Roberto Fiorini- Dietrich Bonhoeffer- Testimone contro il nazismo
GABRIELLI EDITORI – San Pietro in Cariano (Verona)
Descrizione- Questo libro di Roberto Fiorini lo si legge tutto d’un fiato. Per tre motivi. Il primo è che il suo contenuto – la storia di Dietrich Bonhoeffer, qui raccontata nei suoi momenti cruciali – possiede un grande potere di attrazione ed esercita su chi ne viene a conoscenza un fascino unico: non ci si stanca di sentirne parlare e non è facile staccarsi da una figura come la sua. Il secondo motivo è che in questo libro Bonhoeffer è molto più soggetto che oggetto. L’Autore, ovviamente, parla di lui, ma, soprattutto, fa parlare lui; e quando Bonhoeffer parla, è difficile non stare ad ascoltarlo; la sua parola è avvincente tanto quanto la sua vita, anche perché, mentre lo si ascolta, si ha l’impressione che ci parli non dal passato, ma dal futuro, come se quest’uomo fosse oggi più avanti di noi, ci precedesse e anticipasse: il suo discorso sul futuro del cristianesimo dopo la «fine della religione» (che in realtà non sembra finita), resta oggi più ancora di allora di un interesse palpitante. Ma c’è un terzo motivo per cui questo libro lo si legge tutto d’un fiato: è lo speciale punto di vista, inconsueto, ma accattivante, di chi ha imparato a «guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, di chi non ha potere, degli oppressi e dei derisi – in una parola dei sofferenti» in un itinerario che lo ha portato sino al “caso limite”, cioè alla sua diretta opposizione alla politica distruttiva del nazismo e alla conseguente salita sul patibolo 75 anni fa, il 9 aprile 1945.
Ora, in diverse parti d’Europa ritornano simboli, messaggi e organizzazioni politiche che evocano quei tempi oscuri nei quali la disumanità raggiunse dei picchi inimmaginabili. La chiarezza, la determinazione e l’intelligenza della fede con le quali Dietrich Bonhoeffer affrontò quell’”ora della tentazione” sono preziosi anche oggi per un discernimento più che mai necessario. Il suo amico e confidente Eberhard Bethge disse: «Bonhoeffer non è alle nostre spalle, ma è ancora davanti a noi». Bonhoeffer è stato e resta un testimone per chiunque si accinga a percorrere la «via stretta» (Matteo 7,14) della fede e della vita cristiana. Questo libro di Roberto Fiorini lo conferma in maniera egregia. (Dalla Prefazione del prof. Paolo Ricca)
Biografia di Roberto Fiorini, ordinato prete a Mantova nel 1963.Dal 1966 al 1972 ha svolto l’incarico di assistente provinciale delle Acli e dal ’68 al ’72 insegnante di religione nelle scuole superiori. Nel 1972, dopo un corso di infermiere generico, scelse di entrare nel mondo del lavoro. Fu assunto nel 1973, come dipendente all’Ospedale Psichiatrico di Mantova. Dopo il diploma di infermiere professionale ha operato nei servizi territoriali dell’ASL, in un distretto sanitario e infine come coordinatore infermieristico all’assistenza domiciliare. Negli anni ’80-‘90 ha insegnato etica professionale nei corsi di formazione degli infermieri allora gestiti dalla CRI di Mantova. Dal 1983 al 1989 è stato segretario dei preti operai italiani e dal 1987 è responsabile della rivista Pretioperai. Ha frequentato i corsi di studi ecumenici a Verona e a Venezia con tesi di licenza su “Theologia crucis in Dietrich Bonhoeffer”. Dal 1995, su richiesta dell’associazione, è consulente teologico del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) di Mantova. Dal 2010 ricopre l’incarico di assistente spirituale delle Acli provinciali. Nel 2015 ha pubblicato “Figlio del Concilio. Una vita con i preti operai”. Con altri (G. Miccoli, F. Scalia, R. Virgili, A. Rizzi), “Servizio e potere nella chiesa”, Gabrielli editori 2013.
GABRIELLI EDITORI – Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona)
Strutturare i soggetti storici. Un paio di riflessioni a partire da Giosuè Carducci
La personalità e la parabola politica di Giosuè Carducci è emblematica del complesso rapporto tra intellettuale e movimento politico, continuamente oscillante tra esigenze di autonomia e necessità organiche di un’organizzazione strutturata. Se l’individualismo lirico rischia di sfociare in posizioni idealistiche, l’intellettuale organico può essere schiacciato da meccaniche che ne cancellano l’autonomia. Articolo di Roberto FINESCHI
Se le vacanze in Maremma ti portano a Bolgheri e Castagneto, non si può non pensare a Carducci; e se per hobby ti occupi di teoria politica, non puoi non metterti a riflettere su una figura il cui sviluppo politico e intellettuale fornisce spunti interessanti. Innanzitutto bisogna tenere a mente che il nostro è, intellettualmente, un gigante: la sua poesia può piacere o meno o essere più o meno “invecchiata”, ma si tratta di un individuo colto, brillante, audace, reinventare delle metrica classica nella modernità, grande critico letterario. Talvolta non si percepisce fino in fondo la dimensione veramente assoluta di siffatte menti, come quelle di Dante, Leopardi ecc., le cui capacità sono letteralmente sbalorditive; studiare attraverso la poesia il loro lato più umano e intimo occulta talvolta la loro assoluta eccezionalità. Ma non di questo intendo parlare.
Carducci è figlio di un medico mazziniano, democratico radicale, che in prima persona si espone nelle lotte nazionali, ma con una evidente dimensione sociale. Nel ’48 a Castagneto – pure lì c’è la rivoluzione – riesce a mediare tra rivendicazioni contadine e rigidità padronale trovando un compromesso che garantisce una, seppur parziale, redistribuzione delle terre incolte (le “preselle”). Profondamente anticlericale, non teme le conseguenze delle sue prese di posizione e questo porta la famiglia a peregrinare a lungo per l’opposizione dei potentati locali (abbandonano Bolgheri perché durante la notte prendono a fucilate l’abitazione del “mangiapreti”). Giosuè ha quello spirito e quelle idee; la sua lotta è culturale e intellettuale; celebra “Satana” (nel senso della razionalità, della mondanità, di tutto ciò che lo spirito religioso tradizionalista considerava peccaminoso e stigmatizzabile con il “ il vade retro Satana”, come commenta lo stesso Carducci in una sua lettera) [1]. Il suo non è dunque un astratto patriottismo nazionalistico, ma è imbevuto di cultura democratica, di progresso intellettuale e civile [2]. È un intellettuale impegnato, convinto e battagliero, di un classicismo moderno, erede di Giordani e di quella tradizione in cui si può inserire pure il Leopardi delle poesie civili o della Ginestra.
Lo sviluppo dello Stato italiano “unito” è una doccia fredda: il parlamentarismo trasformistico, il particolarismo e l’interesse laido schifano lui come tutti quei giovani più sinceri ed entusiasti. Come reagisce? In due direzioni diverse. Da una parte, anche a causa dei lutti familiari, con toni intimistici, per certi aspetti pre/decadenti, in cui il senso di morte e fallimento prende piede (i molti fini che entusiasticamente si era posto non sono stati raggiunti) [3]; dall’altra, politicamente, assume posizioni conservatrici, sia celebrando indirettamente la corona (anche se sotto la maschera dell’apprezzamento per la regina e con l’idea del sovrano simbolo dell’unità nazionale) [4], sia condividendo il dirigismo crispino, in cui si vede l’unico severo argine alla generale corruttela e pochezza morale della vita politica. La frustrazione esistenziale lo porta però anche a un conformismo borghese rassegnato alla vita così com’è: le molte amanti, non nascoste alla moglie, con alcune delle quali ha delle vere e proprie relazioni di anni, ma che amanti restano; le abbuffate (le “ribotte”) con gli amici in cui si mangia e si beve fino allo sfinimento. Si potrebbe forse fare un audace collegamento con La grande abbuffata di Marco Ferreri, [5], in cui sesso e cibo diventano l’unica pratica esistenziale affermativa, ma palliativa e alla fine autodistruttiva, di fronte alle convenzioni sociali delle quali tutti i protagonisti sono perfetti rappresentanti.
Questo schematicissimo quadretto mi suggerisce l’idea di un Carducci in qualche modo esempio d’eccellenza di un soggettivismo politico destrutturato, in questo senso “idealistico”, che non si riduce a lui ma che è rappresentativo di un atteggiamento che ha almeno due limiti di fondo: il primo è la distanza tra ideale e reale, vale a dire l’incapacità di comprendere in maniera sufficientemente precisa come la propria azione si collochi all’interno di dinamiche complesse. Questo è probabilmente, più in generale, uno dei limiti storici dei Democratici risorgimentali, non del solo Carducci. Il secondo è l’incomprensione del fatto che il soggetto del cambiamento storico non può essere una somma di individualità: per essere collettivo deve essere strutturato, altrimenti il senso di questa parola resta rarefatto e operativamente inefficace, almeno superato il momento dell’acme rivoluzionario. Qui, di nuovo, la superiorità operativa e istituzionale dei moderati rispetto alle trame cospirative dei democratici; e la più chiara “coscienza di classe” dei primi su interessi e obiettivi di lungo termine rispetto ai secondi.
