Roberto Fiorini- Dietrich Bonhoeffer- Testimone contro il nazismo
GABRIELLI EDITORI – San Pietro in Cariano (Verona)
Descrizione- Questo libro di Roberto Fiorini lo si legge tutto d’un fiato. Per tre motivi. Il primo è che il suo contenuto – la storia di Dietrich Bonhoeffer, qui raccontata nei suoi momenti cruciali – possiede un grande potere di attrazione ed esercita su chi ne viene a conoscenza un fascino unico: non ci si stanca di sentirne parlare e non è facile staccarsi da una figura come la sua. Il secondo motivo è che in questo libro Bonhoeffer è molto più soggetto che oggetto. L’Autore, ovviamente, parla di lui, ma, soprattutto, fa parlare lui; e quando Bonhoeffer parla, è difficile non stare ad ascoltarlo; la sua parola è avvincente tanto quanto la sua vita, anche perché, mentre lo si ascolta, si ha l’impressione che ci parli non dal passato, ma dal futuro, come se quest’uomo fosse oggi più avanti di noi, ci precedesse e anticipasse: il suo discorso sul futuro del cristianesimo dopo la «fine della religione» (che in realtà non sembra finita), resta oggi più ancora di allora di un interesse palpitante. Ma c’è un terzo motivo per cui questo libro lo si legge tutto d’un fiato: è lo speciale punto di vista, inconsueto, ma accattivante, di chi ha imparato a «guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, di chi non ha potere, degli oppressi e dei derisi – in una parola dei sofferenti» in un itinerario che lo ha portato sino al “caso limite”, cioè alla sua diretta opposizione alla politica distruttiva del nazismo e alla conseguente salita sul patibolo 75 anni fa, il 9 aprile 1945.
Ora, in diverse parti d’Europa ritornano simboli, messaggi e organizzazioni politiche che evocano quei tempi oscuri nei quali la disumanità raggiunse dei picchi inimmaginabili. La chiarezza, la determinazione e l’intelligenza della fede con le quali Dietrich Bonhoeffer affrontò quell’”ora della tentazione” sono preziosi anche oggi per un discernimento più che mai necessario. Il suo amico e confidente Eberhard Bethge disse: «Bonhoeffer non è alle nostre spalle, ma è ancora davanti a noi». Bonhoeffer è stato e resta un testimone per chiunque si accinga a percorrere la «via stretta» (Matteo 7,14) della fede e della vita cristiana. Questo libro di Roberto Fiorini lo conferma in maniera egregia. (Dalla Prefazione del prof. Paolo Ricca)
Roberto Fiorini-
Biografia di Roberto Fiorini, ordinato prete a Mantova nel 1963.Dal 1966 al 1972 ha svolto l’incarico di assistente provinciale delle Acli e dal ’68 al ’72 insegnante di religione nelle scuole superiori. Nel 1972, dopo un corso di infermiere generico, scelse di entrare nel mondo del lavoro. Fu assunto nel 1973, come dipendente all’Ospedale Psichiatrico di Mantova. Dopo il diploma di infermiere professionale ha operato nei servizi territoriali dell’ASL, in un distretto sanitario e infine come coordinatore infermieristico all’assistenza domiciliare. Negli anni ’80-‘90 ha insegnato etica professionale nei corsi di formazione degli infermieri allora gestiti dalla CRI di Mantova. Dal 1983 al 1989 è stato segretario dei preti operai italiani e dal 1987 è responsabile della rivista Pretioperai. Ha frequentato i corsi di studi ecumenici a Verona e a Venezia con tesi di licenza su “Theologia crucis in Dietrich Bonhoeffer”. Dal 1995, su richiesta dell’associazione, è consulente teologico del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) di Mantova. Dal 2010 ricopre l’incarico di assistente spirituale delle Acli provinciali. Nel 2015 ha pubblicato “Figlio del Concilio. Una vita con i preti operai”. Con altri (G. Miccoli, F. Scalia, R. Virgili, A. Rizzi), “Servizio e potere nella chiesa”, Gabrielli editori 2013.
GABRIELLI EDITORI – Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona)
Strutturare i soggetti storici. Un paio di riflessioni a partire da Giosuè Carducci
Giosuè CARDUCCI
La personalità e la parabola politica di Giosuè Carducci è emblematica del complesso rapporto tra intellettuale e movimento politico, continuamente oscillante tra esigenze di autonomia e necessità organiche di un’organizzazione strutturata. Se l’individualismo lirico rischia di sfociare in posizioni idealistiche, l’intellettuale organico può essere schiacciato da meccaniche che ne cancellano l’autonomia. Articolo di Roberto FINESCHI
Se le vacanze in Maremma ti portano a Bolgheri e Castagneto, non si può non pensare a Carducci; e se per hobby ti occupi di teoria politica, non puoi non metterti a riflettere su una figura il cui sviluppo politico e intellettuale fornisce spunti interessanti. Innanzitutto bisogna tenere a mente che il nostro è, intellettualmente, un gigante: la sua poesia può piacere o meno o essere più o meno “invecchiata”, ma si tratta di un individuo colto, brillante, audace, reinventare delle metrica classica nella modernità, grande critico letterario. Talvolta non si percepisce fino in fondo la dimensione veramente assoluta di siffatte menti, come quelle di Dante, Leopardi ecc., le cui capacità sono letteralmente sbalorditive; studiare attraverso la poesia il loro lato più umano e intimo occulta talvolta la loro assoluta eccezionalità. Ma non di questo intendo parlare.
Carducci è figlio di un medico mazziniano, democratico radicale, che in prima persona si espone nelle lotte nazionali, ma con una evidente dimensione sociale. Nel ’48 a Castagneto – pure lì c’è la rivoluzione – riesce a mediare tra rivendicazioni contadine e rigidità padronale trovando un compromesso che garantisce una, seppur parziale, redistribuzione delle terre incolte (le “preselle”). Profondamente anticlericale, non teme le conseguenze delle sue prese di posizione e questo porta la famiglia a peregrinare a lungo per l’opposizione dei potentati locali (abbandonano Bolgheri perché durante la notte prendono a fucilate l’abitazione del “mangiapreti”). Giosuè ha quello spirito e quelle idee; la sua lotta è culturale e intellettuale; celebra “Satana” (nel senso della razionalità, della mondanità, di tutto ciò che lo spirito religioso tradizionalista considerava peccaminoso e stigmatizzabile con il “ il vade retro Satana”, come commenta lo stesso Carducci in una sua lettera) [1]. Il suo non è dunque un astratto patriottismo nazionalistico, ma è imbevuto di cultura democratica, di progresso intellettuale e civile [2]. È un intellettuale impegnato, convinto e battagliero, di un classicismo moderno, erede di Giordani e di quella tradizione in cui si può inserire pure il Leopardi delle poesie civili o della Ginestra.
Lo sviluppo dello Stato italiano “unito” è una doccia fredda: il parlamentarismo trasformistico, il particolarismo e l’interesse laido schifano lui come tutti quei giovani più sinceri ed entusiasti. Come reagisce? In due direzioni diverse. Da una parte, anche a causa dei lutti familiari, con toni intimistici, per certi aspetti pre/decadenti, in cui il senso di morte e fallimento prende piede (i molti fini che entusiasticamente si era posto non sono stati raggiunti) [3]; dall’altra, politicamente, assume posizioni conservatrici, sia celebrando indirettamente la corona (anche se sotto la maschera dell’apprezzamento per la regina e con l’idea del sovrano simbolo dell’unità nazionale) [4], sia condividendo il dirigismo crispino, in cui si vede l’unico severo argine alla generale corruttela e pochezza morale della vita politica. La frustrazione esistenziale lo porta però anche a un conformismo borghese rassegnato alla vita così com’è: le molte amanti, non nascoste alla moglie, con alcune delle quali ha delle vere e proprie relazioni di anni, ma che amanti restano; le abbuffate (le “ribotte”) con gli amici in cui si mangia e si beve fino allo sfinimento. Si potrebbe forse fare un audace collegamento con La grande abbuffata di Marco Ferreri, [5], in cui sesso e cibo diventano l’unica pratica esistenziale affermativa, ma palliativa e alla fine autodistruttiva, di fronte alle convenzioni sociali delle quali tutti i protagonisti sono perfetti rappresentanti.
Questo schematicissimo quadretto mi suggerisce l’idea di un Carducci in qualche modo esempio d’eccellenza di un soggettivismo politico destrutturato, in questo senso “idealistico”, che non si riduce a lui ma che è rappresentativo di un atteggiamento che ha almeno due limiti di fondo: il primo è la distanza tra ideale e reale, vale a dire l’incapacità di comprendere in maniera sufficientemente precisa come la propria azione si collochi all’interno di dinamiche complesse. Questo è probabilmente, più in generale, uno dei limiti storici dei Democratici risorgimentali, non del solo Carducci. Il secondo è l’incomprensione del fatto che il soggetto del cambiamento storico non può essere una somma di individualità: per essere collettivo deve essere strutturato, altrimenti il senso di questa parola resta rarefatto e operativamente inefficace, almeno superato il momento dell’acme rivoluzionario. Qui, di nuovo, la superiorità operativa e istituzionale dei moderati rispetto alle trame cospirative dei democratici; e la più chiara “coscienza di classe” dei primi su interessi e obiettivi di lungo termine rispetto ai secondi.
La questione politica dell’organizzazione si sviluppa sia internamente a un movimento come struttura, sia esternamente come processo egemonico all’interno della società. Si tratta di un corpo collettivo che si individua per il ruolo funzionale degli individui che lo compongono, ma che si articola – e si è articolato storicamente – come pluralità. Il concetto di blocco storico implica all’interno dello stesso schieramento progressista rapporti tra classi diverse – classi che si definiscono funzionalmente per il loro ruolo nella riproduzione sociale – tra le quali esiste un rapporto di predominanza direttiva – egemonia – e che insieme mirano e talvolta riescono a “fare epoca”, vale a dire a determinare un cambiamento della configurazione economico-sociale complessiva. L’organizzazione e l’egemonia di un soggetto di questo tipo è complessa, stratificata e organica. Come organismo ha delle “regole” di funzionamento che, nella prospettiva della salvaguardia del corpo complessivo, trascendono l’individuo e impongono restrizioni all’arbitrio individuale, richiedono quella che una volta si chiamava disciplina. Come organismo ha un corpo che per diventare egemone al di là dei confini della propria organizzazione, soprattutto in periodi di “guerra di posizione”, ha braccia e gambe istituzionalizzate nella società, come sindacati, giornali, associazioni culturali, e via dicendo. Una presenza tangibile, anch’essa regolata.
L’organizzazione vive e si regge nella misura in cui la sua pratica e i suoi obiettivi rispondono alle esigenze storiche delle classi che la compongono e opera una trasformazione all’interno della società. Essendo essa stessa una piccola società, ha le proprie regole, le proprie convenzioni, i propri protocolli, il proprio conformismo che rischiano di diventare stretti, se non soffocanti, nella misura in cui l’organizzazione non ha una pratica corrispondente alle suddette esigenze storico-trasformative e quindi instaura dinamiche coercitive e conflittuali soprattutto con quei membri più originali e sensibili che intendono prima di altri le criticità, ma che non necessariamente sono capaci di formulare alternative. Meccanismi che creano delle fronde sono più o meno costanti, il problema storico sorge quando le dinamiche degenerative sono tali e così forti da mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’organizzazione; non solo per la pressione di forze esterne antagoniste, ma per l’incapacità interna di elaborazione e adeguamento.
Che c’entra questa assai succinta silloge di una teoria del partito, di evidente gramsciana memoria, con Carducci? Il poeta-vate, cantore ufficiale dell’alta cultura dell’Italia umbertina, mi pare rappresentativo della difficile dialettica esistente tra grande intellettuale – quale Carducci fu – e movimento politico. E più in generale tra idealità intellettuale e pratica politica. Da spavaldo democratico, repubblicano e radicale, il nostro finisce, banalizzando all’eccesso, frustrato e conservatore. Si potrebbe tirare in ballo il velleitarismo piccolo-borghese di fronte alla dura legge dei grandi processi storici, ma sarebbe una spiegazione solo parzialmente vera e scolastica, che non terrebbe conto dei problemi oggettivi di fronte ai quali l’intellettualità si pone, con le sue esigenze di libertà di pensiero e di critica in un contesto organizzativo in cui ciò potrebbe essere consentito solo entro certi limiti, talvolta particolarmente angusti. Intellettuale organico non può però significare intellettuale meccanico (smetterebbe infatti automaticamente di essere un intellettuale).
Carducci ebbe, in qualche modo, il suo partito, la massoneria, come molti altri intellettuali e politici democratici del tempo. Essa però non aveva un contenuto di classe veramente alternativo al progetto moderato, se non nel radicalismo anticlericale e in un repubblicanesimo democratico, che però non andava a toccare gli squilibri economico-sociali che affliggevano l’Italia. Si trattava in sostanza di un contenuto non radicalmente alternativo e quindi velleitario rispetto alle grandi questioni storiche dell’epoca. Il trasformismo era nelle cose stesse e Carducci si limita a rivendicare un onore e un legalismo di contro alla corruttela del presente, per il quale vede soluzioni nel dirigismo. Un vicolo cieco. Pur nella ristretta prospettiva qui proposta, egli può dunque essere rappresentante emblematico – e mostrare le criticità – di come si sviluppi una dinamica oggettivamente complessa tra un certo tipo di alta intellettualità potenzialmente rivoluzionaria e progressista e un’organizzazione politica pratica e ideale che cerchi di essere egemone. [6] Al di fuori dell’organizzazione non pare si riescano a ottenere successi operativi duraturi, ma la sua gestione è complessa e affetta da continue instabilità oggettivamente possibili. Riferimenti al presente – o al passato recente – non sono puramente casuali.
Articolo di Roberto FINESCHI
Note:
[1] A Satana è una sua celebre ode del 1863 (uscita con varianti in innumerevoli pubblicazioni e raccolte successive). Nella lettera a Giuseppe Chiarini del 15 ottobre 1863 scrive: “È inutile che io avverta aver compreso sotto il nome di Satana tutto ciò che di nobile e bello e grande hanno scomunicato gli ascetici e i preti con la formola «Vade retro Satana»; cioè la disputa dell’uomo, la resistenza all’autorità e alla forza, la materia e la forma degnamente nobilitate”.
[2] Carducci scrive su “Il popolo” di Bologna nel dicembre 1869: “Io, oppresso dalla società fin da’ primi anni, mi dichiarai per il ribelle alla monarchia solitaria di Geova, per il tentatore degli schiavi di Geova alla libertà e alla scienza, per l’oppresso dalla gendarmeria di Geova. E […] io l’ho cantato raggiante e tonante e folgorante di vita su l’universo”.
[3] In Traversando la Maremma toscana (1885) recita: “Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano; / E sempre corsi, e mai non giunsi il fine; / E dimani cadrò”. Già nel 1874 in Davanti San Guido, 103-04, diceva “E quello che cercai mattina e sera / Tanti e tanti anni in vano, è forse qui”.
Per scherzare su quel “cadrò”, nel senso del “morirò”, si consideri che in una lettera a Adele Bergamini del 18 aprile 1885 Carducci affermava: “Il mio naturale si fa più triste. Quando Le dicevo che non stavo bene, non era romanticismo. La morte mi ha tirato la prima scampanellata [paresi a un braccio – ndr]. Non vorrà la potente signora aspettar troppo ch’io vada. E sonerà di nuovo”. Carducci morirà nel 1907, circa… 22 anni dopo.
[4] Celebri, per es., le poesie Piemonte o Alla regina d’Italia.
[5] La Grande Bouffe, di Marco Ferreri, celebre film del 1973 con Andréa Ferréol, Philippe Noiret, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Michel Piccoli.
