Francesco Attardi – Lorenzo Casati, Ottorino Respighi. Un iceberg sinfonico-
Articolo di Antonio Castronuovo-Ottorino Respighi-Un iceberg sinfonico-Appassionato melomane, ho sempre voluto capire sul piano storico ed estetico quel che ascolto, e sono convinto che la Grande Musica, quella che dai vagiti medievali all’inoltrato Novecento erroneamente chiamiamo Classica – perché appunto non della sola classica si tratta, quella degli Haydn, Mozart e Beethoven – non si possa intendere senza conoscere la storia delle epoche in cui sgorgò, delle vite di chi la compose, della società che la portava in pubblico mediante allestimenti e interpretazioni.
Ottorino Respighi. Un iceberg sinfonico
Ne discende che bisogna leggere tanto, e non sempre soffrendo, come appunto mi è accaduto con un volume della stazza di un dizionario: Ottorino Respighi. Un iceberg sinfonico. Mille pagine dedicate a un compositore che più trascurato non si può, il Respighi nato nel 1879 nella Bologna dotta e grassa e scomparso a Roma nel 1936, capace di produrre nella sua pur breve vita un’opera di prodigiosa ampiezza e – come il volume dimostra – anche di sorprendente qualità e valore. Fu infatti, come il volume afferma, un «Mozart del Novecento», per musicalità, bellezza e solarità, qualità che lo rendono ben degno – come oggi si dice con indisponente terminologia – di riscoperta e rivalutazione. Diciamo che noi italiani dobbiamo proprio scoprirlo e valutarlo ex novo, non altri, visto che negli Stati Uniti Respighi ottenne in vita larga considerazione.
Il grosso lavoro saggistico è guidato da un preciso programma, che è poi anche una realtà inequivocabile: «La musica italiana, quella ‘vera’ per i pubblici di tutto il mondo – a parte il nostro Rinascimento e Barocco venerato dai cultori – è stata ed è rimasta quella operistica. Solo Respighi è riuscito ad infrangere ‘the glassceilinig’, il soffitto di cristallo e i pregiudizi che identificavano l’Italia come il regno esclusivo del melodramma. E a tutt’oggi egli resta l’unico sinfonista italiano conosciuto ed eseguito con grande successo all’estero, un ‘brand’ di italianità che suscita sempre stima e ammirazione» (p. 40).
Ottorino Respighi
Leggo questa appropriata osservazione nella prima sezione del volume, detta Ouverture. Ci attenderemmo che un’opera di analisi e ricerca come questa debba avvalersi di una introduzione storico-biografica robusta e di coerente struttura rettilinea, dall’inizio alla fine, dalle fondamenti generali alle conseguenze particolari. E invece Attardi – che la firma – ha compiuto un’operazione che all’inizio disorienta: un collage di frammenti che spaziano dalla biografia alla collocazione storica di Respighi, dai rapporti con gli altri pianeti della musica primo-novecentesca ai caratteri della critica sul compositore, senza un ordine apparente. Una sezione ampia e di lusingante lettura, come accade per le migliori prove di letteratura analogica. E non dico ‘letteratura’ a caso: Attardi sarà anche uomo di musica pratica (dirige orchestre e cura la pubblicazione di musiche del Novecento) ma sa scrivere, e saper scrivere non significa solo evitare i pataracchi sintattico-grammaticali cui la sciatteria del nuovo secolo ci sta abituando, significa anche rendere intrigante – e dunque incuriosente per il lettore – le pagine che si affidano alla stampa: non è da tutti.
Il volume in sé, il vasto lavoro musicologico compiuto dagli autori, consta di trentasei capitoli che analizzano le opere sinfoniche di Respighi, un settore della sua produzione di cui – mediante i ‘soliti’ poemi sinfonici Fontane, Pini e Feste di Roma, cui forse qualche raro ascoltatore aggrega Vetrate di chiesa e Trittico botticelliano – conosciamo solo la punta di un iceberg compositivo: una «montagna sommersa di cui vediamo solo la vetta», sbotta il libro. Perché appunto «lo studio delle partiture respighiane rivela a tutt’oggi tesori nascosti che farebbero la gioia dei pubblici e delle orchestre di tutto il mondo».
In musicologia, gli studi sono realizzati quasi sempre mediante pagine specialistiche faticose, anche noiose: la scienza si adagia perlopiù in saggi accademici, che servono al progresso degli studi e delle conoscenze ‘scientifiche’, fondate sull’omonimo metodo di analisi rigorosa e logico-razionale di dati verificabili e annunciati «in nota»: ogni affermazione è credibile se ha un riferimento, più o meno autorevole, in una rete infinita di saggi che rimandano dall’uno all’altro. Il metodo è sommamente utile, ma perseguirlo implica quasi sempre la bassa leggibilità e il mesto destino di archiviazione nelle biblioteche specialistiche. Ma ho detto appunto «perlopiù», non tutta la musicologia è così, e qui accade il miracolo: questo Respighi si legge gradevolmente.
Vi concorre il prodigo scialo di spazio che l’edizione ci dona, margini ariosi e larga interlinea (scelta d’impaginazione che di rado corre nelle pubblicazioni), ma agisce qualcosa di più rilevante: tutto è reso in maniera tale da attirare, non respingere. Il segreto? Una scrittura non ampollosa, elegante, luminosa sul piano di morfologia e sintassi, e infine – per usare un termine riassuntivo – limpida. E la chiarezza – va rammentato – è una proprietà relazionale, l’effetto dipende dalla relazione che si crea tra autore e lettore, che si accosta a un testo in maniera attiva, con i propri interessi e saperi: Attardi e Casati fanno ottimamente la loro parte relazionale invitando, non respingendo.
Consapevole di questo, non ho compiuto il gioco di capire a chi risalgono i diversi capitoli, se a un autore o all’altro. Agevolato dalla rapidità concessa dal nitore delle pagine ho solo famelicamente voluto sapere. E se pure si tende a cominciare da quel che un po’ si conosce – i capitoli sui celebri poemi sinfonici ‘romani’ di Respighi – la curiosità si sposta poi sul resto, semmai guidati proprio dalla citata relazionalità: essendo un ‘belfagoriano’ (non solo per attrazione machiavellica, anche per aver collaborato anni con la rivista «Belfagor») corro subito al capitolo dedicato alla Ouverture tratta dai temi principali dell’opera Belfagor. È un buon esempio di cosa sia questo libro: una sostanziosa sezione di descrizione musicologica, ma tutt’attorno una festa di colta intelligenza: i riferimenti all’arcidiavolo che scende in terra per capire se il matrimonio sia per l’uomo come l’inferno in terra, e sposandosi lo sperimenterà trovandosi immerso in cattiverie, inganni e un cumulo di debiti; legami con gli studi di Jung e cenni al dualismo; riferimenti alla storia della composizione e a come avvenne il transito da opera a Ouverture, che non fu composizione anteposta al melodramma, ma appunto cosa che, nata dopo, raccoglie i principali spunti motivici dell’opera, fino a ottenere un gioiello sinfonico.
Potrei continuare, ma porto l’attenzione sul capitolo dedicato a una meraviglia negligentemente trascurata del Novecento: Metamorphoseon XII Modi del 1930, superbo ciclo di dodici variazioni su un tema pentatonico (ah, l’ombra del mio adorato Bartók…) composto per i cinquant’anni della Boston Symphony Orchestra, capolavoro sepolto ma che il saggio definisce le «Goldberg sinfoniche», nate con la mediazione storica delle più celebi variazioni intercorse a partire da Bach: le Diabelli di Beethoven, quelle su tema di Haydn di Brahms e le Variazioni per orchestra op. 31 di Schönberg.
Per il gioco delle idee musicali che nascono da temi elementari e si combinano nelle maniere più disparate e complesse, il capitolo ha un terminale riferimento al Giuoco delle perle di vetro di Hermann Hesse, romanzo del 1931, contemporaneo dunque all’opera di Respighi. Ma è la conclusione a lusingarci: «Dopo l’analisi e l’ascolto dei Metamorphoseon, tesoro nascosto ai più sconosciuto, possiamo lasciarci alle spalle finalmente un secolo di false credenze, equivoci, conoscenza parziale, giudizi critici superficiali e mistificazioni ideologiche riguardo alla portata storica di questo Genio italiano e del suo incommensurabile universo musicale».
Mi piace in primo luogo che Genio sia scritto in maiuscolo: auspico che si cominci ad abbandonare – dopo decenni di ubriacatura – la sciatteria del totale livellamento di giudizio e si riconosca, anche con un minuscolo segno di rispetto qual è una maiuscola, che sono esistite – ed esisteranno – menti superiori, cui essere grati per le creazioni che concorrono alla bellezza della nostra vita. A parte ciò, io che non conoscevo Metamorphoseon mi sono disposto – ancorché non sia d’immediata accessibilità – ad ascoltare l’opera con attenzione, ottenendone un piacere originale e soddisfacente.
Ho ascoltato e compiuto il tragitto a rovescio: se da melomane desidero conoscere sul piano storico e analitico quel che ascolto, in questo caso è accaduto il contrario: ho voluto ascoltare quel che ho appreso da un libro. E questo in fondo dovrebbe essere il fine di un saggio musicologico: far conoscere, e proiettare dalle proprie pagine al mondo della musica reale. Quando ciò accade, un saggio centra il proprio obiettivo.
Francesco Attardi – Lorenzo Casati, Ottorino Respighi. Un iceberg sinfonico, Lucca, LIM, 2024.
Articolo di Antonio Castronuovo
Ottorino Respighi. Un iceberg sinfonico
Tra i compositori italiani solo Ottorino Respighi è riuscito ad infrangere “the glass ceiling”, il soffitto di cristallo dei pregiudizi che identificavano l’Italia come il regno esclusivo dell’opera, e il suo nome come sinfonista rimane un “brand” di italianità che suscita ancora stima e ammirazione, anche se limitato a pochi titoli come i Pini e le Fontane. Questo libro vuole portare alla luce il grande patrimonio sommerso di un imponente iceberg sinfonico, ignorato anche dai nostri critici, cercando di svelare le molte personalità del Respighi uomo e compositore, attraverso una quarantina di brani sinfonici ognuno dei quali ha una sua individualità e compiutezza da far impallidire le opere più note.