La questione politica dell’organizzazione si sviluppa sia internamente a un movimento come struttura, sia esternamente come processo egemonico all’interno della società. Si tratta di un corpo collettivo che si individua per il ruolo funzionale degli individui che lo compongono, ma che si articola – e si è articolato storicamente – come pluralità. Il concetto di blocco storico implica all’interno dello stesso schieramento progressista rapporti tra classi diverse – classi che si definiscono funzionalmente per il loro ruolo nella riproduzione sociale – tra le quali esiste un rapporto di predominanza direttiva – egemonia – e che insieme mirano e talvolta riescono a “fare epoca”, vale a dire a determinare un cambiamento della configurazione economico-sociale complessiva. L’organizzazione e l’egemonia di un soggetto di questo tipo è complessa, stratificata e organica. Come organismo ha delle “regole” di funzionamento che, nella prospettiva della salvaguardia del corpo complessivo, trascendono l’individuo e impongono restrizioni all’arbitrio individuale, richiedono quella che una volta si chiamava disciplina. Come organismo ha un corpo che per diventare egemone al di là dei confini della propria organizzazione, soprattutto in periodi di “guerra di posizione”, ha braccia e gambe istituzionalizzate nella società, come sindacati, giornali, associazioni culturali, e via dicendo. Una presenza tangibile, anch’essa regolata.
L’organizzazione vive e si regge nella misura in cui la sua pratica e i suoi obiettivi rispondono alle esigenze storiche delle classi che la compongono e opera una trasformazione all’interno della società. Essendo essa stessa una piccola società, ha le proprie regole, le proprie convenzioni, i propri protocolli, il proprio conformismo che rischiano di diventare stretti, se non soffocanti, nella misura in cui l’organizzazione non ha una pratica corrispondente alle suddette esigenze storico-trasformative e quindi instaura dinamiche coercitive e conflittuali soprattutto con quei membri più originali e sensibili che intendono prima di altri le criticità, ma che non necessariamente sono capaci di formulare alternative. Meccanismi che creano delle fronde sono più o meno costanti, il problema storico sorge quando le dinamiche degenerative sono tali e così forti da mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’organizzazione; non solo per la pressione di forze esterne antagoniste, ma per l’incapacità interna di elaborazione e adeguamento.
Che c’entra questa assai succinta silloge di una teoria del partito, di evidente gramsciana memoria, con Carducci? Il poeta-vate, cantore ufficiale dell’alta cultura dell’Italia umbertina, mi pare rappresentativo della difficile dialettica esistente tra grande intellettuale – quale Carducci fu – e movimento politico. E più in generale tra idealità intellettuale e pratica politica. Da spavaldo democratico, repubblicano e radicale, il nostro finisce, banalizzando all’eccesso, frustrato e conservatore. Si potrebbe tirare in ballo il velleitarismo piccolo-borghese di fronte alla dura legge dei grandi processi storici, ma sarebbe una spiegazione solo parzialmente vera e scolastica, che non terrebbe conto dei problemi oggettivi di fronte ai quali l’intellettualità si pone, con le sue esigenze di libertà di pensiero e di critica in un contesto organizzativo in cui ciò potrebbe essere consentito solo entro certi limiti, talvolta particolarmente angusti. Intellettuale organico non può però significare intellettuale meccanico (smetterebbe infatti automaticamente di essere un intellettuale).
Carducci ebbe, in qualche modo, il suo partito, la massoneria, come molti altri intellettuali e politici democratici del tempo. Essa però non aveva un contenuto di classe veramente alternativo al progetto moderato, se non nel radicalismo anticlericale e in un repubblicanesimo democratico, che però non andava a toccare gli squilibri economico-sociali che affliggevano l’Italia. Si trattava in sostanza di un contenuto non radicalmente alternativo e quindi velleitario rispetto alle grandi questioni storiche dell’epoca. Il trasformismo era nelle cose stesse e Carducci si limita a rivendicare un onore e un legalismo di contro alla corruttela del presente, per il quale vede soluzioni nel dirigismo. Un vicolo cieco. Pur nella ristretta prospettiva qui proposta, egli può dunque essere rappresentante emblematico – e mostrare le criticità – di come si sviluppi una dinamica oggettivamente complessa tra un certo tipo di alta intellettualità potenzialmente rivoluzionaria e progressista e un’organizzazione politica pratica e ideale che cerchi di essere egemone. [6] Al di fuori dell’organizzazione non pare si riescano a ottenere successi operativi duraturi, ma la sua gestione è complessa e affetta da continue instabilità oggettivamente possibili. Riferimenti al presente – o al passato recente – non sono puramente casuali.
Articolo di Roberto FINESCHI
Note:
[1] A Satana è una sua celebre ode del 1863 (uscita con varianti in innumerevoli pubblicazioni e raccolte successive). Nella lettera a Giuseppe Chiarini del 15 ottobre 1863 scrive: “È inutile che io avverta aver compreso sotto il nome di Satana tutto ciò che di nobile e bello e grande hanno scomunicato gli ascetici e i preti con la formola «Vade retro Satana»; cioè la disputa dell’uomo, la resistenza all’autorità e alla forza, la materia e la forma degnamente nobilitate”.
[2] Carducci scrive su “Il popolo” di Bologna nel dicembre 1869: “Io, oppresso dalla società fin da’ primi anni, mi dichiarai per il ribelle alla monarchia solitaria di Geova, per il tentatore degli schiavi di Geova alla libertà e alla scienza, per l’oppresso dalla gendarmeria di Geova. E […] io l’ho cantato raggiante e tonante e folgorante di vita su l’universo”.
[3] In Traversando la Maremma toscana (1885) recita: “Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano; / E sempre corsi, e mai non giunsi il fine; / E dimani cadrò”. Già nel 1874 in Davanti San Guido, 103-04, diceva “E quello che cercai mattina e sera / Tanti e tanti anni in vano, è forse qui”.
Per scherzare su quel “cadrò”, nel senso del “morirò”, si consideri che in una lettera a Adele Bergamini del 18 aprile 1885 Carducci affermava: “Il mio naturale si fa più triste. Quando Le dicevo che non stavo bene, non era romanticismo. La morte mi ha tirato la prima scampanellata [paresi a un braccio – ndr]. Non vorrà la potente signora aspettar troppo ch’io vada. E sonerà di nuovo”. Carducci morirà nel 1907, circa… 22 anni dopo.
[4] Celebri, per es., le poesie Piemonte o Alla regina d’Italia.
[5] La Grande Bouffe, di Marco Ferreri, celebre film del 1973 con Andréa Ferréol, Philippe Noiret, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Michel Piccoli.
[6] Come è ben noto, Gramsci affronta diffusamente questi temi nei suoi Quaderni. Interessante come discuta proprio di questo – cioè del rapporto tra elaborazione intellettuale e la tesi della teoria come “ancella” della pratica – in relazione alla soluzione “d’ufficio” da parte di Stalin, che pare non dispiacere a Gramsci, del dibattito tra i “dialettici” capitanati da Deborin e i “meccanicisti” capitanati da Bucharin (Quaderno 11, §12). In questo passo Gramsci commenta: “Si tratta cioè di fissare i limiti della libertà di discussione e di propaganda, libertà che non deve essere intesa nel senso amministrativo e poliziesco, ma nel senso di auto-limite che i dirigenti pongono alla propria attività ossia, in senso proprio, di fissazione di un indirizzo di politica e culturale. In altre parole: chi fisserà i «diritti della scienza» e i limiti della ricerca scientifica, e potranno questi diritti e questi limiti essere propriamente fissati? Pare necessario che il lavorio di ricerca di nuove verità e di migliori, più coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi principi che paiono i più essenziali. Non sarà del resto difficile mettere in chiaro quando tali iniziative di discussione abbiano motivi interessati e non di carattere scientifico. Non è del resto impossibile pensare che le iniziative individuali siano disciplinate e ordinate, in modo che esse passino attraverso il crivello di accademie o istituti culturali di vario genere e solo dopo essere state selezionate diventino pubbliche ecc.”.
Fonte- Associazione La Città Futura- | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi–
L’Aquila, “Tommaso racconta Tommaso” Recital sulla figura del primo biografo di San Francesco di Assisi. Martedì 22 Ottobre 2024 ore 18:30 sarà rappresentato a L’Aquila, Teatro Comunale Ridotto, in nome della fratellanza, della solidarietà e della pace
L’AQUILA – Con il Patrocinio del Comune di L’Aquila e del Comune di Celano il Recital “Tommaso racconta Tommaso”, che già ha raccolto unanime consenso di pubblico e di critica, è presentato all’Aquila dall’Associazione Corale Polifonica “ Giuseppe Corsi “ di Celano e la Compagnia “Teatro Lanciavicchio “ di Avezzano, su testo di Don Antonio Salone. Dopo le quattro repliche nel 2023 a Tagliacozzo ( Teatro Talia), ad Avezzano ( Castello Orsini), a Celano (Chiesa Madonna delle Grazie ) e nella Diocesi di Rieti ( Teatro Santa Filippa Mareri ), questa quinta replica del Recital è stata fortemente voluta dal Nunzio Apostolico S.E.Orlando Antonini presente alla rappresentazione del 5 ottobre 2023 ad Avezzano, positivamente interessato dal lavoro messo in scena.
