Roma Capitale-L’Open Studio Gallery presenta la mostra fotografica di Chiara Ricciotti-
Roma Capitale-L’Open Studio Gallery presenta la mostra fotografica di Chiara Ricciotti-
Roma Capitale-L’Open Studio Gallery di Patrizia Genovesi è lieto di presentare la mostra fotografica di Chiara Ricciotti, talentuosa fotografa italiana che esplora con sensibilità i confini tra moda e ritratto in un percorso visivo suggestivo e profondo. La mostra raccoglie una serie di immagini che vanno oltre la semplice rappresentazione della moda, trattandola come un potente mezzo narrativo e di espressione.
Ogni scatto esposto esprime una visione della moda che trascende i canoni tradizionali, enfatizzando l’umanità del soggetto, il movimento e le emozioni. Con uno sguardo cinematografico e una spiccata estetica, Ricciotti combina rigore strutturale e spontaneità, catturando momenti intensi e autentici. Le ambientazioni si intrecciano armoniosamente con il mood delle fotografie, arricchendo la narrazione visiva e coinvolgendo profondamente lo spettatore.
Chiara Ricciotti, nata in Italia nel 1997, ha nutrito fin da giovane la sua passione per la fotografia. Dopo aver completato un Master sotto la guida di Patrizia Genovesi nel 2019 e aver maturato esperienza nel campo della moda e del ritratto, oggi è responsabile del laboratorio fotografico presso l’ACM – Accademia di Costume e Moda di Roma. Attualmente frequenta un Master in Fashion Photography presso l’ISFCI di Roma, continuando a perfezionare uno stile personale e intensamente emozionale, ispirato al cinema e alle persone che incontra.
Questa esposizione rappresenta un’opportunità unica per il pubblico di esplorare la moda come un viaggio emozionale e artistico, dove ogni immagine è concepita per suscitare emozioni e creare un dialogo visivo profondo. La Direzione Artistica è curata da Patrizia Genovesi.
Informazioni, orari e prezzi
Dettagli e Informazioni per il Pubblico
La mostra sarà aperta dal 1 al 20 dicembre 2024.
Open Studio Gallery di Patrizia Genovesi in Via di Villa Belardi 18, Roma.
Inaugurazione 30 novembre 2024, ore 18:00 – su prenotazione
Orari di apertura: dal lunedì al venerdì, dalle ore 10:00 alle 19:00 su prenotazione
Per ulteriori informazioni e prenotazioni:
Email: openstudiogallery.pg@gmail.com www.patriziagenovesi.com
Instagram: @c_ricciotti
LinkedIn: Chiara Ricciotti
DESCRIZIONE dell’Antologia di Poesie di Edith Södergran-L’antologia racchiude quasi cento poesie (versione originale e traduzione italiana di Bruno Argenziano a fronte) tratte dalla multiforme produzione di Edith Södergran, madre dell’espressionismo finlandese, e principalmente dalle raccolte Poesie (Dikter, 1916), La lira di settembre (Septemberlyran, 1918), L’ombra del futuro (Framtidens skugga, 1920), La terra che non è (Landet som icke är, 1925).
Bruno Argenziano:”Nella rivista letteraria svedese “Horisont” n°1 del 1992 avente per tema “Edith Södergran”, in occasione del centenario della sua nascita, una nota scrittrice svedese contemporanea intitola il suo contributo così: “Il coraggio di non censurare la propria anima”. Chi ha avuto modo di studiare la multiforme produzione poetica della scrittrice finno-svedese, non può non sottoscrivere il succitato giudizio, pregnante quanto mai nella sua lapidaria semplicità. Che sia stata una donna ad esprimerlo non è strano se si pensa alla fascinazione che la Södergran tuttora esercita sull’animo femminile (Bruno Argenziano).
Una Poesia di Edith Södergran copertina
Notturno
Ho intonato un canto. Venuto non so da dove – è scivolato come seta sulle mie corde. Che sia dovuto agli sciolti capelli neri della notte? O forse ai bianchi tratti sognanti della luna? E la notte cantava, cantava della solitudine che cullando a tutto dà pace, cantava delle sognanti naiadi, dei ruscelli senza brusio, del segreto della gora… La notte aveva il fiato sospeso – una rosa mi si è avvizzita tra le mani – e tale la quiete come fosse svanito l’ultimo sospiro del tutto.
Mauro Pagliai -Dopo aver fondato e diretto per quasi cinquant’anni la casa editrice Polistampa, Mauro Pagliai ha dato vita nel 2007 alla nuova sigla Mauro Pagliai Editore, con l’obiettivo di conquistare una posizione significativa nell’industria libraria nazionale. L’ambizione è far uscire presso la nuova casa editrice sia talenti poco conosciuti sia i “pesi massimi” del panorama italiano e, al tempo stesso, approfondire il legame con i maggiori premi e festival letterari, con le Università e i centri di ricerca, oltre che con le più accreditate e prestigiose rassegne artistiche italiane. Per rendere effettivo questo ambizioso progetto editoriale, Mauro Pagliai ha formato una redazione di giovani professionisti e collaboratori che, con la direzione del figlio Antonio, vuol essere competitiva nei confronti delle grandi case editrici e aperta alle nuove ricerche e ai nuovi talenti del mondo della cultura.
Copia anastatica dell’Articolo scritto da MARIA BELLONCI
per la Rivista PAN diretta da Ugo Ojetti- n°3 del 1935
MARIA BELLONCI-Scrittrice
Biografia di Maria BELLONCI-Nacque a Roma il 30 novembre 1902, primogenita di Gerolamo Vittorio Villavecchia, discendente da una famiglia aristocratica piemontese, e di Felicita Bellucci, di origine umbra. Il padre, professore di chimica, fondatore della chimica merceologica in Italia, dal 1896 al 1934 tenne la direzione del Laboratorio chimico centrale delle gabelle.
MARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro Bembo
Breve biografia di Lucrezia Borgianasce a Subiaco il 18 aprile 1480, figlia di Vannozza Cattanei (la donna che rimase al fianco di Alessandro VI per un quindicennio, devota come una moglie morganatica e madre di quattro dei suoi figli: Juan, Cesare, Jofrè e Lucrezia) e di Rodrigo Borgia, poi papa con il nome di Alessandro VI. Si sposa a 13 anni con Giovanni Sforza di Pesaro (il suo abito nuziale vale ben 15.000 ducati) e successivamente a 18 anni, dopo il decreto di annullamento del primo matrimonio, con Alfonso d’Aragona, duca di Bisceglie, fatto uccidere due anni dopo dal fratello di lei, Cesare Borgia, il celebre Valentino. Fra i due matrimoni intesse inoltre una relazione con Pedro Calderon, uomo di fiducia del padre. Anche questo rapporto viene troncato drammaticamente dalla famiglia: prima ferito di spada, Pedro viene poi ritrovato cadavere nel Tevere, mani e piedi legati. In seguito ai nuovi progetti matrimoniali della famiglia Borgia, Lucrezia si sposa con Alfonso d’Este, primogenito del duca Ercole I. Accompagnata da un grande corteo, il 2 febbraio 1502 entra a Ferrara, portando con sé la terribile fama di essere al tempo stesso “figlia, moglie e nuora” del papa Alessandro VI.
Biografia di Maria BELLONCI
di Luisa Avellini – Dizionario Biografico degli Italiani
MARIA BELLONCI
Biografia di Maria BELLONCI-Nacque a Roma il 30 novembre 1902, primogenita di Gerolamo Vittorio Villavecchia, discendente da una famiglia aristocratica piemontese, e di Felicita Bellucci, di origine umbra. Il padre, professore di chimica, fondatore della chimica merceologica in Italia, dal 1896 al 1934 tenne la direzione del Laboratorio chimico centrale delle gabelle.
Gli studi e il matrimonio, 1909-1928
Iscritta nel 1909 alla scuola delle monache del Sacro Cuore, presso Trinità dei Monti – un collegio che le sarebbe rimasto nel cuore come una seconda casa piena di affabili, profonde liturgie – fra il 1913 e il 1921 frequentò il ginnasio-liceo Umberto I. Di questi anni intellettualmente attivi e illuminati dai primi amori adolescenziali rievocò, in una pagina giornalistica datata 3 gennaio 1959, «il senso di vita traboccante dei miei sedici anni per il quale mi pareva d’essere chiusa in una mandorla d’immortalità» (Pubblici segreti, Milano 1965, pp. 110 s.1). Ma una formazione interiore importante è attribuita nei suoi ricordi anche ad alcune frequentazioni ambientali, come S. Maria Maggiore: la basilica a pochi passi dall’abitazione familiare, in via Farini, le offriva «il linguaggio narrativo dei mosaici» e la contemplazione di «cadenze espressive» che suggerivano un «neorealismo storico» (ibid., 30 agosto 1959, p. 173).
Nel corso degli anni Venti si presentarono due eventi biograficamente decisivi: la stesura di una prima prova narrativa – il romanzo Clio o le amazzoni (1922) – e l’occasione di sottoporre quella prova d’apprendistato al giudizio di Goffredo Bellonci, illustre critico militante d’origine bolognese, nonché in quegli anni redattore del Giornale d’Italia. Il lavoro, giudicato promettente ma acerbo, non vide mai la luce; ma la relazione allieva-maestro che s’instaurò con Bellonci, più anziano di vent’anni, generoso di consigli di lettura e di presentazioni ai letterati romani, sfociò nel fidanzamento (1925-27) e quindi nel matrimonio, celebrato l’11 agosto 1928. «Quando ci sposammo, lui mi fece lezione sui classici per anni […]. Sono stata cresciuta da lui per scrivere», confessò anni dopo (intervista a Giorgio Torelli, in Epoca, 4 marzo 1973).
La biografia di Lucrezia Borgia, 1929-1939
Il 7 luglio 1929 uscì, sulle colonne del Popolo di Roma, l’articolo Letture di fanciulle: primo di una serie di interventi pubblicati due volte al mese nella rubrica «L’altra metà», dedicati al tema della donna nella vita sociale e nella storia, un dato della biografia intellettuale che situò precocemente la questione critica dello specifico e personale femminismo di Maria. Qualche mese dopo (marzo 1930) l’illustre filologo e accademico d’Italia Giulio Bertoni, imbattutosi in un elenco di gioielli di Lucrezia Borgia, affidò alla già appassionata indagatrice di fonti il compito di studiare il documento per darne conto all’associazione di Studi romani. La descrizione delle gioie borgiane – in particolare quella dell’armilla recante inciso un distico di Pietro Bembo – aprì all’aspirante scrittrice nuovi orizzonti: i tempi inquieti e il profilo chiaroscurale della figlia di papa Alessandro VI, tramite il medium degli oggetti che la ornarono, si imposero come esigenza di studio storico approfondito e di racconto biografico, in un percorso di letture e di ricerche archivistiche svolte fra Roma, Mantova e Modena, che si protrasse dall’inverno del 1930 fino al 1937.
