Nazionale e internazionale nei Quaderni del carcere
Gramsci rigetta l’interpretazione meccanicista del marxismo secondo la quale dal cosmopolitismo preborghese si potrebbe giungere all’internazionalismo solo passando attraversando la tappa intermedia del nazionalismo; in presenza di una cultura cosmopolita tale passaggio sarebbe, in effetti, anacronistico, antistorico e persino contrario alla cultura nazionale.
Articolo di Renato Caputo -Come fa notare Antonio Gramsci, gli Stati subalterni non sono in grado di portare avanti una politica autonoma sul piano internazionale e finiscono, così, per divenire pedine delle grandi potenze [1]. Più in generale, ogni analisi della politica di un paese non potrà, dunque, prescindere dai rapporti delle forze internazionali, ovvero dalla posizione occupata in un sistema egemonico che rende più o meno effettuale l’indipendenza e la sovranità nazionale. Sebbene la struttura sociale di un paese determini la sua posizione nel contesto internazionale, quest’ultima reagirà a sua volta “sulla vita economica immediata di una nazione” (13, 2: 1562). Perciò, come osserva Gramsci, la “differenza di processo nel manifestarsi dello stesso sviluppo storico nei diversi paesi è da legare non solo alle diverse combinazioni dei rapporti interni alla vita delle diverse nazioni, ma anche ai diversi rapporti internazionali” (19, 24: 2033).
Nei paesi internazionalmente subordinati la classe dominante tenderà a sfruttare tale situazione dando a credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale. Dunque, come osserva Gramsci, al contrario di quanto l’ideologia dominante vuol dare a intendere, non è il partito internazionalista a subordinare le esigenze nazionali alla politica sovranazionale, ma piuttosto “il partito più nazionalistico, che, in realtà, più che rappresentare le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche” (ivi, 1562-563).
Del resto, uno sviluppo determinato da direttive internazionali, che non muova dalla soluzione dei bisogni nazionali, costituisce un ostacolo allo sviluppo del paese poiché è funzionale “a creare l’equilibrio di attività e di branche di attività non di una comunità nazionale” (3, 118: 386), ma di un mercato internazionale subordinato agli interessi delle potenze dominanti. La condizione di subalternità di uno Stato non fa che accentuarne la condizione “di arretratezza e di stagnazione” (13, 13: 1574). Persino un grande fenomeno culturale sviluppato sul terreno nazionale, come per esempio il Rinascimento, finisce per essere in tale caso fonte di progresso all’estero dove “è vivo [nelle coscienze] dove ha creato correnti nuove di cultura e di vita, dove è stato operante in profondità”, piuttosto che in patria “dove è stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale e dove quindi è diventato oggetto di «mera erudizione», di curiosità estrinseca” (3, 144: 401).
La debolezza sul piano internazionale può divenire uno strumento di egemonia della classe dominante che la utilizza per frenare ogni intervento attivo sul piano politico delle forze nazional-popolari (cfr. 19, 24: 2034) [2]. L’ideologia dei ceti dominanti nei paesi subalterni tenderà a giustificare come “«originalità nazionale»” tale condizione di sovranità limitata e di arretratezza “semifeudale” (13, 13: 1575), facendo credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale.
Al contrario le forze progressiste, secondo Gramsci, dovranno favorire l’assunzione delle più avanzate forme di governo sviluppate a livello internazionale [3], quale unica strada, come via maestra per condurre un paese subalterno a una effettiva indipendenza nazionale. Del resto, a parere di Gramsci, il consolidarsi del processo rivoluzionario in un paese può contribuire a creare condizioni internazionali favorevoli che possono contribuire all’espansione della Rivoluzione in paesi in cui le forze progressive sono “scarse e insufficienti di per sé (tuttavia ad altissimo potenziale perché rappresentano l’avvenire del loro paese)” (14, 68: 1730).
D’altra parte la stessa possibilità di un profondo mutamento delle condizioni storico-politiche nazionali è strettamente dipendente dall’“equilibrio delle forze internazionali” (6, 78: 746). A seconda delle fasi storiche esse possono essere di freno o di decisivo supporto alle forze progressive nazionali. È, dunque, indispensabile disporre d’una “forza permanentemente organizzata” in grado di “inserirsi efficacemente nelle congiunture internazionali favorevoli” (13, 17: 1589). Per esempio, mentre l’arretratezza italiana era in parte dovuta all’essere divenuta terra di conflitto di potenze internazionali, la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche hanno un ruolo decisivo per il nascere della nazione, consentendo il sorgere dell’“interesse politico e nazionale alla piccola borghesia e ai piccoli intellettuali” (ibidem). In altri termini, il Risorgimento italiano sarebbe impensabile senza “i fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese” che, logorando le forze regressive, “potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti” (19, 3: 1972). È la trasformazione del contesto internazionale che è al fondamento e permette di comprendere il “processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione” (19, 2: 1963). Tuttavia, se nella realizzazione di un evento storico come il Risorgimento “tra l’elemento nazionale e quello internazionale dell’evento, è l’internazionale che ha contato di più” (3, 38: 316) il nuovo Stato sarà privo di autonomia politica sul piano internazionale. La mancata partecipazione popolare al Risorgimento rende “meschina” la vita politica italiana sino al novecento e indebolisce “la posizione internazionale del nuovo Stato, privo di effettiva autonomia perché minato all’interno dal Papato e dalla passività malevola delle grandi masse” (19, 28: 2054).
Così mentre nelle nazioni in cui vi è stato uno sviluppo organico delle energie nazionali, si proiettano all’esterno in “funzione di irradiazione internazionale e cosmopolita”, ossia in funzione dell’espansione dell’egemonia e del proprio dominio imperialistico, i paesi privi di un tale sviluppo si proiettano all’esterno attraverso un’emigrazione “che non refluisce sulla base nazionale per potenziarla” (12, 1, 1524-525), ma concorre a render impossibile il costituirsi d’una coscienza nazionale e di una salda base nazionale.
Il ruolo subordinato a livello internazionale produrrà l’emigrazione della forza lavoro manuale e degli intellettuali verso le nazioni dominanti, il che rappresenta secondo Gramsci “una critica reale” (2, 137: 272) alla debolezza nazionale della classe alla classe dominante, incapace di adempiere alla propria funzione di direzione nazionale. Ciò ha fatto sì che tanto gli intellettuali, “rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva”, siano andati ad arricchire nazioni straniere col loro contributo, sia che la forza-lavoro nazionale sia andata “ad aumentare il plusvalore dei capitalismi stranieri”, in modo che “questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna” (3, 117: 385).
Gramsci rigetta l’interpretazione meccanicista del marxismo secondo la quale dal cosmopolitismo preborghese si potrebbe passare all’internazionalismo solo attraversando la tappa intermedia del nazionalismo. In presenza di una cultura cosmopolita tale passaggio sarebbe infatti “anacronistico e antistorico” (9, 127, 1190) e persino contrario alla cultura nazionale [4]. Tanto che Gramsci considera il nazionalismo, in un paese come l’Italia, un’“escrescenza anacronistica” nella sua storia, “di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati di Dante” (ibidem). Al contrario la missione di civiltà del popolo italiano “è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata” (ibidem).
Note:
[1] Come avviene spesso, Gramsci si serve di esempi tratti dalla storia nazionale e dal principale pensatore politico italiano: “bisogna ricordare che il Machiavelli sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e la signoria comunale, perché mancava loro con il vasto territorio una popolazione tale da essere la base di una forza militare che permettesse una politica internazionale autonoma: egli sentiva che in Italia, col Papato, permaneva una situazione di non-Stato e che essa sarebbe durata finché anche la religione non fosse diventata «politica» dello Stato e non più politica del Papa per impedire la formazione di forti Stati in Italia intervenendo nella vita interna dei popoli da lui non dominati temporalmente per interessi che non erano quelli degli Stati e perciò erano perturbatori e disgregatori” Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 658. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Interessante quanto osserva Gramsci sull’importanza del piano internazionale nel risorgimento italiano: “i rapporti internazionali hanno certo avuto una grande importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l’Austria” (19, 24: 2034).
[3] Come osserva Gramsci: “una ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni” (13, 17: 1585).
[4] Come osserva Gramsci a tal proposito: “che il moto nazionale dovesse reagire contro le tradizioni e dare luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere spiegato, ma non è una reazione organico-popolare. Del resto, anche nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolita, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo, retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già esistenti o in processo di sviluppo. Perché un fatto si è prodotto nel passato non significa che si produca nel presente e nell’avvenire; le condizioni di una espansione italiana nel presente e per l’avvenire non esistono e non appare che siano in processo di formazione. L’espansione moderna è di origine capitalistico-finanziaria. L’elemento «uomo», nel presente italiano, o è uomo-capitale o è uomo-lavoro. L’espansione italiana è dell’uomo-lavoro non dell’uomo-capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato” (9, 127: 1190-191).
Fonte -Ass. La Città Futura-Articolo di Renato Caputo
Fu insegnante di lettere e collaborò a diverse riviste, tra cui La Voce. Le sue prime poesie rivelavano un profondo interesse per problematiche morali, portandolo a una crisi spirituale. Ordinato sacerdote nel 1936, continuò a scrivere poesie che riflettono il suo costante colloquio con Dio. Fu anche traduttore di autori russi tra cui Tolstoj e Gogol’.
Intraprende nel 1903 gli studi di Medicina a Pavia, interrompendoli per seguire i corsi universitari di lettere presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano (non ancora Università Statale). Nel ’10 si laurea con una tesi sul pensiero di Gian Domenico Romagnosi, relatore Gioacchino Volpe. Dopo la laurea inizia a insegnare in diversi istituti tecnici (prima a Milano, Treviglio, Novara, poi a Como e ancora a Milano) e collabora a «La Voce», alla «Rivista d’Italia», alla «Riviera Ligure», anche per l’amicizia con Giovanni Boine. Nel ’13 vengono pubblicati i Frammenti lirici per le Edizioni della Voce dirette da Giuseppe Prezzolini, con la dedica «ai primi dieci anni del secolo ventesimo». Nel ’14 conosce Lidia Natus, pianista russa, e vive con lei a Milano. Allo scoppio della Prima guerra è richiamato alle armi col grado di sottotenente del 159° reggimento fanteria; il 17 giugno sul Podgora subisce un forte trauma cranico a causa di un’esplosione; tra il ’16 e il ’19 passa da un ospedale militare all’altro finché, nel ’19, viene riformato. Riprende il suo lavoro d’insegnante in vari istituti privati, dirige la collezione “Maestri di Vita” per l’editore Pavia e tiene conferenze. Nel ’22 pubblica i Canti anonimi raccolti da C. Rebora nelle edizioni de Il Convegno di Milano, una poesia severa, percorsa da un’ansia di verità, di serietà, di fastidio per gli illusori miti contemporanei, espressa in un linguaggio dissonante, privo di concessioni e di abbandoni; una «poesia che non consola», dunque. Nel ’28 s’evidenzia la profonda crisi religiosa (in conflitto con l’educazione morale, mazziniana e laica, ricevuta in famiglia) che lo porta, nel ’31, a entrare come novizio all’Istituto della Carità al Monte Calvario di Domodossola. Nel ’36 è ordinato sacerdote. Negli anni seguenti esercita varie funzioni negli istituti rosminiani di Domodossola, Torino, Rovereto e Stresa, dove infine rimane. In questa nuova vita il silenzio della poesia è quasi totale fin quando non riprende con un’esplicita vocazione di celebrazione liturgica( Via crucis, 1955; Gesù il fedele, 1956) sentita con intensità e passione dolorosa o legata all’esperienza esistenziale attraversata, in Poesie religiose (1936-1947) e specialmente nei Canti dell’infermità (1947-1956), nati in anni in cui è via via ridotto dalla malattia a una progressiva e assoluta immobilità. Nell’estate del ’55 Rebora compone un Curriculum vitae, significativa e sommaria autobiografia, nella quale menziona anche la volontà di distruzione dei libri e dei manoscritti (poi impedita dal nipote , Roberto Rebora, che sottrae le carte allo strascée ). Nel 1985 escono Le poesie (1913-1957), a cura di Lucilio G. Mussini e Vanni Scheiwiller ,pp.585, Coedizione Garzanti-Scheiwiller, Milano.
Bibliografia:
Novati Laura, Giovanni e Vanni Scheiwiller editori. Catalogo storico 1925-1999, Milano, Unicopli, 2013, p.55-56
Mentre lavoro nei miei giorni scarsi,
Mi pare deva echeggiar imminente
Una gran voce chiamando: Clemente!
Per un’umana impresa ch’è da farsi…
E perché temo che risuoni quella
Quando dai miei fratelli io fossi assente,
Monto, senza sostar, di sentinella
Nel cuor disposto a servire la gente. (1926) 1
ELEVAZIONE SPIRITUALE
Come bello, Signor, nel tuo creato!
Ma sol nel cuore sei bellezza amante!
E doni amor onde chi ama è nato
a quella vita che in morir s’espande.
(8 ottobre 1955) 2
CURRICULUM VITAE
Per Te, con Te, in Te, Gesù, ch’io veda
il Padre: e coi fratelli: un cuore solo;
sii Tu, Spirito, l’ultimo respiro.3
POESIA E SANTITÀ
Mentre il creato ascende in Cristo al Padre,
nell’arcana sorte
tutto è doglia del parto:
quanto morir perché la vita nasca!
pur da una Madre sola, che è divina,
alla luce si vien felicemente:
vita che l’amor produce in pianto,
e, se anela, quaggiù è poesia;
ma santità soltanto compie il canto.4
1 C. Rebora, Le poesie, Garzanti, Milano 1994, p. 251.
2 Ibidem, p. 278.
3 Ibidem, p. 307.
4 Ibidem, p. 320.
RENDIMENTO DI GRAZIE
Io benedico il giorno che fui nato;
io benedico il prete e il sacro Fonte,
il giorno e l’ora che fui battezzato.
Io benedico quel casto mattino
quando, gravato già di nove lustri,
mi cibai di Gesù come bambino.
Io benedico il dì che nel mio Duomo
lo Spirito discese a fare tempio
della Sua gloria anche me, pover’uomo.
Benedico quell’invito giocondo
a lasciar tutto per amor di Cristo,
scegliendo l’Ognibene sopra il mondo.
Benedico l’Amore Crocifisso
quando mi elesse a ministrare il Sangue
che al Ciel ci salva dal mortale abisso.
Bene sia sempre a chi quaggiù la voce
del Signor a seguir mi fu d’aiuto,
l’universal carità della Croce.
Per tante grazie e patimenti tanti
l’Amante Trinità sia benedetta:
con Maria, e Giuseppe, e tutti i Santi.5
Sitivit anima mea ad Deum
fortem vivum (Ps. 41, 3)
Inaridita la terra,
protende la bocca:
implacabile il cielo di sopra.
Signore, scenda la pioggia,
che aiuti nei beni del tempo
ad ambir con fiducia gli eterni. –
Ecco cade, nel silenzio, una goccia:
qua, là, crepita l’acqua:
ora scroscia sonora,
su alberi in fiore, patiti,
e zolle in malati germogli:
5 Ibidem, p. 321.
ovunque giunge, s’intende: si estende
la fecondazione gioiosa.