[6] Come è ben noto, Gramsci affronta diffusamente questi temi nei suoi Quaderni. Interessante come discuta proprio di questo – cioè del rapporto tra elaborazione intellettuale e la tesi della teoria come “ancella” della pratica – in relazione alla soluzione “d’ufficio” da parte di Stalin, che pare non dispiacere a Gramsci, del dibattito tra i “dialettici” capitanati da Deborin e i “meccanicisti” capitanati da Bucharin (Quaderno 11, §12). In questo passo Gramsci commenta: “Si tratta cioè di fissare i limiti della libertà di discussione e di propaganda, libertà che non deve essere intesa nel senso amministrativo e poliziesco, ma nel senso di auto-limite che i dirigenti pongono alla propria attività ossia, in senso proprio, di fissazione di un indirizzo di politica e culturale. In altre parole: chi fisserà i «diritti della scienza» e i limiti della ricerca scientifica, e potranno questi diritti e questi limiti essere propriamente fissati? Pare necessario che il lavorio di ricerca di nuove verità e di migliori, più coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi principi che paiono i più essenziali. Non sarà del resto difficile mettere in chiaro quando tali iniziative di discussione abbiano motivi interessati e non di carattere scientifico. Non è del resto impossibile pensare che le iniziative individuali siano disciplinate e ordinate, in modo che esse passino attraverso il crivello di accademie o istituti culturali di vario genere e solo dopo essere state selezionate diventino pubbliche ecc.”.
Fonte- Associazione La Città Futura- | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi–
L’Aquila, “Tommaso racconta Tommaso” Recital sulla figura del primo biografo di San Francesco di Assisi. Martedì 22 Ottobre 2024 ore 18:30 sarà rappresentato a L’Aquila, Teatro Comunale Ridotto, in nome della fratellanza, della solidarietà e della pace
L’AQUILA – Con il Patrocinio del Comune di L’Aquila e del Comune di Celano il Recital “Tommaso racconta Tommaso”, che già ha raccolto unanime consenso di pubblico e di critica, è presentato all’Aquila dall’Associazione Corale Polifonica “ Giuseppe Corsi “ di Celano e la Compagnia “Teatro Lanciavicchio “ di Avezzano, su testo di Don Antonio Salone. Dopo le quattro repliche nel 2023 a Tagliacozzo ( Teatro Talia), ad Avezzano ( Castello Orsini), a Celano (Chiesa Madonna delle Grazie ) e nella Diocesi di Rieti ( Teatro Santa Filippa Mareri ), questa quinta replica del Recital è stata fortemente voluta dal Nunzio Apostolico S.E.Orlando Antonini presente alla rappresentazione del 5 ottobre 2023 ad Avezzano, positivamente interessato dal lavoro messo in scena.
Il testo del recital è stato scritto da Don Antonio Salone che ha condotto uno studio approfondito sulla figura di Fra Tommaso, come testimonia l’ampia bibliografia a corredo del testo e realizza una nuova prospettiva di indagine e di lettura della figura di Tommaso da Celano.Con la regia di Antonio Silvagni, la Compagnia “Teatro Lanciavicchio” propone gli allestimenti scenici, costumi ,luci e uno straordinario e coinvolgente lavoro di interpretazione del testo, con gli attori Matteo Di Genova, Stefania Evandro, Alberto Santucci, Giacomo Vallotta che sanno proporre la storia di Tommaso in tutta la sua spiritualità. La Maestra Maria Rosaria Legnini,con il Gruppo corale “Giuseppe Corsi” di Celano, ha scelto i brani musicali: musiche medievali a commento delle scene, ponendo attenzione al genere delle Laudi dal Laudario di Cortona, rielaborate e affidate alla voce del Soprano Ilenia Lucci, accompagnata dai componenti della formazione strumentale “MusiCanto Quartet“ composto dai Maestri: Corrado Morisi Fisarmonica, Beatrice Ciofani Violino e Paolo D’Angelo Chitarra. Presenta Domenica Carusi.
Si ringraziano: il Comune dell’Aquila, Sindaco Pierluigi Biondi, il Comune di Celano, Sindaco Settimio Santilli, tutti i sostenitori che hanno consentito la realizzazione dello spettacolo, il Nunzio Apostolico S.E. Orlando Antonini e collaboratori tutti. Il Recital “ Tommaso racconta Tommaso “ rientra nelle attività condotte fin dal 2014 dall’Associazione “ Giuseppe Corsi “ di Celano iniziate con lo studio e la rielaborazione del “Dies Irae” e proseguite nel corso di 10 anni con studi, concerti, animazione liturgiche di cerimonie religiose nell’ambito del “Cammino Misericordioso : Tommaso e Francesco nella terra dei Marsi”. Il recital dunque nasce dalla volontà di far conoscere la figura di Tommaso da Celano e di porre attenzione anche alla ricostruzione storica musicale e teatrale. La rappresentazione del Recital “ Tommaso racconta Tommaso” al Teatro Comunale Ridotto dell’Aquila prosegue il lavoro incessante, svolto da dieci anni, teso alla conoscenza, all’approfondimento e alla comprensione della figura di Tommaso da Celano.
Con la scelta del genere teatrale Recital si è voluto offrire a un vasto pubblico l’opportunità di conoscere la figura di Fra Tommaso, normalmente studiata dal ristretto numero degli specialisti nel settore. Un’occasione importante per conoscere ed apprezzare i valori della fratellanza, della solidarietà , del rispetto dell’ambiente e della riscoperta di relazioni interpersonali improntate all’accoglienza, all’amore reciproco, alla non violenza, alla pace.
Goethe J.W., Viaggio in Italia -Johann Heinrich Wilhelm Tischbein
Goethe J.W- Roma, 7 novembre 1788.-Sono qui , scrive Goethe , da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografi a della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione.Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova.Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare.Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti.
[…].”
Goethe J.W., Viaggio in Italia -,Roman CampagnaGoethe J.W., Viaggio in Italia -William Stanley Haseltine-Morning LIght,Roman Campagna
BIOGRAFIA di Johann Wolfgang von Goethe. drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco.
Johann Wolfgang von Goethe –Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica. Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il “piacere del favoleggiare”. Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un’educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto. Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un’espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert. Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten (“I capricci dell’innamorato”), che è la prima professione d’un amore agitato e irritabile. Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d’ambiente Die Mitschuldigen (“I correi”), quadro acuto e scettico del mondo borghese. Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette (“Libro per Annette”) e in Neue Lieder (“Canti nuovi”) fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d’un senso inconsueto della natura. Una grave malattia lo dispose a subire l’influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell’amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l’orma del divino nel segreto della natura.
Nel 1770 si trasferì a Strasburgo per terminarvi gli studî; tra le esperienze decisive che ivi compì spiccano l’incontro “fatale” con J. G. Herder e le sue teorie su storia e natura, creatività individuale e divenire universale, e la lettura di Shakespeare, che segnarono la prodigiosa produzione del successivo quinquennio. Ne sono testimonianza i Sesenheimer Lieder (“Canti di S.”), dettati dall’amore per Friederike Brion, nel loro insieme atto esplicito di adesione al movimento dello Sturm und Drang; la grossa cronaca drammatizzata, d’impronta shakespeariana, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (“Storia di G. di B. dalla mano di ferro”, 1771), poi (1773) rielaborata col titolo di Götz von Berlichingen, vasto e farraginoso affresco di argomento nazionale che fece decadere altri e persino più ambiziosi progetti di drammi come Mahomet e Prometheus, di cui rimasero solo brevi ma significativi frammenti. A questi, però, si affiancano inni a sfondo cosmico-panteistico, che sono testimonianze inequivocabili d’un sentimento integralmente aperto a un’esperienza di totalità, sull’onda d’un ardore creativo che G. non conobbe mai più (oltre Mahomets Gesang, “Canto di Maometto“, Prometheus, Wanderers Sturmlied, “Canto del viandante nella tempesta”, e Ganymed). Del resto quello era un periodo di tormentata inquietudine anche sul piano esistenziale, e nella produzione poetica si avverte una smania creativa che rischia talora la dispersione. Nel recupero del popolaresco, alla maniera del lontano H. Sachs, scrisse le satire carnevalesche Jahrmarktsfest zu Plundersweilern (“Festa della fiera di Pl.”, 1773) e Ein Fastnachtsspiel … vom Pater Brey (“Una rappresentazione carnevalesca di Padre Pappa”, 1773); una farsa di forte anche se non limpida accentuazione critica (Satyros, 1773); un’epica religiosa che sferza il filisteismo delle chiese (Der ewige Jude, “L’ebreo errante“, 1774). Prova d’uno stato d’animo di disagio, a lungo insanabile, per il colpevole abbandono di Friederike Brion è Clavigo (1774), tragedia della fanciulla abbandonata dall’amato più per leggerezza che per responsabile scelta. Di lì a poco Stella (1775), dramma d’un uomo che con pari intensità ama due donne, denuncia l’aspirazione alla libertà sentimentale. Una produzione tanto varia è tenuta insieme tuttavia dalla continua disposizione a confessarsi, a legare fino alla più intima convergenza vita e poesia. In tale spirito nacque anche l’opera conclusiva e più fortunata di questa felice stagione, il romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers (“I dolori del giovane W.”, 1774), appassionata storia di una delusione amorosa che si conclude con il suicidio del protagonista; essa, in un’epoca segnata da un sentimentalismo esorbitante, conobbe un immediato, clamoroso successo. Intanto si era già affacciato nello spirito di G. il tema del Faust, che lo accompagnerà ossessivamente sino agli ultimi giorni della sua lunga vita.
Tornato a Francoforte al termine degli studî, dopo aver soggiornato a Wetzlar per farvi pratica presso il supremo tribunale imperiale, abbandonò gli ambiziosi disegni di carriera tracciati per lui dal padre, e nell’autunno del 1775 lasciò, questa volta definitivamente, la città natale per stabilirsi alla corte di Weimar, minuscola capitale d’un povero ducato di 120.000 abitanti. Entrato nelle simpatie della famiglia ducale, fu nominato consigliere segreto e quindi ministro, ottenendo infine il titolo nobiliare. Il primo decennio trascorso a Weimar fu di relativo silenzio poetico e d’intensa attività pratica. Il contatto costante coi problemi della vita lo sospingeva, piuttosto, verso le scienze naturali. Si occupò di geologia e di mineralogia (fra l’altro scrisse il trattato Über den Granit, “Sul granito”, 1784), passò all’anatomia, scoprendo nello stesso 1784 l’osso inframascellare; fu attratto infine dalla botanica e dalla storia naturale, in cui la sua riflessione trovava testimonianza di quella immanenza del divino che aveva già avvertito in forma intuitiva. Si compiva così la maturazione di quel panteismo cui del resto già da tempo aderiva. La produzione letteraria di questo periodo si può considerare limitata alle liriche e all’atto unico Die Geschwister (“I fratelli”, 1776), ispirati a Charlotte von Stein, donna di grande cultura alla quale G. fu legato per dieci anni e che influì profondamente sulla sua formazione. Nell’autunno del 1786, il viaggio in Italia si configura quasi come una fuga e segna un passaggio decisivo per la vita e l’ispirazione del poeta. Nel “paese dei limoni”, l’Italia classica del meridione e, più ancora, Roma, trovò realizzata quella sintesi di natura e arte, passato e presente, spiritualità e sensualità verso cui era proteso, e sentì rifiorire tutte le aspirazioni poetiche che il decennio attivistico di Weimar aveva in buona parte represso. Nel giugno del 1788 tornò a Weimar e il suo cambiamento gli procurò accoglienze decisamente fredde. Interruppe la relazione con la signora von Stein, e iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò solo nel 1806 pur avendone avuto fin dal 1789 un figlio, August, morto poi a Roma nel 1830. L’operosità creativa che era esplosa in Italia continuò a Weimar, in una stagione contrassegnata dal succedersi di opere quasi tutte ad alto livello. In Italia aveva portato a termine l’Egmont (1787), dramma della libertà dell’uomo che soccombe solo davanti alle forze del mondo esteriore e nemico, e ultimata la stesura in versi della Iphigenie in Tauris, testimonianza di un umanesimo ormai pienamente maturato, fusione perfetta di grecità e cristianesimo. Fu terminato invece a Weimar il Torquato Tasso, dramma di anime in cui gli elementi autobiografici (il poeta consapevole della propria genialità inserito in una sorda e intrigante corte principesca) sono filtrati ma tutt’altro che rimossi. Frutto dell’esperienza italiana, e in particolare romana, furono anche le Römische Elegien (1788-89), che nella fusione di classicità formale e sensualità di immagini segnano nel modo più palese il taglio fra questa e la precedente stagione poetica; ad esse seguiranno, dopo un nuovo, meno fortunato viaggio in Italia, i Venetianische Epigramme (1790). Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, G. da un lato dichiarò apertamente il proprio disprezzo verso gli ipocriti fautori del nuovo corso (nelle mediocri commedie Der Grosskophta, “Il gran mago egizio”, 1792, e Der Bürgergeneral, “Il cittadino generale”, 1793), dall’altro però fu egli stesso profondamente turbato dalla Rivoluzione, con sentimenti misti di adesione ai suoi principî e apprensione per il suo corso. Cercò allora sfogo in quella che definì la sua “Bibbia empia del mondo”, cioè nella versione in esametri omerici del bestiario medievale Reineke Fuchs (“La volpe R.”, 1793), satira più cinica che accorata dei dilaganti vizî. Una più pacata e valida presa di posizione fu quella dell’idillio in esametri Hermann und Dorothea (1797), che inquadra i valori morali di una sana, tradizionale etica borghese.
Intanto, nel 1794 si era creato il sodalizio con J. C. F. Schiller che, durato fino alla morte di quest’ultimo (1805), nel decennio definito per eccellenza classico, portò a reciproco arricchimento le due personalità, pur tanto diverse per estrazione e per temperamento. Per G. l’amicizia con Schiller significò una coscienza della propria missione poetica pienamente riconquistata. Sulla rivista di Schiller, Die Horen, G. pubblicò, nel 1795-97, le Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten (“Conversazioni di emigrati tedeschi”), specie di piccolo Decameron, prototipo del genere ancora inedito della novella classica; vi pubblicò anche il Märchen (“Fiaba”), da cui tanto dipese la fiabistica romantica. La solidarietà fra i due giunse persino alla scrittura in comune, da cui nacque la raccolta di Xenien (“Doni ospitali”, 1797), epigrammi di aspra censura ai letterati contemporanei. Sia pure per pochi numeri, anche G. pubblicò una sua rivista, Die Propyläen (1798-1800), in cui propagandò il suo verbo classicistico. Come teorico, pur fornendo prove di alto interesse, per esempio il saggio Winckelmann und sein Jahrhundert (“W. e il suo secolo”, 1805), non riuscì sempre a evitare l’insidia dell’accademismo, in cui del resto incorse anche una certa produzione poetica: è il caso della frammentaria tragedia Helena, del 1800, poi rifusa nella seconda parte del Faust, e dell’epos Achilleis, del 1799, concepito come continuazione dell’Iliade. L’interesse per il classicismo spinse G. a riprendere anche i due temi per antonomasia “goethiani”, quello di Wilhelm Meister e di Faust. Già prima del viaggio in Italia G. aveva iniziato, e poi sospeso, un vasto romanzo a sfondo autobiografico, Wilhelm Meisters theatralische Sendung (“La missione teatrale di W. M.”), il cui manoscritto fu ritrovato solo nel 1910; era la narrazione realistica delle esperienze di un giovane della buona borghesia innamorato del teatro. Nel 1794 G. ne riprese il tema e nel 1796 uscì una compiuta stesura del romanzo sotto il titolo Wilhelm Meisters Lehrjahre (“Gli anni di noviziato di W. M.”), capolavoro del genere tipicamente tedesco dell’Entwicklungsroman (romanzo di formazione) e nello stesso tempo quadro vivace di tutta un’epoca. Al Faust G. si era dedicato fin dal 1772, e nel 1775 era pronta una prima e incompleta stesura, il cosiddetto Urfaust (il cui ritrovamento è avvenuto solo nel 1887), una delle opere più legate alla poetica dello Sturm und Drang. Mutilo delle scene terminali era anche il primo Faust (Faust. Ein Fragment, 1790), e solo nel 1808 uscì la redazione definitiva della prima parte (Faust. Der Tragödie erster Teil), dopo un lavoro frazionato lungo l’arco di un decennio. Per il poeta, ormai giunto all’età matura, si trattava di un’acquisizione di recupero, e la dedica con cui si apre il monumentale edificio poetico rievoca le figure del dramma come emergenti da un passato lontano. L’immediatezza della presenza di Mefistofele, il ritmo serrato della tragedia di Gretchen delle precedenti stesure, sono andati perduti; ma la prospettiva su cui il dramma si apre ha finalmente raggiunto l’estrema vastità significativa del grande dramma simbolico, che coinvolge le potenze divine e demoniache e attinge dimensioni cosmiche, eppure rimane sostanzialmente dramma psicologico dell’uomo che non può rinunciare alla sua volontà di dominare il mondo.