Nel frattempo Goffredo Bellonci aveva informato Arnoldo Mondadori dell’attività in corso e si avviò così la trattativa per la pubblicazione del lavoro. Alla curiosità dell’editore, fece riscontro la lettera di Maria: «Si tratta di un’opera alla quale lavoro da due anni assiduamente: ho voluto seguire la vita veramente straordinaria di questa donna sui documenti del tempo, numerosissimi, sparsi in tutti gli archivi di’Italia. Ho avuto la fortuna di trovare molte cose inedite che mi permettono di ricostruire questa vita con una novità di prospettiva che, credo, stupirà tanto quelli che sono avvezzi a vedere nella Borgia il simbolico fiore del male, quanto quelli che addirittura vorrebbero fare di lei un innocente fiorellino sbattuto dalla tempesta» (Milano, Fondazione Mondadori, Arch. storico Arnoldo Mondadori editore, Carteggio Maria Bellonci 1932-1968: 5 novembre 1932).
Nel marzo 1933 l’autrice firmò il contratto per la pubblicazione e nel 1935 si apprestava alla consegna, ma una serie di difficoltà editoriali rinviò la programmazione fino alla primavera del 1938 quando finalmente, dopo aver accettato a malincuore la richiesta di alcuni tagli, congedò il suo lavoro per la stampa.
Nel Piccolo libro delle consolazioni segrete (Fondazione Bellonci), un diario tenuto fra 1936 e 1937, si trova conferma di un dato importante, documentato dagli studi di Ilaria Calisti (2008, Appendice) e di Luisa Avellini (2011): la nascita di un’amicizia profonda, corroborata dall’interesse comune per i destini femminili, e in particolare per il diritto delle donne all’affermazione intellettuale, e sfociata in un insistito scambio intellettuale, con Anna Banti (Lucia Lopresti, moglie di Roberto Longhi). Dalle lettere di quest’ultima (della corrispondenza fra le due scrittrici restano solo le sue lettere, poiché Banti distrusse quelle di Bellonci con molti altri documenti verso la fine della vita), come anche dal Diario breve 1938-1943 (conservato anch’esso presso la Fondazione Bellonci) si evince che, ricevute dall’editore le bozze della biografia borgiana nel luglio 1938, lo scrittoio di Bellonci vide spesso la vicinanza informata e partecipe dell’amica.
Lucrezia Borgia e il suo tempo uscì nella primavera del 1939, con successo di pubblico e traduzioni in tedesco, ungherese e spagnolo. In luglio vinse il premio Viareggio ex aequo con Arnaldo Frateili (per Clara fra i lupi, Bompiani) e Orio Vergani (per Basso profondo, Garzanti). Il cammino dell’opera prima continuò sul binario delle ristampe e delle nuove edizioni con revisione dell’autrice, come quella del 1960, rivista e arricchita di numerose illustrazioni, ma soprattutto quella del 1974 nella collana «Scrittori italiani e stranieri» (SIS) sotto gli auspici di Vittorio Sereni, che avendo già accolto nella stessa collana una seconda edizione de I Segreti dei Gonzaga, sollecitava l’autrice a sottrarre anche il primo libro dal genere storiografico per sottolinearne la valenza narrativa.
Il secondo romanzo storico, 1941-1947
La rinnovata spinta creatrice che portò all’uscita nell’immediato dopoguerra de I Segreti dei Gonzaga (Milano 1947 e 1971) si muoveva in parallelo con le revisioni di Lucrezia. In questa fase, nello sguardo di Bellonci ormai sistematico sul Rinascimento e via via più solido e acuto, il profilo di Isabella d’Este – già vivido e plasticamente antagonista della Lucrezia Borgia del 1939 – ascese, nella sezione dei Segreti a lei riservata (Isabella fra i Gonzaga), al ruolo di comprimaria, per assurgere a quello di ‘fantasma’ di primo piano nel successivo impegno narrativo.
Anche per il trittico sui Gonzaga, come era accaduto con i gioielli di Lucrezia, lo spunto narrativo nacque da situazioni visuali, in particolare nella sezione Ritratto di famiglia condotta sulla contemplazione degli affreschi della Camera degli Sposi di Andrea Mantegna, ma anche per Isabella fra i Gonzaga con le visite pressoché medianiche all’appartamento della marchesa nel castello di Mantova. Si trattava di interrogare oggetti, profili pittorici, ambienti per trarne quasi il calco che l’intelligenza, la sensibilità, il più intimo carattere di una figura del passato vi avevano impresso.
Nella corrispondenza con Mondadori del 1941 Bellonci, segnalando l’uscita del Ritratto di famiglia nel numero di febbraio de La Lettura, dava notizia di una proposta di Bompiani, per aderire alla quale chiedeva l’autorizzazione al suo editore. Bompiani si diceva disposto a raccogliere il Ritratto in un volumetto illustrato, aggiungendovi anche lo scritto in corso di stesura dedicato all’appartamento di Isabella d’Este nel castello di Mantova, proposta forse sostitutiva dell’epistolario di Isabella che Bellonci avrebbe dovuto curare e che veniva rinviato per la chiusura dell’Archivio Gonzaga. Lo studio dell’appartamento e la lettura già avviata delle lettere della marchesa portavano dunque in primo piano negli interessi dell’autrice l’antagonista di Lucrezia, tanto che l’anno successivo trattò con Mondadori la stampa del libro organico cresciuto intorno al Ritratto con la gran parte delle tre sezioni (la terza era Il duca nel labirinto dedicata a Vincenzo Gonzaga) già pronte.
Tramite la preziosa documentazione epistolare dell’Archivio mondadoriano emerge, pur nel difficile passaggio della guerra e del primo dopoguerra vissuto dai Bellonci a Roma e nelle oscillazioni di umore di Maria connesse a una depressione strisciante, l’affollarsi di progetti nella mente della scrittrice, come il più volte preannunciato lavoro sulla Fine degli Este studiato per anni e poi abbandonato o come il progetto di un libro su Vespasiano Gonzaga di Sabbioneta accarezzato fino alla morte e mai realizzato.
Nel frattempo però un’altra brillante idea le aprì un nuovo fronte di attività e di notorietà: le riunioni di letterati che dal giugno 1944 erano divenute un’abitudine domenicale (gli ‘Amici della domenica’) di casa Bellonci si trasformarono nel 1946, con la partecipazione economica di Guido Alberti produttore del liquore Strega, nella struttura del premio letterario italiano più celebrato, dotato di un inusuale sistema di valutazione affidato a una votazione pubblica a due turni spettante all’intero gruppo di ‘Amici’.
La prima sessione del premio Strega, nell’estate del 1947, cui Bellonci per correttezza non presentò I segreti dei Gonzaga, vide vincitore Tempo di uccidere di Ennio Flaiano su una rosa di partecipanti di altissimo livello, fra i quali Alberto Moravia con La romana, Vasco Pratolini con Cronache di poveri amanti, Cesare Pavese con Il compagno, Anna Banti con Artemisia. Nella stessa estate, con i Segreti, Bellonci sfiorò la seconda affermazione al premio Viareggio, andato infine alle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci.
Narratrice senza limitazione di genere, 1951-1972
Nella seconda metà degli anni Quaranta le condizioni economiche precarie indussero Bellonci, come molti intellettuali del tempo, a impegnarsi in traduzioni di romanzi stranieri e in attività giornalistiche, proseguite peraltro per tutta la vita (da menzionare, per qualità e successo, le versioni dal francese dei Racconti di Stendhal, 1961; della Signora delle camelie di Dumas figlio, 1970; dei Tre moschettieri di Dumas padre, 1978; del Viaggio al centro della terra di Verne, 1983). Ma dal 1951, con la rubrica radiofonica Scrittori al microfono, iniziò anche una proficua collaborazione con la Rai, che dalla radio approdò poi nei decenni successivi alla televisione, passando per l’impegno nel Terzo Programma con l’appuntamento mensile delle ore 21 La donna e il secolo nel 1952, il ciclo di trasmissioni, sempre del Terzo Programma, intitolato Milano viscontea (1953) di cui pubblicò per la ERI i testi nel 1954, il programma Racconti di viaggio del 1955-57, fino alla rubrica «Taccuino» consistente nella lettura di un testo nell’intervallo di un concerto, che proseguì continuativamente sul Terzo Programma dal 1959 al 1974. Senza dimenticare la partecipazione, con l’Intervista impossibile a Lucrezia Borgia interpretata da Anna Maria Guarnieri, alla serie radiofonica delle «Interviste immaginarie» del 1974.
A fronte di un successo professionale costante, gli anni Cinquanta riservarono a Bellonci inquietudini private. Nel 1952 il marito venne licenziato dal Giornale d’Italia: la solidarietà del mondo della cultura e l’intervento di Alcide De Gasperi, cui Bellonci si era rivolta, procurarono all’anziano critico bolognese un nuovo impiego sulle pagine del Messaggero, ma la sua salute risentì del trauma con il primo manifestarsi dei disturbi cardiaci che lo avrebbero condotto alla morte nell’agosto 1964.
Al principio degli anni Sessanta, l’aspirazione a essere riconosciuta come narratrice senza limitazione di genere letterario aveva incontrato la chiaroveggenza critica di Giacomo Debenedetti, allora docente incaricato di letteratura moderna e contemporanea all’Università di Messina. In un intervento tenuto in un convegno a Positano nel 1961 Debenedetti – che frequentava con la moglie Renata il salotto degli Amici della domenica dal 1946 – si assunse l’impegno di parlare dell’opera di Bellonci mentre era in gestazione il terzo libro: un nuovo trittico di racconti, che sarebbe stato edito nel 1972 sotto il titolo di Tu, vipera gentile.
Secondo l’attitudine di intuizione prospettica propria delle letture critiche di Debenedetti fin dal 1961, il dato emergente fu che, in controtendenza rispetto a quanto il pubblico continuava ad attendersi da lei, «Maria Bellonci è intenta a un lavoro segreto» (cfr. Debenedetti, [1961], p. 9). Sembrava che la grande «trasparenza pubblica» dell’autrice, che in questa fase si confessava a diari e taccuini e diffondeva opinioni, interviste e polemiche, fosse un modo per «difendere il segreto dell’altro lavoro». «Ci si domanda» – concludeva Debenedetti – «se Maria Bellonci […] non abbia ora, nella sua più intensa maturità di scrittrice, il dubbio di avere solo giocato alla libertà». Ha ricevuto finora ordini dalla storia, e la tentazione ora può essere quella di «lavorare senz’ordini […] d’essere lei insomma a crearsi la trama delle sue storie con la stessa disponibilità con cui finora ne ha foggiato la forma vitale». Forse è giunto il momento per lei di sostituire ai romanzi ottenuti resuscitando la storia altri romanzi che «raccontino il possibile anziché riavverare il già accaduto» (ibid., pp. 10 s.). Debenedetti, scomparso prematuramente nel 1967, non ebbe la possibilità di verificare che il segreto del «romanzo romanzo» avrebbe dato il suo frutto migliore nell’ultimo lavoro di Bellonci: il racconto di se stessa narrato in prima persona da Isabella d’Este.
Lo ‘schianto’ della morte di Goffredo, vittima di un infarto fulminante il 31 agosto 1964, mentre era ospite nella villa dei Mondadori in occasione del premio Viareggio, costituì uno spartiacque nella vita e nella scrittura.
