiano futuro»). Poco dopo sono comunque comparsi per davvero anche i rivoluzionari francesi, e fra di loro i più romanamente severi: i giacobini.
Abbiamo percorso un po’ in fretta un cammino molto importante e arduo, ma siamo abbastanza preparati a constatare come il progetto rivoluzionario si sia rispecchiato nel modello delle repubbliche antiche e a leggere, in proposito, le parole di Robespierre. Il suo celebre discorso del 18 piovoso dell’anno II (5 febbraio 1794) Suiprincipi di morale politica che devono guidare la Convenzione nazionale non è necessariamente solo un’esaltazione del Terrore, ma certo lo è della lezione degli Antichi, ripensata, in un momento cruciale dell’attualità politica, riprendendo in termini drastici le interpretazioni di Montesquieu e Rousseau: «Ora, qual è mai il principio fondamentale del governo democratico o popolare, cioè la forza essenziale che lo sostiene e che lo fa muovere? È la virtù. Parlo di quella virtù che operò tanti prodigi nella Grecia ed in Roma, e che ne dovrà produrre altri, molto più sbalorditivi, nella Francia repubblicana. Di quella virtù che è in sostanza l’amore della patria e delle sue leggi». Ma l’ora è drammatica, e per reagire ai pericoli incombenti non si può tacere quanti danni abbia prodotto l’azione della tirannide e del servilismo, allontanandoci da quelle condizioni ideali di virtù. Sparta è caduta; in Atene vi sono molti abitanti ma non più veri Ateniesi. «E che cosa importa mai che Bruto abbia ucciso il tiranno? La tirannia sopravvive ancora nei cuori, e Roma non esiste più se non in Bruto».
Quando, due anni più tardi, le armi di Napoleone portarono la Rivoluzione in Italia, Robespierre e i giacobini erano ormai stati rovesciati, ma l’entusiasmo rivoluzionario per l’antica virtù era ben vivo, e nella nostra letteratura trovò un terreno fertile: come abbiamo visto, la fecondazione era già precedente; e del resto, dove trovare maggior convinzione della grandezza di Roma che presso i poeti italiani? In questi suoi figli ed eredi diretti le idee politiche sovversive dei Francesi infusero una carica travolgente: rottura netta col degrado presente maturato sotto regnanti stranieri ed indegni (e, appaiati a questi, i sovrani pontefici); emulazione con la cultura francese, oggetto di ammirazione ma anche stimolo alla presa di coscienza della propria identità italiana, volontà appassionata di partecipare alla costruzione di qualcosa di glorioso e capitale. Una rivoluzione, appunto, ma che continuava a trarre energia dall’esempio degli Antichi. Quando si leggono le opere di quei letterati non bisogna sottovalutare l’effetto esplosivo di questa miscela: essi vivevano un dramma enorme, sproporzionato ai ritmi e agli eventi comuni, e un po’ di sovreccitazione è da mettere in conto e con essa la tendenza a evocare, in appoggio, la classicità come il modello inevitabile di ritmi ed eventi eccezionali. Del resto lo avevano già detto Montesquieu e Rousseau: quegli eventi erano così eccezionali da apparire addirittura «esagerazioni della storia che sbigottiscono le nostre piccole anime».
La tendenza fu diffusa; e, specie nei primi anni del dominio francese, precisamente un tono che non è irriguardoso definire di sovreccitazione fece da denominatore comune alle produzioni letterarie italiane, fossero esse ancora entusiaste o già più critiche – come nel caso di Manzoni – verso la figura individuale di Napoleone. Il fenomeno non riguardò solo gli scrittori più immaturi o più modesti: al contrario. Nell’imbarazzo della scelta in un materiale sovrabbondante conviene puntare su Vincenzo Monti: un uomo, è vero, sempre incline ad accendersi per l’una o l’altra corrente dominante, ma pur sempre il sovrano poeta di quell’età di passaggio e di repentini rivolgimenti.
Quando nel 1797 compose la sua canzone
L’autore-Roberto Bizzocchi
Roberto BizzocchiRoberto Bizzocchi
Roberto Bizzocchi, professore dell’Università di Pisa,si è occupato di vari temi di storia politico-culturale e sociale dell’età moderna. Ha pubblicato, tra l’altro, Chiesa e potere nella Toscana del Quattrocento (Bologna 1987), Genealogie incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna (Bologna 1995, traduzione francese Parigi 2010) e ha curato Il carattere degli Italianidi Simonde de Sismondi (Viella 2020). Per Laterza è autore di In famiglia. Storie di interessi e affetti nell’Italia moderna (2001), Guida allo studio della storia moderna (2002, traduzione rumena Bucarest 2007), Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia (2008, traduzione inglese Londra 2014 e francese Parigi 2016) e I cognomi degli Italiani. Una storia lunga 1000 anni (2014).