Il testo del recital è stato scritto da Don Antonio Salone che ha condotto uno studio approfondito sulla figura di Fra Tommaso, come testimonia l’ampia bibliografia a corredo del testo e realizza una nuova prospettiva di indagine e di lettura della figura di Tommaso da Celano.Con la regia di Antonio Silvagni, la Compagnia “Teatro Lanciavicchio” propone gli allestimenti scenici, costumi ,luci e uno straordinario e coinvolgente lavoro di interpretazione del testo, con gli attori Matteo Di Genova, Stefania Evandro, Alberto Santucci, Giacomo Vallotta che sanno proporre la storia di Tommaso in tutta la sua spiritualità. La Maestra Maria Rosaria Legnini,con il Gruppo corale “Giuseppe Corsi” di Celano, ha scelto i brani musicali: musiche medievali a commento delle scene, ponendo attenzione al genere delle Laudi dal Laudario di Cortona, rielaborate e affidate alla voce del Soprano Ilenia Lucci, accompagnata dai componenti della formazione strumentale “MusiCanto Quartet“ composto dai Maestri: Corrado Morisi Fisarmonica, Beatrice Ciofani Violino e Paolo D’Angelo Chitarra. Presenta Domenica Carusi.
Si ringraziano: il Comune dell’Aquila, Sindaco Pierluigi Biondi, il Comune di Celano, Sindaco Settimio Santilli, tutti i sostenitori che hanno consentito la realizzazione dello spettacolo, il Nunzio Apostolico S.E. Orlando Antonini e collaboratori tutti. Il Recital “ Tommaso racconta Tommaso “ rientra nelle attività condotte fin dal 2014 dall’Associazione “ Giuseppe Corsi “ di Celano iniziate con lo studio e la rielaborazione del “Dies Irae” e proseguite nel corso di 10 anni con studi, concerti, animazione liturgiche di cerimonie religiose nell’ambito del “Cammino Misericordioso : Tommaso e Francesco nella terra dei Marsi”. Il recital dunque nasce dalla volontà di far conoscere la figura di Tommaso da Celano e di porre attenzione anche alla ricostruzione storica musicale e teatrale. La rappresentazione del Recital “ Tommaso racconta Tommaso” al Teatro Comunale Ridotto dell’Aquila prosegue il lavoro incessante, svolto da dieci anni, teso alla conoscenza, all’approfondimento e alla comprensione della figura di Tommaso da Celano.
Con la scelta del genere teatrale Recital si è voluto offrire a un vasto pubblico l’opportunità di conoscere la figura di Fra Tommaso, normalmente studiata dal ristretto numero degli specialisti nel settore. Un’occasione importante per conoscere ed apprezzare i valori della fratellanza, della solidarietà , del rispetto dell’ambiente e della riscoperta di relazioni interpersonali improntate all’accoglienza, all’amore reciproco, alla non violenza, alla pace.
Nella Cappella delle reliquie si conserva gelosamente una Spina della Corona di Nostro Signore, recata a Farfa al tempo delle Crociate e tenuta sempre in grande considerazione.
Intorno a questo insigne cimelio della Passione si ricorda questo episodio.
Nel 1482 Alfonso, duca di Calabria, figlio di Ferrante, re di Napoli, avendo accampato il suo esercito nei prati di Granica, visitò l’Abbazia farfense. Fu mostrata al duca, assieme alle altre reliquie, anche la sacra Spina; il discorso cadde su altre Spine della stessa corona conservate in vari luoghi; allora Alfonso mostrò una di queste Spine che egli portava sempre addosso, fu messa a confronto con quella di Farfa e si vide che era differente.
Il duca, turbato da questo fatto, propose che fosse sperimentato, per mezzo della prova del fuoco, quale delle due e quella autentica. Fu acceso un fuoco nell’atrio della basilica e alla presenza di tutti i monaci, dello stato maggiore del duca Alfonso ed altri ecclesiastici , il duca getto per primo , tra le fiamme, la sua reliquia che brucio subito, quindi fu gettata alle fiamme la reliquia farfense che il fuoco “non ardì toccare”. La reliquia farfense fu gettata più volte tra le fiamme e il prodigio si rinnovò sempre. Dinanzi a questo fatto prodigioso il duca cadde in ginocchio e bacio il sacro cimelio e subito dopo lo riconsegnò , con devozione, al Priore raccomandandogli di custodire la sacra Spina con devozione e con miglio cautela.
Fonte-l’Abbazia di Farfa di D. Ippolito Boccolini –
L’Imperiale Abbazia di Farfa di Card. Ildefonso Schuster (Vaticano 1921)
Le foto sono di Franco Leggeri-
Conoscere l’Abbazia
Nel cuore dell’antica terra Sabina, ai piedi del monte Acuziano, in un’atmosfera di mistico silenzio, che avvolge anche il caratteristico Borgo che la circonda, sorge la storica Abbazia di Farfa, immersa nel fascino di una natura verdeggiante e sorridente, nella fresca aria mattutina che si respira intorno, riscaldata da un dolce sole i cui raggi oltrepassano i rami degli alberi, prima di giungervi.
L’abbazia di Farfa è un luogo particolarmente attraente, ricolmo di pace, di serenità, di semplicità, come sono semplici i monaci benedettini che vivono, in un clima di profonda spiritualità, la loro vita quotidiana tutta dedita al Signore e alla Madonna, alla quale essa è dedicata.
Fu dichiarata monumento nazionale nel 1928, per la bellezza architettonica ed artistica del monastero e della basilica, testimonianza di una storia più che millenaria tra periodi di grande splendore e periodi di decadenza o addirittura di distruzioni e dispersioni, seguiti sempre da rinascite e ricostruzioni, sì che ancor oggi l’abbazia è un centro di cultura e di spiritualità. Straordinaria anche la fioritura della santità, dal primo al secondo fondatore, rispettivamente S. Lorenzo Siro e S. Tommaso da Moriana, fino ai Beati Placido Riccardi e Ildefonso Schuster.
Tante le visite di re, imperatori e papi fino a quella di Giovanni Paolo II il 19 marzo 1993. Migliaia i visitatori che oggi la frequentano per ammirare il patrimonio di cultura e di arte che essa custodisce e rende accessibile e per il desiderio di trascorrere qualche ora o qualche giorno di riposo fisico e spirituale, usufruendo anche delle strutture di accoglienza e di ristoro, nonché del parco e delle passeggiate nella proprietà della Fondazione “Filippo Cremonesi“, che comprende pure le caratteristiche abitazioni del Borgo di Farfa con le graziose botteghe gestite da abili artigiani.
Goethe J.W- Roma, 7 novembre 1788.-Sono qui , scrive Goethe , da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografi a della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione.Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova.Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare.Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti.
[…].”
BIOGRAFIA di Johann Wolfgang von Goethe. drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco.
Johann Wolfgang von Goethe –Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica. Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il “piacere del favoleggiare”. Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un’educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto. Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un’espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert. Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten (“I capricci dell’innamorato”), che è la prima professione d’un amore agitato e irritabile. Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d’ambiente Die Mitschuldigen (“I correi”), quadro acuto e scettico del mondo borghese. Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette (“Libro per Annette”) e in Neue Lieder (“Canti nuovi”) fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d’un senso inconsueto della natura. Una grave malattia lo dispose a subire l’influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell’amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l’orma del divino nel segreto della natura.
Nel 1770 si trasferì a Strasburgo per terminarvi gli studî; tra le esperienze decisive che ivi compì spiccano l’incontro “fatale” con J. G. Herder e le sue teorie su storia e natura, creatività individuale e divenire universale, e la lettura di Shakespeare, che segnarono la prodigiosa produzione del successivo quinquennio. Ne sono testimonianza i Sesenheimer Lieder (“Canti di S.”), dettati dall’amore per Friederike Brion, nel loro insieme atto esplicito di adesione al movimento dello Sturm und Drang; la grossa cronaca drammatizzata, d’impronta shakespeariana, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (“Storia di G. di B. dalla mano di ferro”, 1771), poi (1773) rielaborata col titolo di Götz von Berlichingen, vasto e farraginoso affresco di argomento nazionale che fece decadere altri e persino più ambiziosi progetti di drammi come Mahomet e Prometheus, di cui rimasero solo brevi ma significativi frammenti. A questi, però, si affiancano inni a sfondo cosmico-panteistico, che sono testimonianze inequivocabili d’un sentimento integralmente aperto a un’esperienza di totalità, sull’onda d’un ardore creativo che G. non conobbe mai più (oltre Mahomets Gesang, “Canto di Maometto“, Prometheus, Wanderers Sturmlied, “Canto del viandante nella tempesta”, e Ganymed). Del resto quello era un periodo di tormentata inquietudine anche sul piano esistenziale, e nella produzione poetica si avverte una smania creativa che rischia talora la dispersione. Nel recupero del popolaresco, alla maniera del lontano H. Sachs, scrisse le satire carnevalesche Jahrmarktsfest zu Plundersweilern (“Festa della fiera di Pl.”, 1773) e Ein Fastnachtsspiel … vom Pater Brey (“Una rappresentazione carnevalesca di Padre Pappa”, 1773); una farsa di forte anche se non limpida accentuazione critica (Satyros, 1773); un’epica religiosa che sferza il filisteismo delle chiese (Der ewige Jude, “L’ebreo errante“, 1774). Prova d’uno stato d’animo di disagio, a lungo insanabile, per il colpevole abbandono di Friederike Brion è Clavigo (1774), tragedia della fanciulla abbandonata dall’amato più per leggerezza che per responsabile scelta. Di lì a poco Stella (1775), dramma d’un uomo che con pari intensità ama due donne, denuncia l’aspirazione alla libertà sentimentale. Una produzione tanto varia è tenuta insieme tuttavia dalla continua disposizione a confessarsi, a legare fino alla più intima convergenza vita e poesia. In tale spirito nacque anche l’opera conclusiva e più fortunata di questa felice stagione, il romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers (“I dolori del giovane W.”, 1774), appassionata storia di una delusione amorosa che si conclude con il suicidio del protagonista; essa, in un’epoca segnata da un sentimentalismo esorbitante, conobbe un immediato, clamoroso successo. Intanto si era già affacciato nello spirito di G. il tema del Faust, che lo accompagnerà ossessivamente sino agli ultimi giorni della sua lunga vita.