Il trauma venne lentamente riassorbito. Bellonci prese a occuparsi dell’Istituto internazionale per la storia del teatro fondato da Goffredo a Venezia nel 1963, accettò di condurre per Il Messaggero la rubrica «Pubblici segreti» che mantenne fino al 1970 (tali interventi sono apparsi postumi col titolo Pubblici segreti 2, Milano 1989, per cura di Anna Maria Rimoaldi, che aveva curato anche Segni sul muro: racconti, articoli ed elzeviri 1944-70, ibid. 1988), dette alle stampe sotto il titolo di Pubblici segreti alcuni scritti usciti su Il Punto fra 1958 e 1964 (ibid. 1965), e costituì infine nel 1966 l’Associazione Goffredo Bellonci. Nella citata intervista a Giorgio Torelli per Epoca del 1973, a quasi dieci anni dalla scomparsa del marito, del superamento della crisi diede lei stessa la valutazione più consona: «Ho portato con me questa privazione di Goffredo in quello che faccio. E credo si avverta, nei miei scritti, tanta disperazione umana».
La frequentazione assidua della Rai e l’attenzione per le possibilità dello strumento televisivo furono in questo periodo all’origine di un incontro che si rivelò determinante per il futuro della vita e dell’opera della scrittrice: la conoscenza nel 1965 – in occasione della proiezione dello sceneggiato televisivo di tre racconti di Grazia Deledda, George Sand e George Eliot – con Anna Maria Rimoaldi che ne aveva curato la regia. Di formazione scientifica – era laureata in matematica e statistica – la nuova amica, appassionata di teatro ed esperta dell’ambiente della produzione televisiva, divenne collaboratrice di fiducia di Bellonci che la nominò poi anche sua erede ed esecutrice testamentaria.
Nello stesso tempo, sembra fra il 1969 e il 1970, s’interrompeva il lungo e duraturo sodalizio con Anna Banti: probabilmente per dissensi innescati da valutazioni opposte su lavori letterari, per reciproche delusioni o, complessivamente, per il logorarsi inevitabile di un legame intenso e prolungato proveniente però da stagioni tramontate.
Dalla Rai giunse intanto (1969) la proposta di una sceneggiatura televisiva dedicata a Isabella d’Este: un lavoro che, con la collaborazione costante della Rimoaldi, occupò quasi sette anni e migliaia di pagine, senza mai pervenire alla messa in onda. Nel frattempo Bellonci pubblicò sempre con Mondadori Come un racconto gli anni del Premio Strega (Milano 1971: già apparso nel 1968 nella collana del Club degli editori dedicata alle opere vincitrici del premio e diretta da lei stessa) e, poco dopo, Tu, vipera gentile.
Gli archivi mondadoriani permettono una precisa ricostruzione della vicenda ideativa del nuovo trittico nel quale emerge, a fianco del racconto eponimo che rielaborava Milano viscontea uscito nel 1954 presso la ERI e di Soccorso a Dorotea aggiunto nel 1971, il taglio innovativo di Delitto di Stato, la cui stesura era stata avviata nel 1955, ma protratta per problemi esterni (come la sospensione da parte di Mondadori di un assegno mensile concordato in precedenza) e interni: di carattere esistenziale (i tentativi di curare una depressione ricorrente; la mancanza dell’incoraggiamento di Goffredo a proseguire il lavoro), ma anche legati alle esigenze narrative (secondo la testimonianza postuma di Rimoaldi, soprattutto la difficoltà di «proseguire il racconto con il linguaggio cancellieresco dello Striggi […] quasi raffreddato dal calcolo politico»: cfr. E. Ferrero, Note ai testi, in Opere, II, 1997, p. 1513).
Nel febbraio 1962 Delitto di Stato era uscito in una prima stesura sulla rivista Pirelli diretta da Vittorio Sereni. Circa dieci anni dopo, durante l’inaugurazione a Mantova del Teatro scientifico del Bibbiena, un incontro occasionale con un lettore appassionato alla vicenda riaccese la facoltà creativa di Bellonci, decisa alla fine a superare ogni difficoltà stilistica facendo narrare la storia dal giovane Paride. Tu, vipera gentile giunse in libreria nell’ottobre 1972, nella collana mondadoriana SIS.
La soddisfazione per il successo fu oscurata fra 1973 e 1974 dalla grave malattia e poi dalla morte della madre, cui nel decennio successivo si aggiunsero i lutti per il fratello Leo, deceduto nel marzo 1979, e per la sorella Gianna, morta dopo una prolungata malattia nel marzo 1983.
Il romanzo capolavoro, 1976-1986
Mentre, nel corso del 1976, si palesava il fallimento per problemi economici del monumentale sceneggiato su Isabella d’Este – un’amarezza cocente per la scrittrice – giunse però dalla Rai la proposta di sceneggiare in due puntate Delitto di Stato, per la regia di Gianfranco De Bosio. Con l’appoggio di Anna Maria Rimoaldi e in un’amichevole sintonia con il regista, Bellonci consegnò nella primavera del 1977 il copione, partecipò con grande interesse alle riprese svolte a Mantova nell’estate del 1980, con un cast eccellente (Sergio Fantoni, Remo Girone, Eleonora Brigliadori); non mancò infine nel gennaio 1982 alla presentazione a Londra del film televisivo in occasione della mostra sui Gonzaga allestita al Victoria and Albert Museum.
Già da due anni era peraltro immersa in un arduo lavoro commissionato dalla ERI per la ricostruzione del testo originale del Milione di Marco Polo da codici antichi francesi, italiani e latini. L’impresa doveva fiancheggiare l’uscita dello sceneggiato diretto da Giuliano Montaldo prevista per il novembre 1982: il testo vide infatti la luce in giugno. Si era aggiunta poi nel 1981 l’ulteriore richiesta della Rai di trarre un video novel dalla sceneggiatura di Montaldo, ritrascrivere cioè in forma romanzata un film televisivo secondo un’abitudine angloamericana inusuale in Italia. Non occorre sottolineare come tutte queste attività di scrittura di fatto sperimentali, del resto praticate in prospettiva drammaturgica anche nella sceneggiatura abbandonata del film televisivo progettato per Isabella d’Este, offrissero a Maria motivi tecnico-stilistici di riflessione, l’aprirsi di nuove ‘zone poetiche’ che sollecitavano risposte nuove, pur nel quadro costante della sua raffinata attenzione per lo strumento linguistico del narratore, quella lingua italiana la cui «fluidità senza bastioni di regole fisse rende possibili tutti gli ardimenti, tutti gli scorci, tutti i moti» (Pubblici segreti, 1965, p. 136). Cosicché, quando Montaldo (1983) la invitò a rileggere i sette copioni della sceneggiatura isabelliana, riprese vigore l’ipotesi, già presente nelle sue agende del 1976, di far confluire il lungo e inutilizzato lavoro in un romanzo, che tuttavia sembrò in competizione, nella progettazione creativa di Bellonci ormai ultraottantenne, con il fantasma di Vespasiano Gonzaga, anch’esso presente a intermittenza nella ricerca documentaria e nelle prove di scrittura dell’autrice.
Fu Isabella d’Este ad avere la meglio, e nell’accanito lavoro del 1984-85 prese forma il capolavoro di Bellonci, Rinascimento privato (Milano 1985), il racconto di Isabella che, in prima persona, mette in scena se stessa e la propria vita con il controcanto delle dodici lettere (senza risposta ma mai distrutte e spesso rilette) di Robert de la Pole.
L’invenzione dell’ecclesiastico inglese, ammiratore segreto della marchesa, fu un’intuizione del febbraio 1981, a seguito di una lettera del giovane prete canadese André Desjardins studioso del Rinascimento, ammiratore e corrispondente di Bellonci: dalla missiva, in cui il giovane si scusava per aver tenuto nascosto senza una precisa ragione il sacerdozio nell’incontro romano di anni prima, la scrittrice prelevò direttamente l’inizio della prima lettera di Robert a Isabella.
Il romanzo apparve sulla metà di aprile 1985. Un coro di amici l’anno dopo convinse Maria a presentare finalmente un ‘suo’ romanzo al ‘suo’ premio Strega. Ma era destino che, il 4 luglio, la sua Isabella dovesse vincere sola.
Maria Bellonci, cedendo a un male incurabile, era morta infatti a Roma, poche settimane prima, il 13 maggio 1986.
I suoi scritti sono stati riuniti nei due «Meridiani» Mondadori delle Opere, I-II, a cura di E. Ferrero, Milano 1994-97.
Fonti e Bibliografia
Milano, Fondazione Mondadori, Arch. storico Arnoldo Mondadori editore, Carteggio M. B. 1932-1968; Roma, Fondazione Bellonci: M. Bellonci, Piccolo libro delle consolazioni segrete 1936; Diario breve 1938-1943.
Debenedetti, M. B., presentazione di M. Forti, Milano s.d. [ma 1961]; A. Banti, I pubblici segreti. Appunti, in Paragone, XVI (1965), ottobre, pp. 137-139; M. Grillandi, Invito alla lettura di M. B., Milano 1983; V. Branca, B., M., in Diz. critico della letteratura italiana (UTET), a cura di V. Branca, Torino 1986, ad vocem; E. Ferrero, Introduzione, in M. Bellonci, Opere, I, cit., pp. XI-XXXVI; G. Leto, Cronologia, ibid., pp. XXXIX-LXXII; L. Serianni, La prosa di M. B., ovvero la ricerca dell’acronia, in Studi linguistici italiani, XXII (1996), pp. 50-64; M. Onofri, Introduzione, in M. Bellonci, Opere, II, cit., pp. XI-XLIV; V. Della Valle, L’italiano «d’autrice» di M. B., ibid., pp. XLVII-LXXII; M. Simonetta, M. B., Manzoni e l’eredità impossibile del romanzo storico, in Lettere italiane, L (1998), pp. 248-263; S. Roush, Isabella inventrix. History and creativity in M. B.’s «Rinascimento privato», in Italica, LXXIX (2002), pp. 189-203; G. Antonelli, La voce dei documenti nella scrittura di M. B., in Narrare la storia: dal documento al racconto, a cura di T. De Mauro – N. Fusini, Milano 2006, pp. 95-112; I. Calisti, Per il romanzo storico di mano femminile nel Novecento: lo sguardo sul Rinascimento di Anna Banti e M. B., tesi di dottorato, Università degli studi di Bologna, 2008; Id., «La maestosa armonia di un tempo senza tramonti»: la ‘plenitudo temporis’ romana in «Rinascimento privato» di M. B., in Fra Olimpo e Parnaso. Società gerarchica e artificio letterario, a cura di F. Pezzarossa, Bologna 2008, pp. 193-224; L. Avellini, Gli orologi di Isabella. Il Rinascimento di M. B., Bologna 2011
Fonte Enciclopedia TRECCANI online. di Luisa Avellini – Dizionario Biografico degli Italiani
Il trattato dal titolo “David Maria Turoldo, il Resistente”, a cura di Guerino Dalola, in collaborazione con Donatella Rocco, Antonio Santini, Mino Facchetti, Pierino Massetti, Gian Franco Campodonico e di ANPI Franciacorta, consiste in un importante saggio autoprodotto con il patrocinio di vari enti e associazioni, tra cui la Città di Chiari, il Comune di Coccaglio, il Comune di Cologne, i Servi di Maria – provincia di Lombardia e Veneto e l’associazione Gervasio Pagani.