In poco volgere d’ora
l’arido aspetto d’ogni cosa,
il grigio no della morte si sperde
nel sovrano sì della vita
fra trilli d’uccelli e fremiti e fruscii:
fresca appare la quiete del verde:
al Creatore amante tutto s’intona.
O Gesù, aver sete,
anelarti così!
O anima, alla grazia
del Suo amor che si dona,
così, anima, indiata, ringrazia.
(Aprile 1953) 6
Nello Spirito andiam del Precursore
Che prepara le vie del Signore,
E dice: non guardate chi sono io,
Ma guardate a Chi viene, al nostro Dio.
(24 giugno 1930) 7
J.M.J.
– Et iterum venturus est cum gloria…
La Fede, in Agostino, prende piede:
La Speranza, in Tommaso, prende corpo:
La Carità, in Rosmini, prende fuoco:
La Chiesa in essi ascende: e a poco a poco
La Verità – che è Cristo – aggiunge al Corpo
Mistico il cuore di ciascun che crede,
Vincendo il mondo col fraterno affetto,
Nel Sangue di Gesù. Poi sarà detto:
Sia or tutto in tutti Dio benedetto…
(Nel Mese di Maria [maggio], 1947)8
6 Ibidem, p. 418.
7 Ibidem, p. 440.
8 Ibidem, p. 456.
Di Gianluca Giorgio
Tra i poeti del Novecento letterario spicca la figura di Clemente Rebora. Il letterato dopo la conversione, avvenuta nel 1929, scelse di diventare sacerdote e membro dell’Istituto della Carità.
Il suo canzoniere, comprendente più raccolte poetiche, tratta della condizione umana con vibrante partecipazione e calore.
Vissuto sul finire del Mille ed Ottocento ed i primi del Novecento, fu tra i giovani che parteciparono alla Grande Guerra.
Quest’esperienza segnò la vita ed il percorso umano dell’autore nel suo cammino verso Dio. Contrario alla politica interventista, fu chiamato a offrire il proprio contributo, richiamato dalla leva militare.
Il suo ruolo lo spinse ad immolarsi per i suoi soldati ed a viverne le ansie e le tristezze della condizione di vita in trincea. Di questo periodo è la lirica Viatico nella quale fotografa, con immediatezza e penetrazione, il senso di quel dramma, caratterizzato dalla condizione di guerra.
Questa è contenuta fra le poesie sparse e le prose liriche, che raccolgono i contributi del poeta dal 1913 al 1927.
Già il titolo è emblematico indicando il conforto e le cose necessarie all’esistere che, con il dramma della Guerra, sembrano perdersi.
Il ritorno alla vita ed alla speranza nel domani, rappresentano quasi il senso sacro di un sacramento che fa da sfondo ai versi, per il futuro dell’umanità.
La lontananza dalla famiglia, la vita di trincea ed il pericolo che da un momento ad un altro si potesse perdere l’esistere, segnarono quell’esperienza nella vita di molti, come uno dei momenti più bui del secolo scorso.
La poesia, scritta dal poeta, ancora non sacerdote, richiamato alle armi, rievoca l’esperienza del campo di battaglia ed al tempo stesso del dolore che in esso si vive. La bellezza dell’esistere diventa sacra, se spesa per i fratelli e per quell’ideale che prese il cuore di Rebora, tanto ad immedesimarsi nel Cristo sofferente,vivendo il dolore della vita di tanti fratelli, dopo la maturata conversione religiosa.
Ecco la lirica:
O ferito laggiù nel valloncello tanto invocasti se tre compagni interi cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue tronco senza gambe e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti a rantolarci e non ha fine l’ora, affretta l’agonia, tu puoi finire,
e conforto ti sia nella demenza che non sa impazzire, mentre sosta il momento il sonno sul cervello, lasciaci in silenzio
Leggendo l’itinerario poetico di Clemente Rebora (Milano1885-Stresa 1957) si resta ammirati dalla forza di volontà nel seguire Dio.
Nel corso dell’esistenza, il poeta ha sempre cercato nell’Assoluto la risposta ai molti interrogativi sulla propria vita. Vita nascosta ed alle volte incrinata sui binari della sofferenza e del dolore.
Da reduce della Prima Guerra mondiale, alla precarietà del lavoro di professore financo alla sofferenza fisica, il suo cammino non gli ha risparmiato nulla.
Ma accanto a tutto questo brilla chiaro, nel suo animo, il desidero profondo della rinascita e della consacrazione a Qualcuno di più grande ,che può esser solo Dio.
Religioso presso l’Istituto della Carità, nel quale spenderà il proprio quotidiano e sacerdote dal 1936, ha interpretato le parole del vangelo, come segno di speranza, per il mondo, sconvolto da due Guerre mondiali e tanta tristezza.
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Animo delicato e profondamente sensibile alle sofferenze altrui, il Padre celeste e gli ultimi furono il suo mondo, per il quale spese i propri giorni.
In occasione della solennità del Santo Natale, che celebra la nascita del Cristo nel grembo della Vergine Maria, il poeta compose una breve lirica, dedicata a tale evento così importante per la fede.
I versi sono del 1 dicembre 1955 ed appartengono alla raccolta dei Canti dell’infermità, composti tra l’ottobre 1955 ed il dicembre del 1956.
La poesia si intitola “Avvicinandosi il Natale”.
Si noti, nella lettura, il senso del divenire e la potenza di quel fuoco che disgela le coscienze, addormentate, dal trambusto del mondo, che nell’animo del sacerdote lascia il posto alla venuta del Santo di Betlemme, tanto amato e desiderato.
Oh Comunion vera e sol beata,
se con te, Cristo, sono crocifisso
quando nell’Ostia Santa m’inabisso!
Intollerabil vivere del mondo
a bene stare senza l’Ognibene!
Penitenza scansar, che penitenza!
Se ancor quaggiù mi vuoi, un giorno e un giorno,
con la tua Passion che vince il male,
Gesù Signore, dàmmi il tuo Natale
di fuoco interno nell’umano gelo,
tutta una pena in celestiale pace
che fa salva la gente e innamorata
del Cielo se nel cuore pur le parla.
O Croce o Croce o Croce tutta intera,
nel tuo abbraccio a trionfar di Circe,
solo sei buona e bella, e come vera!
Abbraccio della Madre, ove già vince
nel suo Figlio lo strazio che l’avvince.
Di Gianluca Giorgio
Padre Clemente Maria Rebora spirò al mondo il 1 novembre 1957. La sua esistenza di poeta trascorse, feconda ed attraversata da moltissime istanze, che lo portarono dall’ideale laico della bontà a quello divino della santità.
Proveniente da una buona famiglia di tradizioni mazziniane, fin da giovane, sente il richiamo della partecipazione e del farsi fratello fra i fratelli, frutto di un solidarismo laico.
Nel 1910 si laurea in Lettere, discutendo una tesi avente ad oggetto: “Gian Domenico Romagnosi ed il pensiero del Risorgimento”. Relatore è il professor Gioacchino Volpe.
Fu autore di diverse raccolte, tra cui i Frammenti lirici (1913) per le edizioni de la Voce di Giuseppe Prezzolini, i Canti anonimi (1922) ed infine i Canti dell’infermità (1956).
La poesia è stata sempre la sua realtà, nelle pieghe dell’esistere I suo versi sentono il richiamo alla poetica del Leopardi.
Parte degli studiosi sono concordi nel ritenere che i Frammenti lirici abbiano influenzato, anche, autori come Eugenio Montale, per i suoi Ossi di seppia (1925).
Fu professore di italianistica, in diversi Istituti ed amò il mondo dell’insegnamento, con la volontà di donarsi, ai ragazzi, per portarli al desiderio di un mondo migliore.
Ufficiale, durante la Prima guerra mondiale, una non nota “mania dell’eterno”, gli fu diagnosticata, come pensiero dominante, da un medico di Reggio Emilia, dopo aver riportato una ferita da obice, alla tempia, durante il conflitto.
In quei mesi di trincea, il poeta è ricordato per esser stato vicino ai soldati e dedito all’ascolto di ogni sofferenza.
Del periodo successivo è la traduzione di diverse opere della letteratura russa, tutt’ora, ripubblicate. Convertito al Cristo, dal 1929, ascese i sentieri della religione, per varcare quelli della gioia dell’incontro con il Padre.
La sensibilità maturata, tramite un percorso fra la ricerca personale e la cultura furono la base per scendere nel cuore dell’uomo e portarvi la felicità dell’incontro con quella fede, che trasfigura ogni cosa.
Chi conobbe padre Clemente Maria Rebora lo ricorda, dopo la sua entrata nell’Istituto della Carità, come un uomo nuovo, completamente, rinnovato dalla parola del vangelo.
Seguendo il beato Antonio Rosmini, nella nuova famiglia religiosa, scelse di vivere la Carità come anelito e la Provvidenza, come mezzo del suo essere.
“Dalla perfetta Regola ordinato-scrive nel Curriculum vitae– l’ossa slogate trovaron lor posto: scoprì l’intelligenza il primo dono: come luce per l’occhio operò il Verbo, quasi aria al respiro il Suo perdono”.
Fu un religioso devoto e pio: solo la bontà, sempre pronta alle esigenze di coloro che incontrava sul suo cammino.
Il sorriso e l’accoglienza erano il modo di porsi nell’incontro con l’altro.
Fu un autentico padre, donando quanto possedeva, ai tanti, che ne chiedevano l’intercessione o la carità. Si privava di tutto pur di assecondare le molte richieste.
Visse, con altissima partecipazione, la fede, leggendo nei segni del quotidiano, la mano di Dio che guida il cammino, alle volte, difficile dell’esistere.
Condivise un sacerdozio, esemplare e generosissimo, reso vivo dall’esser parte della Passione del Cristo e della Madonna addolorata, venerata nella spiritualità rosminina.
Seguì i giovani, amministrò i Sacramenti, predicò ritiri ed insegnò nelle scuole dell’Istituto della Carità, pur di far regnare il vangelo nella società.
Poche parole, dense di molta interiorità, filtrano dai suoi consigli spirituali, ai fedeli. La conversione gli fece abbandonare il mondo culturale, la musica e la poesia, seppur ripresa poco tempo prima di morire, con diverse liriche religiose, pur di trovare la verità della croce.
Fu un vero apostolo e con la parole e l’esempio, riportò molti cuori alla fede ed alla bontà.
Visse di Dio e per Dio lasciando la terra per il cielo, nella contemplazione dell’Assoluto, cercato ed amato nel corso dei propri giorni.
La vita
Clemente Rebora – il grande poeta innamoratosi di Cristo crocifisso – nasce a Milano, nel 1885, da una laicissima famiglia di origine genovese: il padre, che era stato con Garibaldi a Mentana, tiene il ragazzo lontano dall’esperienza religiosa e lo educa agli ideali mazziniani e progressisti, tanto in voga fra la borghesia ambrosiana del tempo.
Dopo il liceo, il giovane frequenta medicina per un anno a Pavia, ma non è questa la sua strada. Passa a Lettere: l’accademia scientifico letteraria di Milano – presso la quale si laurea – era un ambiente pieno di fervore creativo. Rebora incontra condiscepoli di grande ingegno, con i quali intrattiene appassionanti conversazioni.
Intraprende poi l’attività d’insegnante. La scuola è per lui luogo d’educazione integrale, per formare uomini pronti a cambiare la società; e proprio con articoli di argomento pedagogico comincia a collaborare a “La Voce”, la prestigiosa rivista fiorentina.
Come quaderno de “La Voce” esce nel 1913 la sua opera prima: i Frammenti lirici. Il successo è immediato.
Alla fine di quello stesso anno conosce Lidya Natus, un’artista ebrea russa: nasce fra loro un affetto che li lega fino al 1919.
Allo scoppio della prima guerra mondiale Rebora è sul fronte del Carso: sergente, poi ufficiale. Ferito alla tempia dallo scoppio di un granata, ne rimane segnato soprattutto a livello psicologico (i biografi parlano di «nevrosi da trauma»).
Nell’immediato dopoguerra torna all’insegnamento, optando per le scuole serali, frequentate da operai: da quel popolo semplice che egli, con slancio umanitario, ama.
Si autoimpone un regime di vita molto austero, devolvendo gran parte dello stipendio ai poveri e spesso ospitandoli in casa. Appare a molti come una specie di santo laico, ma in realtà, «l’ignorato Battesimo operando», egli è sempre più affascinato dalla religione. Lo si evince anche dai Canti anonimi: il suo secondo libro di poesia, del 1922.
Nella stessa direzione va la sua iniziativa editoriale: Isedici Libretti di vita attraverso cui divulga opere di mistica occidentale e orientale (e su tali argomenti è anche apprezzato conferenziere).
Sono questi, diversi segnali che preludono all’approdo: la conversione al cattolicesimo, nel 1929. Decisiva è per lui la figura dei cardinal Schuster, da cui riceve il sacramento della Cresima. Rebora adesso capisce che la via alla totalità passa attraverso la sequela di un carisma particolare: nel suo caso è quello rosminiano, con il «voto di annullamento» – perdersi per ritrovarsi -, con la mistica prospettiva di «patire e morire oscuramente scomparendo polverizzato nell’amore di Dio».
Nel Curriculum vitae il poeta, ormai anziano, ricorderà Rosmini come il maestro cui filialmente si era affidato, forma attraverso la quale la novità di Cristo aveva investito e cambiato la sua persona:
E fui dal ciel fidato a quel sapiente
che sommo genio s’annientò nel Cristo
onde Sua virtù tutto innovasse.
Dalla perfetta Regola ordinato,
l’ossa slogate trovaron lor posto:
scoprì l’intelligenza il primo dono:
come luce per l’occhio operò il Verbo,
quasi aria al respiro il Suo perdono.
La vita di Rebora può procedere ormai con passo sicuro: nel 1931 entra come novizio nell’Istituto rosminiano di Domodossola, nel ’33 emette la professione religiosa, nel ’36 è’ ordinato sacerdote. Per un ventennio don Clemente spende le proprie energie in mezzo a poveri, malati, prostitute. Colui che camminando tra le tante parole (magari poetiche) si era imbattuto nel Verbo che si è fatto carne, ora non ha più bisogno di scrivere: la parola fa spazio all’azione di carità. Solo negli ultimi anni di vita, malato nella carne, tornerà alla parola poetica: Curriculum vitae, autobiografia in versi, del 1955; Canti dell’infermità, del 1957, l’anno della morte di Rebora.
L’itinerario poetico
La palestra in cui il giovane Rebora affina il proprio stile poetico è la rivista “La Voce”: egli, assieme a Sbarbaro e Jahier, e a narratori quali Boine e Slataper («gente che – avverte Gianfranco Contini – era abbonata al Cahier de la quinzaine, che sentiva l’esigenza religiosa … »), pensa un’arte come testimonianza nuda, autentica, magari polemica, sempre carica di tensione morale ed esistenziale.
Tra questi autori che «testimoniano in versi il tormento profondo dell’uomo alienato ed esposto all’angoscia delle estreme domande esistenziali, Rebora è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca» (Elio Gioanola).
li suo stile espressionistico consiste nel deformare il segno linguistico, renderlo aggressivo, incandescente, non temendo di mescolare termini aulici e dialettali per ottenere accordi stridenti e disarmonici. «La carica di violenza deformante con cui egli aggredisce il linguaggio – scrive il Mengaldo – mima il caos peccaminoso della realtà rugosa». Gli fa eco il Gioanola: «La poesia di Rebora appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è e agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».