Tornato a Francoforte al termine degli studî, dopo aver soggiornato a Wetzlar per farvi pratica presso il supremo tribunale imperiale, abbandonò gli ambiziosi disegni di carriera tracciati per lui dal padre, e nell’autunno del 1775 lasciò, questa volta definitivamente, la città natale per stabilirsi alla corte di Weimar, minuscola capitale d’un povero ducato di 120.000 abitanti. Entrato nelle simpatie della famiglia ducale, fu nominato consigliere segreto e quindi ministro, ottenendo infine il titolo nobiliare. Il primo decennio trascorso a Weimar fu di relativo silenzio poetico e d’intensa attività pratica. Il contatto costante coi problemi della vita lo sospingeva, piuttosto, verso le scienze naturali. Si occupò di geologia e di mineralogia (fra l’altro scrisse il trattato Über den Granit, “Sul granito”, 1784), passò all’anatomia, scoprendo nello stesso 1784 l’osso inframascellare; fu attratto infine dalla botanica e dalla storia naturale, in cui la sua riflessione trovava testimonianza di quella immanenza del divino che aveva già avvertito in forma intuitiva. Si compiva così la maturazione di quel panteismo cui del resto già da tempo aderiva. La produzione letteraria di questo periodo si può considerare limitata alle liriche e all’atto unico Die Geschwister (“I fratelli”, 1776), ispirati a Charlotte von Stein, donna di grande cultura alla quale G. fu legato per dieci anni e che influì profondamente sulla sua formazione. Nell’autunno del 1786, il viaggio in Italia si configura quasi come una fuga e segna un passaggio decisivo per la vita e l’ispirazione del poeta. Nel “paese dei limoni”, l’Italia classica del meridione e, più ancora, Roma, trovò realizzata quella sintesi di natura e arte, passato e presente, spiritualità e sensualità verso cui era proteso, e sentì rifiorire tutte le aspirazioni poetiche che il decennio attivistico di Weimar aveva in buona parte represso. Nel giugno del 1788 tornò a Weimar e il suo cambiamento gli procurò accoglienze decisamente fredde. Interruppe la relazione con la signora von Stein, e iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò solo nel 1806 pur avendone avuto fin dal 1789 un figlio, August, morto poi a Roma nel 1830. L’operosità creativa che era esplosa in Italia continuò a Weimar, in una stagione contrassegnata dal succedersi di opere quasi tutte ad alto livello. In Italia aveva portato a termine l’Egmont (1787), dramma della libertà dell’uomo che soccombe solo davanti alle forze del mondo esteriore e nemico, e ultimata la stesura in versi della Iphigenie in Tauris, testimonianza di un umanesimo ormai pienamente maturato, fusione perfetta di grecità e cristianesimo. Fu terminato invece a Weimar il Torquato Tasso, dramma di anime in cui gli elementi autobiografici (il poeta consapevole della propria genialità inserito in una sorda e intrigante corte principesca) sono filtrati ma tutt’altro che rimossi. Frutto dell’esperienza italiana, e in particolare romana, furono anche le Römische Elegien (1788-89), che nella fusione di classicità formale e sensualità di immagini segnano nel modo più palese il taglio fra questa e la precedente stagione poetica; ad esse seguiranno, dopo un nuovo, meno fortunato viaggio in Italia, i Venetianische Epigramme (1790). Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, G. da un lato dichiarò apertamente il proprio disprezzo verso gli ipocriti fautori del nuovo corso (nelle mediocri commedie Der Grosskophta, “Il gran mago egizio”, 1792, e Der Bürgergeneral, “Il cittadino generale”, 1793), dall’altro però fu egli stesso profondamente turbato dalla Rivoluzione, con sentimenti misti di adesione ai suoi principî e apprensione per il suo corso. Cercò allora sfogo in quella che definì la sua “Bibbia empia del mondo”, cioè nella versione in esametri omerici del bestiario medievale Reineke Fuchs (“La volpe R.”, 1793), satira più cinica che accorata dei dilaganti vizî. Una più pacata e valida presa di posizione fu quella dell’idillio in esametri Hermann und Dorothea (1797), che inquadra i valori morali di una sana, tradizionale etica borghese.
Intanto, nel 1794 si era creato il sodalizio con J. C. F. Schiller che, durato fino alla morte di quest’ultimo (1805), nel decennio definito per eccellenza classico, portò a reciproco arricchimento le due personalità, pur tanto diverse per estrazione e per temperamento. Per G. l’amicizia con Schiller significò una coscienza della propria missione poetica pienamente riconquistata. Sulla rivista di Schiller, Die Horen, G. pubblicò, nel 1795-97, le Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten (“Conversazioni di emigrati tedeschi”), specie di piccolo Decameron, prototipo del genere ancora inedito della novella classica; vi pubblicò anche il Märchen (“Fiaba”), da cui tanto dipese la fiabistica romantica. La solidarietà fra i due giunse persino alla scrittura in comune, da cui nacque la raccolta di Xenien (“Doni ospitali”, 1797), epigrammi di aspra censura ai letterati contemporanei. Sia pure per pochi numeri, anche G. pubblicò una sua rivista, Die Propyläen (1798-1800), in cui propagandò il suo verbo classicistico. Come teorico, pur fornendo prove di alto interesse, per esempio il saggio Winckelmann und sein Jahrhundert (“W. e il suo secolo”, 1805), non riuscì sempre a evitare l’insidia dell’accademismo, in cui del resto incorse anche una certa produzione poetica: è il caso della frammentaria tragedia Helena, del 1800, poi rifusa nella seconda parte del Faust, e dell’epos Achilleis, del 1799, concepito come continuazione dell’Iliade. L’interesse per il classicismo spinse G. a riprendere anche i due temi per antonomasia “goethiani”, quello di Wilhelm Meister e di Faust. Già prima del viaggio in Italia G. aveva iniziato, e poi sospeso, un vasto romanzo a sfondo autobiografico, Wilhelm Meisters theatralische Sendung (“La missione teatrale di W. M.”), il cui manoscritto fu ritrovato solo nel 1910; era la narrazione realistica delle esperienze di un giovane della buona borghesia innamorato del teatro. Nel 1794 G. ne riprese il tema e nel 1796 uscì una compiuta stesura del romanzo sotto il titolo Wilhelm Meisters Lehrjahre (“Gli anni di noviziato di W. M.”), capolavoro del genere tipicamente tedesco dell’Entwicklungsroman (romanzo di formazione) e nello stesso tempo quadro vivace di tutta un’epoca. Al Faust G. si era dedicato fin dal 1772, e nel 1775 era pronta una prima e incompleta stesura, il cosiddetto Urfaust (il cui ritrovamento è avvenuto solo nel 1887), una delle opere più legate alla poetica dello Sturm und Drang. Mutilo delle scene terminali era anche il primo Faust (Faust. Ein Fragment, 1790), e solo nel 1808 uscì la redazione definitiva della prima parte (Faust. Der Tragödie erster Teil), dopo un lavoro frazionato lungo l’arco di un decennio. Per il poeta, ormai giunto all’età matura, si trattava di un’acquisizione di recupero, e la dedica con cui si apre il monumentale edificio poetico rievoca le figure del dramma come emergenti da un passato lontano. L’immediatezza della presenza di Mefistofele, il ritmo serrato della tragedia di Gretchen delle precedenti stesure, sono andati perduti; ma la prospettiva su cui il dramma si apre ha finalmente raggiunto l’estrema vastità significativa del grande dramma simbolico, che coinvolge le potenze divine e demoniache e attinge dimensioni cosmiche, eppure rimane sostanzialmente dramma psicologico dell’uomo che non può rinunciare alla sua volontà di dominare il mondo.