Padre David Maria Turoldo è un frate morto nel 1992. Su padre David Maria Turoldo, che fu poeta, filosofo, sacerdote, autore, traduttore, fondatore di riviste e giornali, sono stati pubblicati centinaia di libri e documenti, ma senza dare ampia notizia sulla sua partecipazione alla Resistenza del 1943-45 contro il nazifascismo. Padre David Maria Turoldo è stato un grande Resistente a Milano, ma era in contatto anche con la Resistenza bresciana, soprattutto nella zona della Franciacorta.
Secondo Turoldo la figura del Partigiano riveste certamente una eccezionale e fondamentale importanza, ma in uno specifico momento e in una determinata situazione. Invece, sempre secondo Turoldo, essere Resistente è una scelta di vita che non può verificarsi solo in un determinato tempo e in uno spazio contingente. La Resistenza, i Resistenti attuano un impegno quotidiano, da realizzarsi nel percorso di ogni giorno, senza distrazioni, nel corso di una intera esistenza. La liberazione autentica dell’umanità, oltre che dal nazifascismo e dalle dittature, richiede una militanza, una acribia nel tempo, un impegno molto più profondo sul piano culturale, relazionale, politico, sociale, familiare. L’impegno del Resistente non ha fine e scadenze, perché la libertà non si rinnova da sola, ma deve essere sempre riconquistata con l’impegno di ognuno di noi. Infatti la Resistenza non è mai finita.
Turoldo non ha mai voluto schierarsi con nessun partito politico, perché, lui stesso spiegherà, la libertà, la costruzione di un mondo migliore, i diritti delle persone, la solidarietà, il progresso alternativo che non è tale se non è per tutti, il soccorso a chi vive nell’indigenza, a chi vive nelle difficoltà, a chi vive nel bisogno, il rispetto di tutte le fedi politiche e religiose, non sono istanze appartenenti all’uno o all’altro schieramento partitico, ma sono valori appartenenti alla nostra comune umanità.
Per il Resistente il vero campo di lotta è la normalità, la testimonianza, non solo con le parole, ma con esempi di vita. Il Resistente non è solo antifascista. La vera scelta del Resistente è un’alternativa totale, a favore di una società, di un contesto sociale, completamente diversi, per una nuova presente e futura umanità, perché la pace non è solo mancanza di guerra, ma è nonviolenza, è costruzione di convivenza solidale e fraterna.
Le esperienze di Turoldo furono molteplici come Partigiano in una delle vicende più importanti della sua vita: la Resistenza. Ma le fonti storiche non danno ricostruzione storiografica editata di ampio respiro di padre Turoldo per la sua attività nella lotta di Liberazione nazionale e per il contributo notevole che ha offerto nella ricostruzione morale e materiale del nostro Paese. “Una lacuna nella storia del pensiero democratico e antifascista di impronta cattolica alla quale bisognerebbe pensare di porre rimedio”, così scrive Aldo Aniasi, comandante partigiano, assessore e sindaco di Milano, deputato e ministro socialista e presidente della FIAP federazione italiana associazioni partigiane. Scrive sempre Aldo Aniasi, che come uomo della Resistenza padre Turoldo privilegiò sempre una scelta unitaria, lo spirito unitario della Resistenza, lo spirito dell’unità antifascista. Intrattenne rapporti con comunisti, socialisti, azionisti e incontrava personaggi come Eugenio Curiel, Rossana Rossanda e altri importanti dirigenti della sinistra.
Uno dei risultati più significativi dell’intero lavoro di confronto e dialogo realizzato nel convento di San Carlo a Milano per iniziativa di padre Turoldo e padre De Piaz è la nascita e la diffusione – soprattutto da parte di Teresio Olivelli, Claudio Sartori ed altri collaboratori bresciani – del giornale clandestino antifascista “Il ribelle”. Anche la predicazione in Duomo su incarico del Cardinale Schuster diventa espressione della Resistenza di padre Turoldo. Appena dopo la Liberazione del 25 Aprile 1945, saranno ventinove i Lager visitati da padre Turoldo alla ricerca di sopravvissuti e riuscirà a riportare in salvo a casa circa duecento prigionieri. Scrive Turoldo “Una sola possibilità affinché non si ripeta quanto è avvenuto: ricordare e capire, far ricordare e far capire… Così ho visto la sola Europa possibile, quella della solidarietà dei sopravvissuti”. Scrive Ernesto Balducci “Il grande dono di David è di essere nato povero, in mezzo ai poveri, agli ultimi… David è rimasto un povero. I poveri sono fuori del perimetro della storia”. In occasione degli appositi referendum, padre Turoldo vota contro l’abrogazione del divorzio e dell’aborto, perché i principi religiosi non possono essere imposti a chi non crede: la religione va spiegata e proposta, mai imposta con una legge. Nella primavera del 1978, padre Turoldo, insieme al confratello De Piaz, avvia una trattativa con le Brigate Rosse, per la liberazione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. L’iniziativa a cui partecipa anche il vescovo di Ivrea monsignor Luigi Bettazzi, presidente di Pax Christi, viene bloccata dall’opposizione delle autorità ecclesiastiche.
La Corsia dei Servi e Nomadelfia furono le iniziative più care sia a Turoldo sia a padre De Piaz, basate su concetti di primaria importanza: tanto la fede che le scelte politiche diventano operative e efficaci solo nell’ambito di una cultura che permetta di uscire dall’inerzia di una fede accolta solo per tradizione e pregiudizio, per tentare invece una rigenerazione dalla vera cultura con maggior impulso possibile.
Invitato a un congresso sul disarmo nel febbraio 1978, Turoldo ebbe l’occasione di incontrare Carlo Cassola, che lo invitò al convegno nazionale della LDU- Lega per il Disarmo Unilaterale. Gli aderenti attuali della Lega per il Disarmo Unilaterale sotto la sigla “Disarmisti Esigenti” stanno lavorando all’interno della campagna ICAN – International Campaign to Abolish Nuclear Weapons e con molte altre associazioni del panorama italiano affiliate a ICAN, tra cui anche PeaceLink- Telematica per la Pace, alla ratifica del trattato ONU, il TPAN, per la proibizione delle armi nucleari, varato a New York a palazzo di vetro nel luglio 2017 da 122 nazioni e dalla società civile organizzata in ICAN. ICAN grazie alla costituzione del trattato Onu per l’abolizione delle armi nucleari è stata insignita Premio Nobel per la Pace 2017. E poi ricordiamo la Salmodia della Speranza che attraversa la drammatica esperienza dell’Europa prima e durante la Seconda Guerra Mondiale: il trionfo dei dittatori, il nazismo, il fascismo, il razzismo, i grandi massacri, i Lager, Hiroshima e Nagasaki, la Resistenza. Per una Chiesa che accoglie i diversi, gli emarginati, gli oppressi, gli ultimi, le vittime di cui tutti siamo parte nel contesto sociale, comunitario, culturale e nel mondo, nel terribile deserto della sopraffazione e della violenza dove tante voci chiedono libertà, giustizia e verità per tutti quegli innocenti che ancora nascono solo per morire.
Laura Tussi – PeaceLink, Campagna “Siamo tutti Premi Nobel per la Pace con ICAN” Fabrizio Cracolici – ANPI sezione Emilio Bacio Capuzzo Nova Milanese (Monza e Brianza)
David Maria Turoldo
Biografia di David Maria Turoldo nasce il 22 novembre del 1916 a Coderno, in Friuli, nono di dieci fratelli. Nato come Giuseppe Turoldo, a tredici anni entra nel convento di Santa Maria al Cengio per far parte dei Servi di Maria, a Isola Vicentina, là dove si trova la sede del Triveneto della Casa di Formazione dell’Ordine Servita. È qui che trascorre l’anno di noviziato; dopo avere assunto il nome di fra’ David Maria, emette la professione religiosa il 2 agosto del 1935. Nell’ottobre del 1938 pronuncia i voti solenni a Vicenza.
Gli studi accademici
Intrapresi gli studi di teologia e di filosofia a Venezia, nell’estate del 1940 Turoldo viene ordinato presbitero nel santuario della Madonna di Monte Berico dall’arcivescovo di Vicenza ,monsignor Ferdinando Rodolfi. Nello stesso anno viene inviato a Milano, al convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo al Corso.
Per circa un decennio si occupa di tenere la predicazione della domenica in Duomo, su invito dell’arcivescovo Ildefonso Schuster, mentre insieme con il suo confratello Camillo de Piaz, compagno di studi nell’Ordine dei Servi, si iscrive all’Università Cattolica di Milano. Qui David Maria Turoldo si laurea l’11 novembre del 1946 in filosofia con una tesi intitolata “La fatica della ragione – Contributo per un’ontologia dell’uomo”, con il professor Gustavo Bontadini. Quest’ultimo successivamente gli propone di diventare suo assistente presso la cattedra di Filosofia Teoretica. Anche Carlo Bo gli offre un ruolo come assistente, ma per l’Università di Urbino, cattedra di Letteratura.
Dopo aver collaborato in modo attivo con la resistenza antifascista in occasione dell’occupazione nazista di Milano, David Maria Turoldo dà vita al centro culturale Corsia dei Servi e sostiene il progetto del villaggio Nomadelfia fondato nell’ex campo di concentramento di Fossoli da don Zeno Saltini.
David Maria Turoldo negli anni ’50
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta pubblica la raccolta di liriche “Io non ho mani”, con cui si aggiudica il Premio letterario Saint Vincent, e l’opera “Gli occhi miei lo vedranno”, proposta nella collana Lo Specchio di Mondadori.
Nel 1953 Turoldo è costretto a lasciare Milano, e si trasferisce prima in Austria e poi in Baviera, dove soggiorna presso i conventi dei Servi locali. Nel 1955 viene trasferito a Firenze, al convento della Santissima Annunziata, dove ha modo di conoscere il sindaco Giorgio La Pira e padre Ernesto Balducci.
Obbligato ad andare via anche dal capoluogo toscano, dopo un periodo di peregrinazioni lontano dall’Italia torna in patria e viene assegnato a Udine, al convento di Santa Maria delle Grazie. Nel frattempo si dedica alla realizzazione di un film, con la regia di Vito Pandolfi, intitolato “Gli ultimi” e tratto dal suo racconto Io non ero fanciullo. La pellicola, che rappresenta la povertà della vita rurale in Friuli, viene presentata nel 1963 ma non apprezzata dal pubblico locale, che la considera poco rispettosa.
Gli ultimi anni
In seguito Turoldo individua nell’antico Priorato cluniacense di Sant’Egidio in Fontanella un luogo in cui dare vita a un’esperienza religiosa comunitaria nuova, che coinvolga anche i laici: vi si insedia il 1° novembre del 1964, dopo aver ricevuto il consenso di Clemente Gaddi, il vescovo bergamasco.
Qui fa costruire una casa per l’ospitalità, che prende il nome di Casa di Emmaus in riferimento all’episodio biblico della cena di Emmaus, con Gesù che si manifesta ai discepoli dopo essere risorto.
Alla fine degli anni Ottanta David Maria Turoldo si ammala per un tumore al pancreas: muore all’età di 75 anni il 6 febbraio del 1992 a Milano, nella clinica San Pio X. I funerali vengono celebrati dal cardinale Carlo Maria Martini, che pochi mesi prima aveva assegnato a Turoldo il Premio Giuseppe Lazzati.
Roberto Fineschi-Italo Calvino è stato marxista. In memoriam .