A Mario Apollonio che si chiede se non sia tutta religiosa la poesia di Rebora (anche quella che precede la conversione), si può decisamente rispondere in maniera affermativa: nei frammenti lirici e ancor più nei Canti anonimi il senso religioso si esprime proprio come “sproporzione” che evolve in “domanda” di totalità, mentre gli attimi che scorrono sono come una morsa funerea che aggredisce brandelli di gioia. Nitidamente il poeta lo ricorderà nel Curriculum vitae:
un lutto orlava ogni mio gioire:
l’infinito anelando, udivo intorno
nel traffico e nel chiasso, un dire furbo:
Quando c’è la salute c’è tutto,
e intendevan le guance paffute,
nel girotondo di questo mondo.
Al cuore, strutturalmente fatto per l’infinito, non basta il buon senso, la salute – epidermico colorito sulle guance -; gli è piuttosto necessario il Senso ultimo, la Salvezza.
Al giovane Rebora proprio questo mancava: «ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno :scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo».
Questo gemito, questa grande tristezza è il carattere fondamentale della vita consapevole di sé, che è – come diceva san Tommaso «desiderio di un bene assente». Quel bene, quell’unico oggetto veramente cercato, sfugge all’umana capacità di «presa». Un individuo è allora tentato di aggrapparsi agli idoli, che però dapprima si offrono a un possesso precario, poi scivolano via – beffardi – tra le dita. La creatura resta sola con il suo “grido”, con «una segreta domanda».
E’ il tema della splendida lirica Sacchi a terra per gli occhi:
Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
a una segreta domanda…
Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio!
La ragione è esigenza di spiegazione adeguata e totale dell’esistenza. La risposta c’è: l’intima domanda che urge nel cuore ne è la prova; c’è, ma dimora al di là dell’orizzonte da noi misurabile. La ragione al suo vertice si sporge sul «mistero».
E’ ladinamica de Il pioppodi Rebora (come già de Il libro di Pascoli, dal quale il poeta rnilanese riprende la tripletta di rime: «pensiero-mistero-vero”):
Vibra nel vento con tutte le sue foglie
il pioppo severo;
spasima l’aria in tutte le sue doglie
nell’ansia del pensiero:
dal tronco in rami per fronde si esprime
tutte al ciel tese con raccolte cime:
fermo rimane il tronco del mistero,
e il tronco s’inabissa ov’è più vero.
Tutto il reale è segno che rimanda ad altro, oltre sé, più in là; tutto è “analogia” che chiede di “tendere a”, ovvero di “ad-tendere”. Se l’allodola era, in Claudel come in Pascoli, aereo simbolo dell’uomo che ha riconosciuto Dio e spende la vita per lodarlo, nel giovane Rebora è invece l’emblema del poeta: teso al cielo per il quale è fatto, ma legato alla terra, egli canta l’elegia dello schiavo consapevole, inchiodato alla missione di richiamare i fratelli (apparentemente) liberi a prender coscienza della propria condizione. Ogni slancio verso il cielo della felicità pare destinato a ricadere dolorosamente al suolo:
O allodola, a un tenue filoavvinta,
schiavo richiamo delle libere in volo,
come in un trillo fai per incielarti
strappata al suolo agiti invano l’ali.
Egli resta “spatriato quaggiù, Lassù escluso».
Eloquente questa confessione, nell’ultimo dei Frammenti lirici:
Il mio canto è un sentimento
che dal giorno affaticato
le ore notturne stanca:
e domandava la vita.
Questa «domanda di vita» attraversa da un capo all’altro l’opera prima: frammenti gremiti di una domanda di totalità.
In Dall’intensa nuvolaglia il poeta proietta in un evento esterno – il ternporale – l’incombenza minacciosa che intimamente lo pervade. Coscienza del male e domanda di Bene: in 0 pioggia dei cieli distrutti «un’ansia continua di superamento, una richiesta di assoluto muove anche dai più comuni spettacoli, come quello della pioggia» (G. Bàrberi Squarotti). In 0 carro vuoto sul binario morto il dato realistico viene «trasformato in inquietante simbolo di un condizionamento senza scampo – il binario che costringe ad una rotta vincolata – e di ansia per il libero spazio»: è il contrasto esistenziale «tra prigionia dell’hic et nunc e volontà di assoluto» (E. Gioanola).
Nel secondo libro di Rebora, i Canti anonimi, «si accentua la sua tendenza – come dice ancora l’ottimo Gioanola – a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto».
Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.
Universalmente riconosciuta come il capolavoro di Rebora, Dall’immagine tesasta sulla soglia della conversione: scritta nel 1920 e posta in chiusura dei Canti anonimi, questa lirica sigilla la produzione “laica” del Nostro. Poesia dell’attesa, o meglio dell”‘Atteso”, è reputata da Margherita Marchione «la lirica italiana più religiosa e vibrante del nostro tempo»; e Stefano Jacomuzzi la definisce «uno dei più alti canti religiosi dell’arte contemporanea».
Strutturalmente è divisa in due parti di tredici versi ciascuna. Nella prima, costruita su una fitta serie di affermazioni e negazioni, il corpo è teso a vigilare l’istante, all’erta come sentinella (o come le vergini prudenti: imminente è l’arrivo dello Sposo). «Nell’ornbra accesa» (ardito ossimoro), nel buio dell’incertezza in cui scintilla l’attesa, il poeta spia quel silenzio gremito d’impercettibili suoni, profumati e leggeri come polline (splendida la sinestesia: «polline di suono»!). Lo spazio, nell’immobilità sospesa e colma di stupore, pare dilatarsi all’infinito. In esso il poeta, che tre volte ribadisce «non aspetto nessuno», pre-sente di essere sull’orlo di una rivelazione. L’«immagine tesa» dell’incipit – spiegherà Rebora ormai vecchio – è «la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae».
La seconda parte della lirica, aperta dall’avversativa «Ma», afferma perentoriamente che l’Ospite atteso «verrà» (sei volte ricorre l’anafora). Fragile è la mia capacità di vigilanza, sempre minacciata dalla distrazione – dice il poeta – ma, «se resisto» nell’attesa, non potrò non assistere al Suo impercettibile «sbocciare» (dunque era Lui – l’Ospite – a spandere «un polline di suono»). La Sua venuta sarà un avvenimento «improvviso», imprevisto (qui come già in Péguy); e porterà il “per-dono”, il grande dono della vittoria sul peccato e sulla morte (qui la concezione è già pienamente cristiana, sebbene la conversione accadrà solo nove anni dopo). Verrà come certezza che c’è un «tesoro», per acquistare il quale vale la pena vendere tutto; dolori e pene permarranno, ma abbracciati da un «ristoro» umanamente impensabile. «Verrà, forse già viene»: «La Presenza è alle soglie e chiede un totale tremante silenzio perché possa essere udito il suo discreto “bisbiglio”» (Jacomuzzi). Testirnoniando la propria fede a Eugenio Montale, Rebora – negli ultimi anni di vita – tornerà su quel bisbiglio: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».
Curriculum vitae
In quest’opera il poeta, ormai vecchio e malato, ripercorre la propria vicenda esistenziale, a partire dagli anni della giovinezza, quando «sola, raminga e povera /un’anima vagava». Ogni “idolo” illudeva e puntualmente deludeva. «Immaginando m’esaltavo in fama /di musico e poeta e grande saggio: /e quale scoramento seguitava!». La cultura cresceva in quantità, non in profondità: «Saggezza da ogni stirpe affastellavo /a eluder la sapienza». Un’esistenza mondana era «civil asfissia». Finché si piegò alla Grazia.
Come nella mistica classica, l’incontro con l’Agnus Dei accade al culmine di una lunga salita, dopo aver attraversato la notte oscura dello smarrimento, quando egli si era visto schiacciato da nebbia e caligine, quando aveva provato terrore, disperazione e angoscia. A salvarlo dallo smarrimento era stato dapprima un richiamo, un indizio: un fievole belato. Poi tutto si fa chiaro, e la strada è finalmente in discesa: gli è dato di baciare la tenerezza di Dio, di sostare nella «dimora buona», di camminare lieto, «ri-cordando» – portando nel cuore – Colui che è venuto attraverso Maria.
Alla critica laicista non è piaciuto questo Rebora novissimo, questa poesia che si fa inno, officiatura, parola paraliturgica. Giovanni Getto trova inveceche proprio adesso questa lirica «si insapora d’un gusto pungente»: il senso e il gusto riconosciuto in «Gesù il Fedele, /il solo punto fermo nel moto dei tempi». Centro del cosmo e della storia.
Da Roberto Filippetti _ IL PER-CORSO E I PERCORSI – Schede di revisione di letteratura italiana ed europea volume terzo “Da metà Ottocento al 2000” – Ed. ITACA
Descrizione del libro di Elli Stern -IL SUONO ROSSO-Ambientato tra Praga e la campagna toscana, Il suono rosso racconta l’incontro denso di conseguenze tra Daniel Wien, un giovane violoncellista in crisi, e il celebre maestro Aron Feuerlicht, sparito dai palcoscenici internazionali dopo essere sopravvissuto alla Shoah suonando nell’orchestra di Auschwitz. Sullo sfondo un’avvincente storia d’amore, alcune memorabili lezioni di musica, l’irresistibile mondo dell’opera e il sorprendente potere del passaggio della memoria tra le generazioni.
Un racconto sconvolgente: la memoria, la riscoperta del passato. Elli Stern, scrittrice e traduttrice, unisce la verve narrativa all’ambientazione musicale: il suo romanzo Il suono rosso offre uno spaccato sul mondo musicale passato e presente, fra drammi storici e vicende personali, culminando in una rievocazione del destino dei musicisti nei campi di concentramento nazisti che non può lasciare indifferenti.
Elli Stern.Nata in Israele nel 1973, alla tenera età di tre mesi mi sono trasferita a Milano, crescendo felicemente all’ombra del Teatro alla Scala.Dopo gli studi di filosofia alla Statale, dove mi sono laureata in filosofia teoretica con una tesi sul Demoniaco nei Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach, sono andata a Berlino per imparare il tedesco, la lingua segreta che i miei genitori parlavano quando non volevano che li capissi.A Berlino ho trascorso un lungo periodo di formazione alla Staatsoper, scrivendo testi per i programmi di sala e collaborando alle produzioni come coach di italiano e volenterosa assistente degli assistenti alla regia.Ho poi diretto per dieci anni l’ufficio stampa ed edizioni di Ferrara Musica avendo spesso occasione di collaborare con Claudio Abbado, sotto la cui supervisione ho creato, insieme ad Alberica Archinto, un video per Euroarts dedicato al Pelleas und Melisande di Schönberg.Da molti anni lavoro come traduttrice dall’inglese, dal francese e dal tedesco, collaborando in particolare con il Saggiatore alla traduzione di testi di argomento musicale, tra cui l’epistolario della famiglia Mozart.Nel 2021 le edizioni Zecchini hanno pubblicato il mio primo romanzo, Il suono rosso.Vivo a Londra insieme al compositore Nimrod Borenstein e a nostra figlia Alma.
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-Claribel Alegrìa poetessa e scrittrice nicaraguense-
Claribel Isabel Alegría Vides, nota semplicemente come Claribel Alegría (12 maggio 1924 – 25 gennaio 2018), era una poetessa, giornalista e scrittrice nicaraguense autrice anche di alcuni saggi, considerata con la connazionale Gioconda Belli la maggiore esponente della letteratura del Centro America. Nata a Estelí, una piccola città del Nicaragua, crebbe tuttavia a Santa Ana, nel Salvador. Nel 1943 si trasferì negli Stati Uniti per studiare e nel 1948 ricevette il B.A. (Bachelor of Arts), cioè la laurea, in Filosofia e Letteratura alla prestigiosa George Washington University di Washington.Tornata in patria, legandosi al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, d’ispirazione marxista, fu coinvolta nelle proteste nonviolente contro la dittatura del Presidente Anastasio Somoza Debayle. Nel 1979 Somoza cadde e il Fronte prese il potere in Nicaragua, ma Alegría, che nel frattempo aveva iniziato la propria carriera di poetessa, scrittrice, giornalista e saggista, decise di tornarvi solo nel 1985. Attualmente viveva nella capitale Managua. Scrittrice popolare in tutta l’America Latina, riflette uno stile che, a differenza di molti autori americani o europei, non è ripiegato su una lunga tradizione letteraria. Identificata come un’autrice della generación comprometida, poetessa severa e critica, a volte pessimista, in un classico umore mutevole come mutevole è la situazione politica del Centro America, Claribel Alegría usava nelle sue poesie il linguaggio comune, del popolo, e spesso una sua composizione non supera la decina di versi. Ha scritto anche romanzi, racconti e storie per bambini. Nel 1978 ha ricevuto a Cuba il Premio “Casa de las Américas”, il più prestigioso riconoscimento letterario del Centro America, e il “Neustadt International”.
Cuando me mates / muerte / tu te habiás evaporado / para siempre / yo / saltaré sobre mi cuerpo / y seguiré viviendo” (Quando mi ucciderai / morte / tu evaporerai / per sempre / io /
salterò sul mio corpo / e continuerò a vivere“
Quel bacio
Quel bacio di ieri mi ha
aperto la porta
e tutti i ricordi
che credevo fossero fantasmi
si sono ostinati
a mordermi.
La voce del ruscello
Torno verso il mare
è lì che nacqui
mi accolse una roccia
quando saltai sulla terra.
Scendo piano
mi trattengo nel muschio
tra i fiori selvatici
scendo a cercare il fiume
che mi riporti al mare.
Il mio vicino
il torrente
non sa che io esisto
brama
salta
riempie canali
scoppia
anche lui cerca il fiume
dissolversi nel fiume
che mi riporti al mare
perché il mare ci aspetta
perché il mare è la culla
perché siamo il mare.
Io sono un gabbiano
Sono un gabbiano
solitario
con l’ala spezzata
faccio un solco nella sabbia.
Inconfondibile
è la voce
che mi insegue
che non si scolla da me
che tesse insonnie.
Come la pioggia
cade
come il vento
solo questa voce ascolto
mi possiede
lascia cadere avanzi di pane
e fugge via.
(da ‘Voci‘, Samuele Editore, 2015 – Traduzione di Zingonia Zingone)
Claribel Alegría
Cos’è poesia?Ce lo ricorda Claribel Alegría
Di: Mattia Cavadini
Capita a volte, invero raramente, di imbattersi in una successione di frasi o versi di una bellezza e potenza inaudite. Penso ad alcune poesie di Rilke, qualche verso del Montale di Xenia, alcune figurazioni dantesche, brevi illuminazioni rimbaudiane, l’incanto di Wordsworth o i sassolini naif che Walser lascia cadere nel suo camminare in prosa.
Questo catalogo è inviolabile, emana una luce abbacinante, e non sopporta volgarizzazioni. In esso entrano pochi nomi, per cui quando capita di imbattersi in nuovi cristalli verbali che possano essere annoverati nel catalogo, ecco che si sobbalza sulla sedia, si freme, si sorride e si piange di commozione. È quanto mi è successo ultimamente, leggendo la prima parte del poema Amore senza fine (edizioni Fili d’Aquilone) di Claribel Alegría, poetessa nicarguense di cui ignoravo l’esistenza.