I grandi fotografi. Ediz. illustrata di Juliet Hacking
C. Spinoglio (Traduttore)- Editore Einaudi
I grandi fotografi. Ediz. illustrata di Juliet Hacking
Descrizione del libro di Juliet Hacking- “Ridurre circa 180 anni di produzione fotografica (si pensi che il solo Cartier-Bresson produsse di più di mezzo milione di negativi in un’unica vita) a meno di quaranta nomi, significa che le biografie presentate qui appartengono a coloro che sono passati alla posterità. I trentotto artisti rappresentati in queste pagine hanno tutti creato immagini straordinarie servendosi della fotografia. Ma non sono assolutamente i soli grandi fotografi esistenti. Lo scopo di raccontare queste vite è quello di rammentare al lettore alcuni dei piaceri e dei valori della biografia nel suo rapporto con la storia dell’arte: non solo la sua accessibilità e il suo interesse, ma anche il suo ruolo di correttivo alla moda attuale delle cronologie (con la loro natura sedicente fattuale). Spero che questi brevi saggi aiutino a controbilanciare l’idea dominante secondo cui la biografia è anti intellettuale. Anche se l’aforisma classico ars longa, vita brevis continua a essere attuale, ora siamo meno inclini a concepire la vita e l’opera di un artista in opposizione tra loro, e le vediamo entrambe come l’arena in cui si modellano, si forgiano e si creano forme nuove con il loro irresistibile slancio vitale”.
Juliet Hacking Faculty London Sotheby’s Institute of Art
L’Autrice. Juliet Hacking, dopo aver diretto per tre anni il Dipartimento di fotografia di Sotheby’s di Londra, dal 2006 dirige il Master in fotografia (storica e contemporanea) del Sotheby’s Institute of Art. Ha curato e scritto il catalogo per la mostra «David Wilkie Wynfield: Princes of Victorian Bohemia» per la National Portrait Gallery. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il volume, da lei curato, Photography. The Whole Story (Thames & Hudson 2012) e, in italiano, I grandi fotografi (Einaudi, 2015).
Juliet Hacking
Program Director, MA Contemporary Art, London
PhD, MA and BA (Hons), Courtauld Institute of Art, London.
Juliet Hacking began her academic career as a Visiting Lecturer (at the Universities of Derby and Reading, and the Courtauld Institute). In 1999 she took on a year-long research post at the National Portrait Gallery, London, where she also curated the exhibition and wrote the book ‘Princes of Victorian Bohemia: Photographs by David Wilkie Wynfield’ (Prestel, 2000). From 2000 to 2003 she was a junior specialist in the Photographs Department at Sotheby’s auction house in London; becoming, in 2003, Head of the department. She joined Sotheby’s Institute of Art, London, in 2006, and was the Programme Director of the MA in Photography for 10 years. In 2016 she became a member of the MA in Contemporary Art faculty, and was recently appointed its Programme Director. She is the author of ‘Lives of the Great Photographers’ (2015), general editor of ‘Photography: The Whole Story’ (2012) [both Thames & Hudson], author of ‘Photography and the Art Market’ (Lund Humphries, 2018) and the co-editor of ‘Photography & the Arts: Essays on 19th-Century Practices and Debates’ (forthcoming, Bloomsbury). She is also co-series editor of ‘Hot Topics in the Art World’ with Lund Humphries.
Giovanni Pascoli lettere al pittore Antony De WITT
Articolo dalla Rivista PEGASO diretta da Ugo Ojetti-N°1 del Gennaio 1932
pittore Antony De WITT
, Nacque a Livorno il 22 febbraio 1876 da Vittorio Antoni e da Palmira De Witt, proprietari di un’agenzia marittima, e trascorse l’infanzia tra Livorno e le colline pisane. Dal 1910 decise di adottare il cognome della madre, discendente da un’antica famiglia di feudatari borgognoni trasferitisi in Toscana e qui imparentati con gli Antoni di Pisa. Studiò presso il Liceo G. B. Niccolini di Livorno, dove ebbe come insegnante Giovanni Pascoli. Appassionatosi alla pittura, iniziò a frequentare Angiolo e Adolfo Tommasi e strinse amicizia con Fattori e Lega. Giovanissimo, esordì alla Promotrice di Torino del 1891 con il dipinto “Ruscello in primavera”, che ricevette le lodi di Signorini e fu acquistato dal re, che lo donò alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze.
Giovanni Pascoli nasce a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. All’età di dodici anni perde il padre, ucciso da una fucilata sparata da ignoti; la famiglia è costretta a lasciare la tenuta che il padre amministrava, perdendo quella condizione di benessere economico di cui godeva. Nell’arco dei sette anni successivi, Giovanni perderà la madre, una sorella e due fratelli. Prosegue gli studi prima a Firenze, poi a Bologna. Nella città emiliana aderisce alle idee socialiste: durante una delle sue attività di propaganda nel 1879 viene arrestato. Consegue la laurea in Lettere nel 1882.
Giovanni PascoliGiovanni Pascoli lettere al pittore Antony De WITTGiovanni Pascoli lettere al pittore Antony De WITTGiovanni Pascoli lettere al pittore Antony De WITTGiovanni Pascoli lettere al pittore Antony De WITTGiovanni Pascoli lettere al pittore Antony De WITTGiovanni Pascoli lettere al pittore Antony De WITTGiovanni Pascoli lettere al pittore Antony De WITT
Giovanni Pascoli
Biografia di Giovanni Placido Agostino Pascoli nasce a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855.All’età di dodici anni perde il padre, ucciso da una fucilata sparata da ignoti; la famiglia è costretta a lasciare la tenuta che il padre amministrava, perdendo quella condizione di benessere economico di cui godeva. Nell’arco dei sette anni successivi, Giovanni perderà la madre, una sorella e due fratelli. Prosegue gli studi prima a Firenze, poi a Bologna. Nella città emiliana aderisce alle idee socialiste: durante una delle sue attività di propaganda nel 1879 viene arrestato. Consegue la laurea in Lettere nel 1882.
Inizia a lavorare come professore: insegna greco e latino a Matera, Massa e Livorno; suo obiettivo è quello di riunire attorno a sè i membri della famiglia. In questo periodo pubblica le prime raccolte di poesie: “L’ultima passeggiata” (1886) e “Myricae” (1891). L’anno seguente vince la prima delle sue d’oro al concorso di poesia latina di Amsterdam; parteciperà varie volte negli anni, vincendo in totale 13 medaglie d’oro.
Dopo un breve soggiorno a Roma si trasferisce a Castelvecchio di Barga, piccolo comune toscano dove acquista una villetta e una vigna. Con lui vi è la sorella Maria – da lui affettuosamente chiamata Mariù – vera compagna della sua vita, considerato che Pascoli non si sposerà mai.
Ottiene un posto per insegnare all’università, prima a Bologna, poi a Messina e infine a Pisa. In questi anni pubblica tre saggi danteschi e varie antologie scolastiche.
La produzione poetica prosegue con i “Poemetti” (1897) e i “Canti di Castelvecchio” (1903). Convertitosi alle correnti nazionaliste, raccoglie i suoi discorsi sia politici, che poetici e scolastici nei “Miei pensieri di varia umanità” (1903).
Ottiene poi la prestigiosa cattedra di Letteratura italiana a Bologna, prendendo il posto lasciato da Giosuè Carducci.
Nel 1907 pubblica “Odi ed inni”, a cui seguono “Canzoni di re Enzo” e i “Poemi italici” (1908-1911).
La poesia di Pascoli è caratterizzata da una metrica formale fatta di endecasillabi, sonetti e terzine coordinati con grande semplicità. La forma è classica esternamente, maturazione del suo gusto per le letture scientifiche: a tali studi si ricollega il tema cosmico di Pascoli, ma anche la precisione del lessico in campo botanico e zoologico. Uno dei meriti di Pascoli è stato quello di rinnovare la poesia, toccando temi fino ad allora trascurati dai grandi poeti: con la sua prosa trasmette il piacere delle cose semplici, usando quella sensibilità infantile che ogni uomo porta dentro di se.
Pascoli era un personaggio malinconico, rassegnato alle sofferenze della vita e alle ingiustizie della società, convinto che quest’ultima fosse troppo forte per essere vinta. Nonostante ciò, seppe conservare un senso profondo di umanità e di fratellanza. Crollato l’ordine razionale del mondo, in cui aveva creduto il positivismo, il poeta, di fronte al dolore e al male che dominano sulla Terra, recupera il valore etico della sofferenza, che riscatta gli umili e gli infelici, capaci di perdonare i propri persecutori.
Nel 1912 la sua salute peggiora e deve lasciare l’insegnamento per curarsi. Trascorre i suoi ultimi giorni a Bologna, dove muore il 6 aprile.