Ass. La Città Futura -Roma
Italo Calvino
Italo Calvino è stato un grande intellettuale comunista e marxista. Se nella seconda fase della sua vita si allontanò da quelle posizioni, permanevano tuttavia importanti linee di continuità che permettono di ricondurlo nell’alveo di quella tradizione filosofica, politica, civile e morale.
Presento qui, in occasione della ricorrenza del centenario della nascita e in forma estremamente schematica, alcune idee che sto sviluppando in uno studio di carattere organico sulla “filosofia” di Italo Calvino che uscirà l’anno prossimo.
Italo Calvino, sanremese cui “capitò” di nascere a Cuba, è stata una figura di intellettuale tra le più grandi della storia italiana recente, tra i pochi con un ampio respiro internazionale e universalmente apprezzato per originalità e profondità. Viaggiatore del mondo, parigino di adozione, ebbe notoriamente forti legami con il territorio toscano: oltre a morire infaustamente proprio a Siena nel 1985, amò profondamente il litorale prossimo a Castiglion della Pescaia, scenario di alcune delle sue opere; vi passò per molti anni l’estate nella sua residenza immersa nella pineta di Roccamare e scelse la cittadina toscana come luogo per la propria sepoltura.
ITALO CALVINO
Al di là della memorialistica locale, mero pretesto per avviare il discorso, è altro il ricordo che vorrei rievocare. Se sempre viene a ragione ricordato il periodo della sua militanza politica diretta come membro del Partito Comunista Italiano – interrotta con le dimissioni del 1957 in seguito ai fatti ungheresi e alla timidezza con cui il PCI procedeva con la destalinizzazione -, meno frequentemente tale esperienza viene collegata a ragioni teoriche e filosofiche – oltre che, ovviamente, pratiche – che lo spinsero a questa adesione e che restarono vive ben al di là del fatidico ‘56. Queste ragioni spingono a sostenere – questa la tesi – non solo che Calvino sia stato e rimasto comunista nell’arco della sua vita, ma che le sue posizioni possano essere identificate come “marxiste”, ovviamente intendendo con questo termine una adesione in senso ampio ad alcune linee di ragionamento derivate da Marx, sulle quali, pur mutando accenti e priorità, non ha mai cambiato idea. Ancora più arditamente credo si possa sostenere che, dieci anni prima della “crisi del marxismo” degli anni Settanta, Calvino ne avesse anticipato i tratti di fondo oggettivi e soggettivi e pure i vicoli ciechi di alcuni dei suoi esiti; ne trasse conseguenze pratiche coerenti dal suo punto di vista, con una sospensione di giudizio che non significò affatto fine della ricerca o assenza di posizionamento critico-intellettuale; si trattò piuttosto di una epochè attiva, inquirente, pungolo costante volto a stimolare la realtà per rendere visibile l’invisibile, dire il non detto. Credo si possa affermare che, in questo senso, non ci fosse intento più realistico del suo interesse per l’utopia e il mondo fantastico-invisibile.
In questa ricerca, che inizialmente pare prendere vie completamente diverse, si riannodano linee di continuità che paiono a me evidenti: il paradigma teorico su cui si era basato fino a quel momento non era ritenuto completamente sbagliato, ma insufficiente a pensare l’accresciuta complessità del reale. Se certi aspetti andavano ridimensionati, per altri versi si trattava di ampliarlo, ma a partire da basi non rinnegate. L’esplorazione del complesso reale, anche nella prospettiva di tale ampliamento, è quanto farà nel resto della sua vita. Se da una parte è evidente che nella seconda metà degli anni Sessanta, successivamente alla pubblicazione del saggio L’antitesi operaia[1] e agli sviluppi esposti in Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)[2], Calvino ripensò profondamente le proprie posizioni “filosofiche”, pare però a me, dall’altra, che definire che cosa fosse lo “storicismo dialettico” con il quale fece i conti nel primo dei saggi menzionati sia parte integrante del problema; questa espressione è infatti quanto mai imprecisa e irrisolta ed è difficile stabilire, alla luce dello stato corrente degli studi, in che misura si possa avvicinare a spunti interamente hegeliani o marxiani. Rispetto alle determinanti fondamentali di quelle impostazioni, non ritengo che le linee generali del suo ragionamento deviassero così drasticamente.
Questo “marxismo” di fondo, il legame contraddittorio di esso con il “comunismo” e con lo “stalinismo” e la progressiva distinzione di queste tre categorie è stato il retroterra di molte delle sue riflessioni, anche tarde, che più volte nella maturità lo hanno portato a riflettere sull’esperienza giovanile, sui suoi limiti ma anche sul suo valore. In questa nota, tra i molti, vorrei fare brevemente cenno a un articolo in cui riflette sullo “stalinismo” di quella generazione e dove riprende i termini del discorso dando almeno in parte il senso storico-culturale della continuità/discontinuità del Calvino fine anni Settanta. L’articolo si intitola significativamente con una domanda: Sono stato stalinista anch’io?[3]; a essa Calvino risponde coraggiosamente: “Sì, sono stato stalinista” (2836). Spiega:
“Per molti comunisti di «base» rimasti in attesa dell’ora X della rivoluzione, Stalin era la garanzia vivente che questa rivoluzione ci sarebbe stata […] C’era poi lo Stalin che diceva che il proletariato doveva raccogliere la bandiera delle libertà democratiche lasciata cadere dalla borghesia, e questo era lo Stalin la cui strategia serviva d’appoggio alla linea del partito di Togliatti, e sembrava corrispondere a una prospettiva di continuità storica tra la rivoluzione borghese e quella proletaria” (2836).
Calvino non si nasconde quanto “già” si sapesse su Stalin e confessa la sua reticenza del tempo a darne conto o ad ammetterlo; tutto ciò rientrava nel “pacchetto” Stalin: le possibili linea di divergenza e di criticità rispetto alle purghe e all’autoritarismo vivevano accanto ai principi suddetti senza soluzione di continuità. Nella propria autocomprensione Calvino può dunque affermare: “Tanto il mio stalinismo quanto il mio antistalinismo hanno avuto origine dallo stesso nucleo di valori” (2837). In sostanza:
“Lo stalinismo aveva la forza e i limiti delle grandi semplificazioni. La visione del mondo che veniva presa in considerazione era molto ridotta e schematica, ma all’interno di essa si riproponevano scelte e lotte per far prevalere le proprie scelte, attraverso le quali molti valori che si presumevano esclusi tornavano in gioco” (2839). Insomma: “lo stalinismo si presentava come il punto d’arrivo del progetto illuminista di sottomettere l’intero meccanismo della società al dominio dell’intelletto. Era invece la sconfitta più assoluta (e forse ineluttabile) di questo progetto” (2840).
Questo – oramai consapevole – rapporto contraddittorio emerge anche nell’apprezzamento e nella sostanziale condivisione da parte di Calvino del pragmatismo anti-ideologico staliniano, che però adesso Calvino capisce non essere stato autentico in Stalin, non trattandosi altro che di concessione di monarca, rispetto a una vera concretezza metodologica e pratica.
ITALO CALVINO
Pur con le sue criticità, l’idea di fondo era che l’URSS avesse raggiunto una saggezza suffragata dal travaglio storico della sua realizzazione:
“Proiettavo sulla realtà la semplificazione rudimentale della mia concezione politica, per la quale lo scopo finale era di ritrovare, dopo aver attraversato tutte le storture e le ingiustizie e i massacri, un equilibrio naturale al di là della storia, al di là della lotta di classe, al di là dell’ideologia, al di là del socialismo e del comunismo” (2841).
Ma fuori dal moralismo o dalla semplificazione storica, Calvino ammette che il suo stalinismo, nel bene e nel male, fu un momento di un processo storico complesso con i suoi tratti di necessità e i suoi ristretti margini di consapevolezza e autodecisione. Da ciò conclude il suo intervento con queste affermazioni:
“Se sono stato (pur a modo mio) stalinista, non è stato per caso. Ci sono componenti caratteriali di quell’epoca, che fanno parte di me stesso: non credo a niente che sia facile, rapido, spontaneo, improvvisato o approssimativo. Credo alla forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi né entusiasmi. Non credo a nessuna liberazione né individuale né collettiva che si ottenga senza il costo di un’autodisciplina, di un’autocostruzione, d’uno sforzo. Se a qualcuno questo mio modo di pensare potrà sembrare stalinista, ebbene, allora non avrò difficoltà ad ammettere che in questo senso un po’ stalinista lo sono ancora” (2842).
Il senso profondo di questa riflessione pare a me la consapevolezza non tanto dell’inconsistenza del retroterra filosofico-culturale del comunismo storico, ma quella delle sue insufficienze, dei suoi limiti e del suo necessario ripensamento, ma a partire da capisaldi che sono propri di quel pensiero e che neppure lo spauracchio dello stalinismo riesce a scalfire nel suo profondo. Non solo la legittimità di quella lotta storica comunista è rivendicata, ma anche un approccio metodologico individuale e collettivo e alcuni principi di fondo (razionalismo, storicità determinata, libertà possibile solo nella necessità, contraddizioni storiche, temi che qui posso evidentemente solo rievocare); tutti hanno una matrice marxiana che cercherò di mostrare a suo tempo nello studio annunciato.
ITALO CALVINO
Nella disfatta culturale postmodernista, nel cieco individualismo metodologico e morale dell’ideologia contemporanea, la voce di Calvino risuona come chiaro richiamo a una ben precisa tradizione storica, politica, culturale. Concludo ricordandolo con le sue stesse parole:
“Detto questo, rimango molto legato a certe caratteristiche che sono state l’immagine positiva del comunista, per me, e che mi hanno spinto a identificarmi con quel modello di vita… Lo spendersi per il bene comune, la disciplina interiore, l’affrontare le situazioni difficili, il senso della storia. Anche se oggi mi sarebbe impossibile darmi delle etichette politiche se non molto generiche, mi situo pur sempre in una storia che ha come spina dorsale il movimento operaio»[4].
Note:
[1] Originariamente apparso in “II menabò 7 – Una rivista internazionale”, Einaudi, Torino 1964. Ripubblicato in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 127ss.
[2] Originariamente apparso col titolo Cibernetica e fantasmi in “Le conferenze dell’Associazione Culturale Italiana”, fase. XXI, 1967-68, pp. 9-23; successivamente, in un testo ridotto, col titolo Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, in “Nuova Corrente”, n. 46-47, 1968. Raccolto infine in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 205ss.
[3] Originariamente apparso su “La repubblica” del 16-17 dicembre 1979 come contributo di un inserto dedicato al centenario della nascita di Stalin. Ora raccolto in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 2835 ss. (si cita da questa edizione).
[4] Calvino, Il futuro che vorrei vedere, «Nuova Gazzetta del popolo», 23 luglio 1978, p. 2.
FONTE– Ass. La Città Futura | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi
Sarah Josepha Hale – la Poetessa della Festa del Ringraziamento –
Sarah Josepha Hale
Poet, Sarah Josepha Hale is best known for creating the nursery rhyme “Mary Had a Little Lamb.” However, her work extends far beyond her writing. Her influence can be seen in historic sites and a famous national holiday still widely celebrated today.
Sarah Josepha Hale was born on October 24th, 1788 in Newport, New Hampshire. Her parents were strong advocates for education of both sexes. Therefore, Hale was taught well beyond the normal age for a woman. Later, she married a lawyer David Hale, who supported her in all scholarly endeavors. Sadly, her husband died after only nine years of marriage, leaving Hale a widow with five children. She turned to poetry as a form of income. Her most famous book, titled Poems for Our Children included a beloved story from her childhood. “Mary Had a Little Lamb” was instantly a popular nursey rhyme.