Con la morte di Schiller (1805) e la catastrofe nazionale di Jena (1806), si era aperta per G. la lunga stagione della senilità. Allo sconforto e all’isolamento aveva reagito immergendosi negli studî scientifici, in particolare sull’ottica, senza con questo rallentare l’intensità della produzione letteraria. Allo stesso anno del Faust appartiene il dramma allegorico Pandora, e nel 1809 vide la luce Die Wahlverwandtschaften (“Le affinità elettive”), esemplare romanzo sulla passione amorosa vissuta in età adulta. La profondità dell’analisi psicologica e la tensione della vicenda sono sorrette da una scrittura perfettamente sorvegliata che asciuga senza offuscare il pathos che attraversa l’intera narrazione. Dopo una laboriosa gestazione uscì nel 1819 il Westöstlicher Divan (“Divano occidentale orientale”), dettato anzitutto dall’amore, tanto forte quanto dolorosamente votato a una cosciente rinuncia, per Marianne von Willemer, giovanissima poetessa. È il solo complesso di poesie pubblicato da G. in unico volume, e costituisce l’eccezionale testimonianza di una volontà e di una capacità di rinnovamento che attingevano alle più varie esperienze di vita e di cultura, recuperate attraverso un procedimento selettivo accorto e costante. Anche lo stile, non più immediato e plastico, è divenuto rarefatto e sfiora talvolta il sublime nella mediazione fra la vivacità del sentimento e l’amaro dell’acquisita saggezza. G. nel frattempo si era reso conto, dopo i due incontri con Napoleone, nel 1808, dell’importanza ormai storica della sua persona. All’avvento della Restaurazione, in un mondo che riconosceva sempre meno come proprio, sentì doveroso tornare indietro per fissare indelebilmente la sua personale storia. Non scrisse una vera autobiografia, ma ne lasciò ampî e spesso suggestivi squarci in Dichtung und Wahrheit (“Poesia e verità”, 1809-14 e 1830), che, pur coprendo solo gli anni fino al 1775 e senza essere sempre cronachisticamente attendibile, assunse il significato di documento storico, cioè d’interpretazione di un’intera epoca. Per alcuni aspetti documento ancora più suggestivo, anche se stilisticamente meno accurato, fu l’Italienische Reise (“Viaggio in Italia”, 1816-17, 1829), che ancora oggi gode di enorme fortuna.
Nonostante i frequenti attestati di stima da tutta Europa e l’omaggio di uomini come Byron e Manzoni, G. conobbe negli ultimi anni l’amarezza dell’isolamento quasi integrale nel nuovo clima culturale creatosi con il Romanticismo, a lui radicalmente estraneo. Nel riprendere ancora una volta i temi di Meister e di Faust, volle testimoniare e verificare globalmente la sua esperienza di poeta, di prosatore e di uomo confrontandosi con un mondo in cui non era possibile ripristinare quell’umanesimo integrale che era stato l’ideale del Rinascimento. Il Wilhelm Meisters Wanderjahre (“Gli anni del pellegrinaggio di W. M.”, 1829) rivela la disponibilità e l’interesse di G. per le esigenze di un assetto sociale nuovo, ma reca un sottotitolo sintomatico, Die Entsagenden “I rinuncianti”. L’ultimo Faust fu elaborato tra il 1825 e il 1831, con la dolorosa parentesi della morte del figlio e di una grave malattia da cui G. si riprese, forse, per la estrema determinazione di portare a compimento l'”opera della sua vita”. Quest’opera denuncia il peso dell’investimento che è stato fatto su di essa e risulta eterogenea, sovraccarica, diluita da intellettualismi e genericità, ma ha pagine di straordinaria bellezza e resta la potente e inquietante somma poetica di tutta una vita. Faust, che all’inizio si ridesta a nuova vita, è destinato alle esperienze più sbalorditive, ad attingere dimensioni sempre più vaste e globali, passando di affanno in affanno e di colpa in colpa finché, vecchissimo e quasi cieco, saluterà la morte con un esaltante inno alla libertà. La seconda parte del Faust (Faust. Der Tragödie zweiter Teil) fu pubblicata pochi mesi dopo la morte di G., per sua esplicita volontà. Egli era certo che non avrebbe ricevuto comprensione da parte di contemporanei, e non s’ingannava: in particolare l’ultimo G. non era fatto per essere agevolmente inteso, ma in generale il clima intellettuale e politico degli anni della Restaurazione non era fatto per recepire un autore che sembrava fossilizzato su posizioni esclusive e in ogni modo antiquate. Il 1848, e quanto ad esso tenne dietro, portò a rinvenire in Schiller piuttosto che in G. il genio ispiratore, quale poeta della libertà. La varia, complessa, spesso tragica vicenda storica della Germania durante gli ultimi cento anni a più riprese ha ribadito tale ideologica predilezione. Ma già il cosiddetto “realismo poetico” assunse G. come suo modello e maestro; il liberalismo borghese vide in lui l’ultimo e sommo rappresentante di una cultura umanistica, a un tempo tipicamente tedesca e profondamente europea; più tardi il monismo scientifico e filosofico guardò a lui come al poeta-pensatore capace di grandi e profetiche intuizioni. Nonostante la varietà e disparità d’opinione dei suoi innumerevoli critici (tra cui Hauptmann, Hofmannsthal, George, Hesse, Th. Mann), è unanime il giudizio che lo riconosce campione geniale dell’autonomia individuale, nel solco di una cultura di cui ha saputo raccogliere e incrementare la grande eredità.
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Diderot, Denis – d’Alembert, Jean-Baptiste Le Rond
Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, 1751
Encyclopédie
Descrizione-Encyclopédie-Paris, Briasson, David, Le Breton, S. Faulche, 1751-’65 [ultimo volume: Neufchastel, Samuel Faulche]. In 2°. 404 x 270 mm. – Table Analytique et Raisonée du Dictionnaire… Paris/Amsterdam, Panckoucke-Marc-Michgel rey, 1780. In 2°, 2 voll. – Recueil de Planches sur le s Sciences…Paris, Briasson, David, Le Breton, S. Faulche, 1762-1772. – Nouveau Dictionnaire pour servir de Supplement. Paris, Panckoucke, Stoupe, Brunet, 1776-’77. In 2° 5 voll. incluso un tomo di Planches au Supplement, 1777. 244 tavole. Insieme completo di 35 volumi, di cui 23 di testo e 12 di tavole. Legature coeva in bazzana con dorso a sei nervi e taglia spruzzo, cinque volumi presentano una diversa legatura, sempre in bazzana ma con un vitello più scuro e i tagli sono rossi. Ex libris al contropiatto Aldo Maffey.
Denis – d’Alembert
Nota a chiariento
L’Encyclopédie è stata originariamente concepita dall’editore, André le Breton, come una semplice traduzione della Cyclopaedia di Chambers, dall’inglese al francese. Denis Diderot, in qualità di editore, insieme al matematico Jean Le Rond d’Alembert, spinse il lavoro ben oltre tanto da essere annoverata, in qualità di editore insieme al matematico Jean Le Rondessere d’Alembert, nella tradizione illuminista. Un gran numero di scrittori del sec. XVIII contribuirono al lavoro e Diderot, in qualità di editore, prendeva gli scritti e li rimodellava sottilmente alla sua veduta del mondo.
Diderot DenisEncyclopédieEncyclopédieEncyclopédieEncyclopédieEncyclopédieEncyclopédieEncyclopédieEncyclopédieEncyclopédieL’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers est une encyclopédiefrançaise, éditée de 1751 à 1772 sous la direction de Denis Diderot et, partiellement, de Jean Le Rond d’Alembert et Louis de Jaucourt. L’Encyclopédie est un ouvrage majeur du XVIIIe siècle et la première encyclopédie française. Par la synthèse des connaissances du temps qu’elle contient, elle représente un travail rédactionnel et éditorial considérable pour cette époque et fut menée par des Encyclopédistes constitués en « société de gens de lettres ». Enfin, au-delà des savoirs qu’elle compile, le travail qu’elle représente et les finalités qu’elle vise, en font un symbole de l’œuvre des Lumières, une arme politique et à ce titre, l’objet de nombreux rapports de force entre les éditeurs, les rédacteurs, le pouvoir séculier et ecclésiastique. Contexte Collection de l’Encyclopédie du château de Menthon-Saint-Bernard. Articles détaillés : Siècle des Lumières et Révolution copernicienne. La genèse et la publication de l’Encyclopédie se situent dans un contexte de renouvellement complet des connaissances. La représentation du monde communément admise au Moyen Âge était progressivement remise en cause par l’émergence au XVIe siècle du modèle héliocentrique de Nicolas Copernic défendu au XVIIe siècle par Galilée à la suite de ses expérimentations avec sa fameuse lunette astronomique (1609). À la fin du XVIIe siècle, la théorie de la gravitation universelle de Isaac Newton fournit un formalisme mathématique en mesure d’expliquer le mouvement de la Terre et des planètes autour du Soleil (Principia, 1687). La preuve optique du mouvement de la Terre fut définitivement apportée en 1728 par les travaux de James Bradley sur l’aberration de la lumière. Les théories d’Isaac Newton furent diffusées dans les années 1720-1730 par Pierre Louis Moreau de Maupertuis hors d’Angleterre, puis par Voltaire en France. La nouvelle science astronomique nécessitait, pour expliquer le mouvement de la Terre, des expérimentations et un formalisme mathématique qui étaient étrangers à la méthode scolastique encore en vigueur dans les universités ; pour cette raison, elle était critiquée par Descartes. L’astronomie avait besoin du secours des mathématiques et de la mécanique pour sa théorisation. À terme, la plupart des sciences étaient touchées par ce changement, que le philosophe des sciences Thomas Samuel Kuhn a nommé une révolution scientifique1. Aucune compilation d’ensemble des connaissances d’une envergure suffisante pour rendre compte de ce changement de paradigme n’avait été effectuée depuis la publication, au XIIIe siècle, des grandes « encyclopédies » médiévales (notamment le Speculum maius de Vincent de Beauvais). Dans le Discours préliminaire de l’Encyclopédie, d’Alembert expliqua les motivations de l’immense travail entrepris par l’équipe des Encyclopédistes. Il critiqua sévèrement les abus de l’autorité spirituelle dans la condamnation de Galilée par l’Inquisition en 1633 en ces termes : Un tribunal (…) condamna un célèbre astronome pour avoir soutenu le mouvement de la terre, et le déclara hérétique (…). C’est ainsi que l’abus de l’autorité spirituelle réunie à la temporelle forçait la raison au silence ; et peu s’en fallut qu’on ne défendit au genre humain de penser. L’Encyclopédie fournit une compilation des connaissances de l’époque dont la cohérence était obtenue par la riche documentation des articles d’astronomie, et les renvois vers des articles de différentes disciplines2. L’aventure éditoriale Un projet de traduction (1728-1745) À l’origine, l’Encyclopédie ne devait être que la traduction en français de la Cyclopædia d’Ephraïm Chambers, dont la première édition date de 1728. La France, où nombre de dictionnaires universels avaient déjà été publiés, ne possédait alors aucun ouvrage incluant les métiers et les arts mécaniques, qui étaient tenus pour mineurs. En janvier 1745, Gottfried Sellius propose à l’éditeur parisien André Le Breton de traduire la Cyclopaedia3. Jusqu’à sa mort pourtant, en 1740, Chambers avait refusé les offres alléchantes d’éditeurs françaisa, sujets, comme beaucoup, à l’anglomanie. Sellius propose dans la foulée comme co-traducteur John Mills, un Anglais qui vivait en France. En février 1745, Mills, aidé par Sellius, rend à Le Breton un rapport d’audit où il prévoit que la traduction nécessitera quatre volumes de textes (1 000 pages en tout), un volume de 120 planches et, enfin, un supplément contenant un lexique français avec des traductions en latin, allemand, italien et espagnol réservé à l’usage des « voyageurs étrangers ». Dans la foulée, Mills exige de l’éditeur que son nom figure sur le document appelé privilège, mention devant lui garantir des droits de propriété sur ses textes. L’éditeur promet de le faire. Quelque temps plus tard, Mills découvre que Le Breton n’a pas donné suite à sa demande, ce qui entraîne une querelle, car la date d’expiration de la demande était dépassée. De peur de voir le projet et ses revenus lui échapper, Mills cède une part de ses droits à Le Breton. Satisfait, celui-ci accomplit les formalités d’usage et la demande de privilège est enregistrée pour 20 ans le 27 février 1745. Le 5 mars 1745, Le Breton, Sellius et Mills signent le contrat de traduction qui les liera. Un prospectus de souscription est diffusé dans la foulée ; il contient déjà quelques articles traduits en français (« atmosphère », « fable », « sang »…), annonce que le premier tome sera disponible à la vente en juin 1746 au prix total de 135 livres et les volumes suivants en décembre 1748. Les mois suivants, Mills se montre de plus en plus nerveux : avant de poursuivre le travail, il réclame une avance à Le Breton, mais celui-ci temporise. L’appel à souscription enregistre toutefois un certain succès et clôt le 31 décembre 1745 à un niveau garantissant à Le Breton (et à Mills) de substantiels bénéfices. Sans doute décidé à se débarrasser d’un collaborateur jugé trop encombrant, Le Breton argua que les traductions de Mills contiennent des contresens, des approximations et surtout qu’elles entraînent une augmentation sensible du nombre de mots par rapport à l’original. Se pourrait-il que Mills ait eu recours aux éditions Chambers de 1741 ou de 1743, plus volumineuses que celle de 1728 ? Le document liant l’éditeur de Chambers et Le Breton reste imprécis sur ce point de l’édition de référence. Toujours est-il que Le Breton se rend compte que l’audit de Sellius et Mills était au-dessous des réalités économiques et que la traduction du Chambers ne tiendrait jamais en si peu de pages. En janvier 1746, Mills réclame de l’argent et menace l’éditeur d’un procès quand il se rend compte que Le Breton n’a pas du tout respecté l’accord de répartition. Le Breton fait alors annuler le document et en réclame un autre, le 13 janvier, à son nom et à celui de trois autres éditeurs, excluant de facto Mills. Se sentant escroqué, Mills en vient aux mains le 7 août et reçoit un violent coup de canne de la part de Le Breton. Un procès a lieu, mais Le Breton est acquitté en raison des circonstancesb. 1746-1750 : un projet de plus grande ampleur Le 18 octobre 1745, Le Breton décide de s’associer à trois autres éditeurs, Antoine-Claude Briasson, Michel-Antoine David et Laurent Durand, pour faire face à l’augmentation des coûts d’édition. Le 21 janvier 1746, les quatre associés se voient renouveler le privilège d’édition pour vingt ans. Diderot n’est pas inconnu des trois nouveaux associés de Le Breton : il était en train de co-traduire pour eux le Dictionnaire universel de médecine de Robert James, dont le premier volume sort en 1746. Après avoir renvoyé Mills, et s’étant mis en quête d’un rédacteur en chef réellement capable de gérer la traduction (on parle déjà d’une « adaptation »), Le Breton engage le 27 juin 1746 l’abbé de Gua de Malves, qui souhaitait embarquer dans l’aventure, entre autres, le jeune Étienne Bonnot de Condillac, Jean Le Rond d’Alembert et Denis Diderot, ces deux derniers ayant signé le contrat en tant que témoins. Un grand dîner, le soir même, réunit les éditeurs, de Gua de Malves, Diderot et d’Alembert ; Le Breton régla la note de 44 livres et porta la somme sur le registre des comptes relatif à l’Encyclopédie. Dans une lettre datée de mai-juin 1746, d’Alembert écrit au marquis d’Adhémar que, déjà, il « traduit une colonne d’anglais par jour » et qu’il est payé « 3 louis par mois ». Le contrat stipule par ailleurs que Diderot a la possibilité de demander à « refaire traduire tous les articles jugés inacceptables ». Plus tard, dans son Discours préliminaire, il justifiera l’abandon d’une simple traduction, d’abord parce que Chambers avait puisé dans des ouvrages français « la plus grande partie des choses dont il a composé son Dictionnaire » et aussi parce « qu’il restoit beaucoup à y ajoûter ». Au bout de treize mois, le 3 aout 1747, de Gua de Malves est renvoyé, en raison de ses méthodes trop rigides, et Le Breton place Diderot et d’Alembert officiellement à la tête d’un projet de rédaction d’une encyclopédie originale, le 16 octobre 1747. Diderot gardera cette charge pendant les 25 années suivantes et verra l’Encyclopédie achevée. Sous leur impulsion, ce modeste projet prend rapidement une tout autre ampleur, avec un désir de synthèse et de vulgarisation des connaissances de l’époque ; le Prospectus destiné à engager les souscripteurs, rédigé par Diderot, est publié à 8 000 exemplaires en novembre 1750. 