E allora mi sono domandato: come è possibile che determinati autori riescano a generare cristalli verbali così potenti? La sensazione è che questi momenti poetici non appartengano a colui o colei che li ha generati. Essi sembrano piuttosto superare non solo l’autore ma anche la realtà in cui sono nati. Sono, questi cristalli, l’indizio di ciò che può essere fatto senza che l’autore possa rivendicarne il dominio o la paternità. Ma allora, se non è l’autore che parla in questi momenti ieratici, chi sta parlando? Leggendo la sezione La soglia del poema di Claribel Alegría ho avuto la sensazione (come per gli altri cristalli verbali) che i suoi versi custodissero il fiato di una bocca ignota, fossero il riflesso immateriale in cui si specchiano i segreti del mondo.
n questi cristalli verbali si ha la sensazione che lo scrittore non scriva, ma che sia scritto. O meglio, che scriva parole ricevute, parole che provengono da un altro. Non a caso Rimbaud diceva: C’est faux de dire: Je pense; on devrait dire: On me pense. Stessa cosa ribadiva Jung a proposito del pensiero primitivo: La mentalità primitiva si distingue da quella civilizzata soprattutto per il fatto che non si pensa “coscientemente”, ma i pensieri semplicemente “affiorano”. Il primitivo non può dire che pensa, bensì che “in lui si pensa”.
Purtroppo nel mondo odierno questo tipo di scrittura non esiste più. Gli scrittori oggi sembrano poco disposti a farsi da parte e a lasciare che sia l’altro a scrivere al proprio posto. Eppure, come suggeriva Barthes, scrivereimplica necessariamente tacere: scrivere è in un certo modo “farsi muto come un morto”, diventare uno cui non è consentita l’ultima replica; scrivere è dal primo momento offrire all’altro quest’ultima replica. In altre parole: solo facendo olocausto di sé e delle cose stabilite, lo scrittore può servire una realtà sconosciuta ed invisibile (rovina di ciò che egli conosce e meraviglia di ciò che ignora). Solo cercando ciò che si perde, ciò che è al di là dei propri confini, è possibile essere messaggeri dell’infinito.
Perdendosi, il poeta si scopre radunatore di miti, eco dello spirto. Dante lo sapeva bene, quando invocava: entra nel petto mio, e spira tue o quando ribadiva: Amor che ditta dentro. Stessa cosa diceva Platone, allorché affermava che per bocca dei poeti, privati del senno e della volontà, parlava la divintà. Peccato che tale scrittura sia andata scomparendo e grazie a Claribel Alegría per avermi ricordato ciò che è Poesia: la trascrizione di cristalli verbali ricevuti dal cielo, e, in assenza di questi messaggi, il silenzio.
Claribel Alegría- La poesia è puro amore
Di: Gianni Beretta
Resisterà la poesia in un mondo caotico, sempre più razionale e virtuale, piegato al dio denaro? Per Claribel Alegría, tra i magigiori poeti latinoamericani, assolutamente sì. Per lei, che ci ha lasciti il 25 gennaio 2018, la poesia era qualcosa di antecedente il linguaggio: da quando esiste l’homo sapiens, quando una mamma coccola e canta per il suo bambino, fa poesia; la poesia è nel profondo dell’essere umano, che scriva o no. Il 14 novembre 2017 Claribel ha ricevuto dalle mani della regina emerita Sofia di Spagna la massima onorificenza per la Poesia Iberoamericana 2017 (l’equivalente del Miguel de Cervantes per la letteratura), onorificenza attribuitale dalla prestigiosa Università di Salamanca (che in passato aveva insignito poeti del calibro di Álvaro Mutis, Juan Gelman e María Victoria Atencia).
Nata il 12 maggio 1924 in Nicaragua, da madre salvadoregna e padre nicaraguense, Claribel Alegría trascorre la sua infanzia e adolescenza in El Salvador. Per poi andare a studiare lettere e filosofia alla George Washington University.
Claribel Alegría incomincia a scrivere poesie molto presto, a 14 anni, ispirata dalla lettura di un grande vate: il ceco Rainer Maria Rilke. E il suo primo maestro (severo e rigoroso, dice di lui con gratitudine) è il poeta spagnolo e nobel per la letteratura Juan Ramon Jimenez.
La sua è una poetica eminentemente lirica, in un istmo centroamericano fecondo in quanto a narrativa e poesia, avendo dato i natali a grandi letterati come Rubén Darío (in Nicaragua), Miguel Ángel Asturias (in Guatemala) e Roque Dalton (in El Salvador).
Claribel fin dall’inizio pone al centro della sua opera l’amore, nelle sue diverse manifestazioni, a immagine del suo profondo amore verso la vita intera. La sua poesia non si arresta, infatti, di fronte al negativo ma si dispone con lo stesso amore e con la stessa partecipazione sia alla gioia che al dolore, sia alla nascita che al tramonto, sia alla presenza che all’assenza.
La Rivoluzione Cubana del 1959 le apre gli occhi sulla realtà sociale dei paesi centroamericani, allora oppressi sotto il giogo di dittature oligarchico-militari. La forza della rivoluzione le dimostra che la cogenza storica e sociale (che a prima vista potrebbe sembrare ineluttabile e priva di futuro) può essere cambiata. Cominciai a scrivere oltre il mio ombelico, afferma Claribel, che ciononostante preferisce tenersi alla larga dal poema politico e di denuncia (e, più in generale, dalla letteratura impegnata): la poesiaè scrivere e riscrivere al meglio un poema;non deve fare compromessi né essere al servizio di nessuno. E, a coloro che ritengono che i suoi sarebbero talvolta versi politici, risponde: la mia poesia è puro amore verso la mia gente.
Claribel ha scritto pure diverse novelle insieme al suo compagno di vita: Darwin Flakoll, detto Bud, suo coetaneo, determinante nella sua opera e ispirazione poetica. Insieme hanno vissuto a Città del Messico, Santiago del Cile, Buenos Aires, Montevideo e Parigi. Per poi ritirarsi a Mayorca, a fianco dell’abitazione dello scrittore Robert Graves.
Julio Cortázar, Mario Benedetti, Eduardo Galeano, Vargas Llosa, Carlos Fuentes fra gli altri, erano di casa da loro nell’isola. Così come erano altrettanto di casa a Managua quando Claribel e Bud si trasferirono definitivamente in Nicaragua nel 1982, in piena Rivoluzione Popolare Sandinista.
Con Bud (scomparso nel 1995) aveva un rapporto che, se possibile, veniva prima dei sentimenti che nutrivano verso i loro quattro figli. Mi chiedono spesso, afferma Claribel, quale sia il segreto per un amore duraturo. Rispondo che oltre all’amore ci deve essere una grande amicizia. Senza amicizia l’amore appassisce. Per Claribel Alegría dunque l’amore “eterno” esiste, e lei ha avuto il privilegio di viverlo.
La parola è un’ossessione per Claribel, che considera la poesia un esercizio ben più arduo della prosa: ho passato notti insonni per trovare la parola giusta di un verso. Claribel Alegría ha pubblicato una ventina di libri di poesie, fra cui: Variaciones en clave de mí, Sobrevivo, Umbrales, Saudade, Soltando amarras… In italiano sono stati tradotti Alterità (Incontri Editrice 2012) e Voci (Samuele Editore 2015), oltre alla novella Ceneri d’Izalco (Incontri Editrice 2011) scritta nel 1966 con il marito Darwin Flakoll. E il poemaAmore senza finededicato al suo Bud: sessantuno pagine fitte di versi dove Claribel compie un dolce e misterioso viaggio nell’aldilà, un viaggio che supera il tempo e la morte.
Un mito greco, nella Mitologia, attribuisce ad Atena la creazione del primo Olivo che sorse nell’Acropoli a protezione della città di Atene.
La leggenda racconta che Poseidone ed Atena, disputandosi la sovranità dell’Attica, si sfidarono a chi avesse offerto il più bel dono al Popolo. Poseidone, colpendo con il suo tridente il suolo, fece sorgere il cavallo più potente e rapido, in grado di vincere tutte le battaglie ; Atena, colpendo la roccia con la sua lancia , fece nascere dalla terra il primo albero di Olivo per illuminare la notte, per medicare le ferite e per offrire nutrimento alla popolazione.
Zeus scelse l’invenzione più pacifica ed Atena divenne Dea di Atene. Un figlio di Poseidone cercò di sradicare l’albero creato da Atena, ma non vi riuscì, anzi si ferì nel commettere il gesto sacrilego e morì. Al British Museum di Londra si può ammirare una scultura del frontone occidentale del Partenone, dove l’artista Fidia ha rappresentato questo episodio mitologico. Secondo una leggenda riferita da Plinio e da Cicerone, sembrerebbe che sia stato Aristeno lo scopritore dell’Olivo e l’inventore del modo di estrarre l’olio all’Epoca fenicia. Lo stesso Plinio, invece, su altri suoi scritti, parlando dell’Italia, racconta che l’Olivo fu introdotto da Tarquinio Prisco quinto Re di Roma, questa ipotesi è la più verosimile visto che le più antiche tracce archeologiche finora raccolte sull’olivicoltura in Etruria risalirebbero al VII sec. a.C., descrivendo ben 15 metodi di coltivazione di questa pianta, che, ai suoi tempi, rappresentava già la base di importanti attività economiche e commerciali. L’olivicoltura era molto diffusa al tempo di Omero; l’Iliade e l’Odissea narrano spesso dell’Olivo e del suo Olio. A Roma l’Olivo era dedicato a Minerva e a Giove. I Romani, pur nella loro praticità di considerare l’Olio d’Oliva come merce da esigere dai vinti, da commerciare, da consumare, mutuarono dai Greci alcuni aspetti simbolici dell’olivo. Onoravano i Cittadini illustri con corone di fronde di Olivo; così pure gli sposi il giorno delle nozze e della loro prima notte nunziale; ed infine i morti venivano inghirlandati per significare di essere dei vincitori nelle lotte della vita umana. Nell’area islamica molte leggende fanno riferimento all’Olivo e al suo prodotto; tra le tante storie si vuole ricordare quella di Alì Babà ed i suoi 40 ladroni nascosti negli otri che dovevano contenere Olio di Oliva.
Il quadro allegato rappresenta Dispute de Minerve et de Neptune, (1748)-Louvre,Parigi-
“… e Atena ottenne di governare sull’Attica, poiché aveva fatto a quella terra il dono migliore, quello dell’ulivo……”
Sinossi del libro di Karl Marx e Friedrich Engels -Scritti sull’arte-Marx conosceva a memoria Heine e Goethe, leggeva Eschilo nel testo originale greco e aveva per Shakespeare un’illimitata venerazione. Talvolta si sdraiava sul divano e leggeva un romanzo, talvolta ne leggeva due o tre contemporaneamente, alternandone la lettura. Dimostrava una spiccata predilezione per i racconti umoristici e d’avventura. Al primo posto fra tutti i romanzieri poneva Cervantes e Balzac. Don Chisciotte era per lui l’epopea della cavalleria morente, le cui virtù diventavano ridicole e pazzesche nel mondo borghese nascente.. La sua ammirazione per Balzac era così profonda che avrebbe voluto scrivere una critica della sua grande opera La comédie humaine. Marx era insomma un grande amante della cultura e dell’arte e sono numerosi, per quanto sparsi, gli scritti che egli, con Engels, ha dedicato alla riflessione sul teatro, sulla pittura, sulla letteratura. Le loro osservazioni sull’arte, raccolte in questa antologia, rovesciano le convinzioni consolidate nei secoli e offrono visuali ancora oggi di estrema attualità, in quanto delineano un superamento di quelle visioni idealistiche che non tengono conto della fattualità e dell’oggettualità della creazione e della fruizione artistica. Infatti, come “la produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale”, come “la produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto”, così per l’arte “l’oggetto artistico crea un pubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico”. L’opera qui presentata è di estremo interesse non solo per gli appassionati del pensiero marxiano ed engelsiano, ma per gli studiosi di arte e di estetica.
Karl Marx (1818-1883)è stato uno degli ultimi geni enciclopedici dell’età moderna. Dopo la formazione filosofica e politica negli ambienti della Sinistra hegeliana, Marx inizia nel 1844 a Parigi lo studio critico dell’economia politica che, parallelamente all’impegno politico per la costituzione e l’organizzazione del movimento internazionale dei lavoratori, lo impegnerà per il resto della sua vita.
Friedrich Engels (Barmen 1820 – Londra 1895), filosofo e politico tedesco. A partire dal 1844 ha collaborato con Karl Marx iniziando uno stretto sodalizio che li condurrà a scrivere il Manifesto del partito comunista (1848).
Casa Editrice PGreco-Nata a Milano nel 2008 da alcuni appassionati bibliofili, PGreco ha voluto recuperare e riproporre i grandi classici della storia e delle idee che l’hanno attraversata, con un occhio di riguardo a tutti quei testi provocatori e intelligenti – di ancora estrema attualità – ma, inspiegabilmente, fuori commercio. Dal 2018 inoltre, PGreco sta rinnovando il suo catalogo con novità di forte impegno politico; dando voce, ancora una volta, alle ragioni meno ascoltate.
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TEATRO-Rosmersholm di Henrik Ibsen , tradotto anche come La fattoria Rosmer, La casa dei Rosmer o Villa Rosmer, è un dramma in quattro atti dello scrittore e drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, andato in scena in prima mondiale a Bergen nel 1887.
Come suggerisce il protagonista Rosmer, i temi principali del dramma sono i cambiamenti politici e sociali che hanno fatto in modo che la classe dominante non riuscisse più ad imporre il proprio sistema ideologico al resto della popolazione: la libertà di pensiero e d’azione dei personaggi non è più basata sul cristianesimo, né su un codice etico di matrice cristiana, ma affidata interamente all’individuo.
Il ricordo ossessivo del passato e l’incapacità di andare oltre perché zavorrati dalla memoria sono allegorizzati nella pièce dal cavallo fantasma che si dice infesti la tenuta di Rosmersholm; pochi anni prima Ibsen sviluppò la metafora del ricordo come fantasma nel suo dramma Spettri (1881).
Trama
Un anno dopo il suicidio della moglie Beata, Johannes Rosmer ha lasciato che un’amica della moglie, Rebecca West, si trasferisse nella casa di famiglia, Rosmersholm. I due sono chiaramente innamorati, anche se Rosmer nega i suoi sentimenti e afferma che la relazione tra loro deve restare strettamente platonica. Rosmer, un ex pastore protestante, è un rispettato membro della comunità e in quanto tale vuole sostenere il nuovo governo e la sua agenda riformista e quasi rivoluzionaria.
Tuttavia, il suo ex cognato e amico Kroll non è d’accordo e sostiene che Rosmer dovrebbe restare fedele alle sue radici aristocratiche. Indispettito, Kroll confronta Rosmer sulla sua relazione con Rebecca e sparge la voce che i due siano amanti; il rimorso comincia a tormentare Rosmer che si convince che sia stato lui e non la malattia mentale della moglie a spingerla al suicidio. Prova a cancellare il ricordo di Beata chiedendo a Rebecca di sposarlo, ma la donna inaspettatamente rifiuta.
Kroll accusa Rebecca di avere indottrinato Rosmer con le sue idee politiche radicali e la donna confessa di essere stata lei a spingere Beata al suicidio inizialmente per incrementare il proprio ascendente su Rosmer, ma poi perché si era innamorata dell’uomo. È il senso di colpa per la morte di Beata che l’ha spinta a rifiutare la proposta di Rosmer.