In 1837, she became the editor of the Godey’s Lady’s Book. Her work with the magazine made her one of the most influential voices in the 19th century. Her columns covered everything from women’s education to child rearing. Hale also used her platform to support other causes, including abolishing slavery and, later, colonization (freeing African Americans and sending them to Africa). While working as editor, she raised money for various historic sites. Hale helped to preserve George Washington’s home and financially supported the construction of the Bunker Hill Monument. Her work in historic preservation has stood the test of time, as both sites are still open to public.
Sarah Josepha Hale
Hale has been criticized heavily for her support of gender roles. As an editor, she encouraged women to focus their efforts in the domestic realm. A proper woman, to Hale not only managed the home but she also imparted religion to her children. Godey’s Lady’s Book was widely known for its conservative views for much of the 19th century. Additionally, Hale did not support the women’s suffrage movement because she believed that women’s participation in politics would limit their influence in the home. However, Hale did use the magazine to advocate for the education of women and the rights of women as property owners.
Hale used her persuasive writings to support the creation of Thanksgiving as a national holiday. Beginning in 1846, she charged the president and other leading politicians to push for the national celebration of Thanksgiving, which was then only celebrated in the Northeast. Her requests for recognition were largely ignored by politicians until 1863. While the nation was in the middle of the Civil War, President Lincoln signed into action “A National Day of Thanksgiving and Praise.” Hale’s letter to Lincoln is often cited as the main factor in his decision. Hale retired as editor in 1877 and died two years later at the age of 92.
Articolo scritto da Ugo Ojetti per la Rivista PAN n°5 del 1934
Salvatore Di Giacomo nacque a Napoli il 12 marzo 1860, figlio primogenito di Francesco Saverio Di Giacomo, medico abruzzese, e Patrizia Buongiorno, il cui padre insegnava al Conservatorio di San Pietro a Maiella. Dopo aver conseguito la licenza liceale presso il Vittorio Emanuele, frequentò per volere del padre la facoltà di Medicina. Di Giacomo non aveva alcun interesse per gli studi cui era stato indirizzato, tanto che nell’ottobre 1880 abbandonò l’università in seguito a un celebre episodio che egli stesso descrisse sei anni più tardi.
Un giorno, recatosi ad assistere a una lezione di anatomia, rimase nauseato alla vista del cadavere di un vecchio, sul cui volto il professore aveva tracciato «cinque o sei linee di demarcazione», in modo da spiegare la composizione del cranio. Corso fuori dall’aula, si trovò suo malgrado protagonista di una scena raccapricciante: il bidello, che scendeva portando in una tinozza membra umane, scivolò riversando il macabro contenuto, mentre il giovane si diede alla fuga, abbandonando l’edificio di Sant’Aniello a Caponapoli e il percorso accademico. Di Giacomo si sentiva attratto dalla letteratura e dalla critica letteraria. Alleggerito del fardello di studi coatti, poté cercare di realizzare i propri desideri. Si rivolse così al Corriere del Mattino, diretto da Martino Cafiero. La collaborazione cominciò con «alcune novelle di genere tedesco», ispirate principalmente alla coppia Erckmann-Chatrian.[2] Cafiero e Federigo Verdinois, che si occupava della parte letteraria, sospettarono potesse averle tradotte. Di Giacomo fu costretto a scriverne altre per dimostrarne l’autenticità, e al tempo stesso ricevette uno sprone a proseguire nell’attività di novelliere. Dopo alcuni mesi diventò ordinario collaboratore del Corriere, assieme a Roberto Bracco, con cui instaurò una profonda amicizia, e Giuseppe Mezzanotte.[3]
Lasciato il Corriere, passò dapprima al Pro Patria, quindi alla Gazzetta letteraria diretta da Vittorio Bersezio. In seguito andò al Pungolo. Il 21 settembre 1884 perse il padre nell’epidemia di colera che colpì la città. Quell’anno pubblicò per l’editore Tocco la già copiosa produzione poetica in lingua napoletana, che apparve con il titolo Sonetti. Seguirono, nel giro di pochi anni, le raccolte poetiche ‘O Funneco verde (1886), Zi’ munacella (1888) e Canzoni napoletane (1891). Nel 1892 fu tra i fondatori, assieme a Benedetto Croce, Vittorio Spinazzola e altri intellettuali, della nota rivista di topografia e arte napoletana Napoli nobilissima.
Salvatore di GiacomoSalvatore di GiacomoSalvatore di Giacomo
Salvatore di Giacomo-Fonte – Wikipedia- Fonte – Wikipedia-Biografia di Salvatore Di Giacomo (Napoli, 12 marzo 1860 – Napoli, 5 aprile 1934) è stato un poeta, drammaturgo e saggista italiano. Salvatore Di Giacomo nacque a Napoli il 12 marzo 1860, figlio primogenito di Francesco Saverio Di Giacomo, medico abruzzese, e Patrizia Buongiorno, il cui padre insegnava al Conservatorio di San Pietro a Maiella. Dopo aver conseguito la licenza liceale presso il Vittorio Emanuele, frequentò per volere del padre la facoltà di Medicina. Di Giacomo non aveva alcun interesse per gli studi cui era stato indirizzato, tanto che nell’ottobre 1880 abbandonò l’università in seguito a un celebre episodio che egli stesso descrisse sei anni più tardi. Un giorno, recatosi ad assistere a una lezione di anatomia, rimase nauseato alla vista del cadavere di un vecchio, sul cui volto il professore aveva tracciato «cinque o sei linee di demarcazione», in modo da spiegare la composizione del cranio. Corso fuori dall’aula, si trovò suo malgrado protagonista di una scena raccapricciante: il bidello, che scendeva portando in una tinozza membra umane, scivolò riversando il macabro contenuto, mentre il giovane si diede alla fuga, abbandonando l’edificio di Sant’Aniello a Caponapoli e il percorso accademico. Di Giacomo si sentiva attratto dalla letteratura e dalla critica letteraria. Alleggerito del fardello di studi coatti, poté cercare di realizzare i propri desideri. Si rivolse così al Corriere del Mattino, diretto da Martino Cafiero. La collaborazione cominciò con «alcune novelle di genere tedesco», ispirate principalmente alla coppia Erckmann-Chatrian.[2] Cafiero e Federigo Verdinois, che si occupava della parte letteraria, sospettarono potesse averle tradotte. Di Giacomo fu costretto a scriverne altre per dimostrarne l’autenticità, e al tempo stesso ricevette uno sprone a proseguire nell’attività di novelliere. Dopo alcuni mesi diventò ordinario collaboratore del Corriere, assieme a Roberto Bracco, con cui instaurò una profonda amicizia, e Giuseppe Mezzanotte.[3] Lasciato il Corriere, passò dapprima al Pro Patria, quindi alla Gazzetta letteraria diretta da Vittorio Bersezio. In seguito andò al Pungolo. Il 21 settembre 1884 perse il padre nell’epidemia di colera che colpì la città. Quell’anno pubblicò per l’editore Tocco la già copiosa produzione poetica in lingua napoletana, che apparve con il titolo Sonetti. Seguirono, nel giro di pochi anni, le raccolte poetiche ‘O Funneco verde (1886), Zi’ munacella (1888) e Canzoni napoletane (1891). Nel 1892 fu tra i fondatori, assieme a Benedetto Croce, Vittorio Spinazzola e altri intellettuali, della nota rivista di topografia e arte napoletana Napoli nobilissima. Dal 1893 ricoprì l’incarico di bibliotecario presso varie istituzioni culturali cittadine (Biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Maiella, Biblioteca Universitaria, Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III). Nel 1902 divenne direttore della Sezione autonoma Lucchesi-Palli della Biblioteca nazionale e dal 1925 al ’32 fu bibliotecario capo. Dopo essere stato escluso dal Senato del Regno in sede di verifica dei poteri[4], nel 1925 aderì al manifesto degli intellettuali fascisti e fu nominato accademico d’Italia nel 1929. Fino al 1903 Di Giacomo aveva goduto di notevole popolarità e pressoché unanimi consensi, ma la sua produzione continuava ad essere segnata dall’etichetta di “poesia dialettale”. Uno studio di Benedetto Croce, apparso quell’anno su La Critica, giovò alla reputazione dell’artista presso i critici e cercò di dissolvere un equivoco frequente. Secondo Croce un autore è innanzitutto poeta, e Di Giacomo aveva dimostrato di eccellere scrivendo in versi. Si era impadronito della poesia tout court, per cui la lingua in cui l’aveva espressa era un aspetto secondario.[5] Francesco Gaeta, citando lo scritto crociano, ne enucleava efficacemente le linee essenziali: «Salvatore Di Giacomo è, sic et simpliciter, un poeta. Quanto all’aggettivo “grande”, esso traspariva dall’intero contesto dello studio».[6] Il 20 febbraio del 1916 sposò a Napoli Elisa Avigliano[7] (Nocera Inferiore, 13 ottobre 1879[8] – 15 giugno 1962[9]). Nel 1930, mentre si trovava in villeggiatura a Sant’Agata sui due Golfi, Di Giacomo fu colpito da un malore dovuto a un disturbo alla vescica. Dopo qualche giorno si riprese ma col passare del tempo il male lo costrinse al riposo assoluto. Morì nella sua abitazione in Via S. Pasquale a Chiaia, nella notte del 5 aprile 1934, all’età di settantaquattro anni. Popolarità Il giornalista napoletano Roberto Minervini, ricordando Salvatore Di Giacomo, scrisse: «Alle trattorie di lusso preferiva nascoste osterie ove tra una pietanza e l’altra rimaneva trasognato, né valevano a ridestarlo le sue canzoni, sonate e cantate per fargli onore dai posteggiatori di quei pittoreschi locali. Non amava Marechiaro, la più celebre di tutte, perché veniva indicato non come l’autore di Ariette e Sunette o Assunta Spina, ma come l’autore di Marechiaro. Il puntuale riferimento lo infastidiva e lo innervosiva: una sera al Gambrinus, abituale convegno di letterati, giornalisti e uomini politici, gli fu presentata una signora che non gli risparmiò il dolore: poco dopo fu visto allontanarsi, salutando appena con un gesto».[10] Emilia Persico Molto chiacchierata la relazione con la celebre cantante napoletana Emilia Persico,[11] e a causa della sua ricerca e originalità linguistica nell’ambito della lingua napoletana, subì attacchi da parte della Accademia dei filopadriti.[12] Era zio del percussionista Gegè Di Giacomo. I successi Le poesie L’esordio dell’autore risale al 1882, quando la casa editrice Ricordi lo mise sotto contratto e fece pubblicare Nannì e E ghiammoncenne me’. Alcuni suoi versi del 1885, non particolarmente amati dall’autore (tanto da non essere inseriti nelle raccolte da lui curate personalmente), sono stati musicati dal compositore abruzzese Francesco Paolo Tosti per quella che resta una delle più famose canzoni in lingua napoletana, Marechiaro, e dal musicista tarantino-napoletano Mario Pasquale Costa di cui ricordiamo anche Era de maggio, in cui due giovani innamorati ricordano il loro primo incontro: a maggio, in un giardino profumato di rose. C’è poi Luna Nova e la spensierata Oilì oilà che irritò i benpensanti milanesi che non si sapevano spiegare il motivo di tanta ilarità in una città appena colpita da gravi epidemie.[13] Aiuto Mario Pasquale Costa, Salvatore Di Giacomo (info file) Menu 0:00 «Oilì oilà». Versione strumentale (LMMS) Aiuto Salvatore Di Giacomo, Enrico De Leva (info file) Menu 0:00 «’E spingule francese» Marechiaro si rivelò un ritratto per questo villaggio tra le rocce di Posillipo, nel quale Di Giacomo immaginò una bella ragazza, di nome Carolina, che si affaccia da una finestra ricca di piante di garofano. Sempre nello stesso anno Di Giacomo e Costa produssero un altro successo, la canzone appassionata Oje Carulì. Nel 1888 pubblicò la scanzonata Lariulà e scrisse la celeberrima ‘E spingule francese, musicata da Enrico De Leva, riproduzione quasi integrale di un canto popolare di Pomigliano d’Arco[14]. Il teatro Fu anche autore di opere teatrali, tra cui Assunta Spina, probabilmente il suo dramma più noto, tratto dalla sua novella omonima, ripetutamente rappresentato e poi adattato per il cinema e per la televisione. Altra opera importante fu ‘O mese mariano, tratta dalla novella Senza vederlo, portata poi in televisione per l’interpretazione di Titina De Filippo. Scrisse inoltre i drammi ‘O voto, tratto dalla novella Il voto, A “San Francisco”, tratto dalla sua collana di sonetti omonima, e Quand l’amour meurt.