Opere principali di Giovani Pascoli
1891 – Myricae (I edizione della fondamentale raccolta di versi)
1896 – Iugurtha (poemetto latino)
1897 – Il fanciullino (scritto pubblicato sulla rivista “Il Marzocco”)
1897 – Poemetti
1898 – Minerva oscura (studi danteschi)
1903
– Canti di Castelvecchio (dedicati alla madre)
– Myricae (edizione definitiva)
– Miei scritti di varia umanità
1904
– Primi poemetti
– Poemi conviviali
1906
– Odi e Inni
– Canti di Castelvecchio (edizione definitiva)
– Pensieri e discorsi
1909
– Nuovi poemetti
– Canzoni di re Enzio
– Poemi italici
1911-1912
– Poemi del Risorgimento
– Carmina
– La grande proletaria si è mossa
Biografia Antony De WITT
pittore Antony De WITT
Antony De Witt, Nacque a Livorno il 22 febbraio 1876 da Vittorio Antoni e da Palmira De Witt, proprietari di un’agenzia marittima, e trascorse l’infanzia tra Livorno e le colline pisane. Dal 1910 decise di adottare il cognome della madre, discendente da un’antica famiglia di feudatari borgognoni trasferitisi in Toscana e qui imparentati con gli Antoni di Pisa. Studiò presso il Liceo G. B. Niccolini di Livorno, dove ebbe come insegnante Giovanni Pascoli. Appassionatosi alla pittura, iniziò a frequentare Angiolo e Adolfo Tommasi e strinse amicizia con Fattori e Lega. Giovanissimo, esordì alla Promotrice di Torino del 1891 con il dipinto “Ruscello in primavera”, che ricevette le lodi di Signorini e fu acquistato dal re, che lo donò alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze. In seguito partecipò alle Promotrici di Genova, Firenze e Torino e alla Triennale di Brera. In questo periodo realizzò alcune tempere dedicate al Pascoli e alcune illustrazioni per la terza edizione di Myricae (1894). Fu lo stesso poeta ad ampliare l’orizzonte delle sue conoscenze presentandolo ad Adolfo De Bosis, direttore della rivista “Il Convito”, a Lorenzo Viani e a Giacomo Puccini, di cui frequentò la casa di Torre del Lago. All’attività artistica affiancò gli studi scientifici, che portò a termine nel 1897, conseguendo la laurea in scienze fisiche e naturali presso l’Università di Pisa sotto la guida di Sebastiano Richiardi. Nello stesso anno partecipò alla Biennale di Venezia con due disegni, oggi dispersi, dal titolo “Raccolta di impressioni” e pubblicò una serie di articoli dedicati all’esposizione sulla rivista “La Tribuna”, scritti in collaborazione con Domizio Torrigiani. Verso il 1901 si trasferì a Cagliari, dove per necessità intraprese l’insegnamento scolastico delle scienze. Nel 1903 espose nuovamente a Venezia; in questa occasione il suo dipinto “Pomeriggio di primavera in Sardegna” fu acquistato dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nel 1907 sposò Carlotta Palombella San Juste, con la quale rientrò a Livorno nel 1910, per stabilirsi successivamente a Lucca, nel 1913. In questo periodo realizzò un numero limitato di dipinti e disegni, più numerose furono invece le incisioni, acqueforti e xilografie. Nel 1912 iniziò a collaborare con l’Eroica, diretta da Ettore Cozzani, ed entrò a far parte della Corporazione degli Xilografi Italiani, con cui espose, nel 1912, alla Mostra Internazionale di Xilografia di Levanto, alla Biennale veneziana del 1914 e alla Secessione romana 1915. Nel 1919 fu pubblicato un intero fascicolo della rivista a lui dedicato. Nel 1920 si recò in Argentina, dove iniziò a scrivere il romanzo “Estancia” (pubblicato a Milano nel 1925). Nel 1924 compì un lungo viaggio in Eritrea, poi in Germania, in Olanda e in Norvegia. Nel 1928, infine, si stabilì a Firenze, dove ricoprì la carica di direttore del Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi. Nel 1932 sposò la norvegese Sigrid Ferrè; nello stesso periodo compì un secondo viaggio in Argentina e nel 1938 si recò a Oslo (qui alcuni suoi dipinti furono acquistati dalla Galleria Nazionale) e Brekkesto, stringendo rapporti con l’ambiente artistico locale. A partire degli anni Venti rallentò l’attività espositiva, eccezion fatta per la partecipazione alle Biennali veneziane del 1928 e del 1930. Dopo la guerra riprese ad esporre in occasione della VI, VII e IX edizione del Premio Nazionale del Fiorino di Firenze (1955, 1956, 1958), della VII Quadriennale romana (1955-56), e di due personali alla Strozzina di Firenze (1954 e 1957). Nel 1962 fu chiamato ad esporre al Centro Culturale Olivetti di Ivrea. A partire dal 1965 eseguì le illustrazioni per l’edizione nazionale della Divina Commedia, in occasione delle Celebrazioni del centenario dantesco, e nel 1966 quella per la Gerusalemme Liberata. Numerose le collaborazioni con riviste e testate giornalistiche, tra cui La Nazione, Emporium, Pegaso, Dedalo, ecc. e le pubblicazioni a carattere storico artistico. Nel 1948 e nel 1949 affiancò C. L. Ragghianti nell’organizzazione delle mostre Nuova Arazzeria Artistica Fiorentina e l’Opera grafica di Munch. Nel 1955 pubblicò il secondo romanzo, “L’ora delle serve”. Morì a Firenze il 13 giugno 1967.
Personalità colta ed eclettica, alternò l’attività artistica con quella letteraria, con la critica d’arte e con interessi scientifici. Rivestono particolare importanza, per la ricostruzione della sua figura, l’antologica tenutasi a Firenze nel 1975, in Palazzo Strozzi, lo studio sulla sua opera grafica curato da G. L. Mellini (1976) e il catalogo della mostra a cura di Francesca Cagianelli, Antonio Antony De Witt: 1876-1967 (cat. della mostra, Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti) Firenze, Artificio, 1998.
Fonte- Archivio degli Artisti Lucchesi della Fondazione Ragghianti.
Giovanni PascoliBiblioteca DEA SABINA-Rivista PEGASO –Giovanni Pascoli lettere al pittore Antony De WITT
Omaggio a Vittorio De Sica -Il ricordo di Rai Cultura –
A cinquant’anni dalla scomparsa di Vittorio De Sica, Rai Culturaricorda uno dei massini protagonisti del cinema italiano con una programmazione dedicata, in onda mercoledì 13 novembre su Rai Storia. Si inizia alle 8.30 con l’almanacco de “Il giorno e la storia” (in replica alle 11.45, alle 14 e alle 20). Nato nel 1901, Vittorio De Sica esordisce dietro la macchina da presa nel 1939 con “Rose scarlatte”. Ma il suo nome è legato in maniera indissolubile alla grande stagione del Neorealismo. Con “Sciuscià” e “Ladri di biciclette” vince l’Oscar per il miglior film straniero. Dirige Sophia Loren in “La ciociara”, “Ieri, oggi e domani” e “Matrimonio all’italiana”. Con quest’ultimo, è ancora Oscar.
Vittorio De Sica
Alle 13.00 è la volta di Vittorio De Sica a “Canzonissima”, lo spettacolo televisivo Rai abbinato alla Lotteria Italia nel quale è stato più volte ospite. In una puntata del novembre 1970 e nella finalissima del 1971/72 è ospite di Raffaella Carrà e Corrado, che prova a dirigere con risultati clamorosi, e poi dà prova di recitazione decantando la poesia di Salvatore di Giacomo “Lassame fa a Dio”, e ritorna a Canzonissima con il figlio Christian, ospiti di Pippo Baudo e Loretta Goggi nel 1972. Alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia, poi, Paolo Mieli e lo storico Ermanno Taviani rileggono la figura di De Sica in “Passato e Presente”, tratteggiando il ritratto di un artista completo che ha lasciato una traccia indelebile nel cinema italiano e mondiale. E se la stagione più conosciuta è quella breve e intensissima del neorealismo, Vittorio De Sica ha avuto la capacità di cambiare stile, rinnovandosi completamente, tanto da far dire a Roberto Rossellini che De Sica è forse l’unico regista italiano a possedere così tanti registri espressivi. Una carriera inimitabile segnata da quattro premi Oscar e numerosissimi premi nazionali e internazionali.
Vittorio De Sica
A seguire – alle 13.30 su Rai Storia – in “Stasera: Gina Lollobrigida”, programma con la regia di Antonello Falqui, Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida si cimentano in uno sketch nel quale replicano la celebre scena dell’episodio “il processo di Frine” di “Altri Tempi” (1952) di Alessandro Blasetti nel quale De Sica è un distratto avvocato d’ufficio di una procace cittadina, interpretata da Gina Lollobrigida. Nella versione televisiva del 1969, si ironizza sull’eccessiva sensualità dell’attrice per gli standard della TV dell’epoca, e l’avvocato dell’accusa è interpretato da Riccardo Garrone. Alle 17.30 è in scena “Vittorio De Sica: autoritratto”, nel quale Vittorio De Sica, dal teatro Eliseo, racconta la sua vita di attore e regista e incontra alcune figure importanti per la sua carriera come Emma Gramatica, Sergio Tofano e Cesare Zavattini, in un documentario per la TV firmato da Giulio Macchi, pioniere della divulgazione scientifica in Rai con “Orizzonti della scienza e della tecnica”.
Vittorio De Sica
Btografia di Vittorio De Sica-Regista e attore teatrale e cinematografico, nato a Sora il 7 luglio 1901 e morto a Neuilly-sur-Seine (Île-de-France) il 13 novembre 1974. Grande autore del cinema italiano fu anche interprete di spiccata personalità e presenza scenica. Dotato di una capacità istintiva nel cogliere il lato amabile e ironico, come quello malinconico e a volte tragico, della realtà quotidiana, D. S. possedette la rara capacità di sdoppiarsi dapprima tra il teatro e il cinema, e poi tra una carriera di attore, versatile e adattabile, e di regista cinematografico; nei suoi film emerge una sensibilità straordinaria nel saper trasferire l’osservazione minuta della realtà nelle maglie di racconti strutturati su un sentimento di forte solidarietà umana. Apparso come attore in quasi duecento film, seppe realizzare, anche in quelli di minore qualità, una perfetta combinazione tra eleganza gestuale e vocale e un suo personale tratto istrionico. Valorizzato da Mario Camerini, a partire da Gli uomini, che mascalzoni… (1932), nella cosiddetta pentalogia piccolo-borghese, da questo regista D. S. acquisì i fondamenti dell’arte e della tecnica cinematografica che seppe fare suoi raffinandoli con profonda sensibilità e spessore umano. Si inserì autorevolmente nella storia del cinema con Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948), entrambi premiati con l’Oscar come migliori film stranieri rispettivamente nel 1948 e nel 1950, rivelando con lucida partecipazione l’amara realtà postbellica di un Paese materialmente e moralmente dilaniato. Grazie anche al contributo determinante dello scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini, che lavorò con lui in quasi tutti i suoi film, D. S. raggiunse la massima maturità artistica ed espressiva negli anni Quaranta, quando contribuì in maniera determinante alla nascita di una nuova cultura cinematografica, il Neorealismo.