Con la morte di Schiller (1805) e la catastrofe nazionale di Jena (1806), si era aperta per G. la lunga stagione della senilità. Allo sconforto e all’isolamento aveva reagito immergendosi negli studî scientifici, in particolare sull’ottica, senza con questo rallentare l’intensità della produzione letteraria. Allo stesso anno del Faust appartiene il dramma allegorico Pandora, e nel 1809 vide la luce Die Wahlverwandtschaften (“Le affinità elettive”), esemplare romanzo sulla passione amorosa vissuta in età adulta. La profondità dell’analisi psicologica e la tensione della vicenda sono sorrette da una scrittura perfettamente sorvegliata che asciuga senza offuscare il pathos che attraversa l’intera narrazione. Dopo una laboriosa gestazione uscì nel 1819 il Westöstlicher Divan (“Divano occidentale orientale”), dettato anzitutto dall’amore, tanto forte quanto dolorosamente votato a una cosciente rinuncia, per Marianne von Willemer, giovanissima poetessa. È il solo complesso di poesie pubblicato da G. in unico volume, e costituisce l’eccezionale testimonianza di una volontà e di una capacità di rinnovamento che attingevano alle più varie esperienze di vita e di cultura, recuperate attraverso un procedimento selettivo accorto e costante. Anche lo stile, non più immediato e plastico, è divenuto rarefatto e sfiora talvolta il sublime nella mediazione fra la vivacità del sentimento e l’amaro dell’acquisita saggezza. G. nel frattempo si era reso conto, dopo i due incontri con Napoleone, nel 1808, dell’importanza ormai storica della sua persona. All’avvento della Restaurazione, in un mondo che riconosceva sempre meno come proprio, sentì doveroso tornare indietro per fissare indelebilmente la sua personale storia. Non scrisse una vera autobiografia, ma ne lasciò ampî e spesso suggestivi squarci in Dichtung und Wahrheit (“Poesia e verità”, 1809-14 e 1830), che, pur coprendo solo gli anni fino al 1775 e senza essere sempre cronachisticamente attendibile, assunse il significato di documento storico, cioè d’interpretazione di un’intera epoca. Per alcuni aspetti documento ancora più suggestivo, anche se stilisticamente meno accurato, fu l’Italienische Reise (“Viaggio in Italia”, 1816-17, 1829), che ancora oggi gode di enorme fortuna.
Nonostante i frequenti attestati di stima da tutta Europa e l’omaggio di uomini come Byron e Manzoni, G. conobbe negli ultimi anni l’amarezza dell’isolamento quasi integrale nel nuovo clima culturale creatosi con il Romanticismo, a lui radicalmente estraneo. Nel riprendere ancora una volta i temi di Meister e di Faust, volle testimoniare e verificare globalmente la sua esperienza di poeta, di prosatore e di uomo confrontandosi con un mondo in cui non era possibile ripristinare quell’umanesimo integrale che era stato l’ideale del Rinascimento. Il Wilhelm Meisters Wanderjahre (“Gli anni del pellegrinaggio di W. M.”, 1829) rivela la disponibilità e l’interesse di G. per le esigenze di un assetto sociale nuovo, ma reca un sottotitolo sintomatico, Die Entsagenden “I rinuncianti”. L’ultimo Faust fu elaborato tra il 1825 e il 1831, con la dolorosa parentesi della morte del figlio e di una grave malattia da cui G. si riprese, forse, per la estrema determinazione di portare a compimento l'”opera della sua vita”. Quest’opera denuncia il peso dell’investimento che è stato fatto su di essa e risulta eterogenea, sovraccarica, diluita da intellettualismi e genericità, ma ha pagine di straordinaria bellezza e resta la potente e inquietante somma poetica di tutta una vita. Faust, che all’inizio si ridesta a nuova vita, è destinato alle esperienze più sbalorditive, ad attingere dimensioni sempre più vaste e globali, passando di affanno in affanno e di colpa in colpa finché, vecchissimo e quasi cieco, saluterà la morte con un esaltante inno alla libertà. La seconda parte del Faust (Faust. Der Tragödie zweiter Teil) fu pubblicata pochi mesi dopo la morte di G., per sua esplicita volontà. Egli era certo che non avrebbe ricevuto comprensione da parte di contemporanei, e non s’ingannava: in particolare l’ultimo G. non era fatto per essere agevolmente inteso, ma in generale il clima intellettuale e politico degli anni della Restaurazione non era fatto per recepire un autore che sembrava fossilizzato su posizioni esclusive e in ogni modo antiquate. Il 1848, e quanto ad esso tenne dietro, portò a rinvenire in Schiller piuttosto che in G. il genio ispiratore, quale poeta della libertà. La varia, complessa, spesso tragica vicenda storica della Germania durante gli ultimi cento anni a più riprese ha ribadito tale ideologica predilezione. Ma già il cosiddetto “realismo poetico” assunse G. come suo modello e maestro; il liberalismo borghese vide in lui l’ultimo e sommo rappresentante di una cultura umanistica, a un tempo tipicamente tedesca e profondamente europea; più tardi il monismo scientifico e filosofico guardò a lui come al poeta-pensatore capace di grandi e profetiche intuizioni. Nonostante la varietà e disparità d’opinione dei suoi innumerevoli critici (tra cui Hauptmann, Hofmannsthal, George, Hesse, Th. Mann), è unanime il giudizio che lo riconosce campione geniale dell’autonomia individuale, nel solco di una cultura di cui ha saputo raccogliere e incrementare la grande eredità.
Diderot, Denis – d’Alembert, Jean-Baptiste Le Rond
Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, 1751
Descrizione-Encyclopédie-Paris, Briasson, David, Le Breton, S. Faulche, 1751-’65 [ultimo volume: Neufchastel, Samuel Faulche]. In 2°. 404 x 270 mm. – Table Analytique et Raisonée du Dictionnaire… Paris/Amsterdam, Panckoucke-Marc-Michgel rey, 1780. In 2°, 2 voll. – Recueil de Planches sur le s Sciences…Paris, Briasson, David, Le Breton, S. Faulche, 1762-1772. – Nouveau Dictionnaire pour servir de Supplement. Paris, Panckoucke, Stoupe, Brunet, 1776-’77. In 2° 5 voll. incluso un tomo di Planches au Supplement, 1777. 244 tavole. Insieme completo di 35 volumi, di cui 23 di testo e 12 di tavole. Legature coeva in bazzana con dorso a sei nervi e taglia spruzzo, cinque volumi presentano una diversa legatura, sempre in bazzana ma con un vitello più scuro e i tagli sono rossi. Ex libris al contropiatto Aldo Maffey.
Nota a chiariento
L’Encyclopédie è stata originariamente concepita dall’editore, André le Breton, come una semplice traduzione della Cyclopaedia di Chambers, dall’inglese al francese. Denis Diderot, in qualità di editore, insieme al matematico Jean Le Rond d’Alembert, spinse il lavoro ben oltre tanto da essere annoverata, in qualità di editore insieme al matematico Jean Le Rondessere d’Alembert, nella tradizione illuminista. Un gran numero di scrittori del sec. XVIII contribuirono al lavoro e Diderot, in qualità di editore, prendeva gli scritti e li rimodellava sottilmente alla sua veduta del mondo.
Quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31
La sera del 14 maggio 1931 a Bologna è in programma al Teatro Comunale un concerto, diretto da Arturo Toscanini, in memoria di Giuseppe Martucci, direttore emerito dell’orchestra bolognese alla fine dell’800.
Il maestro si rifiuta di dirigere l’inno fascista Giovinezza e l’Inno reale al cospetto del ministro Ciano e di Arpinati. Viene aggredito e schiaffeggiato da alcune camicie nere presso un ingresso laterale del teatro. Tra gli squadristi c’è il giovane Leo Longanesi (secondo I. Montanelli, ma per altri questa è “una leggenda senza conferma”).
Rinunciando al concerto, Toscanini si rifugia all’hotel Brun. Il Federale Mario Ghinelli, con un seguito di facinorosi, lo raggiunge all’albergo e gli intima di lasciare subito la città, se vuole garantita l’incolumità.
Il compositore Ottorino Respighi, media con i gerarchi e ottiene di accompagnare il direttore al treno la sera stessa.
Il 19 maggio l’assemblea regionale dei professionisti e artisti deplorerà “il contegno assurdo e antipatriottico” del maestro parmigiano. Sull’ “Assalto” Longanesi scriverà: “Ogni protesta, da quella del primo violino a quella del suonatore di piatti, ci lascia indifferenti”.
Toscanini dal canto suo scriverà una feroce lettera a Mussolini, già suo compagno di lista a Milano nelle elezioni politiche del 1919. Dal “fattaccio” di Bologna maturerà la sua decisione di lasciare l’Italia, dove tornerà a dirigere solo nel dopoguerra.
Il concerto in onore di Martucci sarà rifatto al Comunale sessanta anni dopo, il 14 maggio 1991, sotto la direzione di Riccardo Chailly.