Edizione: 2022 Pagine: 200 Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858149171 ISBN digitale: 9788858150405 Argomenti: Letteratura: testi, storia e teoria, Storia moderna
I Promessi Sposi, un romanzo di lotta e un atto d’amore di Manzoni per l’Italia
Francesco Mannoni intervista Roberto Bizzocchi
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Roberto Bizzocchi, in un saggio a 150 anni dalla morte dello scrittore, analizza gli aspetti più profondi dell’opera: «Al centro ci sono i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti. Il lavoro sulla lingua unì la penisola»
Francesco Mannoni | L’Eco di Bergamo | 4 gennaio 2023
Oltre all’ispirazione cristiana, nei «Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni, c’è ben altro, e precisamente: «Identità pubblica nazionale in chiave europea e non nazionalista; morale privata basata sulla libertà di scelta e sulla responsabilità individuale, e ciò sia per gli uomini che per le donne; illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una percezione acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli che vi operano».
Questa particolarità critica, nel centocinquantenario della morte di Alessandro Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – 22 maggio 1873) la sostiene Roberto Bizzocchi, docente di storia moderna dell’Università di Pisa, in un saggio che analizza con il microscopio d’una critica attenta e sottile gli aspetti più autentici e profondi del grande «Romanzo popolare» (Laterza, 200 pagine, 20 euro, ebook 12,99 euro), spiegando, con un procedimento diagnostico, «Come i Promessi Sposi hanno fatto l’Italia».
Una rilettura appassionante dei «Promessi Sposi» la sua, professore, che ci fa vedere un mondo che forse ci era sfuggito. Alla luce del suo studio approfondito, i «Promessi Sposi» è un romanzo o più un trattato socio-politico?
«È un romanzo, e bellissimo, ma con una caratteristica forte, che lo distingue dagli altri bellissimi romanzi dell’Ottocento europeo: non racconta gli eventi e i personaggi e le loro azioni in modo oggettivistico, limitandosi a riprodurre la realtà, ma vi aggiunge sempre il suo giudizio morale. Gli uomini possono comportarsi bene o male, le cose che succedono possono essere giuste o ingiuste; e noi dobbiamo avere ben viva la coscienza di ciò, perché la Provvidenza non esime gli uomini dalle loro responsabilità individuali. In questo atteggiamento il cattolico Manzoni resta un uomo dell’Illuminismo, la cultura in cui si era formato, la quale insegna a non arrendersi mai di fronte alle storture del mondo, bensì a combatterle, per rendere meno brutta la nostra vita. Quindi, senza parlare di trattato, si può dire che il romanzo ha un deliberato intento programmatico e pedagogico».
Da quali elementi di rilievo inizia la sua radiografia dell’opera manzoniana?
«Sono partito dall’impressione di “romanzo di lotta” che i Promessi Sposi mi hanno sempre fatto, fin dalla mia prima lettura ginnasiale, e poi sempre di più nelle letture in età matura. Bisogna liberarsi dal pregiudizio su Manzoni moderato e accomodante, mettendo subito in chiaro che il rifiuto della violenza e l’obbligo del perdono – quelli che padre Cristoforo ricorda a Renzo – sono, semplicemente, coerenti con la fede di un vero cristiano, quale Manzoni fu. Per il resto, il quadro della società del Seicento è severo fino all’indignazione: governanti cialtroni (quasi tutti), signorotti prepotenti (don Rodrigo), funzionari e avvocati (Azzecca-garbugli) asserviti al malaffare, intellettuali condizionati da sciocche superstizioni (don Ferrante), per non dire del parroco don Abbondio inadempiente per vigliaccheria. Manzoni moderato? A me pare un radicale, perfino troppo duro nella rappresentazione di un secolo che – gli storici di oggi ce l’insegnano – non aveva solo brutture».
Quali fatti e azioni rendono l’epoca dei «Promessi Sposi» vicina in qualche modo ai nostri giorni? Possiamo dire che tante deficienze sono ancora presenti nel nostro super mondo in cui pandemie e guerre ancora imperversano e si ripetono le solite ingiustizie di sempre?