Figlio di un assicuratore napoletano, dopo un’infanzia trascorsa a Napoli D. S. si diplomò in ragioneria, ma già nel 1917 aveva ricoperto il piccolo ruolo di G. Clemenceau ragazzo nel film Il processo Clemenceau di Alfredo De Antoni. Con l’attrice-regista T. Pavlova, ricca dell’esperienza della scena russa, D. S. tra il 1924 e il 1926 passò al professionismo teatrale, recitando poi da attore giovane nella compagnia Almirante-Rissone-Tofano (1927-1929). In questo periodo si cimentò saltuariamente anche sullo schermo in due film di Mario Almirante, La bellezza del mondo (1927) e La compagnia dei matti (1928). Deviò quindi verso il teatro popolare, entrando nel 1931 nella compagnia di teatro leggero e di rivista diretta da Mario Mattoli, in cui riportò grande successo anche per le canzoni interpretate; fu in quel periodo che D. S. definì il suo profilo di attore brillante e di fine dicitore e chansonnier. Dal 1932 intraprese in maniera costante anche la carriera d’attore cinematografico, interpretando da protagonista due film che confermarono la sua versatilità. In primo luogo Due cuori felici, di Baldassarre Negroni, film brillante con couplets cantati e una struttura da operetta, che non si allontanava di molto dagli spettacoli di rivista. Ma fu in Gli uomini, che mascalzoni… di Camerini, sceneggiato da quest’ultimo con Aldo De Benedetti e Mario Soldati, in cui D. S. canta la celebre canzone di C.A. Bixio Parlami d’amore Mariù, che espresse al meglio il suo stile, qui pienamente valorizzato, e rivelò il suo talento recitativo, trovando il giusto equilibrio nel disegnare un personaggio (l’autista Bruno) dall’animo semplice e il comportamento scanzonato, sullo sfondo di una Milano già industrializzata. Il film venne presentato alla prima Mostra del cinema di Venezia, consolidando il successo dell’attore. Dopo Un cattivo soggetto (1933), per la regia di Carlo Ludovico Bragaglia, e alcuni film di scarso rilievo, D. S. diede vita alla compagnia Tofano-Rissone-De Sica. In questo periodo avvenne anche l’incontro con due autori italiani, Aldo De Benedetti e Gherardo Gherardi, che segnò l’inizio di un felice e lungo sodalizio artistico. Nel 1935 fu di nuovo insieme a Camerini in Darò un milione, cui aveva collaborato, per il soggetto e la sceneggiatura, anche Zavattini. D. S. vi interpreta Gold, un milionario che, annoiato della sua vita abituale, decide di vivere una giornata diversa travestendosi da poveraccio ed entrando in contatto con un mondo molto lontano dal suo. Nella seconda metà degli anni Trenta continuò a intercalare cinema e teatro. Ma due film ancora di Camerini precisarono la sua figura di attore dal tratto amabilmente ironico: Il signor Max (1937) e Grandi magazzini (1939). In Il signor Max D. S. impersona il giornalaio Gianni, aspirante a un ruolo mondano, che durante un viaggio viene scambiato per un conte da un gruppo di nobili, e di conseguenza si trova a vivere due vite parallele. A questo film, da lui reinterpretato venti anni dopo nell’adattamento di Giorgio Bianchi (1957; Il conte Max) con Alberto Sordi nel suo ruolo del 1937, è stato dedicato un altro remake (Il conte Max, 1991) realizzato dal figlio Christian (n. Roma 1951), anch’egli regista e attore. In Grandi magazzini D. S. riveste il ruolo di un personaggio molto vicino al protagonista di Gli uomini, che mascalzoni…: ancora un autista, anch’egli di nome Bruno, che ha premura di difendere la povera commessa di un grande magazzino, ingiustamente accusata di furto. In questo stesso anno avvenne il primo incontro diretto tra D. S. e Zavattini, durante il quale il regista acquistò dallo scrittore il soggetto intitolato Diamo a tutti un cavallo a dondolo, da cui, dopo diversi rimaneggiamenti dello stesso Zavattini, sarebbe nata la sceneggiatura di Miracolo a Milano (1951). Non soddisfatto dei traguardi raggiunti e di essere definito lo ‘Chevalier italiano’, D. S. fu quasi sul punto di tornare in via definitiva al teatro quando, nel 1940, gli si aprì inaspettatamente la porta della regia cinematografica. L’esordio avvenne senza troppo clamore, con la trasposizione cinematografica del suo maggior successo teatrale, Due dozzine di rose scarlatte di A. De Benedetti, portato sulle scene dalla formazione De Sica-Rissone-Melnati al Teatro Argentina di Roma nel 1936. Il film, dal titolo Rose scarlatte, ebbe come coregista Giuseppe Amato; D. S. si limitò a dirigere con dedizione gli attori, tralasciando ancora i movimenti di macchina e la fotografia. A Maddalena zero in condotta (1940), che molto deve al brio dello stile cameriniano, seguì nel 1941 Teresa Venerdì, alla cui sceneggiatura collaborò, non accreditato, anche Zavattini. Il film, seppure ancora molto vicino allo stile di Camerini, evidenzia cambiamenti che si rintracciano nella particolare cura del montaggio, nell’elaborare un’atmosfera brillante non priva di riflessioni a sfondo sociale e in una propensione a evadere dalle convenzioni del cinema italiano di quel periodo. Durante la guerra D. S. riprese il teatro fino al 1942, nella nuova compagnia Tofano-Rissone-De Sica, portando sulle scene prevalentemente drammi di U. Betti (I nostri sogni, Il paese delle vacanze) e testi pirandelliani (Ma non è una cosa seria, Liolà). Dopo Un garibaldino al convento (1942), una divertita rievocazione storica, D. S. diresse I bambini ci guardano (1944) che segnò il passaggio deciso all’osservazione acuta dei sentimenti umani e della loro radice sociale. Il film, tratto dal romanzo Pricò di C.G. Viola e alla cui sceneggiatura Zavattini partecipò per la prima volta ufficialmente, rappresenta un’anticipazione di quella poetica che di lì a poco D. S. avrebbe progressivamente sviluppato e ampliato. Nel dramma interiore e nello sguardo del piccolo Pricò si legge la crudeltà e la durezza di quello stesso mondo piccolo-borghese che fino ad allora il regista si era limitato solo a rappresentare in maniera frivola e superficia-le. D. S., così, cambiò radicalmente e definitivamente la prospettiva del proprio cinema, precorrendo Sciuscià nello studio della condizione del bambino, vittima dell’egoismo e dell’incomprensione degli adulti. Il suo stile si fece più essenziale rintracciando negli esterni, nelle strade, nelle piazze, nel paesaggio urbano, una verità lontana dalle convenzioni dei teatri di posa. Durante uno dei suoi ritorni teatrali diresse la compagnia Isa Miranda, di cui (1944) va ricordata la messinscena di Tovarich di J. Deval; recitò quindi (1945), diretto da Alessandro Blasetti, nel dramma Il tempo e la famiglia Conway di J.B. Priestley. Nel 1946 formò la compagnia Effe De Sica-Gioi-Besozzi, l’ultima di cui fu capocomico. Della sua attività teatrale di quegli anni va ricordata soprattutto la partecipazione, proprio nel 1946, a Il matrimonio di Figaro di P.-A. de Beaumarchais, per la regia di Luchino Visconti. Mentre, al cinema, offrì interpretazioni misurate, talvolta drammatiche, in tre film: il primo di Gennaro Righelli, Abbasso la ricchezza! (1946), accanto ad Anna Magnani; il secondo, Natale al campo 119 (1947) di Pietro Francisci, dove è un nobile napoletano; il terzo, Cuore (1948) di Duilio Coletti, che gli valse il Nastro d’argento come miglior attore per l’intensa interpretazione del maestro Perboni. In La porta del cielo (1945), sceneggiato con Zavattini, l’allontanamento del regista dai canoni precedenti appare irreversibile. Girato, con un’avventurosa lavorazione, nel periodo dell’occupazione tedesca a Roma, il film segue, con una minuzia di osservazione che valorizza espressivamente il dato patetico, le storie di un gruppo di malati in viaggio verso il santuario di Loreto per chiedere il miracolo della guarigione, che però non avverrà. Ma fu con Sciuscià che D. S. consegnò alla storia del cinema un capolavoro del Neorealismo, ispirandosi alla storia di due giovanissimi lustrascarpe da lui realmente incontrati. Il film, sceneggiato da Zavattini, Adolfo Franci, Giulio Cesare Viola e Sergio Amidei, alterna la crudeltà delle situazioni a squarci e fughe nel sogno, e segue la vita dei due ragazzi (Franco Interlenghi e Rinaldo Smordoni) fino al drammatico tentativo di fuga dal carcere minorile, che conduce alla morte di uno dei due. Con semplicità e sotto tono D. S. svela una realtà dilaniata dalla guerra, utilizzando il senso tragico dell’azione per un atto d’accusa contro il sistema giudiziario e carcerario minorile. A partire da questo film e nella sua fase neorealista, D. S. adottò la pratica di ricorrere a interpreti presi dalla strada, dimostrando un’attitudine particolare nel renderli aderenti alla resa di verità del film. Nel 1948 uscì la sua opera più famosa e più premiata, Ladri di biciclette, dal romanzo di L. Bartolini, sceneggiata ancora una volta da Zavattini (con Oreste Biancoli, Suso Cecchi d’Amico, A. Franci, G. Gherardi, Gerardo Guerrieri) e interpretata da attori non professionisti. È un racconto immerso nella realtà delle strade e dei quartieri della Roma segnata dalla guerra, in cui campeggia la disperazione di un disoccupato al quale, trovato finalmente un posto di attacchino, rubano la bicicletta, strumento essenziale per il lavoro. Dall’affannoso deambulare del protagonista (Lamberto Maggiorani) accompagnato dal figlioletto (Enzo Stajola), spaurito e partecipe del dolore del padre, dalla ostile indifferenza e dalla desolazione che li circondano emerge il quadro di una condizione umana e sociale filmato con accorta pietas. Il film riscosse un enorme successo in tutto il mondo. Con Miracolo a Milano, premiato nel 1951 con la Palma d’oro al Festival di Cannes, D. S. non ottenne invece il successo commerciale sperato. Con la sceneggiatura che Zavattini aveva ricavato dal suo romanzo Totò il buono (rimaneggiamento del