Approfondimenti
TOSCANINI, LA VERITA’ SUL FAMOSO SCHIAFFO -Archivio “la Repubblica”
BOLOGNA Due giorni di relazioni e concerti hanno infine riparato, a sessant’ anni dagli eventi, a quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31, ad opera di squadristi, per essersi rifiutato di dirigere al Teatro Comunale gli inni nazionali. Ch’ erano allora Giovinezza e Marcia Reale. Nel gesto riparatore si sono unite le due città di Bologna e di Parma. La prima ha ospitato martedì il convegno internazionale dedicato a Bologna per Toscanini, la seconda, nella giornata di ieri, una tavola rotonda. Entrambe, nei teatri Comunale e Regio, hanno ospitato il concerto che, diretto da Riccardo Chailly, ha visto Raina Kabaivanska e l’ Orchestra dell’ ente lirico bolognese interpretare quelle pagine di Giuseppe Martucci che Toscanini non poté eseguire. Punto di partenza dell’ indagine di storici e musicologi, alla quale si sono aggiunte le testimonianze di Walfredo Toscanini e Gottfried Wagner, è stato dunque l’ offesa al maestro. Luciano Bergonzini, che alla ricostruzione di quell’ ingiuria ha dedicato un saggio, pubblicato in questi giorni dal Mulino (Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’ inizio degli anni Trenta), ha esposto la sua tesi, che è sostanzialmente nuova. In sintesi, non furono i gerarchi del regime, primi fra tutti Leandro Arpinati, all’ epoca vicinissimo a Mussolini, e Mario Ghinelli, federale a Bologna, i promotori dell’ azione. Arpinati, piuttosto, tentò fino all’ ultimo di giungere ad una soluzione che sventasse lo scontro diretto, a un compromesso che permettesse il regolare svolgimento del concerto in memoria di Giuseppe Martucci, ben sapendo che Toscanini non avrebbe mai eseguito né la Marcia Reale, né Giovinezza, come prevedeva il protocollo. Di fatto, egli prese la decisione più semplice: Costanzo Ciano e lui non si sarebbero recati al Teatro Comunale. La serata avrebbe perso così il carattere ufficiale, liberando Toscanini da ogni obbligo. Inoltre, nonostante non sia tutt’ oggi facile giungere ad una conclusione definitiva sull’ argomento, tra gli aggressori non ci furono personalità di spicco del fascismo bolognese. Non c’ era certamente Ghinelli; assente probabilmente pure Leo Longanesi, che pure in seguito si sarebbe vantato d’ esser stato lui a colpire il musicista. Il suo ruolo, sempre secondo Bergonzini, sarebbe stato soltanto quello dell’ ispiratore attraverso articoli di giornale e discorsi. Rimane, invece, il sospetto che tutto abbia avuto origine all’ interno delle faide che andavano dividendo le gerarchie fasciste, e delle quali del resto sarà vittima lo stesso Arpinati. Se la proposta dello studioso bolognese fosse la ricostruzione più verosimile, allora lo schiaffo, la progettazione e l’ esecuzione dell’ aggressione sarebbero nate proprio da quel consenso al regime, che aveva trovato fertile terreno non solo nelle classi medie, ma anche in quelle subalterne urbane. Toscanini sarebbe loro apparso un vessillo da abbattere, incuranti di quanto si andava decidendo nelle sfere alte del regime. Constatazione questa che riaprirebbe una querelle mai risolta: quella del ruolo degli intellettuali, da un lato, e del sostegno che il fascismo seppe trovare, se pur distribuito in maniera disomogenea, nei più diversi strati della società italiana. Sul versante opposto, giustamente l’ accento è stato spostato dall’ offesa in sé, atto sempre vile, al gesto di Toscanini, a quel rifiuto del direttore d’ orchesta che costituisce, come ha sottolineato Harvey Sachs nel suo intervento conclusivo, un esempio raro, certamente poco imitato in quegli anni, di coraggio. Umanità della musica, definizione questa con la quale Sachs bene ha riassunto la forte componente etica dell’ arte toscaniniana, una componente che coniugava esigenze artistiche e convinzioni morali. Infine, l’ attenzione è tornata a volgersi alle pagine di Giuseppe Martucci, interpretate a Bologna e a Parma da Riccardo Chailly, sul podio dell’ Orchestra del Teatro Comunale, affidate alla voce di Raina Kabaivanska, La canzone dei ricordi. Pagine di un sinfonismo italiano ormai obliato che, Fiamma Nicolodi lo ha evidenziato tratteggiando l’ itinerario musicale del compositore, avvicina la tradizione tedesca romantica e tardo-romantica a quella francese, a Saint-Saens e a Franck. Difficile valutarne gli esiti. Nel ricostruire la storia dell’ Italia musicale non se ne può prescindere, però, giocando Martucci, e con lui gli Sgambati, i Mancinelli, i Bossi, un ruolo tutt’ altro che secondario.
Luciano Bergonzini, Bologna 14 maggio 1931: l’offesa al Maestro, in Toscanini. Atti del Convegno Bologna per Toscanini, 14 maggio 1991, a cura di L. Bergonzini, Bologna, CLUEB, 1992, p. 13 sgg.
Luciano Bergonzini, Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’inizio degli anni Trenta, Bologna, Il mulino, 1991
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Pietrangelo Buttafuoco, Il Longanesi animato. Lacerti di un’Odissea borghese, in: Il mio Leo Longanesi, a cura di P. Buttafuoco, Milano, Longanesi, 2016, p. 24
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Davide Daghia, Bologna insolita e segreta, Versailles, Jonglez, 2017, p. 229
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Le strade di Bologna. Una guida alfabetica alla storia, ai segreti, all’arte, al folclore (ecc.), a cura di Fabio e Filippo Raffaelli e Athos Vianelli, Roma, Newton periodici, 1988-1989, vol. 4., p. 902
Teatro Comunale di Bologna, testi di Piero Mioli, fotografie di Carlo Vannini, Bologna, Scripta Maneant, 2019, p. 146
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Viene considerato uno dei maggiori direttori d’orchestra di sempre, per l’omogeneità e la brillante intensità del suono, la grande cura dei dettagli, il perfezionismo e l’abitudine di dirigere senza partitura grazie a un’eccezionale memoria fotografica.[1][2] Viene ritenuto in particolare uno dei più autorevoli interpreti di Verdi, Beethoven, Brahms e Wagner.
Fu uno dei più acclamati musicisti della fine del XIX e della prima metà del XX secolo, acquisendo fama internazionale anche grazie alle trasmissioni radiofoniche e televisive e alle numerose incisioni come direttore musicale della NBC Symphony Orchestra. Refrattario in vita all’idea di ricevere premi e decorazioni di sorta (tanto da rifiutare la nomina a senatore a vita propostagli da Luigi Einaudi, vd. infra), a trent’anni dalla morte fu insignito del Grammy Lifetime Achievement Award.
Arturo Toscanini nacque a Parma, nel quartiereOltretorrente, il 25 marzo del 1867, figlio del sarto e garibaldinoClaudio Toscanini, originario di Cortemaggiore (in provincia di Piacenza), e della sarta parmense Paola Montani; il padre era un grande appassionato di arie d’opera, che intonava in casa con amici dopo averle apprese al Teatro Regio, che frequentava spesso da spettatore. Questa passione contagiò anche il piccolo Arturo; del suo talento si accorse non il padre, ma una delle sue maestre, una certa signora Vernoni, che, notando che memorizzava le poesie dopo una singola lettura senza mai più dimenticarle, gli diede gratuitamente le prime lezioni di solfeggio e pianoforte. Arturo dimostrò nuovamente memoria eccezionale, riuscendo a riprodurre al pianoforte musiche che aveva sentito anche soltanto canticchiare; la maestra Vernoni suggerì ai genitori l’iscrizione del figlio alla Regia Scuola di Musica, il futuro conservatorio di Parma.[2][4][5]
A nove anni Arturo Toscanini vi si iscrisse vincendo una borsa di studio non nell’adorato pianoforte, bensì in violoncello (divenendo allievo di Leandro Carini) e composizione (allievo di Giusto Dacci). Nel 1880, studente tredicenne, gli venne concesso per un anno di essere violoncellista nell’orchestra del Teatro Regio. Si diplomò nel 1885 con lode distinta e premio di 137,50 lire.[4][6][7][8][9][10]
Nel 1886 si unì come violoncellista e secondo maestro del coro a una compagnia operistica per una tournée in Sudamerica. In Brasile il direttore d’orchestra, il locale Leopoldo Miguez, in aperto contrasto con gli orchestrali abbandonò la compagnia dopo una sola opera (il Faust di Charles Gounod), con una dichiarazione pubblica ai giornali (che avevano criticato la sua direzione) nella quale imputava tutto al comportamento degli orchestrali italiani. Il 30 giugno 1886 la compagnia doveva rappresentare al Teatro Lirico di Rio de Janeiro l’Aida di Giuseppe Verdi con un direttore sostituto, il piacentinoCarlo Superti; Superti fu però pesantemente contestato dal pubblico e non riuscì neanche a dare l’attacco all’orchestra. Nel caos più totale Toscanini, incitato da alcuni colleghi strumentisti per la sua grande conoscenza dell’opera, prese la bacchetta, chiuse la partitura e incominciò a dirigere l’orchestra a memoria. Ottenne un grandissimo successo, iniziando così la carriera di direttore a soli 19 anni, continuando a dirigere nella tournée. Al ritorno in Italia, su consiglio e mediazione del tenore russo Nikolaj Figner, si presentò a Milano dall’editrice musicale Giovannina Strazza, vedova di Francesco Lucca, e venne scelto da Alfredo Catalani in persona per la direzione al Teatro Carignano di Torino per la sua opera Edmea, andata in scena il 4 novembre dello stesso 1886, ottenendo un trionfo e critiche entusiaste.[2][5][6][11]
Successivamente riprese per un breve periodo la carriera di violoncellista; fu secondo violoncello alla prima di Otello, diretta al Teatro alla Scala da Franco Faccio il 5 febbraio 1887, e per l’occasione ebbe modo di entrare in contatto con Giuseppe Verdi.[2][12][13]
Nel frattempo, prima di intraprendere a pieno ritmo la carriera di direttore d’orchestra, tra il 1884 e il 1888 Toscanini si era dedicato alla composizione di alcune liriche per voce e pianoforte. Si ricordano Spes ultima dea, Son gelosa, Fior di siepe, Desolazione, Nevrosi, Canto di Mignon, Autunno, V’amo, Berceuse per pianoforte.