«In effetti proprio l’intransigenza di Manzoni ha fissato nel romanzo delle descrizioni che sembrano eterne. Impossibile non pensare ad alcune drammatiche vicende che abbiamo vissuto negli ultimi anni, quando rileggiamo le pagine grandiose sulla tragedia della peste, e anche sullo smarrimento umano di fronte a calamità che sembrano inarrestabili. Oggi abbiamo strumenti di difesa ben maggiori; ma i Promessi Sposi contengono un ammonimento doloroso sulla nostra fragilità, che non dovremmo dimenticare».
Manzoni, secondo lei, era cosciente del ritratto epocale che tracciava nel romanzo o agiva solo da romanziere ispirato?
«Coscientissimo. Il romanzo è frutto di un’ispirazione meravigliosa, ma ciò non toglie che Manzoni avesse un intento programmatico e pedagogico. Teniamo presente che negli anni Venti dell’Ottocento, quando concepì e scrisse il suo capolavoro, i patrioti come lui speravano in un’Italia unita e libera dal dominio straniero. Gli altri letterati del tempo ambientavano di preferenza i loro romanzi nel Medioevo, cioè prima della perdita della libertà italiana; invece Manzoni volle trattare proprio il periodo più buio della decadenza e della soggezione, perché era giustamente convinto che per costruire la cultura letteraria e politica della nuova Italia del Risorgimento bisognasse fare i conti con le epoche peggiori della nostra storia».
Come anticipano la Storia d’Italia le pagine dei «Promessi Sposi»? In che cosa individuano la storia del Paese?
«Pensiamo al tema cruciale del cattolicesimo della Controriforma. Molti intellettuali europei contemporanei di Manzoni, e liberali illuminati come lui, rimproveravano all’Italia e agli Italiani come una colpa irrimediabile il fatto che dal Cinquecento il Paese e il suo popolo si fossero piegati all’obbedienza alla Chiesa. Attenzione: Manzoni era italiano non meno che cattolico; pensava che il potere temporale del Papato dovesse cedere al diritto dell’unità d’Italia; sapeva peraltro che il cattolicesimo era, oltre che la sua personale fede, un carattere saliente dell’identità italiana. Nei Promessi Sposi ha avuto il coraggio di rappresentare la Chiesa cattolica nelle sue luci – il cardinale Federigo, padre Cristoforo – ma anche nelle sue ombre, perché oltre a don Abbondio c’è il Provinciale dei cappuccini che trama col Conte Zio rendendosi complice di un crimine».
Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio e tutti i deboli protagonisti, specchio d’un potere sempre più organizzato che ha in Don Rodrigo e in altri esponenti i maggiori rappresentanti dell’iniquità sociale?
«Come ho detto, ritengo i Promessi Sposi un romanzo di lotta; e la lotta per i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti è la sigla forse più tipica del libro. Manzoni è stato un denunciatore fervente dell’ingiustizia sociale. E non dimentichiamo che – più in esteso nella Storia della colonna infame, collegata al romanzo – ha attaccato anche l’ingiustizia delle istituzioni nel processo aberrante contro i pretesi untori. Aggiungo un altro aspetto importantissimo: ha denunciato anche l’ingiustizia di genere. Quella di don Rodrigo che pretenderebbe far suo il corpo di Lucia; ma anche quella del padre di Gertrude, che violenta la volontà della figlia imponendole il monastero. Manzoni tocca non a caso i vertici della sua arte nel ribellarsi contro il sacrificio di una giovane donna soggetta al sopruso di un maschio padrone».
Lei parla di messaggio ideologico al cuore del romanzo: come potremmo riassumerlo? Come un messaggio d’amore?
«Amore per l’Italia, e proprio perché chi la ama davvero esamina impietosamente le fasi e gli aspetti peggiori della sua storia per prepararne il riscatto. Anche la famosa risciacquatura dei panni in Arno, cioè la riscrittura fiorentineggiante dei Promessi Sposi per l’edizione definitiva del 1840 – quella che di solito leggiamo – è un atto d’amore: oltre che un po’ fiorentinizzata, la lingua del 1840 è molto più popolarizzata rispetto alla precedente stesura, enormemente di più rispetto ad altre opere letterarie del tempo. Manzoni ha fatto una rivoluzione culturale che è anche politica: ha scelto per primo due popolani come protagonisti del suo capolavoro, e lo ha scritto in un modo che anche gli uomini e le donne del popolo potessero, una volta alfabetizzati, leggerlo».
Visto nell’ottica di questa rilettura, chi era veramente Manzoni? Solo uno scrittore o anche un grande analista del tempo in cui viveva?