suo vecchio soggetto Diamo a tutti un cavallo a dondolo), D. S. modellò la sua poesia del quotidiano sull’affettuosa descrizione delle miserie di una baraccopoli, mediante uno stile trasognato e funambolico. L’anno successivo, con Umberto D. il regista pervenne a un’asciuttezza livida e rigorosa, a uno stile scarno, ma accorato che penetra nelle pieghe della solitudine della desolata e umiliata vecchiaia del protagonista, un modesto pensionato (Carlo Battisti). Queste prove restano le più alte della sua opera registica, anche se per le polemiche sullo ‘sciorinamento dei panni sporchi’ di un’Italia piegata dalla guerra, D. S. fu osteggiato dagli ambienti politici di una certa Italia benpensante. Nel frattempo continuava le sue interpretazioni, disegnando caratteri e ruoli in cui il mestiere consumato si mescolava a dosi di garbata ironia. Lasciarono una traccia durevole, fra gli altri: Buongiorno, elefante! (1952) di Gianni Franciolini, in cui impersona il maestro Garetti, imbarazzato dall’ingombrante regalo di un elefante; di Blasetti, nel 1952, Altri tempi (Zibaldone n. 1), in cui è un tronfio ed esilarante avvocato napoletano nel processo a una moderna Frine (Gina Lollobrigida), e, nel 1954, Tempi nostri (Zibaldone n. 2), dove rappresenta la crepuscolare figura di un conte decaduto costretto a lavorare come comparsa cinematografica. Il ritorno alla regia avvenne con Stazione Termini (1953), irrisolta coproduzione con gli Stati Uniti, incerta tra sentimentalismo e ambizioni spettacolari.Con L’oro di Napoli (1954), dai racconti di G. Marotta, soprattutto negli episodi Il funeralino e I giocatori, D. S. raggiunse un notevole risultato espressivo grazie alla sua tipica sensibilità nel racconto dell’infanzia e mediante il ritratto icastico delle miserie e dell’umanità dei napoletani. Dopo aver interpretato il galante maresciallo in un classico del neorealismo rosa che avrà seguiti e imitazioni, Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini, nel 1956 D. S. ritornò alla regia con Il tetto, opera dotata di una certa sottigliezza descrittiva, sul problema della casa e della coabitazione. Con La ciociara (1960), tratto dal romanzo di A. Moravia, realizzò un film che possiede un ampio respiro narrativo quando descrive lo strazio di una madre umiliata dagli oltraggi della guerra (interpretazione che valse un Oscar a Sophia Loren), e accenna pudicamente alla malinconica vocazione alla morte di un intellettuale antifascista. Da attore D. S. aveva ricoperto nel 1959 la parte più importante del suo ultimo scorcio di carriera, diretto da Roberto Rossellini in Il generale Della Rovere, in cui è il doppiogiochista Giovanni Bertone prima povero imbroglione, via via coinvolto dalla tragedia della guerra, infine travolto dalla volontà di tener fede, paradossalmente sino alla morte, al ruolo interpretato. Nella regia di Il giudizio universale (1961) D. S. seppe incastonare in un surreale mosaico ambientato a Napoli una coralità che riprendeva la sua vena descrittiva migliore. I film successivi rientrano in schemi più convenzionali, quelli della commedia sentimentale o della satira sociale (Il boom, 1963; Matrimonio all’italiana, 1964, da Filumena Marturano di Eduardo De Filippo), ma alcuni contengono icastiche notazioni di costume, come La riffa, episodio di Boccaccio ’70 (1962; film a più mani diretto anche da Federico Fellini, Luchino Visconti e Mario Monicelli) o Ieri oggi domani (1963, Oscar per il miglior film straniero nel 1965) che consacrò il sodalizio di D. S. con la coppia Sophia Loren-Marcello Mastroianni, e in cui l’episodio di Adelina, dovuto al soggetto di E. De Filippo, è un sapido apologo sull’arte di arrangiarsi, o come Un mondo nuovo, noto anche come Un monde nouveau (1966), che si regge su una delicatezza di tocco che tratteggia bene le atmosfere psicologiche.
Nel suo ultimo periodo registico D. S. si piegò per lo più alle ragioni industriali, anche con coproduzioni interpretate da famosi attori stranieri, da Peter Sellers a Shirley MacLaine (Caccia alla volpe, 1966; Sette volte donna, 1967; Amanti, 1968; I girasoli, 1970; Lo chiameremo Andrea, 1972 furono melodrammi e commedie sentimentali di gusto convenzionale e ambizioni spettacolari). Accanto alle apparizioni televisiva nel Pinocchio (1972) di Comencini nel ruolo del giudice, e cinematografica in Il delitto Matteotti (1973) di Florestano Vancini, due regie furono rilevanti. In primo luogo quella di Il giardino dei Finzi Contini, dal romanzo di G. Bassani (1970, Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1971; Oscar per il miglior film straniero nel 1972), per il quale il figlio Manuel (n. Roma 1949) compose la colonna sonora, e in cui è evidente tutta l’abilità di D. S. nella direzione degli attori e nel dare colore e psicologia ad ambienti sociali, sentimenti umani, dissidi sentimentali. L’altra opera, Una breve vacanza (1973), è la storia di un’operaia calabrese, divisa tra la malattia e la voglia di vivere ed evadere dalle ossessioni familiari. In essa D. S. accentuò una vena intimista e ritrovò l’afflato, il concreto senso della solidarietà, il racconto umano delle cose, propri dei suoi primi capolavori. Nel 1967 aveva ottenuto la cittadinanza francese, anche per poter divorziare da Giuditta Rissone (da cui aveva avuto la figlia Emi) e sposare l’attrice spagnola Maria Mercader, conosciuta sul set di Un garibaldino al convento e sua compagna per la vita. Il viaggio (1974), ultimo film diretto da D. S., ancora interpretato da Sophia Loren, è un racconto, di derivazione pirandelliana, dove il percorso malinconico di una donna, tra amore e morte, suggella, quasi come un presagio, la fine dell’itinerario artistico e umano del regista.
Bibliografia
Agel, Vittorio De Sica, Paris 1955.
Leprohon, Vittorio De Sica, Paris 1966.
“Bianco e nero”, 1975, 9-12, nr. monografico a cura di O. Caldiron.
Mercader, La mia vita con Vittorio De Sica, Milano 1978.
Pecori, Vittorio De Sica, Firenze 1980.
Darreta, Vittorio De Sica: a guide to references and resources, Boston 1983.
Bolzoni, Quando De Sica era Mister Brown, Torino 1984.
De Sica. Autore, regista, attore, a cura di L. Miccichè, Venezia 1992.
Governi, A.M. Bianchi, Vittorio De Sica: Parlami d’amore Mariù, Roma 1993.
Hugh MacDiarmid at home with pipe in August 1972. PIC Hamish Campbell/TSPL.
Così si descrive Hugh MacDiarmid– Il poeta Comunista, nazionalista, eccessivo, gran bevitore: ode al poeta geniale che non possiamo leggere:Sono un uomo piccolo, sto sul palmo di una mano, e mi emoziona pensare il poeta che s’incunea a Whalsay, ferita rocciosa delle Shetland. Cercate Whalsay, ora, nel sobborgo metropolitano dove state, e svanite in quel rosario di rocce, in quella mistica oceanica. Il poeta voleva far parlare le pietre, dare nitore al bisbiglio roccioso che le convalida. Anche le rocce sognano.
“Leggenda vuole che… avesse trascorso tre giorni sulla spiaggia di West Linga dormendo in una grotta e appuntandosi ogni tipo di osservazione sulla geologia del posto, sui colori delle pietre e sui mutamenti di luce di quel cielo nordico” (Marco Fazzini). Era il 1933. L’anno dopo il poeta pubblica Stony Limits and Other Poems. In quella raccolta spicca il capolavoro. On a Raised Beach. Il poeta si chiama Christopher Murray Grieve, ha 42 anni, è un tipo strano, tra il rivoluzionario e il profeta, politico e biblico; i poeti lo conoscono come Hugh MacDiarmid, indossa quel nome dal 1922. In un busto scolpito nel bronzo, Hugh ha capelli che paiono un’aquila, occhi stretti come pugnali. Quell’anno, nel 1922, T.S. Eliot pubblica La terra desolata, e, beh, posto che valgano questi giudizi sommari – ma la vita, in fondo, è una somma di eventi sommari – On a Raised Beach è un poema più grande, selvaggio, possente. Spaventa. Ecco.
*
Hugh MacDiarmid
Il poema pare Giobbe ripetuto dalle labbra di Melville, una litania capace di ipnotizzare papà Atlantico. M’impressione il vigore, la forza che ha una cosa viva, con un muso e dei denti. Va letto, perciò, anche, come abbecedario d’etica, questo poema. Ne estraggo alcuni versi, a vortice:
“Dobbiamo essere umili. Siamo così facilmente vanificati dalle apparenze
Che non ci accorgiamo che queste pietre sono un tutt’uno con le stelle”
“È misero affare tentare di abbassare
L’arduo furore delle pietre alle fantasie futili degli uomini”
“La luna muove l’acque avanti e indietro,
Ma non si possono invogliare le pietre a procedere
Neanche un pollice al di qua o al di là dell’eternità”
“Sarà sempre più necessario trovare
Nell’interesse di tutta l’umanità
Uomini capaci di rifiutare tutto ciò che pensano tutti gli altri
Uomini, come una pietra rimane
Essenziale al mondo, inseparabile da quello,
E rifiuta ogni altra forma di vita”.
Hugh MacDiarmid
Hugh MacDiarmid è la leggenda della letteratura scozzese contemporanea. Piuttosto: ne è l’evocatore, il bardo, il guerriero, il re che ha scelto di deporre la corona per imbracciare il forcone. Giornalista di talento, MacDiarmid diventa poeta per scardinare dalle pastoie inglesi il gergo di Scozia. “L’uso dello scots che MacDiarmid propugnò sin dal 1922 intendeva svincolare questo vernacolo dall’oblio a cui era stato relegato… Ciò che diede forza ed efficacia alla così detta Rinascenza scozzese fu la mistura esplosiva di poetica ed azione politica portate all’eccesso, in definitiva, da un solo intellettuale: Hugh MacDiarmid” (Fazzini). A Drunk Man Looks at the Thistle, pubblico nel 1926 è il punto di svolta della letteratura scots. Per MacDiarmid l’opzione estetica è sostanzialmente politica: nel 1928 è tra i fondatori del National Party of Scotland, da cui viene espulso; dagli anni Trenta s’impegna tra le fila del partito comunista inglese, da cui viene espulso un paio di volte.