1751 : parution du premier volume Article détaillé : Discours préliminaire de l’Encyclopédie. Première page du texte. Pour mener à bien leur projet, Diderot et d’Alembert, s’entourent d’une société de gens de lettres, visitent les ateliers, s’occupent de l’édition et d’une partie de la commercialisation. Le premier volume paraît en 1751 contenant le Discours préliminaire rédigé par d’Alembert. 1752-1753 : première interdiction En février 1752, les Jésuites font pression sur le Conseil d’État pour obtenir la condamnation et l’interruption de la publication de l’Encyclopédie – s’appuyant entre autres sur le scandale provoqué par la thèsec présentée à la Sorbonne par l’abbé de Prades, collaborateur de l’Encyclopédie4. Ils obtiennent gain de cause : le Conseil d’État interdit le 7 février 1752 de vendre, d’acheter ou de détenir les deux premiers volumes parus, au motif qu’ils contiennent « plusieurs maximes tendant à détruire l’autorité royale, à établir l’esprit d’indépendance et de révolte, et, sous des termes obscurs et équivoques, à élever les fondements de l’erreur, de la corruption des mœurs, de l’irréligion et de l’incrédulité5 » C’est par l’appui de Malesherbes, directeur de la Librairie et chargé de la censure, mais défenseur du projet encyclopédique, que la publication peut reprendre en novembre 1753. D’Alembert, prudent, décide cependant de ne plus se consacrer qu’aux parties mathématiques. La levée de cette interdiction ne met cependant pas fin aux oppositions à l’ouvrage, même si elles se confondent parfois avec les attaques portées en général contre le Parti philosophique. Le récollet Hubert Hayer et l’avocat Jean Soret publient de 1757 à 1763 un périodique appelé La Religion vengée ou Réfutation des auteurs impies. Abraham Chaumeix suit en 1758, avec ses Préjugés légitimes contre l’Encyclopédie et essai de réfutation de ce dictionnaire, en huit volumes. 1756 : Les emprunts aux Descriptions des arts et métiers Illustration de l’Encyclopédie pour laquelle Duhamel du Monceau a écrit l’article « Corderie ». Dès sa création, le roi demande à l’Académie de réaliser un appui au développement industriel et artisanal. En 1712, Réaumur est chargé d’un programme d’édition portant sur 250 arts, les Descriptions des arts et métiers. Réaumur et l’Académie mettent au point les méthodes, élaborent le style des gravures et accumulent une immense documentation, mais le projet s’interrompt en 17256. « L’infidélité et la négligence de mes graveurs, dont plusieurs sont morts, ont donné la facilité à des gens peu délicats sur les procédés de rassembler des épreuves de ces planches, et on les a fait graver de nouveau pour les faire entrer dans le Dictionnaire encyclopédique. J’ai appris un peu tard que le fruit d’un travail de tant d’années m’avait été enlevé » — Réaumur, lettre à Samuel Forney, le 23 février 1756 Selon toute vraisemblance, Diderot et d’Alembert ont fait reproduire des centaines de gravures dans leur Encyclopédie au point qu’un procès pour plagiat est intenté par Pierre Patte contre Panckoucke qui, entre 1771 et 1783, les réimprime au format in-4°, à Neuchâtel, en 19 volumes, avec des augmentations et annotations de J.-E. Bertrand. L’historien Maurice Tourneux conteste le plagiat et fait valoir que la maison d’édition Libraires associés a racheté au moins les cuivres des planches en toute légalité, pour un montant équivalant à 250 000 F. Par ailleurs, poursuivant l’œuvre de Réaumur, Henri Louis Duhamel du Monceau relance en 1757 les Descriptions des arts et métiers à laquelle Diderot emprunte des éléments notamment pour les articles « Agriculture », « Corderie », « Pipe » et « Sucre ». 1759 : révocation du privilège Jusqu’en 1757, la publication des volumes 3 à 7 se poursuit, mais les opposants fulminent. Après la tentative d’assassinat de Robert François Damiens contre Louis XV (le 5 janvier 1757), le parti dévot saisit l’occasion de signaler le laxisme de la censure. Il pense que le but de l’Encyclopédie est d’ébranler le gouvernement et la religion (ce qui est en partie vrai, puisqu’on trouve dans l’Encyclopédie des attaques évidentes contre l’Église et le gouvernement en place). Planche d’anatomie. Le pape Clément XIII condamne l’ouvrage, il le met à l’Index, le 5 mars 1759, et il « enjoint aux catholiques, sous peine d’excommunication, de brûler les exemplaires en leur possession ». Le 8 mars 1759, à la suite des remous causés par la parution de De l’esprit, d’Helvétius, le privilège de l’Encyclopédie est révoqué4:161-4. D’Alembert abandonne définitivement le projet. Article détaillé : Lettre à D’Alembert. Dans le même temps, les libraires doivent faire face à une accusation de plagiat de planches dessinées par l’Académie des sciences et destinées aux Descriptions des arts et métiers. Dès septembre 1759, Malesherbes permet de contourner la suppression du privilège en obtenant la permission de publier des volumes de planches ; ils paraîtront à partir de 1762. La rédaction et la publication du texte se poursuivront clandestinement4:169-70. 1762-1765 : achèvement du texte En 1762, le vent politique change de sens : l’expulsion des Jésuites sur un arrêt du Parlement fait souffler un vent de liberté. Les volumes 8 à 17 paraissent, sans privilège et sous une adresse étrangère. En 1764, Diderot découvre la censure exercée par Le Breton lui-même sur les textes de l’Encyclopédie4:174-5. En 1765, Diderot achève le travail de rédaction et de supervision, avec une certaine amertume. 1765-1772 : fin de la publication Les deux derniers volumes des planches paraissent sans difficulté en 1772. 1769-1778 : le procès de Luneau de Boisjermain À partir de 1769, les libraires, Briasson en particulier, et Diderot, ont encore à se défendre au procès intenté par un souscripteur mécontent, Pierre-Joseph Luneau de Boisjermain, qui se plaint de l’augmentation du prix de l’ouvrage par rapport à ce qu’annonçait le Prospectus de novembre 1750. En effet, le projet initial a été largement dépassé par la fougue des Encyclopédistes, passant de 10 à 26 volumes. En conséquence, les libraires ont fait passer le prix à 850 livres au lieu des 280 livres du prix de souscription original. En 1771, les associés doivent remettre au juge les documents pertinents, qui restent en sa possession jusqu’à l’énoncé du jugement7. La question est tranchée en 1778, en faveur des libraires, trois ans après la mort de Briassond. Après 1776 Le Supplément Article détaillé : Supplément à l’Encyclopédie. En 1776-1777, Charles-Joseph Panckoucke et Jean-Baptiste-René Robinet font paraître un Supplément en 4 volumes de textes et 1 de planches. Deux volumes de tables paraissent en 1780. Il est à noter que Diderot ne participe pas en tant que rédacteur d’articles à cette entreprise (voir dans l’article Collaborateurs de l’Encyclopédie la liste des contributeurs au Supplément). Les 17 volumes initiaux, les 11 volumes de planches, le Supplément de 4 volumes, son volume de planches et les Tables de Mouchon en 2 volumes, constituent les 35 volumes de l’édition de base, dite de Paris, de l’Encyclopédie. Réédition, adaptations, contrefaçons Par ailleurs, l’édition originale est rapidement suivie de rééditions, d’adaptations et d’éditions contrefaites. Déjà en 1770, un éditeur suisse entreprend la publication d’une encyclopédie similaire, d’inspiration plus européenne et protestante : l’Encyclopédie dite d’Yverdon. Une encyclopédie monumentale, issue de celle de Diderot et d’Alembert dont elle se veut une version améliorée et enrichie, paraît de 1782 à 1832 sous le nom d’Encyclopédie méthodique, dite « Encyclopédie Panckoucke ». Celle-ci comprend plus de 150 volumes de texte et plus de 50 volumes de planches. Ainsi, si la première édition est tirée à 4 225 exemplaires, on compte près de 24 000 exemplaires, toutes éditions confondues, vendus au moment de la Révolution française. Dans sa forme « enrichie », l’Encyclopédie arrive en Angleterre en 1799, grâce à Panckoucke qui en vend les droits. L’aventure économique Cet ouvrage, énorme pour l’époque, a occupé un millier d’ouvriers pendant vingt-quatre ans. Prix de vente Les conditions d’acquisition, énoncées à la dernière page du prospectus, sont les suivantes. Pour 10 volumes in-folio dont 2 de planches : 60 livres en acompte, 36 livres à la réception du premier volume prévue pour juin 1751, 24 livres à la livraison de chacun des suivants échelonnés de six mois en six mois, 40 livres à la réception du huitième volume et des deux tomes de planches. En tout, 372 livres. Vu le prix élevé, on peut en déduire que le lecteur était issu de la bourgeoisie, de l’administration, de l’armée ou de l’Églisee. La première édition in-folio revient finalement à un total de 980 livres, tandis que l’édition ultérieure in-quarto en coûtera 324 et l’in-octavo 2258. Pour mettre ces chiffres en perspective, il faut savoir que Diderot a gagné en moyenne 2 600 livres par an pendant ses 30 années de travail sur l’Encyclopédie et qu’un artisan spécialisé gagnait alors 15 livres par semaine8:209, soit environ 750 livres par année. Tirage L’Encyclopédie a été tirée à 4 255 exemplaires8:29 – quantité très importante à une époque où un tirage courant ne dépasse pas les 1 500 exemplaires. De ce nombre, Robert Darnton estime qu’environ 2 000 exemplaires ont été diffusés en France et le reste à l’étranger9. Vente de l’ouvrage Le prospectus de 1750 apporte un millier de souscriptions. L’interdiction temporaire des tomes 1 et 2 a attisé les curiosités sur l’ouvrage. On compte alors plus de 4 000 souscriptions. À la suite des remous causés par De l’esprit, à l’interdiction du privilège et l’interdiction papale, Le Breton est accessoirement condamné à rembourser les souscripteurs : aucun ne se présentera en ce sens. Il ne faut pas confondre les acheteurs et le lectorat. Comme les cabinets de lecture se multipliaient, il est probable qu’un public plus large y ait consulté l’ouvrage. L’esprit encyclopédique Frontispice de L’Encyclopédie (détail) dessiné par Charles-Nicolas Cochin et gravé par Bonaventure-Louis Prévost : on y voit la Vérité rayonnante de lumière ; à droite, la Raison et la Philosophie lui arrachent son voile. L’Encyclopédie est représentative d’un nouveau rapport au savoir. Elle « marque la fin d’une culture basée sur l’érudition, telle qu’elle était conçue au siècle précédent, au profit d’une culture dynamique tournée vers l’activité des hommes et leurs entreprisesf. » Elle permet à un plus grand nombre de personnes d’accéder au savoir. Esprit philosophique Jules Michelet a écrit : « l’Encyclopédie, livre puissant, quoi qu’on ait dit, qui fut bien plus qu’un livre, — la conspiration victorieuse de l’esprit humain »10. Au siècle des Lumières, l’évolution de la pensée est liée à l’évolution des mœurs. Les récits de voyages, tel celui de Bougainville, incitent à la comparaison entre les différentes civilisations : la morale et les habitudes apparaissent relatives à un lieu et à un temps. Les bourgeois viennent désormais frapper aux portes de la noblesse, ils deviennent la noblesse de robe, par opposition à la noblesse d’épée. De nombreux bourgeois se sentent frustrés que la situation soit bloquée, en particulier en comparaison avec le Royaume-Uni. De nouvelles valeurs s’imposent : « la nature » qui détermine le devenir humain, « le bonheur terrestre » qui devient un but, « le progrès » par lequel chaque époque s’efforce de mieux réaliser le bonheur collectif. Le nouvel esprit philosophique qui se constitue est fondé sur l’amour de la science, la tolérance. Il s’oppose à toutes les contraintes de la monarchie absolue et à la religion. L’essentiel est alors d’être utile à la collectivité en diffusant une pensée concrète où l’application pratique l’emporte sur la théorie, et l’actualité sur l’éternel. Esprit scientifique Cette évolution s’inspire de l’esprit scientifique. Les méthodes expérimentales, appliquées à des questions philosophiques, aboutissent à l’empirisme, selon lequel toute connaissance dérive, directement ou indirectement, de l’expérience par les sens. L’Encyclopédie marque aussi l’apparition des sciences humaines. En outre, l’esprit scientifique se manifeste par son caractère universaliste : le XVIIIe siècle ne se spécialise pas ; il touche à tous les domaines : science, philosophie, arts, politique, religion, etc. Ainsi s’explique la production de dictionnaires et de sommes littéraires qui caractérisent ce siècle dont l’Encyclopédie est l’ouvrage le plus représentatif. On peut citer : De l’esprit des lois de Montesquieu (31 livres), l’Histoire naturelle de Buffon (36 volumes), l’Essai sur les origines des connaissances humaines de Condillac, le Dictionnaire philosophique de Voltaire (614 articles). À la fin du XVIIe siècle, Fontenelle, dans Entretiens sur la pluralité des mondes (1686), et Pierre Bayle, dans le Dictionnaire historique et critique (1697), vulgarisaient déjà cette pensée fondée sur les faits, l’expérience et la curiosité pour les innovations. Esprit critique L’esprit critique s’exerce principalement contre les institutions. À la monarchie absolue, on préfère le modèle anglais de gouvernement monarchique constitutionnel. La critique historique des textes sacrés attaque les certitudes de la foi, le pouvoir du clergé et les religions révélées. Les philosophes s’orientent vers le déisme, qui admet l’existence d’un dieu sans église. Ils critiquent également la persécution des Huguenots par la monarchie françaiseg. Le pendant positif de cette critique est l’esprit de réforme. Les Encyclopédistes prennent parti pour le développement de l’instruction, l’utilité des belles-lettres, la lutte contre l’Inquisition et l’esclavage, la valorisation des arts mécaniques, l’égalité et le droit naturel, le développement économique qui apparaît comme source de richesse et de confort. Pour défendre leurs idées, les auteurs ont oscillé entre le ton polémique (voir l’article Prêtres de D’Holbach) et des techniques d’autocensure qui consistaient à déguiser ses idées en s’appuyant sur des exemples historiques précis. L’examen scientifique des sources leur permettait une remise en question des idées léguées par le passé. L’abondance des annotations historiques décourageait une censure à la recherche d’idées subversives. Certains Encyclopédistes ont préféré faire passer des vues iconoclastes par des articles apparemment anodins. Ainsi l’article consacré au capuchon est l’occasion de ridiculiser les moines. Même si la quantité a parfois nui à la qualité, il faut souligner la singularité de cette aventure collective que fut l’Encyclopédie : pour la première fois, on y décrit à égalité avec les savoirs « nobles » tous les savoir-faire : la boulangerie, la coutellerie, la chaudronnerie, la maroquinerie. Cette importance accordée à l’expérience humaine est une des clefs de la pensée du siècle : la raison se tourne vers l’être humain qui en est désormais la fin. Esprit bourgeois Planche de l’Encyclopédie : Chambre obscure. L’article « Collaborateurs de l’Encyclopédie » met en avant le profil du collaborateur moyen de l’Encyclopédie : il appartient à la classe émergente du XVIIIe siècle, la bourgeoisie. En particulier, Diderot et d’Alembert sont bourgeois, les éditeurs sont bourgeois, le lecteur moyen est bourgeois. Il n’est donc pas surprenant de retrouver cette tendance dans l’Encyclopédie. Les dimensions pratique et concrète de l’Encyclopédie en témoignent. le titre : dictionnaire des arts et métiers les planches le matérialisme tant reproché à certains auteurs. L’article « Réfugiés » en est un exemple parfait. Il valorise le travail, la richesse, et l’industrie, par opposition aux valeurs de la noblesse, à savoir, les faits d’armes, le refus du négoce et de l’agriculture. La question de l’unité Ces caractéristiques (esprit bourgeois, scientifique et critique) sont des impressions globales qui se dégagent quand on tente d’appréhender globalement la ligne éditoriale de l’Encyclopédie. Il ne faut cependant pas croire que cela relève d’une intention ou d’une stratégie délibérée et qu’une quelconque unité ait été recherchée par les directeurs ou les éditeurs. Les dissensions entre Diderot et d’Alembert, ou avec les éditeurs, les renvois brisés (voir ci-après) et les articles contradictoires montrent à suffisance l’improvisation relative dans la conception générale du corpus. Si l’Encyclopédie fut bien la « machine de guerre des Lumières », ainsi qu’on l’a dit, « Ce n’est pas une machine de guerre cohérente où s’est exprimé le rôle historique de la bourgeoisie capitaliste, seule classe assurée de ses buts et de ses moyens, comme on l’a tant de fois affirmé ; son public (…) est moins animé par la cohésion sociale et