«Un analista geniale, che ha messo il suo sommo talento letterario al servizio del progetto più generoso: permettere a tutti gli uomini e le donne della nuova Italia di riflettere insieme con lui sulla nostra storia, la nostra identità, la nostra religione dominante; e anche, più in generale, sui temi fondamentali della vita: giustizia, ingiustizia, responsabilità individuale, libertà di coscienza. I Promessi Sposi contengono un messaggio alto, impegnativo e sempre valido e attuale».
Giornate del FAI Autunno 2024 a Casperia e Roccantica (Rieti)
Gruppo FAI Sabina-Autunno 2024-L’appuntamento è dunque per sabato 12 e domenica 13 ottobre, tra poco più di una settimana, con le Giornate Fai d’Autunno 2024. Come vi abbiamo detto ieri, noi vi aspettiamo a Roccantica e a Casperia. E, come promesso, in questo post vi diamo qualche informazione logistica per organizzare al meglio le vostre visite.
Casperia (Rieti)-Muri romani sotto un casale a Paranzano
Roccantica (Rieti)-La chiesetta di Pie’ di Rocca
Casperia (Rieti)-La chiesa della Madonna della Neve a Paranzano
UBICAZIONE
Roccantica e Casperia si trovano entrambe lungo la Strada provinciale 48 Finocchieto. L’Oratorio di Santa Caterina e la chiesa di Pie’ di Rocca sono nella parte alta di Roccantica.
Alla chiesa della Madonna della Neve (che si trova si trova a Paranzano, frazione di Casperia a due chilometri dal paese) si arriva agevolmente anche da Cantalupo lungo la strada che, appunto, porta a Casperia.
Roccantica (Rieti)-La parete principale dell’Oratorio di Santa Caterina
ORARI E DURATA DELLE VISITE
Non sono previste prenotazioni in nessun sito. Arrivando, dovrete recarvi ai nostri desk dove si organizzeranno i gruppi.
Casperia (Rieti)-L’altare maggiore della Madonna della Neve a Paranzano
– Casperia
Le visite alla Madonna della Neve iniziano ogni mezz’ora, sia il sabato che la domenica, dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18. I gruppi saranno al massimo di 30 persone.
Per le visite guidate del Borgo di Casperia (durata circa un’ora) gli orari sono:
Sabato: 10; 11,30; 15; 16;17
Domenica: 10,15; 12,30; 15;16;17
Per il giro del Borgo sono consigliate calzature comode (dentro Casperia si sale e si scende)
Roccantica (Rieti)- Oratorio di S. Caterina.L’imperatrice va trovare la santa in carcere
Roccantica (Rieti)-La parete principale dell’Oratorio di Santa Caterina
Roccantica (Rieti)-Una scena delle Storie di Santa Caterina
– Roccantica
Le visite all’Oratorio di Santa Caterina e alla chiesa di Pie’ di Rocca iniziano ogni mezz’ora. Si inizia il sabato pomeriggio, dalle 14 fino alle 18. La domenica invece si va dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18. I gruppi saranno al massimo di 20 persone.
Anche a Roccantica sono vivamente consigliate calzature comode (per arrivare all’Oratorio ci sono un bel po’ di scale da fare, in salita, prima, e poi in discesa)
DOVE MANGIARE
A Casperia e a Roccantica non mancano bar e ristoranti. E così nei paesi vicini. Potrete chiedere comunque indicazioni e numeri telefonici ai nostri desk.
CONTRIBUTO
In ciascun sito il contributo libero suggerito è a partire da 3 euro. Sia a Casperia che a Roccantica ci si potrà iscrivere o rinnovare la tessera Fai, con le condizioni speciali previste per le Giornate.
RINGRAZIAMENTI
Ringraziamo dal profondo del cuore il Comune di Casperia e il Circolo cittadino casperiano Raffaello Masci; il Comune di Roccantica e la Pro loco di Roccantica
Paranzano, Madonna della Neve. Il sant’Antonio Abate
Luoghi da visitare
Casperia (Rieti)-La chiesa della Madonna della Neve a Paranzano
Roccantica (Rieti)-La chiesetta di Pie’ di Rocca
Casperia (Rieti)-L’altare maggiore della Madonna della Neve a Paranzano
Roccantica (Rieti)-Una scena delle Storie di Santa Caterina
Casperia (Rieti)-Muri romani sotto un casale a Paranzano
Roccantica (Rieti)-La parete principale dell’Oratorio di Santa Caterina a Roccantica
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