*
“La mia è la storia di un assolutista, i cui assoluti sono cresciuti a dismisura, fino al dolore nella vita privata”, ha detto. Di lui Kenneth Buthlay ha scritto: “MacDiarmid è il flagello dei Filistei, lo spietato intellettuale che cerca la rissa… era il bardo e il nemico del compromesso”. Il suo comunismo, per intenderci, era il contrario di quello professato dagli educati, cinici, abbienti poeti d’Albione, W.H. Auden, Stephen Spender. MacDiarmid era figlio di un postino, veniva dal sottosuolo, riuscì a leggere perché viveva di fronte alla biblioteca civica; nato nel 1892, durò fino al 1978. “Disprezzava le caste e le categorie, le classi sociali, culturali, l’accademia che, diceva, non è fallimentare, è criminale” (Ian Hamilton).
Mastico ancora quei versi, un’epica per petroglifi, dal vigore biologico.
Devo entrare in questo mondo di pietra adesso.
Fragmenti, striature, relazioni di tessere,
Ombre innumerevoli di grigio,
Forme innumerevoli,
E sotto tutte loro una stupenda unità,
Movimento infinito che si difende visibilmente
Contro ogni assalto del tempo e dell’acqua…
Penso che del libro mi dissero Andrea Ponso e Gian Ruggero Manzoni. Fu scoperta devastante. On a Raised Beach/Sopra un terrazzo marino. Era il 2001. Editore Supernova. Curatela, impeccabile, di Marco Fazzini. La domanda non sembri cretina: perché questo libro fondamentale di un poeta fondamentale non sta nella ‘bianca’ Einaudi o nello ‘Specchio’ Mondadori? Perché se raspo in Internet mi dicono che non è più disponibile (come se Ii libri fossero ben disposti)? A me pare, questa, seccamente, una idiozia.
Nella raccolta di saggi oxfordiani La riparazione della poesia Seamus Heaney dedica un testo a Hugh MacDiarmid, La fiaccolata di un singolo. Questo è il dettaglio culturale: “La posizione di MacDiarmid nella letteratura e cultura scozzese è per molti aspetti analoga a quella di Yeats in Irlanda, e le ambizioni indipendentiste degli scrittori irlandesi furono sempre molto importanti per lui. Il suo ardimento linguistico fu ampiamente incoraggiato dall’esempio di Joyce, mentre Yeats e altri scrittori successivi alla rinascita irlandese continuarono a esercitare un ampio influsso sul suo programma di nazionalismo culturale”. Ritratto personale: “Fu comunista e nazionalista, propagandista e plagiatore, bevitore e confusionario, e recitò tutte queste parti con straordinario vigore. Si fece dei nemici con la stessa passione con cui si fece degli amici. Fu stalinista e sciovinista, anglofobo e arrogante, ma la stessa tendenza all’eccesso che manifestava sempre, la qualità esorbitante che segnava tutto ciò che faceva, dava anche forza ai suoi successi e li rendeva duraturi. In altre parole, MacDiarmid possedeva quella ‘forza’ che Sir Philip Sidney giudicava essenziale segno distintivo della poesia stessa”.
*
Semus Heaney, al di là del detto accademico, dettò una meravigliosa poesia In Memoriam Hugh MacDiarmid. “Volgiti a me, MacDiarmid, dalle Shetland,/ occhio impietrito dal guardare pietra, sobrio,/ e ostinato”, comincia Heaney, esaltando il poeta “pazzo di scrittura”, con “quell’orgoglio di mettersi alla prova. Di solitudine”, che possiede “l’occhio ciclonico d’una poesia come le stagioni”. La terzina finale ricorda che il linguaggio è scelta di vita, estasi della prova, mai l’ornamento: “Nell’accento, nell’idioma,/ nell’idea come un cardo nel vento,/ un catechismo degno d’esser detto e ridetto in eterno”. Da nessun poeta ho percepito prossimità così chiara, ferina, all’elemento naturale. Questo è un poeta in cui rovinare. (d.b.)
***
Hugh MacDiarmid
Mi sono innamorato alfine del deserto,
La dimora della serenità suprema è inevitabilmente un deserto.
La mia disposizione è per le questioni spirituali,
Rese inumanamente chiare; non permetterò che nulla sia interposto
Tra la mia sensibilità e la sterile eppur bella realtà;
La chiarezza mortale di questo “vedere da affamato”
Solo le tracce d’una febbre di passaggio sulla mia visione
Varieranno, turbandola davvero, ma turbandola solo
In modo che acquisterà per un momento
Una chiarezza sovrumana, minacciosa: il riflesso
D’una brillantezza attraverso un cristallo bruciante.
Una cultura richiede agio e l’agio presuppone
Un ritmo di vita auto-determinato; l’abilità di star solo
È la sua prova; con ciò il deserto ci conosce.
Non è questione di sfuggire alla vita
Ma il contrario: questione d’acquisire il potere
D’esercitare la solitudine, l’indipendenza, delle pietre,
E quello viene solo dal sapere che la nostra funzione permane,
Per quanto sembriamo isolati, essenziale alla vita come la loro.
Abbiamo perso le fondamenta del nostro essere,
Non abbiamo edificato sulla roccia.
Hugh MacDiarmid
*Il brano di Hugh MacDiarmid è tratto dal poema “On a Raised Beach/Sopra un terrazzo marino”, Supernova, 2001, cura e traduzione di Marco Fazzini
Fonte-Pangea • Rivista avventuriera di cultura & idee è un progetto di Associazione Culturale Pangea- Direttore editoriale: Davide Brullo.
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025-
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025
Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025-Sabato Santo -Pasqua del Signore– Fotoreportage di Franco LEGGERI-citando il Poeta
Johann Wolfgang von Goethe che così dipinse la nostra Campagna Romana: “Armonia eterea, delle ombre chiare e azzurre, fuse nel vapore che tutto avvolge in una sinfonia di trasparenze lucenti”.
Poeta Johann Wolfgang von Goethe
Campagna Romana-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025
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Etimologia
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
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Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025
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A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Note
^ Il Catasto Alessandrino è un corpus di 426 mappe acquerellate voluto nel 1660 dal Presidente delle strade, regnante Alessandro VII, che dimostra lo stato delle proprietà fuori dalle Mura aureliane, organizzato secondo le direttrici delle strade consolari. Lo scopo era di assoggettare a contribuzione fiscale i proprietari dei terreni serviti dalle strade fuori le mura, per assicurarne la manutenzione. Il risultato, per noi moderni, è una rappresentazione fedelissima, minuziosa e pittoricamente assai interessante, della situazione dell’Agro romano al momento della sua stesura. Nelle piante vengono riportati anche costruzioni, monumenti, acque ecc., successivamente modificati e/o scomparsi, nonché informazioni sulle tenute. I documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Roma, sono stati digitalizzati e sono accessibili in rete, dietro autenticazione.
Articolo di Sergio Paolo Ronchi-Cassia e la sua produzione letteraria integrale in prima edizione italiana-Omonima della seconda figlia di Giobbe, la giovane «colta e bellissima» Cassia portò il segno di essere stata scelta dall’imperatore bizantino Teofilo (829-842) fra le candidate a consorte. A lei, infatti, si rivolse con le parole: «Dalla donna sono derivati i mali». La replica fu: «Ma dalla donna sono venute fuori anche cose migliori». Teofilo passò oltre. Così, quella che fu l’unica poetessa bizantina dell’intero millennio, recitano le cronache coeve, «fondò un monastero e, presa la tonsura, condusse vita ascetica». Di lei, semisconosciuta, Città Nuova offre la prima versione italiana integrale delle opere*.
La produzione letteraria di Cassia comprende due generi: la poesia religiosa concentrata nei due principali libri liturgici della Chiesa orientale. Il primo, il Menaion, contiene i libri relativi a ogni singolo mese dell’anno: il secondo, il Triodion, l’ufficio per le dieci settimane precedenti la Pasqua. Il secondo genere, Sentenze, che – precisa il curatore Lucio Coco – «riguardano l’uomo e le false maschere che egli indossa dell’ipocrisia, della falsità, della menzogna, dell’invidia, che rivelano un mondo di passioni basse e abiette alle quali la donna oppone le ragioni della sincerità, della solidarietà e dell’amicizia, sentimento a cui dà la precedenza non solo nella sequenza delle massime, arrivando a scrivere che neppure “la ricchezza è utile, se non ha un amico”». Né mancano, in questo richiamarsi alla letteratura sentenziosa e gnomica (pertinente a precetti morali), «anche argomenti più intimi e personali come quello della solitudine che la donna ben descrive in passaggi molto brevi e intensi». L’immagine che ne emerge è «di una donna pragmatica, decisa e determinata», «che ha sofferto e [che] si è confrontata con le difficoltà della vita». Inoltre, le vengono attribuite anche le poesie del Tetraodion, comprese musica e parole; due canoni: per il Sabato santo e per il giorno dei morti. È un componimento fatto di odi o cantici biblici.
I suoi versi sono sottesi da profonda spiritualità e legati alla Scrittura. Viene celebrato Simeone lo Stilita (IV secolo), l’asceta che viveva nel deserto su colonne: «Da una buona radice/ un frutto buono è cresciuto,/ Simeone, santo dalla nascita,/ di grazia più che di latte sei stato nutrito;/ (…) sei divenuto la dimora di Cristo Dio/ e Salvatore delle nostre anime» (Menaion). Il tempo quaresimale viene aperto dalla parabola evangelica del fariseo e del pubblicano: «Dio Onnipotente, io so quanto è grande il potere il potere delle lacrime./ Esse ritrassero Ezechia dalle porte della morte [2 Re 20, 1-6],/ salvarono la peccatrice da anni di peccato [Lc 7, 36-50],/ giustificarono il pubblicano a differenza del fariseo [Lc 18, 9-14]./ Io ti prego di mettermi nel loro numero;/ abbi pietà di me »(Triodion). Nel canone per i morti: «O misericordioso, quando verrai nella gloria/ a giudicare con equità tutta la terra/ e separerai come, è scritto,/ i giusti dagli ingiusti, dai pace, o misericordioso, ai dipartiti/ e inseriscili con le pecore alla tua destra [Mt 25,33] (Tetraodion)».
Espressione della sapienza di Cassia, le Sentenze sono sempre pervase dalla fede e dalla fiducia in Dio. «Se ti trovi in difficoltà, non ti abbattere;/ assolutamente niente infatti potrebbe capitarci senza che Dio lo voglia». Parlano contro la stupidità e invitano a praticare l’intelligenza: «Cristo mi conceda di soffrire/ accanto ad uomini saggi e sapienti/piuttosto che gioire con irragionevoli stupidi»; «Meglio vivere con persone sagge/ che con ricchi stupidi e ignoranti». Altre sono dedicate alla figura del monaco in correlazione alle sue proprie scelte di vita: «Vita di monaco, più leggera di un uccello/ Monaco è una vita [passata] da solo/[…]./ Vita di monaco sempre in pace./[…]./ Monaco è lingua educata/[…]./ Vita di monaco a gloria di Dio solo».