idéologique que par la généralisation extrêmement étendue d’un besoin de connaissance11. » Pour le public du XVIIIe siècle, toutefois, « l’ouvrage représente un modèle de cohérence. Il montre que la connaissance est ordonnée et non chaotique, que le principe directeur est la raison opérant sur les données des sens et non la révélation parlant par l’intermédiaire de la tradition, enfin que les critères rationnels appliqués aux institutions contemporaines contribuent à démasquer l’absurdité et l’iniquité partout. Ce message imprègne le livre, y compris les articles techniques. » 8:401. Les renvois Pour échapper aux limitations du classement alphabétique, Diderot aurait innové en utilisant quatre types de renvois : des renvois classiques, dits de mots, pour une définition qui se trouve dans un autre article ; des renvois dits de choses, pour confirmer ou réfuter une idée contenue dans un article par un autre articleh ; des renvois dits de génie, qui peuvent conduire à l’invention de nouveaux arts, ou à de nouvelles véritési. un quatrième type de renvois, dits satiriques ou épigrammatiques, est une technique développée par les concepteurs pour contrer la censure. Ainsi la critique des Cordeliers ne se trouve pas à l’article Cordeliers [archive] où les censeurs seraient susceptibles de la trouver, mais à l’article Capuchon [archive] auquel il renvoiej. L’existence et la portée de ces renvois satiriques, en dépit des affirmations de Diderot lui-même, « mystificateur à ses heures », est néanmoins remise en question12. La réflexion de Diderot sur les renvois et l’usage qu’il en a fait pour lier entre eux près de 72 000 articles, lui a valu d’être considéré comme « l’ancêtre de l’hypertexte13». La parution de cet ouvrage par volumes et selon l’ordre alphabétique fait que les articles sont souvent brouillons, un thème non abordé dans l’article dédié pouvant réapparaître dans une section d’un autre article, comme c’est le cas, par exemple, pour les travaux d’Isaac Newton, qui se trouvent dans l’article sur Woolsthorpe, hameau où il est né14. Le pic de célébrité de l’ouvrage fait que les tomes V à VIII (correspondant aux quatre lettres E-F-G-H) sont de loin plus développés, au-delà de la place utilisée dans un dictionnaire usuel14. La publication séparée, chronologiquement, des schémas par rapport au texte, pose d’autres problèmes de compréhension (les planches de l’article coniques étant publiées près de 14 ans après le texte lui-même)14. Certains textes sont copiés d’ouvrages antérieurs dont le contenu est ainsi éparpillé dans différents articles14 : tel est le cas des Elemens de physique de Pieter van Musschenbroek. Les sources de l’Encyclopédie L’Encyclopédie se compose de travaux originaux et de nombreux emprunts. Les travaux originaux L’Encyclopédie contient un certain nombre de travaux entièrement nouveaux, résultant de recherches originales. C’est particulièrement vrai dans le domaine des sciences et des techniques, au point de devenir par endroits un lieu de polémique, les auteurs utilisant l’ouvrage pour exposer leur point de vue, ou se répondre d’un article à l’autre. Comme les termes techniques avaient été longtemps ignorés des encyclopédies et n’étaient apparus qu’avec le Dictionnaire universel de Furetière (1690), il n’existait que peu d’ouvrages de référence sur lesquels pût se fonder pour la description des arts et des métiers, à l’exception de la collection Descriptions des arts et métiers encore en cours. Diderot se réserva donc, en plus de la coordination générale, cette part du travail, la plus complexe et la moins recherchée : « Diderot portait à un degré merveilleux les aptitudes de son rôle. Il n’avait pas seulement à son service une multitude d’idées originales, il possédait encore la puissance incroyablement rapide de s’assimiler ce qu’il tenait à savoir, et de l’apprendre d’aussi bonne foi que si sa vie entière en eût dépendu, ou que ses talents eussent dû s’y consommer sans fin. Qui ne sait, pour l’avoir lu souvent, comment il se rendit maître des arts mécaniques dont il s’était chargé d’être le démonstrateur, comment il s’en emparait pratiquement avant de les expliquer théoriquement? Afin de traiter en pleine autorité une si grande abondance de matières spéciales, il passait des journées entières au milieu des ateliers, il visitait les fabriques, il étudiait, et exerçait une foule de métiers. Plusieurs fois, il voulut se procurer les machines, les voir construire, mettre la main à la tâche, et se faire apprenti pour connaître, en ouvrier, le secret, de tant de manœuvres. Finalement, il n’ignorait plus aucun détail de l’art des tissus de toile, de soie, de coton, ou de la fabrication des velours ciselés, et les descriptions qu’il en donnait sortaient en droite ligne de ses expériences15. » Les emprunts À côté de travaux nouveaux, les collaborateurs ont aussi beaucoup emprunté à des ouvrages existants — allant de la citation en guise de référence, à l’article entier. Tantôt avoués, tantôt pas, ces emprunts sont progressivement identifiés par la recherche moderne. La liste des sources proposée ici est donc encore incomplète. Une question très pointue consiste aussi à déterminer avec précision l’édition de l’ouvrage concrètement utilisée, parmi les ouvrages suivants : la Cyclopaedia d’Ephraïm Chambers ; le Lexicon Technicum(en) de John Harris ; le New General English Dictionary de Thomas Dyche ; la réédition par Fontenelle (1732) du Dictionnaire des termes des arts et des sciences de Thomas Corneille ; le Dictionnaire universel de commerce de Jacques Savary des Brûlons & Louis-Philémon Savary (1723-1730) ; Elemens de physique de Pieter van Musschenbroek. Pour les planches, sur le plan conceptuel : Théâtre de machines de Jacob Leupold16, Leipzig, 1724. Pour la Description des arts : le Novum Organum de Francis Bacon ; les planches tirées des Descriptions des arts et métiers (à partir de 1761). Pour l’histoire des idées et de la philosophie : Historia critica philosophiae (1744) de Jacob Brucker ; Dictionnaire historique et critique de Pierre Bayle. Autres personnages de référence Parmi les autorités citées comme référence dans l’Encyclopédie, sans en être des collaborateurs directs, on trouve les noms de Gottfried Wilhelm Leibniz et de l’abbé Claude Sallier, garde de la Bibliothèque royale. Réception de l’Encyclopédie Enthousiasme du public Portrait en pied de la marquise de Pompadour par Maurice-Quentin de La Tour. Sur la table, on remarque le tome IV de l’Encyclopédie. La publication de l’Encyclopédie a suscité dans le public un enthousiasme extraordinaire, qui s’est manifesté jusque dans les milieux des courtisans proches de Louis XV, comme l’atteste une anecdote racontée par Voltaire en 1774 dans son pamphlet De l’Encyclopédie : « Un domestique de Louis XV me contait qu’un jour, le roi, son maître, soupant à Trianon en petite compagnie, la conversation roula d’abord sur la chasse, et ensuite sur la poudre à tirer. Quelqu’un dit que la meilleure poudre se faisait avec des parties égales de salpêtre, de soufre et de charbon. Le duc de La Vallière, mieux instruit, soutint que, pour faire de bonne poudre à canon, il fallait une seule partie de soufre et une de charbon sur cinq parties de salpêtre bien filtré, bien évaporé, bien cristallisé. Il est plaisant, dit M. le duc de Nivernais, que nous nous amusions tous les jours à tuer des perdrix dans le parc de Versailles, et quelquefois à tuer des hommes ou à nous faire tuer sur la frontière, sans savoir précisément avec quoi l’on tue. Hélas ! nous en sommes réduits là sur toutes les choses de ce monde, répondit Mme de Pompadour ; je ne sais de quoi est composé le rouge que je mets sur mes joues, et on m’embarrasserait fort si on me demandait comment on fait les bas de soie dont je suis chaussée. – C’est dommage, dit alors le duc de La Vallière, que Sa Majesté nous ait confisqué nos Dictionnaires encyclopédiques, qui nous ont coûté chacun cent pistoles ; nous y trouverions bientôt la décision de toutes nos questions. Le roi justifia sa confiscation ; il avait été averti que les vingt et un volumes in-folio, qu’on trouvait sur la toilette de toutes les dames, étaient la chose du monde la plus dangereuse pour le royaume de France, et il avait voulu savoir par lui-même si la chose était vraie, avant de permettre qu’on lût ce livre. Il envoya, sur la fin du souper, chercher un exemplaire par trois garçons de sa chambre, qui apportèrent chacun sept volumes avec bien de la peine. On vit à l’article POUDRE que le duc de La Vallière avait raison ; et bientôt Mme de Pompadour apprit la différence entre l’ancien rouge d’Espagne, dont les dames de Madrid coloraient leurs joues, et le rouge des dames de Paris. Elle sut que les dames grecques et romaines étaient peintes avec de la pourpre qui sortait du murex, et que, par conséquent, notre écarlate était la pourpre des anciens ; qu’il entrait plus de safran dans le rouge d’Espagne et plus de cochenille dans celui de France. Elle vit comme on lui faisait ses bas au métier, et la machine de cette manœuvre la ravit d’étonnement. – Ah ! le beau livre ! s’écria-t-elle. Sire, vous avez donc confisqué ce magasin de toutes les choses utiles, pour le posséder seul et pour être le seul savant de votre royaume. Chacun se jetait sur les volumes, comme les filles de Lycomède sur les bijoux d’Ulysse ; chacun y trouvait à l’instant tout ce qu’il cherchait17. » Quant à Diderot, il s’en remet à la postérité pour juger de son œuvre : « Cet ouvrage produira sûrement avec le temps une révolution dans les esprits, et j’espère que les tyrans, les oppresseurs, les fanatiques et les intolérants n’y gagneront pas. Nous aurons servi l’humanité »18. Mais de son vivant et durant la publication protecteurs et opposants s’affrontent, parfois vivement. L’Encyclopédie n’est pas qu’un ouvrage de références ; elle est aussi une tribune, un manifeste et sa publication est donc aussi un acte politique, qui heurte. Opposants notoires et polémiques Article détaillé : Cacouac. Les Jésuites, qui sont la cible des attaques des encyclopédistes, auxquels ils répondent par le Journal de Trévoux, jusqu’à ce que leur ordre soit banni de France en 17634:134-5. Christophe de Beaumont, archevêque de Paris. Omer Joly de Fleury, président à mortier du Parlement de Paris. Jean-Jacques Lefranc de Pompignan, poète en guerre avec Voltaire. Élie Fréron, journaliste qui s’attaqua aussi à Voltaire. Jacob-Nicolas Moreau, historien et écrivain, farouche partisan de l’Ancien Régime. Palissot, écrivain adversaire des philosophes. Clément XIII, qui met l’ouvrage à l’index le 5 mars 1759 et « enjoint aux catholiques, sous peine d’excommunication, de brûler les exemplaires en leur possession »19. En 1775, Salvatore Di Biasi souligne la méconnaissance de la Sicile par les Encyclopédistes et s’insurge plus particulièrement contre la présentation de Palermek comme une ville détruite qui, avant sa destruction par un tremblement de terre, disputoit à Messine le rang de Capitale20. Cet article est signé par Louis de Jaucourt, qui renvoie à l’ouvrage d’Augustino Inveges, Palermo antiquo, sacro & nobile, in Palermo, 1649-1651. Les éditions subséquentes Le succès de cette publication suscite très vite projets concurrents, copies pirates et réimpressions diverses : Encyclopédie in-folio de Lucques (1758), sous la direction d’Ottaviano Diodati, tirée à 1 500 exemplaires. Encyclopédie in-folio de Livourne (1771-1775), sous la direction de Giuseppe Aubert, tirée à 1 500 exemplaires. Encyclopédie in-folio de Genève (1771-1773), sous la direction de Panckoucke, tirée à 4 000 exemplaires. Encyclopédie in-quarto de Genève et de Neuchâtel, également sous la direction de Panckoucke, tirée d’abord à 4 000 exemplaires, suivie de deux autres tirages de 2 000 exemplaires. Cette édition est connue sous le sigle STN (Société typographique de Neuchâtel). Encyclopédie in-octavo de Berne et Lausanne (1778), similaire à l’édition Pellet de Genève, dont le tirage total est évalué entre 5 500 et 6 000 exemplaires. Encyclopédie d’Yverdon (1770-1780), publiée conjointement par la Société typographique de Berne et le libraire Pierre Gosse de La Haye, sous la direction de Fortuné-Barthélémy de Félice, qui transforme l’esprit de l’ouvrage original9:103-123. Encyclopédie méthodique, projet mis en œuvre par Charles-Joseph Panckoucke en 1782, mais qui n’aboutira que 50 ans plus tard, avec 212 volumes. Encyclopédie méthodique de Padoue par la Typographie du Séminaire (1784-1817), avec 112 volumes de texte et 38 de planches. Robert Darnton estime à 24 000 exemplaires le nombre total d’exemplaires de l’Encyclopédie imprimés avant 17898:47. Principaux contributeurs Article détaillé : Collaborateurs de l’Encyclopédie (1751-1772). Diderot signe des articles sur une grande variété de sujets, principalement de littérature et d’esthétique, mais aussi en archéologie, médecine, chirurgie, herboristerie, cuisine, théorie des couleurs, mythologie, mode, etc. « Il manifeste un goût certain pour les religions éloignées du christianisme, les hérésies obscures, les secrets et les mystères, les croyances populaires et le merveilleux9:51 ». Il a donné aussi des centaines d’articles sur la géographie. Jean Le Rond d’Alembert a fourni les grands textes d’introduction (Discours préliminaire, Avertissement) et quelque 1 600 articles. Louis-Jacques Goussier a collecté l’information et assuré la réalisation des 11 volumes de planches. Le contributeur le plus prolifique est Louis de Jaucourt, aussi appelé chevalier de Jaucourt, qui a fourni un total de 17 395 articles, soit 28 % du volume de texte9:54. Le baron d’Holbach a produit 425 articles signés et un grand nombre d’articles non signés sur la politique et la religion. À ces noms s’ajoutent les contributions de quelque 160 collaborateurs provenant de milieux divers. Leur qualité est inégale, de l’aveu même de Diderot[réf. nécessaire] : « Parmi quelques hommes excellents, il y en eut de faibles, de médiocres et de tout à fait mauvais. De là cette bigarrure dans l’ouvrage où l’on trouve une ébauche d’écolier, à côté d’un morceau de maître ; une sottise voisine d’une chose sublime, une page écrite avec force, pûreté, chaleur, jugement, raison, élégance au verso d’une page pauvre, mesquine, plate et misérable. » — Denis Diderot Controverse entre Diderot et Rousseau au sujet de l’article « Droit naturel » Diderot a publié en 1755 l’article « Droit naturel » de l’Encyclopédie. À partir de 1757, les relations entre Diderot et Rousseau se détériorent, entre autres sur la question de la valeur de l’homme dans la société. Diderot en effet comprend mal le principe de solitude exprimé par Rousseau et écrit dans Le Fils naturel, que « l’homme de bien est dans la société, et qu’il n’y a que le méchant qui soit seul ». Rousseau, qui attribue à Diderot les indiscrétions sur sa liaison avec Louise d’Épinay, se sent attaqué21. Dans la version de 1760 du Contrat social, dite « Manuscrit de Genève », il introduit un chapitre intitulé « La Société générale du genre humain », dans laquelle on trouve une réfutation de l’article « Droit naturel » écrit par Diderot. Voulant éviter toute polémique, Rousseau supprime le chapitre dans la version définitive du Contrat social publiée en 176222. Jean-Pierre Marcos a effectué une analyse de cette controverse23. L’« avertissement des éditeurs » de la première édition annonçait aussi avec enthousiasme que Georges-Louis Leclerc de Buffon, auteur de l’Histoire naturelle depuis 1749, serait l’auteur de l’article « nature », « article d’autant plus important, qu’il a pour objet un terme assez vague, souvent employé, mais bien peu défini, dont les Philosophes même n’abusent que trop ». Cependant, celui-ci finit par refuser, de crainte de s’attirer les foudres du roi, et l’article est rapidement transformé en simple suite de redirections par Daubenton et Jaucourt24.Encyclopédie
una mostra per celebrare il centenario di Marcello Mastroianni
A Castel Sant’Angelo a Roma è in programma la mostra Marcello Mastroianni. Ieri, Oggi, Sempre, dal 12 ottobre 2024 al 12 gennaio 2025. La mostra, dedicata al centenario della nascita di Marcello Mastroianni (Fontana Liri, 1924 – Parigi, 1996), rappresenta un evento ufficiale della diciannovesima Festa del Cinema di Roma ed è un appuntamento imperdibile per gli appassionati del cinema italiano e della fotografia d’autore. L’esposizione presenta una straordinaria raccolta di fotografie che ripercorrono la carriera e la vita di uno dei più grandi protagonisti del cinema italiano, simbolo della Dolce Vita.