Sinossi del libro di Maurizio Serra-Monaco 1938: una data entrata nell’immaginario collettivo come sinonimo della capitolazione delle democrazie europee di fronte al totalitarismo nazista. Sperando di salvare la pace, Gran Bretagna e Francia, con la mediazione di Mussolini, cedettero a Hitler i Sudeti, non accorgendosi di compiere il passo decisivo verso l’abisso della Seconda guerra mondiale. L’unico a comprendere la vera natura dell’accordo fu Churchill, che dichiarò: «Hanno scelto il disonore per evitare la guerra, avranno il disonore e la guerra». L’invasione russa dell’Ucraina ha riportato di estrema attualità la Conferenza di Monaco, anche se il racconto e l’interpretazione seguono l’onda dell’emozione e dimenticano il reale contesto storico. Maurizio Serra, al termine di una lunga indagine negli archivi di tutt’Europa, ci restituisce la storia autentica dell’evento che ha cambiato il mondo, chiarendo, alla luce di nuovi documenti, il ruolo di Mussolini, che a quel tempo non era ancora appiattito sulle posizioni del Terzo Reich. Consapevole delle debolezze del suo esercito e che le ambizioni naziste non corrispondessero agli interessi italiani, il duce voleva evitare il conflitto, sondare le reazioni delle democrazie e, al tempo stesso, concedere spazio al progetto tedesco enunciato, che Hitler però smentirà entrando a Praga nel marzo 1939. Interessante notare come si mossero Roosevelt e Stalin, assenti alla conferenza: Monaco stava anche preparando il futuro patto tedesco-sovietico per la spartizione della Polonia. Una storia ricca di aneddoti e rivelazioni, a partire dalle origini, il 1918, e fino alle catastrofiche conseguenze. Serra tratteggia, con la maestria che lo contraddistingue, i ritratti dei quattro attori principali (Hitler, Mussolini, Chamberlain, Daladier) e dei protagonisti dietro le quinte.
Maurizio Serra-Scacco alla pace-
«In questo “libro evento”, lo storico e accademico Maurizio Serra ci restituisce magistralmente il momento in cui le democrazie capitolarono davanti al nazismo». Le Point
«Il grande libro che mancava su questo evento emblematico». Le Figaro
«Un saggio storico di ampio respiro sulla conferenza di Monaco, con cui l’autore aggiunge un nuovo importante capitolo ai suoi numerosi e apprezzati studi storiografici». Worldpress
L’Autore- Maurizio Serra (Londra, 1955) diplomatico e scrittore. Tra le sue opere Malaparte vite e leggende (Marsilio 2012), Antivita di Italo Svevo (Aragno 2017) e L’Imaginifico. Vita di Gabriele D’Annunzio (Neri Pozza 2019), la cui edizione francese ha ottenuto il Prix Chateaubriand (2018) e il Prix de l’Académie des Littératures (2019). Nel 2018, Serra ha ricevuto il Prix de la Fondation Prince Pierre de Monaco per l’insieme della sua opera.
NERI POZZA EDITORE
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On a breezy morning in August 1926, nineteen-year-old Gertrude Ederle jumped into the cold waters of the English Channel. With her muscles relaxed from some rest after months of grueling training and her body coated head to toe in a mixture of lanolin, petroleum jelly, and grease for insulation against the chill and protection against the swarms of jellyfish, she felt determined and excited to attempt what no woman and only five men had ever done: swim across the Channel.
Gertrude Caroline Ederle was born to German immigrant parents in New York City on October 23, 1905. The third of six children, she grew up in a lively household in Manhattan’s Upper West Side, where during summer months, Gertrude’s family would take outings to the New Jersey shore. It was on these sunny childhood days that a passion for swimming blossomed.
Gertrude Ederle “La Regina delle onde”-DEA SABINA
Soon, she turned the joy into a pursuit of competitive swimming, where success came quickly. Gertrude set her first world record at the age of 12. Between the ages of 15 and 19, she set 29 national and world records. In 1924, she represented the United States at the Paris Olympics, earning one gold medal in the 4×100-meter freestyle relay and two bronze medals in individual freestyle events.
Yet, she wanted to challenge herself more, to push her physical limits. And she also wanted to challenge the societal expectations placed on women. Which were many at the time.
Gertrude set her sights on swimming across the English Channel. Often referred to as the “Mount Everest of swimming” for its cold, rough waters teeming with jellyfish, the twenty-one-mile span was considered the ultimate test of endurance. Many believed that women were not physically capable of such a feat. Gertrude became determined to prove them wrong.
Gertrude Ederle “La Regina delle onde”-DEA SABINA
Gertrude Ederle “La Regina delle onde”-DEA SABINA
Gertrude Ederle “La Regina delle onde”-DEA SABINA
Her first attempt in 1925 ended in disappointment. Thinking she was in distress, her trainer touched Gertrude as he attempted to pull her from the water, disqualifying the swim. Though upset, Gertrude thought of her motto, if at first you don’t succeed, try, try again. “I am going to attempt to swim the English Channel again next July,” she said to herself.
For her second attempt, she hired a new coach and developed a rigorous training regimen, swimming four hours a day. She also designed a pair of goggles to better protect her eyes and a more aerodynamic swimsuit that minimized drag in the water.
On August 6, 1926, she started the swim at Gris-Nez, France with a tugboat carrying her coach and supporters trailing, offering encouragement and supplies of broth and sugar cubes for energy. She gave her team of supporters strict instructions about taking her out of the water: “until I get there or I can’t move.”
Gertrude Ederle “La Regina delle onde”-DEA SABINA
The swim was a battle from the start. Just a few minutes in, rough swells made her consider quitting. “But I thought I had to make a showing so I just kept on and on and on. When I got a few miles out I was confident I could make it and kept on,” Gertrude later said.
Pushing through while singing her favorite song, Let Me Call You Sweetheart, she swam and swam. Even when her coach encouraged her to stop, Gertrude continued. “It’s today or never, Pop,” she shouted to her father and supporters on the tugboat. He replied, “Kiddie finish it.”
After 14 hours and 39 minutes, Gertrude emerged from the water onto the shores of Kingsdown, England. Her time was over two hours faster than the fastest man to have swum the Channel. Exhausted but triumphant, Gertrude became an international sensation. Newspapers worldwide hailed her achievement, and she was welcomed home to a ticker-tape parade in New York City attended by an estimated two million people. President Calvin Coolidge called her “America’s Best Girl,” a title she cherished throughout her life.
Gertrude soon retired and largely retreated from the public eye. She spent her later years teaching swimming to deaf children, a cause close to her heart as she herself became partially deaf after a childhood accident. On November 30, 2003, she passed away at the age of 98.
Sources:
Hasday, Judy L.. Extraordinary Women Athletes. United States, Children’s Press, 2000.
Lillian Cannon, of Baltimore, Md., offering her best wishes to Gertrude Ederle, as she starts out from Cape Griz Nez, France, on her successful attempt to swim the English Channel. Photograph. Retrieved from the Library of Congress, <loc.gov/item/95503395/>.
Parade for Gertrude Ederle coming up Broadway, New York City, with large crowd watching / photo by staff photographer. Photograph. Retrieved from the Library of Congress, <loc.gov/item/98510485/>.
Domenica 1° dicembre ingresso gratuito nei musei civici e nei siti archeologici-
Roma Capitale – Domenica 1° dicembre 2024- Ingresso gratuito nei Musei di Roma e nei Siti Archeologici -Sarà possibile visitare gratuitamente gli spazi del Sistema Musei di Roma Capitale e alcune aree archeologiche della città. Come per ogni prima domenica del mese saranno aperti a ingresso libero il Parco Archeologico del Celio (ore 7-17.30), con il Museo della Forma Urbis, 10:00 – 16:00 con ultimo ingresso alle ore 15:00 (Ingressi Viale del Parco del Celio 20/22 – Clivo di Scauro 4); l’Area Sacra di Largo Argentina (via di San Nicola De’ Cesarini di fronte al civico 10, 9:30 – 16:00, ultimo ingresso ore 15), l’area archeologica del Circo Massimo (ore 9:30 – 16:00, ultimo ingresso ore 15), Villa di Massenzio (via Appia Antica 153, dalle 10 alle 16, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura), e i Fori Imperiali (ingresso dalla Colonna Traiana ore 9:00 – 16:30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura).
Roma Capitale- Piazza del Campidoglio
Questi i musei civici aperti: Musei Capitolini; Mercati di Traiano – Museo dei Fori Imperiali; Museo dell’Ara Pacis; Centrale Montemartini; Museo di Roma; Museo di Roma in Trastevere; Galleria d’Arte Moderna; Musei di Villa Torlonia (Casina delle Civette, Casino Nobile, Serra Moresca e Casino dei Principi); Museo Civico di Zoologia.
L’iniziativa è promossa da Roma Capitale, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Ingresso libero compatibilmente con la capienza dei siti. Prenotazione obbligatoria solo per i gruppi al contact center di Roma Capitale 060608 (ore 9-19).