Né Rebecca né Rosmer riescono a liberarsi dal rimorso e dal senso di colpa. Rebecca è tormentata anche dal ricordo di essere andata a letto con il suo padre adottivo, che lei sospetta essere stato anche il suo padre biologico; Kroll conferma i suoi sospetti. Incapaci di fidarsi l’uno dell’altro ma anche di loro stessi, Rosmer e Rebecca riconoscono di non riuscire ad andare avanti con le loro vite.
Rosmer allora chiede a Rebecca di uccidersi come Beata, gettandosi nella gora del mulino di Rosmersholm, e la donna accetta senza esitare e comincia a dare istruzioni su come recuperare il suo cadavere dopo il suicidio. Ma Rosmer la interrompe perché ha intenzione di suicidarsi con lei: l’uomo è ancora innamorato di Rebecca e anche se sa di non poter vivere con lei, non ha intenzione di esistere in un mondo senza l’amata.
I due muoiono insieme nella gora del mulino e al loro suicidio assiste la governante, la signora Helseth, che in preda al terrore crede che la coppia è stata presa dalla “donna morta”, lo spettro di Beata che crede aleggiare su Rosmersholm.
Scritto nel 1886, “Rosmersholm” conobbe il successo in Italia il 4 dicembre del 1905 al Teatro Verdi di Trieste grazie alla magistrale interpretazione di Eleonora Duse. Ibsen ci consegna un testo apparentemente semplice sul piano della comprensione, poiché trattandosi di teatro di parola, tutto ciò che è scritto (in questo caso) risulta essere abbastanza chiaro; ma il vero senso della pièce in realtà sta là, in quello spazio vuoto che vi è tra una parola e l’altra. Un testo coinvolgente, penetrante, dove nulla è lasciato al caso, dove ogni qualvolta pare si stia per giungere ad un punto decisivo, ecco che tutto cambia. Ibsen affronta infatti il concetto di cambiamento sotto ogni aspetto; politico, spirituale, religioso, contrapponendolo a quella stasi tradizionale a cui gran parte della società dell’epoca resta aggrappata.
Altra tematica principale della storia è la morbosa ricerca della felicità, quella felicità a cui tutti i personaggi della pièce – chi più chi meno – aspirano e che a Rosmersholm (Casa Rosmer) il tempio dell’ordine, della disciplina e del buon senso, non esiste, poiché Rosmersholm – della suddetta felicità – ne è la tomba. Una casa vuota, scarna, lineare, proprio come la vita che vi si conduce all’interno, dove è impossibile camminare su un terreno retto, giacché il continuo mutamento degli eventi rende tutto decisamente instabile.
“Rosmersholm” è uno dei capolavori di Ibsen e da stasera – spiega in una nota il regista Valerio Santi – torna in scena dopo tanti e forse anche troppi anni di lontananza dal palcoscenico. Le ultime notizie testimoniabili di produzioni italiane risalgono al 1906 con Eleonora Duse, dunque dovremmo essere i secondi forse, o comunque tra i pochi ad avere non la presunzione, ma bensì il coraggio di mettere in scena un lavoro così. Uno spettacolo unico, dove è possibile respirare del vero teatro, fatto di classe, di eleganza, di cultura e di energia giovane, quello che manca quasi a tutte le realtà teatrali che ci circondano. Bisogna svecchiare il teatro italiano, e soprattutto fornire al pubblico un’alternativa al teatro di massa, noi alziamo la mano e diciamo con orgoglio: scusate signori, ci siamo anche noi!”.
È considerato il padre della drammaturgia moderna, per aver portato nel teatro la dimensione più intima della borghesiaottocentesca, mettendone a nudo le contraddizioni.
Henrik Johan Ibsen nacque a Skien, cittadina della Norvegia sudorientale, nel 1828, da una famiglia di discendenza danese e tedesca. Il padre, Knud Plesner Ibsen, era un ricco armatore, e la madre, Marichen Cornelia Martine Altenburg, era figlia di uno degli uomini più facoltosi di Skien, proprietario, tra le altre cose, di una grande casa in città, di una distilleria a Lundetangen e di una fattoria in campagna. Le sue due navi erano impegnate nel commercio di legname.[1] I suoi beni passarono alla vedova e quindi a Marichen, quando quest’ultima sposò Knud, il 1º dicembre 1825. Con il matrimonio, come volevano le leggi vigenti, tutto divenne proprietà del marito.[2]
Henrik era il figlio cadetto, anche se il primogenito Johan, di due anni più grande, morì il 14 aprile 1828. Gli Ibsen ebbero altri quattro figli: nel 1830 nacque Johan Andreas, nel 1832 l’unica femmina Hedvig Kathrine, nel 1834 Nicolai Alexander e nel 1835 Ole Paus. Nonostante il padre avesse rapidamente fatto fortuna con il suo multiforme commercio, tanto da figurare, nel 1833, come sedicesimo contribuente di Skien, subì un rovescio finanziario ancor più repentino. Ridotto in povertà, attorno al giugno 1835 si trasferì con la famiglia a Venstøp, piccolo villaggio a quattro chilometri di distanza, in una fattoria che aveva acquistato due anni prima. Knud, dopo il trasferimento, provò a salvare la disastrosa situazione finanziaria con modesti commerci, destinati, negli anni successivi, a fallire anch’essi.[3]
Henrik era un bambino solitario e molto introverso, che rifuggiva la compagnia dei coetanei. Era solito rinchiudersi in una stanza della fattoria per leggere, improvvisare spettacoli con il suo teatro giocattolo, disegnare e dipingere (la pittura fu sin dalla tenera età l’altra grande passione di Ibsen). Con il suo atteggiamento, si esponeva alle prese in giro degli altri bambini, che lanciavano palle di neve e pietre contro la sua stanza, finché Ibsen usciva a cacciarli in malo modo.[4] Molti anni più tardi Thalie Kathrine Ording, coetanea del drammaturgo e sua vicina di casa a Venstøp, ritrasse il ragazzino Henrik come «sgradevole» e «veramente odioso. Malevolo e crudele. Era anche solito picchiarci. Quando crebbe divenne di aspetto molto gradevole, ma non piaceva a nessuno per la sua cattiveria. Nessuno voleva stare con lui, che se ne stava sempre per conto proprio».[5]
La tenuta di Venstøp
Ibsen frequentò una scuola elementare della sua città natale, percorrendo quotidianamente a piedi i chilometri che la separavano dalla fattoria di Venstøp. Maturò un precoce interesse per la medicina, ma al termine delle elementari, anziché iscriversi (forse per mancanza di disponibilità economica) all’istituto che avrebbe assecondato questo proposito avviandolo verso studi universitari, seguì per un paio d’anni una scuola privata, retta da due giovani teologi, John Hansen e W.F. Stockfleth. Lì studiò il latino e il tedesco, dimostrando particolare interesse per la storia antica e gli studi biblici.[6]
Nel 1843 la famiglia fece ritorno a Skien, ma già nel dicembre, in seguito al dichiarato fallimento dell’attività del padre, che era nel frattempo diventato un commerciante in legname, Ibsen dovette abbandonare gli studi e, per sostenere la famiglia, recarsi a Grimstad – località che a quel tempo «non aveva più di 800 abitanti»[7] -, dove lavorò fino al 1850 come assistente nella farmacia di Jens Arup Reimann. Questi viveva con la famiglia nello stesso edificio della farmacia, dove anche Ibsen fu alloggiato. Henrik dovette condividere la stanza con i tre figli più grandi dei Reimann maturando, nella continua, forzata convivenza con altre persone, un bisogno di solitudine e di spazi che lo caratterizzò poi sempre fortemente.[8]
La farmacia dei Reimann a Grimstad. Ibsen abitò in questo edificio dal 1843 al 1847
Come rivela una lettera del 20 maggio 1844 all’amico Poul Lieungh, Ibsen si trovava bene presso i Reimann: «sono molto contento e non mi sono mai pentito di essere venuto qui, perché Reimann è molto buono con me, e fa tutto il possibile per stimolare il mio interesse nel lavoro in farmacia, che all’inizio non era granché piacevole».[9]
Come era avvenuto a Skien, anche a Grimstad il futuro drammaturgo fuggì il più possibile la compagnia dei coetanei, incorrendo nelle loro prese in giro e nei loro sospetti. Quando aveva finito di lavorare, si ritirava in solitudine fino a notte fonda per leggere, dipingere, abbozzare le sue prime poesie e prepararsi all’esame d’ammissione per la facoltà di medicina.[10] Dotato di acuto spirito di osservazione, cominciò presto a studiare con occhio critico gli avventori della farmacia, da cui trasse materia per attaccare, nei componimenti dell’epoca, l’ipocrisia e i rapporti sociali.[11]
Fu un ragazzo dalla precoce virilità, con una folta barba già in età adolescenziale. Nel 1846 Ibsen, appena diciottenne, ebbe una relazione con una delle donne di servizio della farmacia, la ventottenne Else Sophie Birkedalen, che il 9 ottobre diede alla luce il figlio Hans Jacob.[12]
Da una lettera spedita a una sua cugina, sappiamo che egli non si trovava più bene presso i Reimann. I debiti contratti dal proprietario della farmacia, già cospicui quando Ibsen cominciò l’apprendistato, andarono aggravandosi progressivamente, e Reimann si diede all’alcol, dimostrandosi, dopo Knud, un’altra deludente figura paterna. Nell’agosto 1846 vendette la sua attività all’asta; il nuovo proprietario la cedette a sua volta, nel marzo 1847, quando un giovane farmacista benestante, Lars Nielsen, la rilevò. Dalla nuova situazione Ibsen provò un senso liberatorio, sentendosi sollevato dall’atmosfera difficile venutasi a creare in casa Reimann. Nielsen spostò l’attività a Østregata, un quartiere più centrale, dove le condizioni di lavoro erano migliori e dove Ibsen, in virtù di un esame superato nella vicina Arendal, divenne “assistente qualificato”, ed ebbe così un aumento di stipendio.[13]
Le prime opere
A quest’epoca risale l’amicizia con Christopher Due, appena giunto a Grimstad come impiegato della dogana. La fama del giovane Ibsen cominciò a crescere nella cittadina, dove si faceva notare per l’intelligenza e lo spirito sarcastico e anticlericale. La farmacia di Østregata diventò così un luogo di ritrovo per i giovani che avevano velleità intellettuali. Intanto Ibsen scriveva versi, alcuni satirici e pungenti, altri – che mostrava solo a Due – più “seri”. Fu grazie all’intercessione di Due, divenuto corrispondente da Grimstad per il neonato giornale Christiania-Posten, che Ibsen poté vedervi pubblicata il 29 settembre 1849 la sua prima composizione, la poesia I Høsten (In autunno).[14]
Nel 1848 si applicò agli studi liceali e sognò di dedicarsi alla carriera politica. Tra l’inverno del 1848 e il successivo, Ibsen scrisse il suo primo dramma, Catilina, in tre atti e in versi. Lo affidò all’amico Ole Schulerud, uno studente di legge che si recava a Christiania (così si chiamava, all’epoca, Oslo), e che lo presentò all’unico teatro cittadino. L’opera fu rifiutata, ma Schulerud, fermamente convinto del talento e delle capacità del drammaturgo, la pubblicò a sue spese. Uscì nell’aprile 1850, in qualche centinaio di esemplari.[15]
Marcus Thrane
Ibsen, la cui povertà era ormai estrema (tra il mantenimento del figlio e gli studi non gli rimanevano nemmeno i soldi per vestirsi),[16] scelse di lasciare l’angusto luogo per tentar fortuna nella capitale. Il 12 aprile Catilina apparve nelle librerie; il giorno seguente Ibsen partì alla volta di Christiania.[17]
Arrivò il 28 aprile 1850 in una città che contava 30 000 abitanti. Fu alloggiato dalla signora Sæther, zia di Schulerud, che oltre al nipote ospitava anche Theodor Abildgaard, uno studente di legge che introdusse Ibsen nell’ambiente delle Associazioni operaie di Marcus Thrane (1817-1890), un socialista norvegese recentemente rientrato dalla Francia, dove era rimasto conquistato dagli ideali rivoluzionari del 1848. Ibsen tenne alcune lezioni presso la scuola domenicale delle Associazioni, finché Abildgaard e Thrane, il 7 luglio 1851, furono arrestati (e presto sarebbero stati condannati ai lavori forzati).[18]
Nel frattempo Ibsen seguiva i corsi dell’istituto Heltberg per prepararsi all’examen artium, il superamento del quale costituiva un prerequisito per l’ammissione all’università. In questa scuola conobbe, tra i discenti, i futuri scrittori Aasmund Vinje (1818-1870) e Bjørnstjerne Bjørnson. Il secondo, insignito nel 1903 del Premio Nobel per la letteratura, rimase uno dei più stretti amici di Ibsen, mentre il primo introdusse a sua volta il giovane drammaturgo nella temperie politica del tempo.[19]
Il mancato superamento dell’esame, causato dalla bocciatura in greco e matematica, fu compensato dai primi successi come drammaturgo. Rielaborando un testo già avviato a Grimstad, Ibsen compose Il tumulo del guerriero (Kjæmpehøjen), atto unico in versi che fu accettato dal teatro di Christiania, e rappresentato il 26 settembre 1850.[20] L’opera, ambientata nel decimo secolo, propone la contrapposizione tra lo spirito vendicativo dei vichinghi e il perdono cristiano.[21]
Gli anni di Bergen
Ole Bull
Nel 1851 Ole Bull lo volle alla direzione del Norske Theater di Bergen, dove aveva lavorato come maestro di scena. Il neonato teatro si proponeva di far vivere, attraverso le opere, la storia e le tradizioni patrie, in una parola l’identità norvegese. Ibsen fu ospitato da Helene Sontum, proprietaria di una delle più rispettabili pensioni cittadine. L’incarico, che gli garantiva una paga stabile, paragonabile a quella di un insegnante, rappresentò un significativo miglioramento delle sue condizioni economiche.[22]
Per quanto Bergen fosse la più popolosa e fiorente città del Regno e sua capitale, non aveva ancora molto da offrire a livello culturale, e tutti, al Norske Theater, erano piuttosto inesperti. Così, per migliorare la sua formazione, il comitato del Norske finanziò a Ibsen e a una giovane coppia della troupe, i coniugi Brun, un viaggio a Copenaghen e Dresda. Il 15 aprile 1852 salpò alla volta della capitale danese, culturalmente molto vivace. Ibsen si stabilì in una stanza nelle vicinanze del Teatro Reale, diretto da quel Johan Ludvig Heiberg che dal 1825 aveva cominciato ad assurgere a maggior gloria delle scene danesi, e che accolse calorosamente Ibsen, offrendogli un lasciapassare per accedere gratuitamente alle rappresentazioni. Presso il Teatro Reale Ibsen compì la maggior parte dei suoi studi, durante il soggiorno a Copenaghen. Il vecchio direttore Thomas Overskou (1798-1873) gli mostrò il backstage spiegandogli il funzionamento dei macchinari. Durante le sei settimane di permanenza in terra danese, il Teatro Reale mise in scena diverse opere shakespeariane, tra cui un Amleto dai tratti realistici e poco accademici, in linea quindi con la produzione ibseniana maggiore. A Copenaghen Ibsen incontrò anche Hans Christian Andersen.[23]
Johan Ludvig Heiberg