Nel 1895, nel nome di Wagner, avvenne l’esordio da direttore al Teatro Regio di Torino, con il quale collaborò fino al 1898 e di cui, il 26 dicembre 1905, inaugurò la nuova sala con Sigfrido. Nel giugno 1898 iniziò a dirigere al Teatro alla Scala (fino al 1903 e nel 1906/1907), con il duca Guido Visconti di Modrone come direttore stabile, il librettista e compositore Arrigo Boito vice-direttore e Giulio Gatti Casazza amministratore. Toscanini divenne il direttore artistico del teatro milanese e, sulla scia delle innovazioni portate dal suo idolo Richard Wagner, si adoperò per riformare il modo di rappresentare l’opera, ottenendo nel 1901 quello che ai tempi era il sistema di illuminazione scenica più moderno e nel 1907 la fossa per l’orchestra;[15] pretese inoltre che le luci in sala venissero spente e che le signore togliessero i cappelli durante la rappresentazione, proibì l’ingresso agli spettatori ritardatari e rifiutò di concedere i bis; ciò creò non poco scompiglio, dato che i più consideravano il teatro d’opera anche come un luogo di ritrovo, per chiacchiere e far mostra di sé.[2][7] Come scrisse il suo biografo Harvey Sachs, “egli credeva che una rappresentazione non potesse essere artisticamente riuscita finché non si fosse stabilita un’unità di intenti tra tutti i componenti: cantanti, orchestra, coro, messa in scena, ambientazione e costumi”. Il 26 febbraio 1901, in occasione della traslazione delle salme di Giuseppe Verdi e di Giuseppina Strepponi dal Cimitero Monumentale di Milano a Casa Verdi, diresse 120 strumentisti e circa 900 voci nel Va, pensiero che non veniva eseguito alla Scala da vent’anni. Nel 1908 si dimise dalla Scala e dal 7 febbraio fu invitato a dirigere presso il teatro Metropolitan di New York, venendo molto contestato per la sua decisione di abbandonare l’Italia. Proprio durante tale esperienza Toscanini comincerà a considerare gli Stati Uniti d’America come la sua seconda patria.[7]
Schierato per l’interventismo, rientrò in patria nel 1915, all’ingresso dell’Italia in guerra, e si esibì esclusivamente in concerti di propaganda e beneficenza; dal 25 al 29 agosto 1917, per allietare gli animi dei combattenti, diresse una banda sul Monte Santo appena conquistato durante la battaglia dell’Isonzo; per tale atto venne decorato con una Medaglia d’argento al valor civile[16]. Subito dopo la fine della guerra, nel giro di pochissimi anni s’impegnò nella riorganizzazione dell’orchestra scaligera (con la quale era tornato a collaborare), che trasformò in ente autonomo.
Ancora per spirito patriottico, nel 1920 si recò a Fiume per dirigere un concerto e incontrare l’amico Gabriele D’Annunzio, che con i suoi legionari aveva occupato la città contesa dagli slavi e dal governo italiano[17].
Di idee socialiste, dopo un’iniziale condivisione del programma fascista, che lo aveva portato nel novembre 1919 a candidarsi alle elezioni politiche nel collegio di Milano nella lista dei fasci di combattimento con Benito Mussolini e Filippo Tommaso Marinetti senza venire eletto,[20] se ne allontanò a causa del progressivo spostamento verso l’estrema destra di Mussolini, divenendone un forte oppositore già da prima della marcia su Roma. Voce fermamente critica e stonata nella cultura omologata al regime, riuscì, grazie all’enorme prestigio internazionale, a mantenere l’Orchestra del Teatro alla Scala sostanzialmente autonoma nel periodo 1921-1929; al riguardo annunciò anche che si sarebbe rifiutato di dirigere la prima di Turandot dell’amico Giacomo Puccini se Mussolini fosse stato presente in sala (che invece poi diresse, in quanto il duce non si recò alla rappresentazione).
Per questi atteggiamenti di aperta ostilità al regime subì una campagna di stampa avversa sul piano artistico e personale, mentre le autorità disposero provvedimenti, come lo spionaggio su telefonate e corrispondenza e il ritiro temporaneo del passaporto a lui e famiglia; tutto ciò contribuì a mettere in pericolo la sua carriera e la sua stessa incolumità, come accadrà a Bologna.[21]
Il 14 maggio 1931, infatti, trovandosi nella città felsinea per dirigere al Teatro Comunale un concerto della locale orchestra in commemorazione di Giuseppe Martucci, Toscanini si rifiutò in partenza di far eseguire come introduzione gli inniGiovinezza e Marcia Reale al cospetto di Leandro Arpinati, Costanzo Ciano e vari altri gerarchi. Dopo lunghe negoziazioni, che il Maestro non volle accettare, si arrivò alla defezione di Arpinati e Ciano, alla perdita di ufficialità del concerto e, di conseguenza, alla non necessità di esecuzione degli inni. Toscanini, al suo arrivo in auto al teatro in compagnia della figlia Wally, in ritardo a causa delle negoziazioni, appena sceso, fu assalito da un folto gruppo di fascisti, venendo schiaffeggiato sulla guancia sinistra, si presume dalla camicia nera Guglielmo Montani, e colpito da una serie di pugni a viso e collo; fu messo in salvo dal suo autista, che lo spinse in macchina, affrontò brevemente gli aggressori e poi ripartì. Il gruppo di fascisti giunse poi all’albergo dove era alloggiato il Maestro e gli intimò di andarsene immediatamente; verso le ore 2 della notte, dopo aver dettato un durissimo telegramma di protesta a Mussolini in persona in cui denunciava di essere stato aggredito da “una masnada inqualificabile” (telegramma che non avrà risposta), avendo persino rifiutato di farsi visitare da un medico, partì in auto da Bologna diretto a Milano, mentre gli organi fascisti si preoccupavano che la stampa, sia italiana sia estera, non informasse dell’accaduto. Da quel momento Toscanini visse principalmente a New York; per qualche anno tornò regolarmente a dirigere in Europa, ma non in Italia, dove tornò in maniera saltuaria solamente dopo la seconda guerra mondiale, a seguito del ripristino di un governo democratico. Nondimeno, i dischi da lui incisi con orchestre statunitensi e inglesi per la casa discografica La voce del padrone non furono sottoposti a censura da parte del regime di Mussolini e rimasero regolarmente in catalogo fino al 1942 e oltre. [21][22][23][24][25]
Nel 1933 infranse i rapporti anche con la Germania nazista, rispondendo con un rifiuto duro e diretto a un invito personale di Adolf Hitler a quello che sarebbe stato il suo terzo Festival di Bayreuth.[26] Le sue idee avverse al nazismo e all’antisemitismo che esso perseguiva lo portarono fino in Palestina, dove il 26 dicembre 1936 fu chiamato a Tel Aviv per il concerto inaugurale dell’Orchestra Filarmonica di Palestina (ora Orchestra Filarmonica d’Israele), destinata ad accogliere e a dare lavoro ai musicisti ebrei europei in fuga dal nazismo, che diresse gratuitamente.[27] Nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania, abbandonò anche il Festival di Salisburgo, nonostante fosse stato caldamente invitato a rimanere. Nello stesso anno inaugurò il Festival di Lucerna (per l’occasione molti, soprattutto antifascisti, vi andarono dall’Italia per seguire i suoi concerti); inoltre, quando anche il governo italiano, in linea con l’alleato tedesco, adottò una politica antisemita promulgando le leggi razziali del 1938, Toscanini fece infuriare ulteriormente Mussolini definendo tali provvedimenti, in un’intercettazione telefonica che gli causò un nuovo temporaneo ritiro del passaporto, “roba da Medioevo“. Ribadì inoltre in una lettera all’amante, la pianistaAda Colleoni: “maledetti siano l’asse Roma-Berlino e la pestilenziale atmosfera mussoliniana”.[21][28]
L’anno successivo, anche a seguito della sempre più dilagante persecuzione razziale, abbandonò totalmente l’Europa, spostandosi negli Stati Uniti d’America.
Dagli States continuò a servirsi della musica per lottare contro il fascismo e il nazismo e si adoperò per cercare casa e lavoro a ebrei, politici e oppositori perseguitati e fuoriusciti dai regimi;[27] l’Università di Georgetown, a Washington, gli conferì una laurea honoris causa. Per lui, inoltre, nel 1937 era stata appositamente creata la NBC Symphony Orchestra, formata da alcuni fra i migliori strumentisti presenti negli Stati Uniti, che diresse regolarmente fino al 1954 su radio e televisioni nazionali, divenendo il primo direttore d’orchestra ad assurgere al ruolo di stella dei mass media.
«(…) sento la necessità di dirle quanto l’ammiri e la onori. Lei non è soltanto un impareggiabile interprete della letteratura musicale mondiale (…). Anche nella lotta contro i criminali fascisti lei ha mostrato di essere un uomo di grandissima dignità. Sento pure la più profonda gratitudine per quanto avete fatto sperare con la vostra opera di promozione di valori, inestimabile, per la nuova Orchestra di Palestina di prossima costituzione. Il fatto che esista un simile uomo nel mio tempo compensa molte delle delusioni che si è continuamente costretti a subire”[29]»
Durante la seconda guerra mondiale diresse esclusivamente concerti di beneficenza a favore delle forze armate statunitensi e della Croce Rossa, riuscendo a raccogliere ingenti somme di denaro. Si adoperò anche per la realizzazione di un filmato propagandistico nel quale dirigeva due composizioni di Giuseppe Verdi dall’alto valore simbolico: l’ouverture della Forza del destino e l’Inno delle Nazioni, da lui modificato variando in chiave antifascista l’Inno di Garibaldi e inserendovi l’inno nazionale statunitense e L’Internazionale. Nel 1943 il Teatro alla Scala, sui cui muri esterni erano state scritte frasi come “Lunga vita a Toscanini” e “Ritorni Toscanini“, venne parzialmente distrutto durante un violento bombardamento da parte di aereialleati; la ricostruzione avvenne in tempi rapidi, grazie anche alle notevoli donazioni versate dal Maestro.