A ingresso gratuito sia le collezioni permanenti che le esposizioni temporanee, a partire dai Musei Capitolini (piazza del Campidoglio 1) dove si potrà ammirare, nelle sale terrene del Palazzo dei Conservatori, Tiziano, Lotto, Crivelli e Guercino. Capolavori della Pinacoteca di Ancona, una selezione di grandi opere provenienti dalla Pinacoteca Civica ‘Francesco Podesti’ di Ancona. Sei prestigiose tele – delle quali 5 pale d’altare di grandi dimensioni e una piccola ma lussuosa tempera su tavola –protagoniste di un percorso espositivo che racconta l’importanza della collezione della Pinacoteca Podesti e, in filigrana, la ricchezza della città dorica committente dei maggiori artisti italiani fra Cinquecento e Seicento. Si possono ammirare la Circoncisione dalla chiesa di San Francesco ad Alto, opera di Olivuccio Ciccarello, interprete principale del rinnovamento della pittura anconetana che fiorì fra Trecento e Quattrocento; la preziosa Madonna con Bambino di Carlo Crivelli, icona della collezione dorica e somma realizzazione del pittore veneto che visse e operò nelle Marche; la Pala dell’Alabarda di Lorenzo Lotto, per la chiesa di Sant’Agostino, in cui si esplicita l’emozionante talento del pittore veneziano, esule a più riprese nella regione. Ancora di Tiziano è esposta la monumentale Crocifissione realizzata per la chiesa di San Domenico in cui l’artista esplora la tragedia e la sofferenza umana. Chiude la rassegna l’imponente Immacolata di Guercino, in cui la delicata figura della Vergine si staglia su un paesaggio marino il cui modello potrebbe essere la baia di Ancona. Nella Sala degli Arazzi del Palazzo dei Conservatori, Agrippa Iulius Caesar, l’erede ripudiato. Un nuovo ritratto di Agrippa Postumo, figlio adottivo di Augusto, tre ritratti di Agrippa Postumo, uno appartenente alle collezioni dei Musei Capitolini, un altro proveniente dagli Uffizi e il terzo della Fondazione Sorgente Group, in cui, solo di recente, si è riconosciuto lo sfortunato erede di Augusto.
Nelle sale di Palazzo Clementino l’ingresso gratuito comprende la visita a I Colori dell’Antico. Marmi Santarelli ai Musei Capitolini, un’ampia panoramica sull’uso dei marmi colorati, dalle origini fino al XX secolo, attraverso una raffinata selezione di pezzi provenienti dalla Fondazione Santarelli.
La prima domenica del mese può essere infine l’occasione per ammirare, nel giardino di Villa Caffarelli, l’imponente ricostruzione in dimensioni reali del Colosso di Costantino, una statua alta circa 13 metri realizzata attraverso tecniche innovative, partendo dai pezzi originali del IV secolo d.C. conservati nei Musei Capitolini. (www.museicapitolini.org).
Al Museo di Roma in Trastevere (piazza S. Egidio 1/b) l’esposizione Roma ChilometroZero, un lavoro fotografico di ricerca in cui 15 fotografi romani documentano la complessità, i cambiamenti e le particolarità della città, realizzando dei “racconti visivi” secondo singoli e specifici progetti. Nelle sale al primo piano Testimoni di una guerra – Memoria grafica della Rivoluzione Messicana, 40 fotografie provenienti dal prestigioso Archivio Casasola, che percorrono le tappe fondamentali della Rivoluzione Messicana, periodo in cui sono sorte figure che hanno segnato la storia messicana come Francisco I. Madero, Emiliano Zapata, Pancho Villa e Venustiano Carranza. La mostra, organizzata in collaborazione con l’Ambasciata del Messico in Italia, rientra nelle commemorazioni per i 150 anni delle relazioni diplomatiche tra Messico e Italia. Infine, sempre nelle sale al primo piano, prosegue Dino Ignani. 80’s Dark Rome, il ritratto della Roma ombrosa e scintillante, sotterranea e plateale, degli anni Ottanta del secolo scorso. Il nucleo centrale del progetto espositivo è costituito dal ciclo di ritratti, denominato Dark Portraits, che Ignani ha dedicato ai giovani che animavano la vita notturna dell’epoca e, in particolare, i luoghi e gli eventi legati alla scena dark. (www.museodiromaintrastevere.it).
Al Museo di Roma (Piazza San Pantaleo, 10 e Piazza Navona, 2) l’ingresso gratuito darà la possibilità di visitare LAUDATO SIE! Natura e scienza. L’eredità culturale di frate Francesco, esposizione che, nell’ottavo centenario della composizione, che si celebra nel 2025, prendendo le mosse dal più antico manoscritto del Cantico di frate Sole o Cantico delle creature – tra i primi testi poetici in volgare italiano giunti a noi –propone un itinerario, costantemente accompagnato da una narrazione multimediale, attraverso 93 opere rare del Fondo antico della Biblioteca comunale di Assisi conservate presso il Sacro Convento.
Nelle sale del terzo piano L’incanto della Bellezza.Dipinti ritrovati di Sebastiano Ricci dalla Collezione Enel, esposizione inedita di due tele, raffiguranti Il trionfo di Venere e Bacco e Arianna, probabilmente eseguite dal Ricci nei primi anni del Settecento, durante il suo soggiorno fiorentino. Da poco riscoperti, i due dipinti sono stati sottoposti a un restauro che ha evidenziato le straordinarie doti di colorista del pittore veneto.(www.museodiroma.it)
Negli spazi della Galleria d’Arte Moderna (via Francesco Crispi 24), la mostra Estetica della deformazione. Protagonisti dell’Espressionismo Italiano, una selezione delle opere della collezione Iannaccone di Milano relative alla linea espressionista dell’arte italiana tra gli anni Trenta e Cinquanta – dalla Scuola Romana al gruppo Corrente. All’ingresso del museo, i visitatori saranno inoltre accolti da À jour. Laura VdB Facchini, un progetto site-specific in dialogo con il complesso monumentale tardo-cinquecentesco che oggi ospita il museo, ispirato dal ricamo à jour, come omaggio alle monache che per secoli hanno abitato questo spazio e che in una parte del complesso monumentale ancora sono presenti. Nelle sale al secondo piano prosegue il successo della mostra “La poesia ti guarda”. Omaggio al Gruppo 70 (1963-2023), una selezione di opere di uno dei sodalizi artistici più interessanti sorti nel contesto delle neoavanguardie e delle ricerche verbovisuali italiane, in occasione della ricorrenza dei sessant’anni dalla nascita del Gruppo 70. Sarà inoltre ancora possibile ammirareL’allieva di danza di Venanzo Crocetti. Il ritorno, una delle prime sculture di grande formato dedicate al tema della danza di Crocetti, tornata in tutta la sua magnificenza dopo circa due anni di un accurato e specialistico restauro da parte dei tecnici dell’ICR. (www.galleriaartemodernaroma.it).
Ai Musei di Villa Torlonia (via Nomentana 70) nelle sale della Casina delle Civette è possibile ammirare l’esposizione Niki Berlinguer. La signora degli arazzi, una panoramica completa della produzione di arazzi realizzati dall’eminente tessitrice e artista, pioniera nel tradurre la pittura in narrazioni tessili, unendo l’antica tecnica del piccolo punto con influenze contemporanee. Per la prima volta la Casina delle Civette accoglie al suo interno una mostra di arazzi del XX secolo che dialogano con il liberty architettonico delle vetrate e degli ambienti di questo gioiello romano. (www.museivillatorlonia.it).
Aperti regolarmente al pubblico anche i musei abitualmente ad ingresso libero, ovvero: Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco; Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese; Museo Pietro Canonica a Villa Borghese; Museo Napoleonico; Museo della Repubblica Romana e della memoria garibaldina; Museo di Casal de’ Pazzi; Museo delle Mura; Villa di Massenzio.
Al Museo Carlo Bilotti, Aranciera di Villa Borghese (via Fiorello La Guardia 6 – viale dell’Aranciera 4) la mostra Sandro Visca – Fracturae, un’occasione unica per esplorare la produzione dell’artista abruzzese con particolare attenzione al suo continuo dialogo tra la materia e la sua messa in forma. Le opere esposte si inseriscono nella ricerca che Visca porta avanti da decenni. Attraverso le serie dei Teatrini e delle Silhouette, l’artista, indagando la potenza espressiva della materia, esplora il rapporto tra il frammento e l’oggetto. La sua poetica si manifesta nella volontà di preservare la vita che emana dai più disparati elementi di materia, i cui frammenti sono elevati a simbolo di una condizione umana precaria e sfuggente. (www.museocarlobilotti.it )
Al Museo Napoleonico (Piazza di Ponte Umberto I 1) si potrà ammirare Carolina e Ferdinando. E non sempre seguendo il dopo al prima, sculture, incisioni, installazioni multimediali di Gianluca Esposito che esplorano artisticamente le relazioni fra Maria Carolina d’Asburgo Lorena, il marito Ferdinando IV di Borbone e il Regno di Napoli. Nello stesso museo Giuseppe Primoli e il fascino dell’Oriente, una mostra tematica sull’interesse del conte Giuseppe Primoli per l’arte del Giappone e, più in generale del continente asiatico. Documenti, fotografie, libri, oggetti e manufatti di gusto, tema o manifattura orientale provenienti dalla Fondazione Primoli e dalla collezione del museo, tra i quali riveste un ruolo di primo piano il ventaglio con scene giapponesi dipinto da Giuseppe de Nittis a Parigi intorno al 1880 per la principessa Mathilde Bonaparte. Fiore all’occhiello della mostra, l’esposizione di quattordici kakemono, rotoli dipinti in carta o stoffa della tradizione giapponese. (www.museonapoleonico.it )
Fanno eccezione alla gratuità (ingresso a tariffazione ordinaria, con tariffa ridotta per i possessori della MIC Card): Roma pittrice. Le artiste a Roma tra il XVI e XIX secolo al Museo di Roma (Piazza San Pantaleo, 10 e Piazza Navona, 2), che si focalizza sulle artiste donne che lavorarono a Roma a partire dal XVI secolo, con un percorso che giunge fino al 1800 e alle nuove modalità di progressivo accesso alla formazione che lentamente si impongono in accordo con il panorama europeo. Al centro della mostra le tante artiste donne che dal XVI al XIX secolo hanno fatto di Roma il loro luogo di studio e di lavoro con una produzione ricca, variegata e di assoluto rilievo artistico, spesso relegate in una sorta di silenzio storiografico. Protagoniste le artiste presenti nelle collezioni capitoline, come Caterina Ginnasi, Maria Felice Tibaldi Subleyras, Angelika Kaufmann, Laura Piranesi, Marianna Candidi Dionigi, Louise Seidler ed Emma Gaggiotti Richards, oltre a una selezione significativa di altre importanti artiste attive in città come Lavinia Fontana, Artemisia Gentileschi, Maddalena Corvina, Giovanna Garzoni, e di molte altre il cui corpus si sta ricostruendo in questi ultimi decenni di ricerca. (www.museodiroma.it) Rifugio antiaereo e bunker di Villa Torlonia, (Casino Nobile, Via Nomentana 70) con un nuovo percorso espositivo che documenta la vita di Mussolini e della famiglia nella villa e, attraverso un’esperienza multimediale immersiva, permette di rivivere i momenti drammatici delle incursioni aeree durante la Seconda guerra mondiale. Prenotazione obbligatoria per singoli e gruppi. (www.museivillatorlonia.it)
Circo Maximo Experience, offre la visita immersiva del Circo Massimo in realtà aumentata e virtuale, dalle 9:30 alle 16:00 (ogni 15 min. – ultimo ingresso ore 14:50). Ingresso a tariffa ridotta per possessori della MIC Card. (www.circomaximoexperience.it)
Tutte le informazioni e gli aggiornamenti sono disponibili su www.museiincomuneroma.it e sui canali social del Sistema Musei di Roma Capitale e della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Servizi museali a cura di Zètema Progetto Cultura.
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