Partito il 6, giunse a Dresda il 9 giugno, dove continuò il suo apprendistato. Durante il soggiorno trascorse un’esistenza molto solitaria, visitando le bellezze cittadine e scrivendo. Il periodo in Sassonia funse da ispirazione per una raccolta di poesie, I Billedgalleriet, in cui evocò la perdita della fede ma al tempo stesso la possibilità di stabilire un contatto con il divino attraverso la contemplazione dei capolavori artistici di Raffaello, Correggio o Murillo. La raccolta fu scritta più avanti e pubblicata nel 1859.[24]
Tornato a Bergen, mandò in scena La notte di San Giovanni (Sancthansnatten), commedia romantica in tre atti che Ibsen forse cominciò a redigere in collaborazione con uno studente di Christiania, Christian Bernhoft, che poi desistette. L’opera fu scritta tra la primavera e l’estate, principalmente durante il soggiorno continentale. La notte di San Giovanni è una storia d’amore ambientata nel Telemark coevo, in cui è evidente l’influsso shakespeariano del Sogno di una notte di mezza estate, oltre che di autori scandinavi quali Hostrup, lo stesso Heiberg e Paul Botten-Hansen.[25]
Il nazionalismo, pur trovandovi spazio, risulta subordinato all’affinamento artistico e alla perizia nei dialoghi, che Ibsen cura, alla ricerca di un proprio stile e di una propria identità letteraria. La prima rappresentazione, il 2 gennaio 1853, vide il tutto esaurito, ma all’unica replica, il 5 gennaio, l’afflusso di pubblico fu più ridotto.[26] Se l’accoglienza di pubblico non fu buona – partirono fischi durante la prima -, è altresì vero che nessun dramma, al teatro di Bergen, andava mai oltre le due serate, e spesso anzi ci si fermava alla prima. La critica, non entusiasta, lasciò comunque intravedere qualche apprezzamento.[27]
Trasferitosi in una dépendance del teatro, dove avrebbe vissuto per quattro anni, nella primavera del 1853 Ibsen conobbe la quindicenne Rikke Holst (1837-1923), che subì il fascino del solitario, malinconico, scontroso e appassionato drammaturgo. Presto i due si fidanzarono, ma la forte opposizione del padre di lei pose fine all’idillio.[28]
Non era un periodo facile: Ibsen non riusciva ad imporsi come drammaturgo e veniva anche criticato dal comitato del teatro, in una lettera che gli rimproverava una gestione insoddisfacente. Per l’opera da rappresentare il 2 gennaio 1854, Ibsen riprese in mano Il tumulo del guerriero, sottoponendolo a una radicale revisione, riducendo l’afflato lirico di oehlenschlaegeriana matrice e curando maggiormente la verosimiglianza storica. I personaggi acquisivano una loro identità più marcata e anche l’opposizione fra cristianesimo e paganesimo si faceva più definita e drammatica. Nonostante ciò, la pièce ebbe un’unica rappresentazione, che i giornali passarono praticamente sotto silenzio. Il Bergenske Blade, tuttavia, la pubblicò come supplemento.[29]
Nel corso del 1854 nuovi nomi cominciarono a lavorare per il teatro di Bergen. Tra questi, il più importante per la carriera ibseniana fu un uomo d’affari, Peter Michael Blytt (1823-1897), a cui il drammaturgo sottopose in settembre un manoscritto, attribuendone la paternità a un autore di Christiania. La tragedia era stata in realtà scritta da Ibsen, che, timoroso, voleva mandare avanti un suo testo proteggendosi con l’anonimato. Blytt fu entusiasta dell’opera, Donna Inger di Østråt (Fru Inger til Østråt), pièce ambientata nel primo Cinquecento, in un contesto di forti tensioni politiche in cui la protagonista combatte a fianco dei rivoltosi svedesi e norvegesi contro l’aristocrazia danese, ma è dilaniata interiormente, in quanto l’amato figlio è frutto di un matrimonio con quella stessa aristocrazia. Storia nazionale e introspezione psicologica affiorano quindi nuovamente in Ibsen, nella sua opera più shakespeariana. Le tracce del realismo psicologico sono un’evidente eredità del viaggio continentale; il dramma idealista del passato si manifesta ancora, ma la transizione verso quello realistico si fa più concreta. La tragedia aprì la nuova stagione, il 2 gennaio 1855, con due rappresentazioni, la prima delle quali apprezzata dal pubblico.[30]
L’anno successivo, alla consueta première del 2 gennaio, presentò Una festa a Solhaug (Gildet på Solhaug), dramma in cui si avvertono gli echi di Scribe e della sua scuola francese, in particolare della scribiana Bataille de dames (1851), che Ibsen aveva comprato a Copenaghen e diretto a Bergen. Una festa a Solhaug diede al suo autore maggior popolarità rispetto ai lavori precedenti, tanto che fu messa in scena per sei volte al teatro di Christiania. La compagnia danese di Thomas Cortes la rappresentò, oltre che nella capitale, a Kristiansand e a Trondheim. Nello spettacolo di Trondheim Ibsen introduce un’importante novità: gli attori si rivolgono gli uni agli altri nei dialoghi, invece di indirizzarsi costantemente al pubblico, come era consuetudine.[31]
Quando l’imperatore francese Napoleone III giunse in Norvegia, nella tarda estate del 1856, chiese di poter assistere a un’opera teatrale. Con la troupe in vacanza e parte dell’orchestra impegnata altrove, Blytt e Ibsen prepararono in una notte la rappresentazione della Festa a Solhaug, che vide l’attrice Louise Brun (1830-1866) nel ruolo della protagonista Margit. Napoleone fu omaggiato di una copia del dramma, apprezzò la prestazione della Brun e chiese una copia della musica di Ferdinand Giovanni Schediwy.[32]
Suzannah Thoresen
L’ultimo anno a Bergen vide Ibsen mandare in scena, il 2 gennaio 1857, Olaf Liljekrans, dramma per il quale ottenne un compenso superiore a quello previsto dallo stipendio annuale. L’opera è vagamente ispirata a un testo incompiuto che l’autore scrisse nel 1850, intitolato La pernice di Justedal (Rypen i Justedal). Nell’Olaf, il personaggio eponimo è spinto dalla madre, per ragioni di stabilità economica, a sposare una fanciulla che non ama, Ingeborg, e la lotta interiore che si innesca nel protagonista viene infine risolta, dopo varie vicissitudini, dall’amore tra Ingeborg e un altro uomo, che permette a Olaf di convolare a nozze con l’amata Alfhild. Olaf Liljekrans non ebbe successo e non riscontrò mai nemmeno l’entusiasmo dell’autore, che acconsentì alla sua pubblicazione solo per l’edizione delle opere del 1902.[33]
Frattanto, Ibsen conobbe Suzannah Daae Thoresen (1836-1914), figlia del pastore Hans Conrad Thoresen e della moglie Sara Margrethe Daae, e figliastra della scrittrice Anna Magdalene Kragh, terza consorte di Hans Conrad. Magdalene animava uno dei salotti letterari più importanti della città. È qui che nel 1856 Ibsen strinse rapporti con Suzannah, benché l’avesse probabilmente già conosciuta in precedenza. La ragazza, appena ventenne, aveva un temperamento simile a quello del drammaturgo: timida e poco amante degli eventi mondani, era al contempo passionale e molto istruita.[34] Presto i due si fidanzarono, e si sposarono a Bergen il 18 giugno 1858, dando poi alla luce a Christiania il loro unico figlio, Sigurd (dal nome di un personaggio dei Guerrieri di Helgeland), il 23 dicembre 1859.[35]
Christiania
L’11 agosto 1857 Ibsen firmò il contratto come direttore artistico del Kristiania Norske Theater, nella zona di Møllergaten, a Christiania, e prese funzione dal 3 settembre. Il teatro era in competizione con quello di Bank Pladsen, dove gli attori e i dirigenti erano danesi, e le opere importate da Copenaghen. Quest’ultimo era inoltre sito in un’elegante piazza a ridosso del centro, mentre il teatro di Ibsen si trovava in un’area abitata da lavoratori, sporca, frequentata da prostitute e ubriachi. Scopo del Kristiana Norske Theater era di promuovere i drammi e i vaudeville degli autori norvegesi del momento.[36]
Visse un breve periodo con l’amico Schulerud, che sarebbe morto trentatreenne nel 1859, e poi cambiò diverse dimore. Nel frattempo ci furono il matrimonio e la nascita del figlio, poco dopo la quale Suzannah annunciò che non avrebbe avuto altre gravidanze, notizia che ha talvolta spinto a ritenere che da quel momento il matrimonio sia stato in bianco.[37]
Presto, a Christiania, si formò un gruppo di cinque estimatori di Ibsen, che si incontravano il lunedì nella casa del critico Botten-Hansen, già difensore del Catilina. Botten-Hansen aprì inoltre a Ibsen le porte del settimanale Illustreret Nyhedsblad.[38] In quegli anni compose Hærmændene paa Helgeland (I guerrieri di Helgeland, 1857). A una fase posteriore della sua intensa produzione letteraria risalgono opere come Terje Vigen (1862), Kjærlighedens Komedie (La commedia dell’amore, 1862) e il dramma storico Kongs-emnerne (I pretendenti al trono, 1863).
Nel 1864 Ibsen pubblicò I pretendenti al trono, che aveva scritto in sei settimane. Nello stesso anno, intanto, scoppiò la guerra dello Schleswig-Holstein, in merito alla quale Ibsen era a favore dell’intervento scandinavo. Il re di Svezia e Norvegia, Carlo XV, e il suo ministro degli Esteri Manderström, avevano inoltre promesso di intervenire in difesa dei danesi in caso di attacco tedesco. Indignato della successiva neutralità del suo Paese, che abbandonò la Danimarca al suo destino, materializzatosi nella sconfitta di Dybbøl (18 aprile), Ibsen maturò un profondo risentimento verso la sua terra natale.[39]
Soggiorno in Europa
Partito alla volta dell’Italia il 5 aprile 1864, Ibsen era a Berlino il 4 maggio, quando vide sfilare il cannone sottratto ai danesi a Dybbøl, in mezzo alla folla giubilante che sputava, in segno di scherno, sul bottino di guerra. Come scrisse a Magdalene Thoresen un anno più tardi, «fu per me il segno che un giorno la storia avrebbe sputato negli occhi della Svezia e della Norvegia, per il ruolo avuto nella questione».[40] Il primo impatto con l’Italia, il 9 maggio, rimase fortemente impresso nella mente dello scrittore. Il 1º dicembre 1898, a Copenaghen, lo avrebbe ricordato con queste parole: «[…] usciti dal tunnel [Ibsen è in treno, all’altezza di Trieste], ci trovammo d’improvviso a Miramare, dove quella luce meravigliosamente chiara che costituisce la bellezza del Sud mi si manifestò d’un tratto, scintillante come bianco marmo. Quest’immagine avrebbe influenzato tutto il mio lavoro successivo […]».[40]
Giunto a Roma a metà giugno, Ibsen si mise subito in contatto con il console norvegese, Johan Bravo, che lo introdusse nel Circolo Scandinavo del Palazzo Correa, punto di ritrovo degli intellettuali nordici, dove viveva il bibliotecario del circolo e segretario di Bravo, Lorentz Dietrichson (1834-1917), giovane professore con cui il drammaturgo strinse amicizia.[41] All’interno del Circolo Ibsen acquisì una posizione di un certo rilievo; ancora con il dente avvelenato, il 20 gennaio 1865 propose di vietare a ogni tedesco l’ingresso nel club, mozione respinta quasi all’unanimità. Nel frattempo fu raggiunto da moglie e figlio e si stabilì in via Capo le Case, dimora ibseniana fino a quando lo scrittore lasciò Roma nel 1868.[42]
Sin dall’inizio Ibsen mise mano a opere poetiche e teatrali, portando a compimento un dramma di ampio respiro, nato dall’indignazione di Dybbøl: Brand. Redatto inizialmente (non si sa a che punto fosse arrivata la stesura) come poema epico,[43] dall’estate 1865 cominciò ad essere versificato come poema drammatico, con la notevole celerità attestata dalla lettera che il drammaturgo scrisse a Bjørnson da Ariccia il 12 settembre 1865.[44]Brand fu compiuto per il mese di ottobre. Bjørnson mise in contatto l’amico con il danese Frederik Hegel, il più grande editore scandinavo del tempo, e il dramma fu pubblicato nel marzo 1866.
L’anno seguente, dopo un viaggio tra Ischia e Sorrento compose il Peer Gynt (1867), dramma in versi di genere fantastico e di difficile messa in scena, reso famoso anche dalle musiche che Edvard Grieg scrisse appositamente per la sua prima rappresentazione (Christiania, 24 febbraio 1876). La fase romantica ibseniana si conclude con la commedia brillante De unges Forbund (La lega dei giovani, 1869) e con il dramma Kejser og Galilaer (Cesare e Galileo, 1873). Dal 1868 al 1874 risiedette a Dresda, poi tornò di nuovo a Roma.
La fase del teatro sociale
La fase più squisitamente sociale del teatro ibseniana ha inizio con Samfundets støtter (“I pilastri della società“, 1877), seguito da Et dukkehjem (“Casa di bambola”, 1879), scritto ad Amalfi e imperniato su una figura femminile (Nora) che si ribella al marito ma soprattutto alle ipocrite leggi della società in cui vive. Seguono altri capolavori, come Gengangere (“Gli spettri“, 1881), En folkefiende (“Un nemico del popolo”, 1882), Vildanden (“L’anitra selvatica”, 1884), Rosmersholm (“La casa dei Rosmer”, 1886), Fruen fra havet (“La donna del mare”, 1888) e Hedda Gabler (1890).
Nel 1891 Ibsen lasciò definitivamente Roma. A questo periodo risalgono i drammi Bygmester Solness (“Il costruttore Solness”, 1892) e Lille Eyolf (“Il piccolo Eyolf“, 1894). Dopo il ritorno a Kristiania, Ibsen scrisse i suoi ultimi lavori, John Gabriel Borkmann (1896) e Når vi døde vågner (“Quando noi morti ci risvegliamo”, 1899).
Nel 1900 Ibsen venne colpito da paralisi. Morì sei anni dopo a Kristiania, il 23 maggio 1906.
Lo scambio di lettere tra Albert Einstein e Sigmun Freud sul “perché la guerra?” (la versione a cui faccio riferimento è quella Bollati Boringhieri del 1989, con la prefazione di Ernesto Balducci), avvenuto tra il luglio e l’agosto del 1932 – ossia quattordici anni dopo “l’inutile strage” (Benedetto XV) della Grande guerra e sette anni prima della Seconda guerra mondiale – ci aiuta ancora a riflettere sul tragico ritorno della guerra in Europa e sul suo necessario superamento. Albert Einstein scrisse la celebre lettera a Sigmund Freud, su invito della Società delle Nazioni, ponendo al padre della psicoanalisi la domanda cruciale: «C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?». Mentre rimando al carteggio tra i due per l’articolata risposta di Freud e agli psicoanalisti per i relativi approfondimenti, metto a fuoco qui alcune delle questioni poste da Einstein che contengono già alcune risposte, su un piano politico-filosofico, che rivestono un particolare interesse anche in riferimento alle nostre urgenti domande sulla guerra nella quale siamo, qui ed ora, pericolosamente immersi. Del resto già allora Einstein era consapevole del fatto che «col progredire della tecnica moderna rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta». La quale, infatti, pochi anni dopo sarebbe stata travolta dalla barbarie nazifascista e dalla nuova catastrofica guerra, che avrebbe lasciato come eredità le armi nucleari, spada di Damocle permanente sull’umanità, con la quale anche la generazione presente è costretta a fare i conti. Non a caso si attribuisce allo stesso Einstein il noto aforisma, pronunciato dopo Hiroshima e Nagasaki, secondo il quale dichiara di non sapere con quali armi sarebbe stata combattuta la terza guerra mondiale, ma di certo la quarta lo sarebbe stata con le pietre e con le clave.