Marcello Mastroianni
Promossa dall’istituto Pantheon e dalla Direzione dei Musei Nazionali della città di Roma del Ministero della Cultura, la mostra è curata da Gian Luca Farinelli, Direttore della Cineteca di Bologna, con il patrocinio della Regione Lazio. È organizzata da Civita Mostre e Musei in collaborazione con la Fondazione Cinema per Roma, la Cineteca di Bologna, l’Archivio Storico dell’Istituto Luce, la Biblioteca Museo Teatrale SIAE, la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, Rai Teche e con il supporto di archivi privati. La mostra offre un viaggio visivo nella storia del cinema italiano attraverso l’obiettivo di noti fotografi, che hanno catturato momenti sia intimi che pubblici della vita del grande attore. Con 100 fotografie per celebrare i suoi 100 anni, l’esposizione si propone di esplorare i momenti più iconici e significativi della vita di Marcello Mastroianni, figura che ha rappresentato il cinema italiano nel mondo. Le immagini in mostra metteranno in luce le molteplici sfaccettature dell’attore, non solo attraverso i suoi ruoli cinematografici più celebri, ma anche nella sua vita privata, lontano dai riflettori, cercando di rivelare i meccanismi dietro le quinte attraverso un percorso coinvolgente e interattivo. Il percorso espositivo si articola su due temi principali: il primo si concentra su momenti salienti delle riprese e degli spettacoli; il secondo, presenta un’analisi dell’uomo Marcello Mastroianni, approfondendo la sua personalità e narrando la sua storia.
Marcello Mastroianni
“Castel Sant’Angelo si conferma ancora una volta un punto di riferimento fondamentale per l’incontro e il dialogo tra diversi linguaggi e discipline, con le sue mostre che spaziano dalla fotografia, all’arte, all’archeologia, al cinema. Quello che oggi si inaugura è un progetto corale, di collaborazione tra una pluralità di istituzioni, dedicato a una figura iconica della cultura italiana e internazionale, in un luogo altrettanto simbolico per il nostro patrimonio”, evidenzia MassimoOsanna, Direttore generale Musei.
“L’obiettivo della mostra ‘Ieri, Oggi, Sempre’ non è solo commemorare attraverso la fotografia uno dei più grandi personaggi del cinema italiano e mondiale, ma valorizzare gli aspetti della sua vita e della sua arte che non sono conosciuti e ciò che – dopo cento anni dalla sua scomparsa – ha rappresentato per la nostra società e il nostro sistema culturale. L’esposizione è frutto di uno sforzo istituzionale comune volto all’esaltazione di quella naturalezza malinconica e umanità ironica che hanno scritto la storia della cultura italiana del secondo Novecento e che lo hanno fatto amare dagli italiani come uno di loro. Da sempre sosteniamo iniziative come questa”, afferma FedericoMollicone, Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati.
“Nel paese dei mostri sacri e degli istrioni, Mastroianni ha saputo diventare la presenza più umana e carismatica, il divo più internazionale, coltivando uno stile nell’ombra, senza eccessi, senza abusi, preferendo le inflessioni interiori. Anche per questo non lo si può confondere con nessun altro, né lo si può dimenticare. La sua silhouette così discreta, senza parole inutili, così autoironica, ha portato nel mondo intero un’idea della nostra civiltà, della nostra cultura, che ben pochi altri hanno saputo offrire con la stessa eleganza”, dichiara Gian Luca Farinelli, curatore della mostra.
Pier Paolo PASOLINI-“La terra di lavoro” da:” Le Ceneri di Gramsci”-
Pier Paolo Pasolini-Tomba di Antonio GramsciPier Paolo PASOLINI
-La terra di lavoro da:. Le Ceneri di Gramsci
Questo è l’ultimo degli undici poemetti che costituiscono “Le ceneri di Gramsci” di P.P.Pasolini, considerato se non il suo capolavoro, uno dei libri più letti per la virulenza dei versi che raggiungono nei testi portanti vertiginose altezze poetiche.
Colpisce il pathos, affiora l’immagine del quadro di Daumier “Il vagone di terza classe” ma gli sguardi di quegli emarginati che si vergognano della loro povertà, vissuta come una colpa, non sono un’immagine descrittiva fine a se stessa. Non sfugge a Pasolini la dolorosa scoperta dello schiacciamento delle masse popolari da parte del potere, vittime di una società che in quei primi anni ’50 si sta delineando nelle sue forme aberranti di privilegio e di esclusione
E questi versi di denuncia non sono altro che il suo bisogno di raccontare le deformazioni della realtà sottraendosi alla logica perversa di una società corrotta e servile.
[…]
Dentro, nel treno
che corre mezzo vuoto, il gelo
autunnale vela il triste legno,
gli stracci bagnati: se fuori
è il paradiso, qui dentro è il regno
dei morti, passati da dolore
a dolore – senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,
eccoli con il mento sul petto,
con le spalle contro lo schienale,
con la bocca sopra un pezzetto
di pane unto, masticando male,
miseri e scuri come cani
su un boccone rubato: e gli sale
se ne guardi gli occhi, le mani,
sugli zigomi un pietoso rossore,
in cui nemica gli si scopre l’anima.
Ma anche chi non mangia o le sue storie
non dice al vicino attento,
se lo guardi, ti guarda con il cuore
negli occhi, quasi, con spavento,
a dirti che non ha fatto nulla
di male, che è un innocente…
[…]
in una gioia ch’è forse conservata
– come una scheggia dell’altra storia,
non più nostra – in fondo al cuore
di questi poveri viaggiatori:
vivi, soltanto vivi, nel calore
che fa più grande della storia la vita.
Tu ti perdi nel paradiso interiore,
e anche la tua pietà gli è nemica.
Honoré Daumier – Il vagone di terza classe
Opera pittorica allegata è di Honoré Daumier – Il vagone di terza classe
Giuseppe Clericetti -CAMILLE SAINT-SAËNS- Il Re degli spiriti musicali-
Zecchini Editore Varese
Il 16 dicembre 1921, alle 22.30, dopo una giornata di lavoro e studio, Camille Saint-Saëns si spegne nel suo letto, ad Algeri.
Dal libro di Giuseppe Clericetti, “Camille Saint-Saëns. Il Re degli spiriti musicali”:
In una lettera del 1914 a Gabriel Renoud, Saint-Saëns ammette che il suo animo ha subito duri colpi: ma non gli hanno tolto la fede, «l’avevo già persa». Il Nostro si riferisce verosimilmente al momento della perdita dei suoi due figli, nel 1878. In un’altra lettera dell’epistolario con Gabriel Renoud, Saint-Saëns parla esplicitamente del suo credo:
«[…] È stata una crisi terribile, una lacerazione orribile; capisco bene che molti rifiutano questa lotta! Ci si accontenta di una religiosità vaga; si recita il Credo senza riflettervi, senza vedere le impossibilità che esso enuncia a ogni parola, ed è così che vivono i nove decimi dei cristiani, rimettendosi al prete per farsi spiegare i dogmi che egli non spiega, il dogma essendo per definizione incomprensibile all’intelligenza umana… Quando scrivo musica religiosa mi metto volontariamente in questo stato di religiosità vaga, nel quale vive la maggioranza dei fedeli, ciò mi permette di scriverla in tutta sincerità».
Ciononostante la chiesa si approprierà dell’immagine post mortem di Saint-Saëns: la fotografia ufficiale del compositore sul suo letto di morte lo mostra con un crocifisso in grembo.
La Società Astronomica di Francia commenta le esequie religiose solenni: «il suo animo non credente ne ha riso».
CAMILLE SAINT-SAËNS
Visionario, artigiano, sperimentatore.
VIII+292 – f.to cm. 17×24 – Illustrato – Euro 37,00
Su Camille Saint-Saëns possiamo scoprire (quasi) tutto grazie ai due volumi di Giuseppe Clericetti, tanto diversi quanto insostituibili su un compositore considerato uno dei massimi rappresentanti dell’arte musicale del XIX secolo.
“Il Re degli spiriti musicali” costituisce il primo studio pubblicato in Italia su Saint-Saëns ed è articolato in due parti: una prima sezione presenta la biografia del compositore e la seconda parte è dedicata ai suoi scritti; il libro è completato dall’elenco delle sue composizioni, la bibliografia, l’indice dei nomi e una serie di preziose fotografie e illustrazioni.
Il secondo volume, “Visionario, artigiano, sperimentatore”, investiga i suoi poemi sinfonici che inaugurano il genere su territorio francese, il prezioso corpus delle 127 mélodies, i numerosi nessi con la musica di Mozart, i curiosi autoimprestiti, la prima partitura d’autore dedicata all’accompagnamento musicale in àmbito cinematografico, per finire con un esercizio di confronti interpretativi sulle prime registrazioni di Samson et Dalila.
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Marc Chagall dipinto del 1938 intitolato ” Crocifissione bianca “-
Per Marc Chagall, Cristo non è solo l’uomo-Dio del cristianesimo, ma soprattutto il simbolo stesso del popolo ebraico perseguitato.
Lo splendido quadro del pittore ebreo di origine russa Marc Chagall dipinto nel 1938 intitolato ” Crocifissione bianca ” e conservato presso l’Istitut for Art di Chicago, presenta un’altra visione molto personale del Cristo in croce. Tutto il quadro è in movimento e i colori che predominano sono il grigio e il bianco che si incontrano in continue sfumature che creano un effetto plumbeo. Il crocifisso è posto nel centro del quadro, e si distingue per la sua grandezza, la sua posizione e curiosamente, anche per il panno con le tipiche decorazioni ebraiche, che avvolge i suoi fianchi. Tutto intorno vi sono scene di disordine. Alla sua destra orde rivoluzionarie con bandiere rosse entrano nella scena saccheggiando e appiccando il fuoco alle case di un villaggio. Profughi chiedono aiuto gesticolando da un battello; figure emancipate cercano, in primo piano, di salvarsi come fuggendo dal quadro. Alla sua sinistra si nota un uomo in uniforme nazista che profana la sinagoga e in primo piano un uomo sembra fuggire scavalcando un rotolo della Torah in fiamme. In alto, piangenti, troviamo alcuni rabbini e una donna che fluttuano nella fredda oscurità dello sfondo. Ed ecco che un chiaro raggio di luce penetra dall’alto e illumina la figura del crocifisso che composto, sembra quasi reclini la testa per non guardare. Stranamente questo crocifisso non presenta tracce di sofferenza, mentre è sofferente l’ambiente circostante che rappresenta la disperazione del popolo ebraico durante le persecuzioni antisemite naziste e bolsceviche.
Ciò che colpisce è il fatto che l’autore di quest’opera è ebreo e unisce in un unico grande quadro elementi particolari della sua tradizione religiosa e il centro della religione cristiana. Chagall vede nella figura del crocifisso, nella passione del profeta degli ebrei, del Dio della cristianità morto come uomo, un simbolo valido universalmente per esprimere la miseria del suo tempo. Tra queste traumatiche esperienze il crocifisso è l’unica speranza che resta all’uomo: per questo viene raffigurato senza i tipici segni di una morte sofferente, e una scala fa da ponte tra l’umano e la luce del divino. Cristo quindi è colui che avvicina le sofferenze degli uomini al Trascendente. Per evidenziare il carattere universale della sofferenza, vi è ai piedi della croce il candelabro a sette braccia della tradizione ebraica. Cristo diviene così, per Chagall, non solo l’uomo-Dio del cristianesimo, ma soprattutto il simbolo stesso del popolo ebraico perseguitato.
Marc Chagall nacque in una famiglia ebraica a Lëzna, presso Vicebsk, una città di lingua yiddish in Bielorussia, allora facente parte dell’Impero russo. Il giorno stesso della sua nascita, il villaggio venne attaccato dai cosacchi durante un pogrom e la sinagoga fu data alle fiamme; da allora, l’artista – rievocando le proprie origini – userà dire: “Io sono nato morto”. Chagall era il maggiore di nove fratelli; il padre, Khatskl (Zakhar) Chagall, era un mercante di aringhe sposato con Feige-Ite.[1] Nelle opere dell’artista ritorna spesso il periodo dell’infanzia nello shtetl, villaggio ebraico,[2] felice nonostante le tristi condizioni degli ebrei russi sotto il dominio degli zar e il cui onnipresente ricordo condizionerà tutta l’opera futura.