*Cassia, Opere; introduzione, traduzione e note di Lucio Coco, Città Nuova, Roma 2022, pp. 116, e. 24,00.
Nota biografica-Rachel Bluwstein, (1890-1931), nata a Saratov (Russia) come Rachel Bluwstein-Sela, giunse nella Palestina Ottomana nel 1909, dove fino al 1913 visse in una scuola agricola femminile in riva al lago di Tiberiade. In seguito si recò in Francia per studiare agronomia e pittura e con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale ritornò in Russia, dove lavorò in istituti educativi per bambini rifugiati. Durante questo periodo contrasse la tubercolosi, la malattia che la condusse a una morte prematura. Nel 1919 tornò nel kibbutz Degania ma, non essendo più in grado di lavorare, si trasferì definitivamente a Tel Aviv, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Morì all’età di quarant’anni e fu sepolta accanto sulle rive del lago di Tiberiade. Molto amata dal pubblico, la sua tomba è ancora oggi meta di numerosi visitatori. La prima raccolta di Rachel, Safiah-Frutto spontaneo, fu pubblicata nel 1927. A essa, tre anni più tardi, fece seguito un nuovo volume, intitolato Mineged-Di fronte. Il suo terzo e ultimo libro, Nebo, uscì postumo nel 1932.
Da “Poesie” di Rachel Bluwstein, a cura di Sara Ferrari, Interno Poesia 2021
Nella mia grande solitudine
Nella mia grande solitudine, una solitudine di animale ferito ora dopo ora io giaccio. In silenzio. La mia vigna l’ha spogliata il destino e non un solo rampollo è rimasto. Ma il cuore, ormai vinto, ha perdonato. Se davvero sono questi i miei ultimi giorni voglio esser calma, perché l’amarezza non intorbidi il quieto blu del cielo, mio compagno di sempre.
*
Nelle notti senza sonno
Com’è fiacco il cuore nelle notti senza sonno, nelle notti senza sonno com’è grave il giogo! Stenderò allora la mano per recidere il filo, per recidere il filo e finire?
Ma al mattino la luce, con la sua ala pura, bussa silenziosa alla finestra della mia stanza. Non stenderò la mano per recidere il filo. Ancora un poco, cuore mio! Ancora un poco!
*
Espressione
Io conosco detti eleganti in abbondanza, frasi fiorite a non finire che camminano leziose, lo sguardo arrogante.
Ma amo l’espressione pura come un neonato e modesta come la polvere. Conosco innumerevoli parole, per questo io taccio.
Saprà il tuo orecchio cogliere, anche dal silenzio, il mio umile parlare? Saprai proteggerlo come un amico, un fratello, come una madre in seno?
*
Canzone
Mattina e sera per te e di te, per te e di te io canto, Tempesta e quiete, letizia e sconforto, piaga e sollievo, pace e supplizio.
Tenta – non l’ho colta – una risposta la tua voce. Tenta e quasi si è sciolto il laccio. Un istante e torna a levarsi il mio canto: il mio canto per te, amore e disprezzo.
Per te e di te, per te e di te: la sola canzone di mille violini. Tempesta e quiete, letizia e sconforto, piaga e sollievo, luce e tenebra.
*
Non congiunto, eppure così vicino, non straniero, eppure così lontano, uno stupore confuso infonde il tocco delicato.
Ricordi? Chiudevano i muri da ogni parte e sopra una folla sconosciuta da ragnatele di sguardi si tesseva un ponte – un segno.
Se mi hai ferita, benedetto il dolore. Possiede il dolore finestre cristalline. Il mio sentiero corre ai margini delle vie maestre, è calmo il mio cuore.
Rachel Bluwstein
La prima antologia italiana interamente dedicata alla poetessa Rachel Bluwstein (1890-1931), nota al pubblico come Rachel, simbolo mai scalfito dal tempo del movimento pioneristico ebraico e madre fondatrice della tradizione poetica israeliana al femminile. Benché Rachel sia considerata una delle poetesse “nazionali” d’Israele, spesso nel corso dei decenni la sua opera è stata relegata a un ruolo minoritario, se non, addirittura, fraintesa. Soltanto di recente la critica ha saputo restituirle la giusta collocazione all’interno del canone poetico, mostrando l’intento rivoluzionario della sua scrittura. L’amore deluso, la nostalgia, la solitudine sono parte integrante dell’universo poetico di Rachel. Tuttavia, accanto a questo, troviamo una donna risoluta, consapevole della propria realtà, passionale e, soprattutto, dotata di un progetto poetico molto preciso.
Rachel Bluwstein, (1890-1931), nata a Saratov (Russia) come Rachel Bluwstein-Sela, giunse nella Palestina Ottomana nel 1909, dove fino al 1913 visse in una scuola agricola femminile in riva al lago di Tiberiade. In seguito si recò in Francia per studiare agronomia e pittura e con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale ritornò in Russia, dove lavorò in istituti educativi per bambini rifugiati. Durante questo periodo contrasse la tubercolosi, la malattia che la condusse a una morte prematura. Nel 1919 tornò nel kibbutz Degania ma, non essendo più in grado di lavorare, si trasferì definitivamente a Tel Aviv, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Morì all’età di quarant’anni e fu sepolta accanto sulle rive del lago di Tiberiade. Molto amata dal pubblico, la sua tomba è ancora oggi meta di numerosi visitatori. La prima raccolta di Rachel, Safiah-Frutto spontaneo, fu pubblicata nel 1927. A essa, tre anni più tardi, fece seguito un nuovo volume, intitolato Mineged-Di fronte. Il suo terzo e ultimo libro, Nebo, uscì postumo nel 1932.
Alba de Céspedes – Portale Antenati e Dal registro alla Storia –
Alba de Céspedes (lba Carla Laurita de Céspedes )-nacque a Roma l’11 marzo 1911, da Laura Bertini Alessandrini, romana, e Carlos Manuel de Céspedes y Quesada, ambasciatore per Cuba in Italia.
Suo nonno era Carlos Manuel de Céspedes, un rivoluzionario che dal 1869 al 1873 fu presidente della Repubblica cubana e fautore dell’abolizione della schiavitù. A soli 15 anni, nel 1926, Alba sposò il conte romano Giuseppe Antamoro, per poi separarsene nel 1931.
Il contesto agiato e colto in cui crebbe le favorì un’educazione d’eccellenza, alimentando la sua vocazione per la scrittura e l’interesse per la politica, d’orientamento antifascista.
Sebbene fosse perfettamente bilingue in italiano e spagnolo, e conoscesse diverse altre lingue europee, per la sua produzione letteraria scelse l’italiano come lingua prevalente. Esordì nel 1935 con la pubblicazione della sua prima raccolta di poesie, L’anima degli altri, favorita anche dalla solida amicizia con Arnoldo Mondadori. Nel 1938, invece, pubblicò il suo primo romanzo, Nessuno torna indietro, con il quale vinse il Premio Viareggio l’anno successivo, che tuttavia le fu revocato per volere di Mussolini, a causa della sua militanza antifascista, che le era costata anche alcuni giorni di carcere.
I suoi scritti erano animati da un’attenta cura stilistica, tesa a una letteratura di qualità, in cui la forma era sempre accompagnata da uno spessore dei contenuti e una riflessione profonda su questioni etiche e sociali.
Durante la Seconda guerra mondiale, fu parte attiva della Resistenza partigiana operando con il nome di battaglia “Clorinda”.
A partire dal 1944, fondò e diresse la rivista Mercurio, che divenne un importante punto di riferimento per l’intellettualità italiana durante gli anni del dopoguerra, grazie anche alla collaborazione di penne di gran pregio. La rivista chiuse quattro anni più tardi, nel 1948. Da quel momento in poi, de Céspedes cominciò a collaborare con varie testate, come Epoca e La stampa di Torino.
Negli anni successivi, tra Roma, Cuba e Parigi, si dedicò intensamente alla scrittura, pubblicando numerosi romanzi, spesso ricchi di elementi autobiografici: l’insoddisfazione sentimentale, l’educazione femminile e la lotta per l’identificazione personale e collettiva. Tra i tanti titoli, si ricordano: Dalla parte di lei (1949), Quaderno proibito (1952), Prima e dopo (1955) e Il rimorso (1962).
L’ultimo suo lavoro, rimasto incompiuto, è un racconto autobiografico scritto tra gli anni Ottanta e Novanta, dedicato a Fidel Castro e alla Rivoluzione cubana, pubblicato postumo nel 2011 da Mondadori in occasione del centenario della sua nascita.
Alba de Céspedes morì a Parigi il 14 novembre 1997 dopo una lunga malattia.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma, Stato civile italiano, Roma, 1911
Il suo archivio personale (1876 – 1997), che consta 136 buste, circa 2100 fotografie e 4122 tra libri e opuscoli, è conservato presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori.
Fonte-Direzione generale Archivi – Ministero della Cultura
Descrizione del libro di Simona Colarizi per “Le smanie per la villeggiatura”Il caldo dell’estate del 1968 riusciva laddove aveva fallito la forza pubblica: alla spicciolata gli studenti lasciavano le aule dell’università dove si erano barricati dopo la prova di forza in difesa della facoltà di architettura a Roma. Sgomberata dalla polizia per ordine del rettore D’Avack e di nuovo rioccupata, per gli studenti era diventata un simbolo della contestazione che ormai da due anni aveva messo a soqquadro gli atenei di tutta Italia. Così nel marzo un corteo di 4000 giovani si avviava in due direzioni: una parte raggiungeva la Facoltà di Architettura a Valle Giulia, un’altra forzava i cancelli dell’Università centrale. Era però tra Villa Borghese e le vie adiacenti dei Parioli, il quartiere privilegiato dalla borghesia benestante della capitale, l’epicentro degli scontri con i “celerini”, i reparti della PS dalla mano pesante, i più odiati dagli studenti.