La prima risposta che fornisce Einstein alla sua stessa domanda è quella propria del “pacifismo giuridico”, che prevede la costituzione di un’autorità internazionale capace di mediare i conflitti: «Gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro». È la visione kantiana della “pace perpetua” come frutto della federazione degli Stati che rinunciano agli eserciti permanenti, la quale – impossibile da realizzare per la Società delle nazioni – avrebbe dovuto trovare la sua concretezza nelle Nazioni Unite che nel 1945 nascono proprio con il fine di «liberare l’umanità dal flagello della guerra», costruendo la pace con «mezzi pacifici» (Carta dell’ONU). Eppure, continua Einstein, con grande realismo, siamo lontanissimi dalla realizzazione di questa possibilità perché «la sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale». E, nella sua accusa, Einstein non rimane nel generico ma entra nello specifico, puntando il dito contro quel sistema che il presidente USA Dwight D. Eishenhower, nel discorso di addio alla nazione del 1961, avrebbe definito il «complesso militare-industriale». «Penso soprattutto» – scrive Einstein – «al piccolo ma deciso gruppo di coloro che attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un’occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità». È tema di stringente e drammatica attualità: se facciamo l’operazione di dividere le spese militari globali del 2022, che il SIPRI di Stoccolma ha indicato nella cifra, mai raggiunta prima, di 2.240 miliardi di dollari – 130 miliardi in più del 2021 e 500 miliardi in più di dieci anni prima – per il numero dei giorni dell’anno, risulta che i governi spendono in armamenti 6,13 miliardi di dollari al giorno, mentre finanziano le Nazioni Unite per un bilancio di 3,4 miliardi di dollari all’anno. Impossibile preparare credibili mezzi di pace con questa abissale sproporzione rispetto alla preparazione e al finanziamento dei mezzi di guerra. Non a caso, un illustre fisico dei giorni nostri, Carlo Rovelli ha denunciato – come Einstein – esattamente questo scandalo dal palco del Primo Maggio a Roma, in diretta televisiva. Suscitando lui grande scandalo, anziché il fatto denunciato.
Ma, si chiede ancora Einstein, com’è possibile che questa minoranza che fa affari con le guerre «riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e perdere?». Ed anche su questo lo scienziato delinea nella lettera a Freud una risposta che ha pienamente valore – o addirittura maggiore – anche per i nostri tempi: «La minoranza di quelli che di volta in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica». Salvo che per la chiesa cattolica, che papa Francesco ha posto decisamente dalla parte del pacifismo anziché del bellicismo, per il resto la lettera di Einstein del 1932 anticipa e spiega il meccanismo della “violenza culturale”, oggi dispiegata attraverso mezzi di comunicazione di massa estremamente più potenti, che, secondo Johan Galtung fondatore negli anni ‘60 dei peace studies, sta alla base e fonda tanto la legittimazione ideologica della guerra (violenza diretta) che delle strutture – spese militari, armi, eserciti, commercio di armamenti (violenza strutturale) – che la preparano e la rendono possibile.
Verso la fine della lettera Einstein aggiunge di essere consapevole di avere messo a fuoco nel suo testo le guerre, in quanto conflitti armati internazionali, trascurando i conflitti interpersonali, nel quale opera l’istinto aggressivo (1) – ambito nel quale è esperto il suo interlocutore Freud – «ma» – spiega – «la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili i conflitti armati». Ponendo così il tema cruciale sul quale Einstein avrebbe continuato a lavorare per tutta la vita, in particolare dopo l’invenzione e l’uso delle atomiche da parte degli USA, anche con l’estremo appello scritto insieme a Bertrand Russell nel 1955, qualche mese prima di morire. Ossia la costruzione dei mezzi alternativi alla guerra per la risoluzione dei conflitti, principio alla base non solo del “pacifismo strumentale” – secondo l’articolazione che ne ha fatto Norberto Bobbio – di cui è parte la teoria e la pratica della nonviolenza, ma anche a fondamento della Costituzione italiana che «ripudia la guerra», non solo «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», ma anche come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», indicando così alle generazioni successive la necessità di costruire mezzi alternativi ad essa per affrontare le controversie. È introduzione dell’etica della responsabilità – in quanto etica per la politica nell’età della tecnica (Hans Jonas) – nella Carta costituzionale, seppur disattesa e, addirittura, ormai sempre più spesso ripudiata.
Oggi che siamo all’interno di una crisi sistemica globale – contemporaneamente climatica, energetica, idrica, alimentare e pandemica – che genera infiniti conflitti, al punto che, secondo il monitoraggio internazionale dell’Uppsala conflict data program dell’Università di Uppsala, oltre alla guerra in Ucraina sono attivi sul pianeta contemporaneamente 170 conflitti armati – a bassa, media e alta intensità – di cui alcune decine classificabili come vere e proprie guerre, è necessario recuperare integralmente il messaggio di Albert Einstein, altrimenti – con 13.000 testate nucleari puntate contro le teste di tutti – non ne usciremo vivi. Ciò significa fuoriuscire, in maniera definitiva, dal pensiero magico e falso secondo il quale si vis pacem para bellum – se vuoi la pace prepara la guerra – ed entrare, finalmente e decisamente, anche nel campo dei conflitti internazionali, all’interno del pensiero logico e razionale, con il ribaltamento operato e indicato da Aldo Capitini: se vuoi la pace prepara la pace.
L’articolo riprende l’intervento svolto al Maggio filosofico 2023
Nota:
(1) «Il piacere di odiare e di distruggere» scrive Einstein, «passione» che in circostanze eccezionali «è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva*, per esempio con la propaganda di guerra. Su questo cfr. Pasquale Pugliese, Alle radici della pericolosa deriva bellicista che dilagava già prima del 24 febbraio 2022, Left: https://left.it/2023/04/13/alle-radici-della-pericolosa-retorica-bellicista-che-dilagava-gia-prima-del-24-febbraio/
Pasquale Pugliese, nato a Tropea, vive e lavora a Reggio Emilia.Di formazione filosofica, si occupa di educazione, formazione e politiche giovanili. Impegnato per il disarmo, militare e culturale, è stato segretario nazionale del Movimento Nonviolento fino al 2019. Cura diversi blog ed è autore di “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” e “Disarmare il virus della violenza” (entrambi per le edizioni goWare).
“La rivoluzione palestinese del 7 ottobre”. Intervista a Filippo Kalomenìdis
Rivista L’Altrove
Filippo Kalomenìdis, scrittore, poeta e militante politico. Ha pubblicato La direzione èstorta. Reportage lirico sul Covid-19 e i virus del potere (2021) e, con il Collettivo Eutopia, Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (2022). È stato sceneggiatore per il cinema (Io sono con te, 2010) e la televisione (tra le serie di cui è autore, Il Grande Gioco, 2022).
L’Altrove – Appunti di poesia il 09/11/2024 Torna in libreria con un libro straordinario, Filippo Kalomenìdis. La rivoluzione palestinese del 7 ottobre, pubblicato da PGreco Edizioni (Acquistalo qui), affronta in maniera decisa e chiara, quella che è stata, come si evince dal titolo, la rivoluzione del popolo palestinese avvenuta il 7 ottobre 2023. Più che una raccolta, questo libro è un coro di voci unanime, concorde, un coro di resistenza, grande, potente, energico e vivo. Kalomenìdis scuote gli animi glaciali dell’Occidente, quello che tace e fa tacere. Percuote con le sue parole, racconta le verità, narra vicende messe in silenzio e dà voce a quanti non possono più farlo perché martiri, uccisi crudelmente dai misfatti israeliani. Ad accompagnare riflessioni, poesie, lettere, anche le commoventi illustrazioni di Abu Manu.
Non ci siamo fatti sfuggire l’occasione di parlare meglio con l’autore, facendogli una lunga intervista.
Grazie mille per questa possibilità, Filippo. Torni con un libro ambizioso, un saggio poetico-storico-politico come tu stesso l’hai definito. Ci racconteresti la sua nascita da un punto di vista squisitamente esistenziale?
Alla fine di questa primavera, come scrivo nel libro, sono tormentato dalle «domande della solitudine più aspra. Quella che si prova in mezzo alla ressa dei compagni in lotta». È un periodo di profonda e rabbiosa crisi, rischiarato soltanto dalla stesura di un’articolata opera poetica sui palestinesi che si battono nella Shatat (la diaspora, la dispersione) e sui rivoluzionari dell’Asse della Resistenza. Un viaggio di scrittura che nel settembre successivo mi condurrà in Libano, a Beirut, nei campi dei profughi palestinesi, a Shatila. Dove incontrerò le donne e gli uomini nuovi delle comunità della fede, della sovversione del presente, della solidarietà immensa e dell’altissimo vivere. Ma torniamo al maggio del 2024. Sono sconcertato dall’incapacità della porzione italiana del Movimento per la liberazione della Palestina di de-occidentalizzarsi, uscire da concezioni staliniste o umanitariste, sempre e comunque islamofobe; dal culto della falsa pace assassina; e dalla viltà dei civili contestatori democratici, ossequiosa delle leggi repressive. Sono avvilito dall’isolamento sociale, comunicativo del Movimento, dall’esiguo livello di conflittualità, dalla rinuncia ad aumentare la forza dell’urto fisico-politico contro l’oppressione liberale. Mende insanabili di fronte a un genocidio conclamato e alla prima rivoluzione che nel nuovo secolo fa tremare il sistema nordoccidentale, capitalistico, coloniale. Non mi consola l’agire cristallino, generoso ma spesso confuso di una minoranza di giovanissimi. È troppo poco in un Paese livido, costruito sulla follia omicida di massa, sulla razionalizzazione integrale dell’esistenza divenuta pazzia distruttiva, in una nazione che ha la menzogna come mito fondativo. Un circo neofascista, sionista, razzista, arabofobo di assassini consapevoli o inconsapevoli, d’imbonitori che comandano ferini o protestano per mestiere, di falsari della storia ufficiale, di rassegnati schiavi volontari. Parlo col compagno e fratello ateniese Leonidas Vlassis del taccuino dove annoto le mie percezioni, le mie visioni a margine dell’opera sulla Shatat e dell’impegno di militante. Gli confido quanto la bellezza guerriera dei palestinesi e degli immigrati arabi resti inascoltata, incompresa nelle mobilitazioni italiane per Gaza. Leonidas pensa che abbia tra le mani una salva di razzi Qassam di poesia e amore eretico che sconvolgerà il movimento e l’opinione pubblica. Così mi propone di raccogliere i miei scritti editi e inediti su un anno di Rivoluzione Palestinese e di evidente collasso del totalitarismo liberista per pubblicarli in Grecia con Προλεταριακή Πρωτοβουλία-Iniziativa Proletaria, e di prendere contatto con Manolo Morlacchi per individuare un editore in Italia ossia PGreco. Ed eccoci qui.
E le tue motivazioni dal punto di vista letterario?
Anche in questo libro, la mia scrittura ha operato sul τραῦμα, sulla ferita non rimarginabile con l’intento di renderla miracolo – θαῦμα – e costringere chiunque l’accolga a mettersi in discussione rispetto al proprio non agire oppure agire con modalità insufficienti, per incrinare l’orrore del nostro tempo, insanguinato dal genocidio sionista dei palestinesi e, da settembre, dallo sterminio dei libanesi. Faccio emergere una polifonia letteraria: dai versi al diario della «storia bruciante»; dal dialogo pubblico, evocativo e tagliente (che sostituisce quello teatrale dei libri precedenti)alle lettere d’amore rivoluzionario per i prigionieri politici palestinesi e per due donne combattenti; dallefavole teosofiche fino alla commistione della prosa poetica. Ma la sperimentazione più ardita è stata la partituralirico-spirituale del saggio politico dove preghiera, sogno e azione si fanno carne, il linguaggio accademico occidentale viene azzerato e trova concretezza la profeziadei reietti. Sono arrivato a tale risultato liberando il mio «estremismo umano», vivendo oltre il limite della perdita del controllo di sé per il dolore del martirio di sorelle, fratelli e di storiche guidedell’umanità, al fine di giungere a «quell’unico istante che svelerà l’invisibile» di cui parla Mahmoud Darwish, e descriverlo. Questo poetico monologo epicoinvita alla sovversionedi tempo e luogoed è innervatodall’inserzione di frasiin arabo e citazioni coraniche per far ascoltare al lettore la voce diretta, musicale della Rivoluzione Palestinese. Senza caderenella retorica della scrittura militante tradizionale, senza piagnistei per i martiri – i testimoni di fede, gli attestanti del genocidio – mai chiamati “vittime”. Vittime sono gli esseri viventi consacrati o immolati alla divinità.Vittima è una parola infame che giustifica e legittima i carnefici. Perché i remi non solcano l’acqua per fare schiuma ma per navigare eattraccarenel campo di battaglia. Come in tutti i miei i libri, l’approdo è costituito da parole autentiche, affilate come lame che puntano dritte alla gola dei carnefici.
Prima di cominciare a discuterne mi hai detto che La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre rappresenta un’evoluzione sostanziale nel tuo percorso di poeta e scrittore politico. Vuoi spiegarlo ai nostri lettori?
È il terzo capitolo della «tetralogia del campo di battaglia come paradiso», dopo La direzione è storta e Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi. Qui però supero la dimensione delle solitudini resistenti per aprirmi all’abbraccio di una terra che sarà liberata e di un intero popolo, il popolo palestinese, il popolo dell’anima di ogni oppresso del pianeta. Qui delineo un netto e condiviso futuro, quello della sorgente società della fede, della siyâssa, della politica come cura di donne, uomini e del creato, che si contrappone alla decadente società della distruzione, del profitto, della politica come dominio, colonizzazione, annientamento di donne, uomini e del creato. La battaglia dei rivoluzionari palestinesi e dell’Asse della Resistenza contro il capitalismo genocidario occidentale è dunque la battaglia culminante per l’avvenire del genere umano.
Illustrazione di Abu Manu
Il 7 ottobre è una data fondamentale per il popolo palestinese. Ad un anno di distanza, cosa è cambiato secondo te?