Ricevette un’istruzione primaria ebraica tradizionale – secondo la Torah, il Talmud, con lo studio dell’antica lingua ebraica. Nell’autunno del 1900 si iscrisse alla scuola cittadina di quattro classi con una specializzazione artigianale, dove eccelse solo nel disegno e nella geometria. Dopo aver convinto la sua famiglia, riluttante a fargli intraprendere la carriera artistica in quanto cosa espressamente vietata dalla Torah, Chagall dapprima lavorò assai di malavoglia come ritoccatore nella bottega di due fotografi, ma nel 1906 iniziò a studiare pittura alla scuola-laboratorio del maestro Yehuda (Yudl) Pen, il solo pittore di Vicebsk: rimarrà nel suo studio per due mesi, non ritrovandosi nell’insegnamento accademico del maestro, e l’anno successivo si trasferì a San Pietroburgo. Qui frequentò l’Accademia Russa di Belle Arti con il maestro Nikolaj Konstantinovič Rerich, che lo ricompenserà con una borsa di studio, e conobbe artisti di ogni scuola e stile. Tra il 1908 e il 1910 studiò prima in una scuola privata, poi alla scuola Zvanceva con Léon Bakst, che per primo gli parlò dei nuovi orizzonti culturali dell’Occidente e gli fece conoscere la pittura di Cézanne e Gauguin.[3]. Per mantenersi gli studi a San Pietroburgo, Chagall lavorava come artigiano dipingendo insegne di negozi, oltre a realizzare le prime opere originali. Questo fu un periodo difficile per lui: gli ebrei potevano infatti vivere a San Pietroburgo solo con un permesso apposito, infatti venne imprigionato per essere rimasto fuori dal ghetto oltre l’orario consentito. Rimase nella città fino al 1910, anche se di tanto in tanto tornava nel paese natale, dove nel 1909 incontrò, grazie alla modella e amica Thea Brachman, Bella Rosenfeld, figlia di ricchi orefici e sua futura moglie. Nel 1912 aderì alla Massoneria[4].
Una volta divenuto noto come artista, nel 1910 Chagall lasciò San Pietroburgo per Parigi avvicinandosi alla comunità artistica di Montparnasse: «Nessuna Accademia avrebbe potuto darmi tutto quello che ho scoperto divorando le esposizioni di Parigi, le sue vetrine, i suoi musei […] Come una pianta ha bisogno di acqua, così la mia arte aveva bisogno di Parigi», dirà poi. A Parigi il giovane Chagall conobbe diversi intellettuali d’avanguardia; si stabilì presto alla Ruche e strinse amicizia con Guillaume Apollinaire, Robert Delaunay, Fernand Léger e Eugeniusz Zak; manterrà però un certo scetticismo nei confronti del cubismo, considerandolo troppo “realista” e attaccato al lato fisico delle cose, mentre lui si sentiva più attratto «dal lato invisibile, quello della forma e dello spirito, senza il quale la verità esterna non è completa». In questo periodo, nel disordine del suo studio e sempre a corto di cibo e mezzi dipinse i suoi primi capolavori, nei quali il ricordo di casa e dello shtetl è predominante: Alla Russia, agli asini e agli altri, Il Santo vetturino e soprattutto Io e il villaggio, fiaba cubista dove in un’unica visione sono racchiusi paesaggi russi, fantasie popolari, proverbi ebraici.[5]Il poeta Cendrars gli dedicò quattro dei suoi Poèmes élastiques e Apollinaire, riferendosi alla sua pittura, la definì “soprannaturale”. Chagall potrà affermare con soddisfazione: «Ho portato dalla Russia i miei oggetti, Parigi vi ha versato sopra la sua luce». Nel 1914 ritornò a Vicebsk fermandosi a Berlino, dove il mercante d’arte Herwarth Walden organizzò nella propria galleria la prima personale dell’artista, che ebbe un ottimo successo di pubblico e critica. Poco dopo il ritorno in Russia, scoppiò la prima guerra mondiale che, insieme alla successiva rivoluzione, lo terrà di fatto bloccato in patria fino al 1923. Intanto, nel 1915 si era unito in matrimonio con Bella Rosenfeld; nel 1916 nacque la loro prima figlia, Ida.
A Vicebsk, dove ritrovò la famiglia, Chagall dipinse opere come L’Ebreo in rosa, L’ebreo in preghiera, La passeggiata e Compleanno. Nel 1917 prese parte attiva alla rivoluzione russa: in sostituzione del servizio militare, lavorò a Pietroburgo al Ministero della Guerra, dove conobbe i grandi poeti russi del periodo (Pasternak, Esenin, Majakovskij), realizzò le prime illustrazioni per libri e giornali ed espose in alcune importanti collettive. Il Ministro sovietico della cultura Lunačarskij lo nominò Commissario dell’arte per la regione di Vicebsk, dove fondò una “Libera Accademia d’Arte” e il Museo di arte moderna; non ebbe tuttavia successo nella politica del governo dei soviet. Chagall incitò gli artisti di ogni età ad abbandonare gli atelier e portare il loro contributo alla preparazione della festa, oltre che a seguire il proprio estro creativo: così, le opere decorative per il primo anniversario della Rivoluzione scontentarono i funzionari del governo che, in luogo dei ritratti trionfali di Marx, Engels e Lenin, si ritrovarono effigi di mucche e cavalli volanti ed umanizzati. Per questo, Chagall entrò in contrasto con la sua stessa scuola (in cui militava El Lissitzky), conforme per motivi politici al suprematismo, assolutamente agli antipodi rispetto al suo stile fresco ed “infantile”. Dopo un breve viaggio a San Pietroburgo per chiedere «pane, colori e denaro», il pittore trovò al ritorno la sua stessa scuola trasformata in una “accademia suprematista”. Di conseguenza, nel 1920 Chagall fu costretto a dimettersi e si trasferì con la moglie e la figlioletta a Mosca, dove il governo gli affidò l’insegnamento dell’arte agli orfani di guerra delle colonie Malachovka e III Internazionale, mestiere di certo più limitante del precedente. Nello stesso periodo accettò la commissione per la decorazione di nove pannelli (oggi ne rimangono 7) per il Teatro Ebraico di Stato “Granovskij” e disegnò una serie di illustrazioni per il ciclo di poesie in yiddish Grief del poeta David Hofstein, anch’egli insegnante presso il rifugio Malachovka.
Amareggiato, nel 1923 Chagall riuscì finalmente a lasciare la Russia rivoluzionaria grazie all’ambasciatore lituano e, dopo un breve e sofferto soggiorno a Berlino (i quadri che vi aveva lasciato erano andati distrutti o dispersi a causa della guerra) e una commissione del gallerista Cassirer, si trasferì a Parigi, dove ritrovò alcuni dei vecchi contatti. In questo periodo pubblicò le sue memorie in yiddish, trascritte inizialmente in russo e poi tradotte in francese dalla moglie Bella; scrisse anche articoli e poesie pubblicati in diverse riviste e alcuni scritti raccolti in forma di libro e pubblicati postumi. Il mercante Ambroise Vollard gli commissionò varie illustrazioni (principalmente acqueforti), tra cui quelle per le Anime morte di Gogol’, per le Favole di La Fontaine (queste ultime, iniziate negli anni ’30 ed interrotte a causa della morte di Vollard e dello scoppio della guerra, verranno concluse e pubblicate solo negli anni’50), e soprattutto per la Bibbia, che sin dall’infanzia considerava il suo racconto preferito; per poterne assimilare l’anima il più possibile, all’inizio degli anni ’30 Chagall e la famiglia compirono un viaggio in Palestina. Nel 1937 acquisì la cittadinanza francese; durante l’occupazione nazista in Francia nella seconda guerra mondiale e a seguito della deportazione degli Ebrei e dell’Olocausto, gli Chagall fuggirono da Parigi e si nascosero presso Villa Air-Bel a Marsiglia; il giornalista statunitense Varian Fry li aiutò poi nella fuga verso la Spagna e il Portogallo.[6] Da lì, nel 1941 la famiglia Chagall si stabilì negli Stati Uniti, dove sbarcò il 22 giugno, giorno dell’invasione nazista dell’Unione Sovietica.
Negli Usa, Chagall frequentò la numerosa comunità artistica fuggita dall’Europa e grazie all’aiuto del gallerista Pierre Matisse (figlio del celebre Henri) espose in numerose mostre collettive e non; nonostante l’intensa attività e i numerosissimi contatti con la cultura americana, però, si rifiuterà sempre di prendere la cittadinanza statunitense e di imparare l’inglese, continuando ad esprimersi in francese e in yiddish. Il 2 settembre 1944 l’amatissima Bella, soggetto frequente nei suoi dipinti e compagna di vita, morì per un’infezione virale mal curata. La sua morte fu un durissimo colpo per l’artista, che per quasi un anno non riuscì più a dipingere; uscirà dalla depressione solo grazie alla figlia Ida che, oltre a spronarlo a lavorare e fargli tornare l’amore per la vita, nel 1945 gli presentò la trentenne canadese Virginia Haggard McNeil, già separata da un pittore da cui aveva avuto una figlia e con la quale Chagall cominciò una relazione che durerà sette anni e che porterà alla nascita del figlio David il 22 giugno1946. Durante questi duri anni di esilio negli USA, Chagall lavorò a numerose opere, ottenendo commissioni per lavori teatrali che si concretizzarono in imponenti e vivaci scenografie, come quelle per Aleko (settembre 1942, ispirato ad un poema di Puškin) o per L’uccello di fuoco del 1949 al Metropolitan Opera House delle cui scenografie e costumi ideati da Chagall e dalla figlia Ida il compositore Stravinskij ammirò soprattutto la pittura delle scene, “di uno sfoggio fiammeggiante”, rimase meno contento dei costumi.[7] Oltre a questi grandi lavori, l’artista realizzò anche le illustrazioni per le Notti arabe (ispirate alle Mille e una notte), riprendendo per l’editore newyorkese Wolff un’opera già richiestagli anni prima da Vollard; inoltre, collaborò con la rivista “Derrière le miroir”, edita da Aimé Maeght, che diverrà, da quel momento, il suo principale mercante per l’Europa.
Finita la guerra e passata la tempesta dell’Olocausto (che la sua anima sensibile non gli aveva permesso di dipingere direttamente, ma di evocare attraverso opere allegoriche), nel 1948 Chagall fa ritorno in Europa e, dopo un breve soggiorno a Parigi, nel 1949 si stabilisce ad Orgeval. Nel 1947 la Francia gli aveva reso omaggio con un’importante personale al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris e l’anno successivo la Biennale di Venezia gli conferirà il Gran Premio per l’incisione. Un’altra importante antologica si tiene nel 1954 alla Galleria Maeght. In questi anni intensi, dopo l’austerità della guerra, riscopre colori liberi e brillanti: le sue opere sono ora dedicate all’amore e alla gioia di vivere, con figure morbide e sinuose. Agli inizi degli anni’50 l’editore Teriade gli pubblica tutte le opere commissionate da Vollard e rimaste fino ad allora inedite. Su consiglio dello stesso editore, Chagall acquista la tenuta Les Collines alle porte di Vence, in Provenza, dove si stabilisce definitivamente. Nello stesso periodo, la figlia Ida sposa il museologo svizzero Franz Meyer, mentre va rapidamente affievolendosi la relazione dell’artista con Virginia Haggard.
Stabilitosi nel sud, Chagall comincia a cimentarsi anche con la scultura, la ceramica e il vetro: prima ad Antibes, infine a Vallauris presso l’atelier Madoura gestito dai coniugi Ramié (dove incontra più volte Picasso, che vi lavora alacremente, e qualche volta anche Matisse), Chagall lavorerà a più riprese producendo vasi, sculture e bassorilievi con le forme dei temi a lui più cari: figure sacre e bibliche, immagini femminili, strani animali… Nel 1951, inoltre, Chagall conosce Valentina (detta “Vavà”) Brodsky con cui, dopo un breve e travolgente idillio, si risposa nel 1952 a Clairefontaine, presso Rambouillet: anch’ella di origine russa ed ebrea, sarà la sua nuova musa ispiratrice, affiancando il ricordo di Bella nelle tele dell’artista che, con lei, scopre ben presto la Grecia e l’Arte Classica. Intorno alla fine degli anni ’50 Chagall comincia a produrre arazzi e soprattutto vetrate: le prime sono quelle del battistero per la chiesa di Notre-Dame-de-Toute-Grace ad Assy, poi quelle per la cattedrale di Metz. Nel 1957 si reca nuovamente in Israele, dove nel 1960 crea una vetrata per la sinagoga dell’ospedale Hadassah Ein Kerem. Altre stupende vetrate sono realizzate, tra il 1958 e il 1968, per la cattedrale di Reims, e nel 1964 l’artista ne dona una all’ONU con tema pacifista, in memoria di Dag Hammarskjöld. Nuove opere su vetro vedono la luce per la Cappella dei Cordiglieri a Sarrebourg (1975), per la chiesa di S. Stefano a Magonza (1978) ed infine per la Chapelle du Saillant a Voutezac, nel Corrèze, nel 1982. Nel 1963 aveva ottenuto dal ministro Malraux la commissione per decorare il soffitto dell’Opéra di Parigi, che ornò con figure allegoriche di opere celebri; ritornerà poi ad allestimenti teatrali, con la messa in scena del Flauto magico nel 1965; poi nel 1966 progetta un affresco per il nuovo parlamento israeliano, mentre per l’università Knesseth realizza una serie di arazzi, tutti a sfondo biblico, con l’aiuto della celebre Manifattura dei Gobelins. Nello stesso anno per l’editore Amiel pubblica L’Esodo, una serie di 24 litografie a colori, ed intensifica l’attività grafica.
Durante la guerra dei sei giorni l’ospedale Hadassah Ein Kerem viene bombardato e le vetrate di Chagall rischiano di essere distrutte: solo una viene danneggiata, mentre le altre vengono messe in salvo. In seguito a questo episodio, Chagall scrive una lettera in cui afferma di essere preoccupato non per i suoi lavori, bensì per la salvezza di Israele, vista la sua origine ebraica. Nel 1972 esegue, per il comune di Chicago, un mosaico dedicato alle Quattro stagioni. Dopo tanti anni, invitato dal governo sovietico, nel 1973 torna anche in Russia, dove sarà accolto trionfalmente a Mosca e a Leningrado: qui ritrova, dopo cinquant’anni, una delle sorelle, ma si rifiuta di tornare nella natia Vicebsk. Nello stesso anno -e nel giorno del suo compleanno– s’inaugura, a Cimiez vicino a Nizza, il Museo nazionale messaggio biblico di Marc Chagall che riunisce le sue opere sulla Bibbia: si tratta di diciassette dipinti dedicati alla Genesi, all’Esodo e al Cantico dei Cantici e degli schizzi relativi agli stessi dipinti, donati allo Stato francese da Chagall e Vavà tra il 1966 e il 1972. Viaggia poi in Italia: nel 1976 un suo Autoritratto entra nella collezione degli Uffizi, e due anni dopo Palazzo Pitti gli dedica una mostra. Nel 1977 il Presidente Valéry Giscard d’Estaing lo nomina Cavaliere di Gran Croce della Legion d’onore, e una nuova imponente mostra personale s’inaugura al Louvre nell’ottobre del 1977.
Nello stesso anno, l’editore Maeght pubblica Et sur la Terre… di Malraux con le illustrazioni dell’artista. Le ultime esposizioni sono nel 1984 al Pompidou, al Museo di Nizza, ed infine l’imponente retrospettiva alla Fondazione Maeght tra luglio ed ottobre del 1984. Dopo una vita lunga e ricca di soddisfazioni artistiche e personali, Chagall muore a 97 anni a Saint-Paul-de-Vence, dove risiedeva, il 28 marzo1985. Viene sepolto nel piccolo cimitero locale, dove nel 1993 lo raggiungerà Vavà.