Nell’immaginario dell’epoca era stata una vera battaglia, la “battaglia di Valle Giulia”, con lanci di sassi e manganellate, cariche della polizia e fughe dei dimostranti. D’altra parte della città si scatenava la rissa nella sede centrale sotto le finestre di Giurisprudenza, occupata dagli studenti dell’estrema destra, e sulla scalinata della Facoltà di Lettere, quartier generale degli studenti di sinistra; gli uni e gli altri decisi a difendere i propri spazi che la fazione opposta voleva conquistare. Queste giornate della primavera 1968 avevano suscitato clamore in tutto il paese anche per la condanna contro gli studenti “figli di papà”, lanciata da Pier Paolo Pasolini nella famosa poesia “Il Pci ai giovani”. E tra quei giovani della sinistra c’erano ragazzi destinati a diventare intellettuali ed editorialisti di peso nella vita politica italiana nei decenni successivi.
Da mesi non c’era stato un giorno di tregua negli atenei di tutta Italia dove si sperimentavano lezioni alternative ai vecchi corsi, si sospendevano le sedute di laurea e gli esami, si mettevano al bando i professori che resistevano alle innovazioni didattiche imposte dagli studenti. Si chiedeva in sostanza un rinnovamento profondo nei saperi, un ricambio dei docenti, una trasformazione delle vecchie strutture insufficienti a contenere la crescita della massa studentesca, soprattutto si voleva abbattere il vecchio Gotha accademico che esercitava un potere assoluto, autoritario e opaco. Insomma, gli studenti chiedevano la riforma delle università rimaste quelle dell’epoca fascista, con le stesse regole e con gli stessi professori; università elitarie dove accedevano solo i figli della borghesia, mentre restava ferma al 3% la percentuale degli studenti provenienti dai ceti sociali più bassi.
Riforme non rivoluzione dunque: il cuore della contestazione sessantottina era ancora democratico, ottimista, dissacrante e allegro, una fase speciale nella vita delle giovani generazioni – e persino delle studentesse – che sperimentavano nuove libertà e trasgressioni, violando codici familiari e accademici consolidati nei secoli. Così sarebbe stata anche la lunga estate del 1968, “l’ultima estate dell’innocenza”, prima che prendessero la direzione del movimento i nuclei politici di estremisti votati alla rivoluzione e nell’estrema destra si cominciasse a teorizzare la strategia della tensione. In pochi si erano resi conto che i primi semi della violenza avevano già cominciato a mettere radici quanto più gli obiettivi della riforma universitaria si sommavano alla critica dell’intero sistema politico italiano e internazionale occidentale, quelle democrazie nate dopo il secondo conflitto mondiale ma rimaste prigioniere della guerra fredda; fredda in Europa, ma calda in altre parti del mondo, e le dimostrazioni contro l’intervento americano in Vietnam erano state l’incubatrice dell’aggregazione studentesca già negli anni precedenti il Sessantotto.
Al salto di qualità nella politica aveva concorso un evento chiave per capire l’evoluzione della contestazione. Nel 1968, due mesi dopo gli scontri a Valle Giulia, era esploso il “maggio francese” che aveva fatto del quartiere latino parigino la meta prediletta dei più avventurosi contestatori italiani ed europei. Un vero e proprio “pellegrinaggio”, in realtà l’anticipo di vacanze all’estero mai sperimentate fino a quel momento dai tanti giovani che si raccoglievano davanti a “Sciences Po” scandendo in una confusione di lingue gli stessi slogan: “L’immaginazione al potere”, “Tutto e subito”, “Joussiez sans entraves” e tanti altri dipinti a grandi lettere sulle pareti delle università, come la scritta “Il est interdit d’interdire” che campeggiava sulla facciata della Sorbonne.
Per quasi un mese agli occhi dei giovani, Parigi era apparsa l’epicentro di una vera e propria rivoluzione che aveva allarmato anche le autorità francesi già in allarme per le continue manifestazioni delle masse operaie alle quali si univano adesso i cortei degli studenti. Da tempo in Francia il mondo del lavoro era percorso da agitazioni sempre più incontenibili, culminate appunto nel maggio in uno sciopero generale di tale portata da riportare alla memoria i moti del ’34. Barricate per le strade, banlieue in rivolta, fabbriche chiuse da Calais a Marsiglia. Studenti e operai avevano sfidato insieme il potere del generale De Gaulle, il quale non sarebbe però arretrato di un passo, soffocando rapidamente le scintille incendiarie.
Col passare dei giorni l’ondata di protesta rifluiva ovunque pacificamente, complice l’arrivo dell’estate. I giovani partivano per i luoghi canonici di villeggiatura al mare, in montagna, in collina; ma questa volta in tanti sceglievano mete oltre frontiera, ancora largamente sconosciute dagli studenti italiani rimasti alquanto provinciali, come il resto della popolazione. Adesso però partivano in gruppo, quasi non volessero spezzare il filo di continuità con la vita collettiva sperimentata nelle occupazioni; una vita intensa e gioiosa, la stessa che avrebbe caratterizzato tutti i mesi estivi. Giugno, luglio, agosto e settembre – quella calda estate che sembrava non avesse mai fine – passavano così, all’insegna delle nuove amicizie strette nel corso delle lotte nelle università. Sarebbe stata per tutti una tappa importante nell’esistenza privata e nella crescita civile e culturale dei sessantottini che rompevano i rituali delle tradizionali vacanze trascorse con le famiglie nelle case al mare o in montagna. La parola d’ordine diventava il viaggio in Europa dove in tutto l’Occidente e persino a Praga nell’impenetrabile mondo sovietico, i loro coetanei stavano anch’essi ribellandosi contro il vecchio mondo accademico e più in generale contro l’intera struttura di società classiste, rimaste ancorate a poteri autoritari nel pubblico e nel privato.
Certo, il sogno sarebbe stato quello di varcare l’oceano e arrivare fino alla West Coast degli Stati Uniti, dove tutto aveva avuto inizio. Ma con un sacco a pelo sulle spalle si poteva arrivare ovunque nelle capitali europee e nei luoghi più ameni ancora sconosciuti, sentendosi un po’ hippies e un po’ i motociclisti di “Easy rider” – un film cult per la generazione del ‘68. In assenza della moto, c’erano i treni o le automobili dei compagni prestate dai papà dei più ricchi, che venivano caricate fino all’inverosimile: cinque sei persone, pigiate una sull’altra, insieme a poche magliette di ricambio e tanti viveri, in genere una quantità di pacchi di pasta che i compagni degli altri paesi imparavano adesso a gustare usando il cucchiaio, incapaci di arrotolare sulla forchetta i famosi spaghetti.
L’intero mondo della contestazione europea si incontrava in queste vacanze con gli stessi rituali già messi in atto nelle università occupate: discussioni interminabili in tutte le lingue alla ricerca di un idioma comune – in genere il francese, rimasta ancora la lingua più conosciuta in Europa come all’epoca delle generazioni precedenti; tante letture da condividere, ma soprattutto i testi marxisti diventati la nuova Bibbia, e i saggi dei sociologi di Francoforte e di Marcuse, eletto a vate dell’anti consumismo. Non tutti ne comprendevano il significato, ma nessuno voleva confessare di non averlo letto. Tutti invece conoscevano le canzoni intonate a sera negli accampamenti in riva al mare, nei boschi e nelle valli dove si alzavano le tende, si accendevano i fuochi e risuonavano alti i cori partigiani – su tutti “Bella ciao” – che davano l’illusione ai giovani di rinverdire la missione dei resistenti in lotta contro il nazi-fascismo.
Gli “spinelli” enfatizzavano l’allegria contagiosa e i tanti amori sbocciati nel clima gioioso e irresponsabile della nuova libertà sessuale. Le ragazze italiane misuravano la repressione subita da sempre guardando le coetanee dei paesi del Nord, così disinibite nei rapporti con i maschi. Le imitavano indossando jeans – da allora una divisa d’ordinanza – ma anche tuniche folcloristiche orientaleggianti dai mille colori; si mostravano senza reggiseno sulle spiagge in un estremo gesto di sfida al pudore che le voleva sottomesse alle regole dettate dai padri, dalle madri, dalla Chiesa. La rivoluzione femminista, anche se non ancora ufficialmente dichiarata, in Italia cominciava in questa estate del ’68 che nessuno avrebbe voluto finisse mai. In questi mesi i giovani avevano costruito in miniatura un mondo senza confini geografici, né barriere culturali dove regnava una nuova fratellanza e c’erano sempre sole e caldo, dove si viveva con poco, ci si divertiva un sacco e sembrava scomparso l’universo dei doveri, degli obblighi, delle responsabilità.
Eppure l’autunno si avvicinava inesorabile. Il 1969 non sarebbe stato identico all’anno precedente: il ricambio nelle file degli studenti è sempre rapido. La permanenza all’università per chi intendeva concludere i suoi studi, durava meno di cinque anni e i più maturi che da tempo guidavano la contestazione, si avviavano sulla strada del lavoro dove avrebbero portato il vento del cambiamento e della modernizzazione. Alcuni però restavano in campo, decisi a continuare una battaglia i cui connotati politici acquistavano una valenza ideologica sempre più estrema. Il mito della classe operaia rivoluzionaria che dopo il maggio francese si era diffuso oltre i circoli intellettuali marxisti-leninisti e operaisti, avrebbe alimentato nei gruppuscoli extra parlamentari l’illusione di una rivoluzione sociale possibile. Una sfida immediatamente raccolta dall’estrema destra che da tempo si preparava a una contro-rivoluzione preventiva, come già era affiorato nel ‘64 con la vicenda del SIFAR. Con il nuovo anno si sarebbe aperta un’altra stagione di cortei e di occupazioni nelle Università; ma qualcosa era cambiato: c’era più rabbia, meno allegria, meno improvvisazione. Il sole dell’estate si era oscurato, il freddo aveva cominciato a mordere, e, nel dicembre del ‘69, con la strage di Piazza Fontana a Milano iniziava la notte della Repubblica.
Simona Colarizi
Simona Colarizi è ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Tra le sue ultime pubblicazioni, Storia del Novecento italiano (Milano 2000). Per i nostri tipi, tra l’altro, L’Italia antifascista dal 1922 al 1940 (a cura di, 1977), Dopoguerra e fascismo in Puglia. 1919-1926 (19772), Biografia della prima Repubblica (19982), L’opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943 (20002) e, con M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi , il partito socialista e la crisi della Repubblica (20062).
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