Ti ho risposto prima. No, non solo per il popolo palestinese. È un giorno di liberazione cruciale per gli esseri umani diseredati in ogni angolo del mondo. È un giorno che sancisce l’inizio della sconfitta per i nemici dell’umanità ossia il colonialismo israeliano, statunitense ed europeista. È la data centrale di un processo rivoluzionario irreversibile che prosegue in questi istanti con la resistenza palestinese, libanese, yemenita, siriana, irachena che tengono, dopo più di un anno, in scacco potenze nucleari mostrandone la vulnerabilità. È cambiato tutto dopo il 7 Ottobre. Tutto è chiaro a chi abbia gli occhi dell’anima spalancati. Israele è passato da un genocidio strisciante a un genocidio conclamato con la compartecipazione di ogni governo e stato nordoccidentale. E s’è sciolto, come scrivo nel libro, il «trucco pesante delle garanzie democratiche […], scoprendo il volto autoritario e discriminatorio dell’Unione Europea. In tanti lo avevamo già scorto nella guerra contro i migranti e gli ultimi sui gradini della scala sociale. Ora, per chiunque, è difficile negare la mostruosità repressiva delle dodici stelle di Bruxelles e Strasburgo, sempre più simili a dodici stelle di David». Dopo il 7 Ottobre, anche qui, anche in questo disgraziato Paese, nessuno può più sottrarsi a un interrogativo elementare. Scelgo d’essere complice del genocidio dei palestinesi e del massacro della «razza dei senza nulla» dal marciapiede sotto casa fino a Gaza, alla Cisgiordania passando per il Libano? O scelgo di combattere effettualmente, senza tregua, andando oltre me stesso, contro un sistema schiavile che mi riduce ad accogliere la squallida sopravvivenza come una benedizione e intende nientificare il popolo che più di ogni altro sa rivoltarsi ai boia nordoccidentali? È una domanda che non accetta risposte mediane, civili, pacifiche, rassegnate o noncuranti. Perché significano un’indiretta o diretta responsabilità nei mattatoi del capitalismo sionista.
Al contrario di quanto emerge dalla propaganda dei media occidentali, i palestinesi sono un popolo unito che fa dell’uguaglianza la propria bandiera. In questi anni c’è stata quindi una forza diversa che ha animato lo spirito palestinese? Quale? Perché?
Il suprematismo nordoccidentale definisce i palestinesi “terroristi” o in balia delle “politiche terroristiche” delle organizzazioni rivoluzionarie che incarnano la lotta armata sul campo, che sono presenza in trincea per la giustizia in terra (attenzione, presenza, ovvero una concezione orizzontale, celeste e opposta al teatrale meccanismo di rappresentazione delle false democrazie liberali). Il fondamentalista ateo non trova spiegazione alla loro assertività fideista e sovversiva, all’orgogliosa autodeterminazione palestinese nonostante 76 anni di apartheid, occupazione genocida e colonialismo d’insediamento. Come possono «cittadini del nulla» – per citare la psichiatra e scrittrice Samah Jabr – continuare a coincidere con se stessi e la terra defraudata? Come possono non aver smarrito soggettività psichica, culturale, politica e sociale? Come possono non essere sprofondati nell’auto-oggettivazione? Come possono credere nell’azione comunitaria e nell’affermazione della volontà collettiva? Come possono mantenere una potenza identitaria che i popoli mediterranei non arabi, italiani per primi, fagocitati dall’europeismo e dall’atlantismo, hanno svenduto rapidamente, in pochi decenni, subendo soltanto in minuscola misura quell’interminata brutalità coloniale? La risposta si trova nella fede, nella «sustanza di cose sperate» di cui parla Dante nel XXIV canto del Paradiso. Fede religiosa e fede nella liberazione, nella vittoria sugli aguzzini israeliani, nell’edificazione di una realtà senza diseguaglianze. La fiducia assoluta nell’ultramondano e nel levarsi dell’armonia nella prima vita è ciò che più terrorizza sia la consorteria ebraico-sionista che i pacifisti e stalinisti, falsi sostenitori della Palestina. «Vogliono eliminare il popolo palestinese perché sanno che è l’unico libero in questo mondo schiavizzato, ma si sbagliano. Non finiamo mai: se uno di noi muore, ne nascono altri dieci al suo posto, e tutti noi siamo resistenza. […] Se solo avessimo un quarto delle risorse che possiedono [i leader dei Paesi arabi], non avremmo liberato solo la Palestina, ma l’intero mondo», ha scritto incontestabilmente Anan Yaeesh, prigioniero politico palestinese nelle galere italiane, a cui sono dedicati il libro e il suo capitolo conclusivo. Le parole di Anan spiegano meglio di qualsiasi discettazione che l’attitudine inimmaginabile alla resistenza e l’attesa, il desiderio del sacrificio di sé per riconquistare la propria patria siano tra gli elementi che uniscono indissolubilmente i palestinesi. L’uguaglianza per i palestinesi non è aspirazione astratta e non riguarda soltanto il raggiungimento del martirio, punto fermo nell’anima della guida politico-militare di fama mondiale, come in quella del ragazzo che fa la guardia su un tetto diroccato per proteggere sorelle, fratelli, madri e padri. Sgombrato il campo dalla leadership dei traditori di Oslo – non a caso amatissima dagli occidentali – e riunificato il fronte della resistenza con l’operazione Sayf al-Quds (Spada di Gerusalemme) nel 2021, posso affermare senza timore di smentita che le condizioni di vita delle figure a capo dei movimenti siano le stesse della popolazione. I corrotti razzisti del Nord Occidente, spessissimo con stinte bandiere rosse in pugno, tesi a salvaguardare il loro miserabile «sottovivere», non sono in grado di cogliere l’essenza della Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre. “Non è corretto definirla Rivoluzione Palestinese”, mi attaccano spauriti e indignati. “Non ha forse prodotto effetti inversi? Non ha forse comportato ancora più morti per i palestinesi?”. Non sanno che la Rivoluzione Palestinese non obbedisce ai calcoli usuali dei rischi e dei benefici della logica mercantile occidentale e dei compendi del machiavellismo leninista che li impregnano sino al midollo. “Dov’è la presa del potere?”, mi chiedono pateticamente stizziti. Non hanno idea che per i rivoluzionari palestinesi e islamici gli obiettivi non sono potere e sovranità (per loro, saggiamente, appartengono a Dio) ma l’autorità sulla propria terra da condividere con la comunità. Questa Rivoluzione, questo Diluvio aveva e ha come risultato immediato la rottura dell’argine e rivoltare la terra santa sino a renderla divino fango dove i sionisti affondano e annegheranno. Altre nubi giungeranno, altri fiumi esonderanno, altre dighe si sbricioleranno. Il Tūfān al-ʾAqṣā è solo alla prima infinità di gocce.
“Le mani vedono insieme agli occhi” è una delle poesie presenti nel libro. La dedichi a Roshdi Sarraj, fotografo e videomaker, che ha immortalato e documentato i massacri compiuti dagli israeliani durante le Marce del Ritorno del 2017 e nei bombardamenti su Gaza del 2021.
«Le mie mani occhi immobili, pieni di sangue. Persino carezzare l’amore, guardarlo, fa male. Roshdi, mi dirai come guarirle?».
Hai trovato una risposta, Filippo?
La risposta è nel mio eterno rapporto con la bellezza di Roshdi, con le sorelle e i fratelli martirizzati, nei libri che scrivo, nella via che percorro. E su quella via ho incontrato una risposta incantata alla domanda finale de Le mani vedono insieme agli occhi da Abu Manu (Carlo Torrisi). Ha letto il libro e deciso, come mi scrisse a settembre mentre ero in Libano nei primi giorni degli attacchi terroristici e stragisti israeliani, di «abbracciarlo». Così ha regalato quattordici dipinti, quattordici scene della “Via Crucis Palestinese” nel genocidio sionista, alla mia opera. Diventandone co-autore. Questo è il suo lavoro finale come pittore. Unire i suoi abbaglianti colori di dolore e lotta alle mie parole gli è parso eccezionale, giustissimo. Conoscevo e ammiravo Carlo per fama come poeta, scrittore, e militante per oltre 30 anni nella Resistenza Palestinese, nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Ma non personalmente. Non gliel’ho ancora raccontato: dopo aver guardato e riguardato incredulo, commosso il messaggio e le sue immagini di lancinante forza, camminai di notte nei vicoli di Shatila carezzando quei muri che tutto conoscono e tutto reggono con amore. Per ringraziarlo di un dono così grande. Ero e sono certo che avrebbe compiuto lo stesso gesto fosse stato lì con me.
Concludi il libro con la frase: «Perché combattere per la liberazione e la salvezza dei palestinesi è combattere per la liberazione e la salvezza di tutti gli esseri umani». Ma l’essere umano riuscirà mai a liberarsi dal proprio egoismo?
Questa domanda mi sembra schiacciata su una limitata e dominante porzione di mondo, il Nord Occidente. Sulla sua antropofaga ideologia liberale, sull’«individualismo apocalittico» che caratterizza la società tardo-capitalistica, sulla sua necrosi sociale. Come scrivo nelle mie pagine, abbiamo di fronte l’esempio della «generosità illimitabile», «preveggente» di libanesi, yemeniti, siriani, iracheni che, per difendere Gaza e «non deluderla», vanno incontro alla ferocia massacratrice degli ebrei-sionisti, degli statunitensi, degli europei. C’è la furia delle masse arabe, islamiche che vogliono liberare al-Quds (Gerusalemme) e avversano la corruzione dei loro governi asserviti ai sicli, ai dollari. Oppure, restando qui, nella nutrita minoranza dissidente sulle rive del Mediterraneo sotto il controllo dell’Unione Europea, c’è la devozione per la Palestina di militanti che affrontano efferatezze repressive e carcere. Per non parlare del movimento studentesco nel Nordamerica. Non ne farei dunque una questione universalizzante e fuorviante sulla natura umana. Mi ripeto, è inauditamente semplice: occorre invece operare una semplice distinzione tra chi è complice, consapevole o inconsapevole, del genocidio coloniale dei palestinesi e degli oppressi, e chi è disposto a mettere in gioco tutto pur di combattere con la necessaria spietatezza accanto ai palestinesi e agli oppressi.
L’AUTORE
Filippo Kalomenìdis, scrittore, poeta e militante politico. Ha pubblicato La direzione èstorta. Reportage lirico sul Covid-19 e i virus del potere (2021) e, con il Collettivo Eutopia, Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (2022). È stato sceneggiatore per il cinema (Io sono con te, 2010) e la televisione (tra le serie di cui è autore, Il Grande Gioco, 2022).
Filippo Kalomenìdis La rivoluzione palestinese del 7 ottobre
Sinossi-Questo libro è “un mosaico di testi disegnato dall’esaltazione per il grido celeste di Gaza insorta, il moto corale che da un sabato d’inizio autunno mostra che i potenti possono sanguinare; dal crescente senso di sconforto e solitudine che vive in Italia ognuno dei militanti sinceri per la Palestina; dalla domanda crudele: perché il più esteso movimento giovanile, sorto da oltre vent’anni, è così isolato socialmente e incapace d’incidere a livello politico e comunicativo?”. Dalla prigionia nelle carceri sioniste di Khaled El Qaisi, nel settembre 2023, sino al martirio di Fouad Alì Shokr a Beirut e Ismail Haniyeh a Teheran, nella notte tra il 30 e il 31 luglio 2024, Filippo Kalomenìdis ripercorre la storia della resistenza palestinese, combinando tra loro poesie, saggi e interviste e dando vita a un’intensa raccolta di saggi eretici e poetico-politici sulla Palestina.
Pgreco editore
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Articolo di Sergio Paolo Ronchi-Cassia e la sua produzione letteraria integrale in prima edizione italiana-Omonima della seconda figlia di Giobbe, la giovane «colta e bellissima» Cassia portò il segno di essere stata scelta dall’imperatore bizantino Teofilo (829-842) fra le candidate a consorte. A lei, infatti, si rivolse con le parole: «Dalla donna sono derivati i mali». La replica fu: «Ma dalla donna sono venute fuori anche cose migliori». Teofilo passò oltre. Così, quella che fu l’unica poetessa bizantina dell’intero millennio, recitano le cronache coeve, «fondò un monastero e, presa la tonsura, condusse vita ascetica». Di lei, semisconosciuta, Città Nuova offre la prima versione italiana integrale delle opere*.
La produzione letteraria di Cassia comprende due generi: la poesia religiosa concentrata nei due principali libri liturgici della Chiesa orientale. Il primo, il Menaion, contiene i libri relativi a ogni singolo mese dell’anno: il secondo, il Triodion, l’ufficio per le dieci settimane precedenti la Pasqua. Il secondo genere, Sentenze, che – precisa il curatore Lucio Coco – «riguardano l’uomo e le false maschere che egli indossa dell’ipocrisia, della falsità, della menzogna, dell’invidia, che rivelano un mondo di passioni basse e abiette alle quali la donna oppone le ragioni della sincerità, della solidarietà e dell’amicizia, sentimento a cui dà la precedenza non solo nella sequenza delle massime, arrivando a scrivere che neppure “la ricchezza è utile, se non ha un amico”». Né mancano, in questo richiamarsi alla letteratura sentenziosa e gnomica (pertinente a precetti morali), «anche argomenti più intimi e personali come quello della solitudine che la donna ben descrive in passaggi molto brevi e intensi». L’immagine che ne emerge è «di una donna pragmatica, decisa e determinata», «che ha sofferto e [che] si è confrontata con le difficoltà della vita». Inoltre, le vengono attribuite anche le poesie del Tetraodion, comprese musica e parole; due canoni: per il Sabato santo e per il giorno dei morti. È un componimento fatto di odi o cantici biblici.
I suoi versi sono sottesi da profonda spiritualità e legati alla Scrittura. Viene celebrato Simeone lo Stilita (IV secolo), l’asceta che viveva nel deserto su colonne: «Da una buona radice/ un frutto buono è cresciuto,/ Simeone, santo dalla nascita,/ di grazia più che di latte sei stato nutrito;/ (…) sei divenuto la dimora di Cristo Dio/ e Salvatore delle nostre anime» (Menaion). Il tempo quaresimale viene aperto dalla parabola evangelica del fariseo e del pubblicano: «Dio Onnipotente, io so quanto è grande il potere il potere delle lacrime./ Esse ritrassero Ezechia dalle porte della morte [2 Re 20, 1-6],/ salvarono la peccatrice da anni di peccato [Lc 7, 36-50],/ giustificarono il pubblicano a differenza del fariseo [Lc 18, 9-14]./ Io ti prego di mettermi nel loro numero;/ abbi pietà di me »(Triodion). Nel canone per i morti: «O misericordioso, quando verrai nella gloria/ a giudicare con equità tutta la terra/ e separerai come, è scritto,/ i giusti dagli ingiusti, dai pace, o misericordioso, ai dipartiti/ e inseriscili con le pecore alla tua destra [Mt 25,33] (Tetraodion)».
Espressione della sapienza di Cassia, le Sentenze sono sempre pervase dalla fede e dalla fiducia in Dio. «Se ti trovi in difficoltà, non ti abbattere;/ assolutamente niente infatti potrebbe capitarci senza che Dio lo voglia». Parlano contro la stupidità e invitano a praticare l’intelligenza: «Cristo mi conceda di soffrire/ accanto ad uomini saggi e sapienti/piuttosto che gioire con irragionevoli stupidi»; «Meglio vivere con persone sagge/ che con ricchi stupidi e ignoranti». Altre sono dedicate alla figura del monaco in correlazione alle sue proprie scelte di vita: «Vita di monaco, più leggera di un uccello/ Monaco è una vita [passata] da solo/[…]./ Vita di monaco sempre in pace./[…]./ Monaco è lingua educata/[…]./ Vita di monaco a gloria di Dio solo».
*Cassia, Opere; introduzione, traduzione e note di Lucio Coco, Città Nuova, Roma 2022, pp. 116, e. 24,00.
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