Stile
Chagall nei suoi lavori si ispirava alla vita popolare della Russia europea e ritrasse numerosi episodi biblici che rispecchiano la sua cultura ebraica. Negli anni sessanta e settanta, si occupò di progetti su larga scala che coinvolgevano aree pubbliche e importanti edifici religiosi e civili. Le opere di Chagall si inseriscono in diverse categorie dell’arte contemporanea: prese parte ai movimenti parigini che precedettero la prima guerra mondiale e venne coinvolto nelle avanguardie. Tuttavia, rimase sempre ai margini di questi movimenti, compresi il cubismo e il fauvismo. Fu molto vicino alla Scuola di Parigi e ai suoi esponenti, come Amedeo Modigliani.
I suoi dipinti sono ricchi di riferimenti alla sua infanzia, anche se spesso preferì tralasciare i periodi più difficili. Riuscì a comunicare felicità e ottimismo tramite la scelta di colori vivaci e brillanti. Il mondo di Chagall era colorato, come se fosse visto attraverso la vetrata di una chiesa. Marc Chagall si è occupato anche di Mail art.[8]
Durante il suo primo soggiorno a Parigi rimane colpito dalle ricerche sul colore dei Fauves e da quelle di Robert Delaunay (definito il meno cubista dei cubisti). Il suo mondo poetico si nutre di una fantasia che richiama all’ingenuità infantile e alla fiaba, sempre profondamente radicata nella tradizione russa; le esperienze e il mondo della sua infanzia rimasero sempre incisivamente presenti in lui, radicandosi a tal punto che le rielaborò più e più volte nella sua mente trasfondendole quindi nella sua pittura.[5][9] La semplicità delle forme di Marc lo collega al primitivismo della pittura russa del primo Novecento e lo affianca alle esperienze di Natal’ja Sergeevna Gončarova e di Michail Fedorovič Larionov, per cui lo si può considerare un neo-primitivista. Con il tempo il colore di Chagall supera i contorni dei corpi espandendosi sulla tela. In tal modo i dipinti si compongono di macchie o fasce di colore, sul genere di altri artisti degli anni Cinquanta appartenenti alla corrente del Tachisme (da tache, macchia). Il colore diventa così elemento libero e indipendente dalla forma.
Chagall e la Bibbia
Chagall fu affascinato sin dagli anni giovanili dalla Bibbia, da lui considerata come la più importante fonte di poesia e di arte, ma è solo a partire dagli anni ’30 che se ne interessò profondamente e iniziò a studiarla con dedizione. L’occasione per farne un lavoro giunse nel 1930, quando l’editore e mercante d’arte francese Ambroise Vollard, per il quale aveva già illustrato Le anime morte di Gogol’ e Le Favole di La Fontaine, gli commissionò una serie di tavole dedicate al tema biblico. Chagall vi si dedicò con entusiasmo per tutto il decennio, tanto da intraprendere appositamente un viaggio sui luoghi delle vicende narrate dai Testi Sacri, tra Egitto, Siria e Palestina: da questo momento in poi, la Bibbia occuperà l’intera produzione artistica dell’autore, che ne fornirà un’interpretazione pur mediata dall’influenza delle avanguardie francesi.
A partire dal 17 settembre 2014, e fino al primo febbraio 2015, il Museo diocesano di Milano dedica all’artista un’esposizione, concepita come una vera e propria sezione della retrospettiva esposta a Palazzo Reale, intitolata “Chagall e la Bibbia”. Fulcro della mostra sono le 22 gouaches preparatorie, inedite fino al settembre 2014, quando sono state pubblicate dall’editore Jaca Book all’interno del volume Chagall. Viaggio nella Bibbia.[10]
L’Abruzzo ha un volto molto antico: quello dei suoi tratturi, bracci, tratturelli che ne segnano il territorio, là dove sono stati conservati e tutelati . Le antiche cartine d’Abruzzo mostrano una sorta di sistema vascolare di una regione che attraverso l’ “erbal fiume silente”, come d’Annunzio nella sua poesia “I pastori” definiva il tratturo, si alimentava ed alimentava la propria economia,quella della transumanza.
Il termine deriva da “ trans” forma avverbiale: attraverso e humum: terra : andare attraverso con il significato di trasferimento di persone e bestiame in estate ai pascoli della montagna e in autunno al piano.
Questo “sentiero naturale tracciato dalle greggi”, viene da molto lontano, perché già all’epoca dei Romani si individuavano come
“semita aspera qua pecora in montes ire solent” (aspri sentieri sui quali sogliono transitare le pecore sui monti). Su questi “sentieri” si svolgevano le partenze ed i ritorni, con un fenomeno chiamato
appunto transumanza.
Tratturo, che sui dizionari viene definito “largo sentiero erboso per far transitare greggi e armenti dalla Puglia ai monti degli Abruzzi e viceversa” è un termine moderno, che si incontra poco nella letteratura italiana, salvo nell’ ”Alcyone”, e nel libro terzo delle “Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi” del D’Annunzio.
La Transumanza: Storia
La transumanza è un sistema di allevamento antico diffuso in molte aree del bacino del Mediterraneo che prevede in estate lo sfruttamento dei pascoli dislocati a quote più elevate sui territori montani e d’inverno il trasferimento delle greggi in pianura anche a distanza di centinaia di Km . Nel caso dell’Abruzzo la transumanza orizzontale veniva praticata già in epoca italica dai Sanniti che si scontrarono con i Dauni della Puglia proprio per il controllo dei pascoli invernali. Durante il periodo romano la transumanza ebbe un forte incremento grazie ad una efficiente organizzazione dello stato. Alcune importanti città romane sorsero proprio sui tratturi per controllare lo spostamento delle greggi tra esse Peltuinum e Juvanum in Abruzzo e Sepino in Molise.
La seconda rivoluzione economica nel campo della pastorizia si ebbe alla metà del XV secolo per opera di Alfonso d’Aragona re di Napoli che prese a modello il sistema in uso da tempo nella penisola iberica dei pastori spagnoli chiamata mesta.Riorganizzò le vecchie “calles” romane che presero il nome di tratturi. Era tutto un mondo che si muoveva, tutta un’economia che si sviluppava intorno a queste vie che organizzata con precise leggi fiscali, è servita a sostenere per secoli le finanze del Regno di Napoli e delle Due Sicilie.
Alfonso I d’Aragona, con la Prammatica del 1 agosto 1447, istituì la Dogana per la “Mena delle pecore” in Puglia. Le terre di pascolo, dette locazioni, erano del Demanio Regio e si potevano utilizzare solo pagando la “fida”, un canone annuo, fissato in rapporto al numero delle pecore , ogni 100 pecore davano diritto ai pastori, detti locati, di utilizzare 24 ettari di terre non arate, chiamate poste.
Un sistema fiscale, duro per i piccoli pastori, che ha fruttato enormi entrate, fino al maggio 1806, quando Giuseppe Bonaparte, re di Napoli abolì le servitù sul Tavoliere di Puglia.
Con l’unità d’Italia alcuni dei tratturi principali furono assimilati alle strade nazionali e protetti, altri furono riassorbiti dall’agricoltura. Questo sistema di percorsi naturali, storicamente sedimentato, era incardinato su pochi valichi che limitavano e canalizzavano i collegamenti con il resto della penisola.
Una società gerarchica
Le greggi transumanti appartenevano a grandi proprietari detti armentari , ricchi possidenti che investivano i loro capitali nell’allevamento e nella produzione della lana. Ma anche gli ordini e le congregazioni religiose e i feudatari locali e gli esponenti dell’alta borghesia possedevano numerose greggi. I piccoli proprietari locali che per necessità si recavano nei pascoli invernali si riunivano in società per ridurre le spese dell’attività. Tra i pastori vigeva una ferrea organizzazione gerarchica .
A capo stava il padrone che si serviva del “massaro di pecore” che organizzava tutte le attività connesse al pascolo. Il “casaro” era addetto alla lavorazione e trasformazione del latte , il buttero sovrintendeva agli animali da soma e agli spostamenti logistici durante il periodo della transumanza. I “ pastori” erano addetti
alla custodia delle greggi . Ad ognuno veniva affidata una “ morra” di pecore composta da circa 200 animali , infine venivano i più giovani detti “ pastoricchi” a cui erano affidati i compiti minuti e umili .
Una vita dura
La vita dei pastori era fatta di sacrifici e rinunce. I pastori transumanti a settembre riprendevano mestamente la via delle Puglie dove rimanevano fino a maggio quando, dopo la fiera di Foggia, iniziava il viaggio di ritorno verso la montagna natia e le famiglie lasciate per molti mesi. Quando tornavano portavano nelle loro bisacce i doni per i loro bambini e le loro spose .
Drammatiche ed epiche insieme, le partenze a fine settembre separavano i nuclei familiari, affidati alle madri coraggio delle montagne abruzzesi, che si riunivano per poche settimane da maggio a giugno in un’atmosfera di ritrovati sentimenti e passioni e poi di nuovo in montagna nella solitudine dei pascoli in attesa di ridiscendere in paese . La vita del pastore non era facile
caratterizzata da privazioni e stenti. D’estate, quando seguiva le greggi sui pascoli della montagna era costretto a vivere all’interno delle grotte adibite sia a stazzo , ricovero degli animali durante la notte, sia a rifugio del pastore , e quando non vi erano ripari naturali costruivano rifugi in terra o in pietra o anche capanne a tholos dalla copertura a cupola a base circolare o quadrata. Il cibo scarseggiava ed era costituito essenzialmente da ricotta siero e pancotto una
semplice minestra fatta con il pane secco e condita con poco olio. Si mangiava carne solo quando qualche pecora moriva , per cause accidentali o divorata dai lupi. La giornata era lunga e scandita dagli astri. All’alba si alzavano quando in cielo splendeva il pianeta Venere a sera riposavano quando compariva la “ stella del pecoraio”.
Nel silenzio delle lunghe ore passate a guardia del gregge i pastori
impiegavano il tempo intagliando il legno, leggendo i racconti cavallereschi e le gesta dei Paladini di Francia o scrivendo i loro pensieri e le loro riflessioni ma anche risentimenti e rancori incidendoli sulla roccia . Esiste infatti una letteratura di tipo pastorale scritta sulle pietre della Maiella che va dal 1600 ai nostri giorni. Molti di umili origini avevano imparato a leggere e a scrivere proprio intorno al fuoco dello stazzo. Un’altra occupazione dei pastori era
suonare le zampogne o le ciaramelle strumenti musicali tradizionali che portavano sempre con loro durante il lungo periodo della transumanza.
La cultura della Transumanza: testimonianze, usi,rituali
Lungo le antiche vie i pastori transumanti portavano con sé diversi strumenti a dorso di muli ed asini. Per le loro necessità utilizzavano bisacce, tascapane, ciotole, posate di legno, corni di bue, inoltre sgabelli a tre piedi, secchi di legno, attrezzi per la tosatura, collari antilupo. Alcuni di questi oggetti venivano anche realizzati artigianalmente dagli stessi pastori. Durante gli spostamenti e le soste, i pastori raccoglievano verdure e radici commestibili che cucinavano a sera. Erano soggetti a continui pericoli come furti di
bestiame, assalti di lupi, morsi di serpenti perciò nella tradizione orale i pastori vengono rappresentati mentre dormono “con un occhio solo”. Per questa loro condizione di vita , quindi, l’invocazione della protezione divina dava la forza necessaria per affrontare i rischi del viaggio ed i sacrifici del mestiere, infatti, lungo i tratturi e nei territori attigui ,sono sorte durante i secoli molte chiese caratterizzate da un’arte strettamente legata al mondo pastorale esse erano molto importanti non solo dal punto di vista spirituale che ma anche commerciale. E’ in prossimità di queste strutture, infatti, si svolgevano anche delle fiere per la commercializzazione di prodotti artigianali e gastronomici.
Diversi furono i protettori dei pastori transumanti. Tra questi, San Michele al Gargano, San Nicola di Bari e la Madonna Incoronata di Foggia. L’anno religioso per i pastori si scandiva due volte l’anno, quello estivo e quello invernale e questi due cicli coincidevano con i festeggiamenti dei santi protettori della transumanza.
Lungo il tracciato tratturale, nel corso dei secoli sono sorte anche taverne, fontane, riposi. Le taverne, che erano delle osterie attrezzate con servizi ricettivi per i pastori e grosse stalle per gli animali, erano tante e frequentate sia da pastori che da viandanti occasionali. Gli abbeveratoi sono disseminati lungo tutti i percorsi , ma, per la necessità di acqua sorgiva, sono concentrati nelle zone medie e alte dei tracciati. Molte di queste architetture sono arrivate fino a noi e vengono ancora oggi utilizzate dai pastori stanziali. Questo patrimonio archeologico, seppur quasi del tutto sconosciuto, presenta notevoli caratteri di qualità ed originalità.
La rete tratturale
La rete tratturale che arriva ad uno sviluppo massimo di circa 3000 km, eracaratterizzata da connessioni e nodi. Così i tratturi, fiumi d’erba larghi fino a 111 metri, secondo le rigide regole che ne stabilirono la larghezza massima per evitare conflitti con i contadini, non erano solo corridoi di scorrimento, ma strutture dotate di servizi e attrezzature per uomini e animali. Lungo il percorso i pastori e gli armenti potevano trovare ricoveri dove trascorrere le notti più fredde, recinti, abbeveratoi e isolate chiese rupestri di cui sono rimasti stupendi esemplari . Tali punti di sosta rappresentavano momenti in cui la socializzazione dava luogo a scambi culturali tra persone provenienti da realtà geografiche diverse ancor più considerando la ridotta mobilità dei tempi.
I principali tratturi erano:
L’ Aquila – Foggia, detto Tratturo Magno. Si sceglieva tra due piste parallele:
Manoppello Guardiagrele Montenegro o
Bucchianico , Chieti , Lanciano
Celano – Foggia. Aggirava Pratola Peligna e
Sulmona, sosta ai riposi di Cesale e Taverna
del Piano, presso Rivisondoli. Costeggiava
Roccaraso, Lucito e Lucera.
Pescasseroli – Candela. Raggiungeva Castel
di Sangro, poi seguiva due tracciati: i monti
del Matese o il percorso sannitico
Pescolanciano – Campobasso
La Via dei Tratturi
“ E vanno pel tratturo antico al piano quasi per un erbal fiume silente su le vestigia degli antichi padri…” Così D’Annunzio descrive la discesa dei pastori verso il mare nella sua poesia “I pastori”.
Dopo la via Francigena e ll Cammino di Santiago il percorso dei “tratturi” le lunghe vie d’erba che collegavano la l’Abruzzo montano con il Tavoliere di Puglia, è tra le esperienze più suggestive. Consente infatti di ripercorrere gli stessi tracciati usati dai Sanniti, dai Romani, e dal 1200 in poi, da centinaia di pastori , milioni di pecore e carovane di muli carichi di masserizie che camminavano silenziosamente in mezzo a quelle ampie distese d’erba. E’ come fare un viaggio nel passato, nelle tradizioni nella cultura e nella religiosità delle genti d’Abruzzo che da sempre hanno legato la loro vita alla pastorizia transumante.
Partendo dai pascoli estivi del Tavoliere di Puglia si risale gradatamente tutto il Molise interno fino ad arrivare nei pascoli estivi delle montagne abruzzesi abitate ancora dal Lupo Appenninico, dall’Orso Bruno Marsicano antagonisti di sempre delle greggi e dei pastori.
Oggi di quelle antiche vie erbose rimane ben poco, come rimane ben poco di quella civiltà pastorale che le aveva generate , l’ ultimo
spostamento a piedi di pastori e pecore pare sia avvenuto nel 1972
Eppure una sensibilità nuova verso il passato sta coinvolgendo persone sensibili associazioni e istituzioni affinché queste testimonianze, o ciò che rimane di esse, non precipitino nell’oblio, insieme all’immenso patrimonio di storia e cultura che portano con sé.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email :
I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato , da “ Transumanza e società” di Raffaele Colapietra e da “ Pastori, lanaioli e contadini” di Aurelio Manzi e Giuseppe Manzi.
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