Il 13 settembre 1943 la rivista statunitense Life pubblicò un lungo articolo di Arturo Toscanini dal titolo Appello al Popolo d’America. L’articolo era in precedenza un’accorata lettera privata di Toscanini al presidente americanoFranklin Delano Roosevelt.
«Le assicuro, caro presidente, – scrive Toscanini – che persevero nella causa della libertà la cosa più bella cui aspira l’umanità (…) chiediamo agli Alleati di consentire ai nostri volontari di combattere contro gli odiati nazisti sotto la bandiera italiana e in condizioni sostanzialmente simili a quelle dei Free French. Solo in questo modo noi italiani possiamo concepire la resa incondizionata delle nostre forze armate senza ledere il nostro senso dell’onore. (…)»
Toscanini non aveva in simpatia la posizione ambivalente di Richard Strauss durante la seconda guerra mondiale e dichiarò al riguardo: “Di fronte allo Strauss compositore mi tolgo il cappello; di fronte all’uomo Strauss lo reindosso”.[30]
Il ritorno
L’11 maggio 1946 il settantanovenne Toscanini ritornò in Italia, per la prima volta dopo quindici anni, per dirigere lo storico concerto di riapertura del Teatro alla Scala, ricordato come il concerto della liberazione, dedicato in gran parte all’opera italiana, e probabilmente per votare a favore della Repubblica. Quella sera il teatro si riempì fino all’impossibile: il programma vide l’ouverture de La gazza ladra di Rossini, il coro dell’Imeneo di Händel, il Pas de six e la Marcia dei Soldati dal Guglielmo Tell e la preghiera dal Mosè in Egitto di Rossini, l’ouverture e il coro degli ebrei del Nabucco, l’ouverture de I vespri siciliani e il Te Deum di Verdi, l’intermezzo e alcuni estratti dall’atto III di Manon Lescaut di Puccini, il prologo e alcune arie dal Mefistofele di Boito. In quell’occasione esordì alla Scala il soprano Renata Tebaldi, definita da Toscanini “voce d’angelo”.
Alla Scala fu direttore di altri tre spettacoli: il concerto commemorativo di Arrigo Boito, comprendente la Nona sinfonia di Beethoven, nel 1948, la Messa di requiem di Verdi nel 1950 ed infine un concerto dedicato a Wagner nel settembre 1952.
Il 5 dicembre 1949 venne nominato senatore a vita dal Presidente della RepubblicaLuigi Einaudi per alti meriti artistici, ma decise di rinunciare alla carica il giorno successivo, inviando da New York il seguente telegramma di rinuncia:
«È un vecchio artista italiano, turbatissimo dal suo inaspettato telegramma che si rivolge a Lei e la prega di comprendere come questa annunciata nomina a senatore a vita sia in profondo contrasto con il suo sentire e come egli sia costretto con grande rammarico a rifiutare questo onore. Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa. Grato e lieto della riconoscenza espressami a nome del mio paese pronto a servirlo ancora qualunque sia l’evenienza, la prego di non voler interpretare questo mio desiderio come atto scortese o superbo, ma bensì nello spirito di semplicità e modestia che lo ispira… accolga il mio deferente saluto e rispettoso omaggio.»
Addio alle scene e morte
Toscanini si ritirò a 87 anni, ponendo fine a una straordinaria carriera duratane 68;[4] rese tuttavia nota la sua volontà di lasciare il podio solo a familiari e amici, volendo evitare di ricevere eccessive celebrazioni pubbliche.[31]
Per il suo ultimo concerto, interamente dedicato a Wagner, compositore sempre molto amato, diresse la NBC Symphony Orchestra il 4 aprile 1954 alla Carnegie Hall di New York, in diretta radiofonica. Proprio in occasione di quell’ultima esibizione il Maestro, celebre anche, come già accennato, per la sua straordinaria memoria ed il suo perfezionismo maniacale (caratteristiche che, insieme al suo carattere irascibile ed impulsivo, lo portavano regolarmente ad infuriarsi quando l’esecuzione non risultava esattamente come lui voleva), mentre dirigeva il brano dell’opera Tannhäuser, per la prima volta perse la concentrazione e smise di battere il tempo.
Ritratto di Arturo Toscanini, direttore d’orchestra (1867-1957). Foto di Leone Ricci, Milano.
Toscanini rimase immobile per ben 14 secondi ed i tecnici radiofonici fecero immediatamente scattare un dispositivo di sicurezza che trasmise musica di Brahms[31], una reazione a posteriori giudicata eccessiva e forse dettata dal panico, laddove l’orchestra in realtà non aveva mai smesso di suonare. Il Maestro si ricompose e riprese a dirigere normalmente fino alla fine del concerto, dopodiché si ritirò rapidamente nel proprio camerino, mentre in teatro gli applausi sembravano non smettere più.[32]
Nel dicembre del 1956, debilitato da problemi di salute legati all’età, espresse il desiderio di trascorrere il Capodanno con tutta la famiglia. Il figlio Walter organizzò quindi una grande festa a New York con figli, nipoti, vari parenti e amici; a mezzanotte il Maestro, insolitamente allegro ed energico, volle abbracciare tutti uno per uno, poi intorno alle due andò a letto. Al mattino di Capodanno del 1957, alzatosi attorno alle 7, si recò in bagno e quando ne uscì stramazzò al suolo, colpito da una trombosi cerebrale.[31]
Toscanini rimase in agonia per 16 giorni e morì alle soglie dei 90 anni, nella sua casa newyorkese di Riverdale, il 16 gennaio 1957; la salma ritornò il giorno dopo in Italia con un volo diretto all’Aeroporto di Ciampino, a Roma, e venne accolta all’arrivo da una folla di persone. Da lì fu traslata a Milano: la camera ardente e il funerale furono allestiti presso il Teatro alla Scala e la gente salì anche sui tetti degli edifici circostanti per poter vedere qualcosa.
Composto da una marea di persone, il corteo funebre si avviò verso il Cimitero Monumentale di Milano, dove il Maestro venne tumulato nell’Edicola 184 del Riparto VII, la tomba di famiglia precedentemente edificata alla morte del figlioletto Giorgio dall’architetto Mario Labò e dallo scultore Leonardo Bistolfi, con tematiche rappresentanti l’infanzia e il viaggio per mare (Giorgio era morto di una difterite fulminante a Buenos Aires mentre seguiva il padre in tournée ed era ritornato a Milano defunto in nave).[33][34][35][36][37] Nella stessa cappella hanno ricevuto sepoltura il padre del Maestro, Claudio, la sorella Zina, gli altri tre figli del Maestro (Walter, Wanda, Wally), la moglie Carla, l’insigne pianista Vladimir Horowitz (1903-1989), marito di Wanda, la loro figlia Sophie Horowitz (1934-1975), la ballerina Cia Fornaroli (1888-1954), moglie del figlio Walter, e il nipote Walfredo Toscanini (1929-2011), figlio di Walter e della Fornaroli e ultimo discendente diretto maschio del Maestro.
Il nome di Arturo Toscanini si è successivamente meritato l’iscrizione al Famedio del medesimo cimitero.[38]
Vita privata
Arturo era il primogenito e dopo di lui i genitori ebbero tre figlie: Narcisa (1868-1878), Ada (1875-1955) e Zina (1877-1900).[39][40]
Arturo Toscanini con la figlia Wally, 1955
Toscanini sposò la milanese Carla De Martini (nata nel 1877) a Conegliano il 21 giugno 1897; la moglie diverrà sua manager.[2][31] Ebbero quattro figli: Walter, nato il 19 marzo 1898 e morto il 30 luglio 1971, storico e studioso del balletto, che sposò la celebre prima ballerinaCia Fornaroli;[41][42] Wally, nata il 16 gennaio del 1900, chiamata come la protagonista dell’ultima opera dell’amico scomparso Alfredo Catalani, La Wally[43], nel corso della seconda guerra mondiale elemento importante della Resistenza italiana e successivamente fondatrice di un’associazione per la ricostruzione del Teatro alla Scala distrutto dai bombardamenti alleati, nonché moglie del conte Emanuele di Castelbarco e celebre animatrice del jet set internazionale,[43][44][45] morta l’8 maggio 1991; il predetto Giorgio, nato nel settembre 1901 e morto di difterite il 10 giugno 1906; Wanda Giorgina, nata il 7 dicembre del 1907, diventata celebre per avere sposato il pianistarusso e amico di famiglia Vladimir Horowitz, morta il 21 agosto 1998.[31][37][46][47]
Il 23 giugno 1951 la moglie morì a Milano e Toscanini rimase vedovo.[48]
Toscanini ebbe varie relazioni extraconiugali, ad esempio con il soprano Rosina Storchio, dalla quale nel 1903 ebbe il figlio Giovanni Storchio, nato cerebroleso e morto sedicenne il 22 marzo 1919,[49][50] e con il soprano Geraldine Farrar, che avrebbe voluto imporgli di lasciare moglie e figli per sposarla; il Maestro non gradì l’ultimatum e, per tale motivo, nel 1915 si dimise da direttore d’orchestra principale del Metropolitan e ritornò in Italia. Ebbe anche una relazione durata sette anni (dal 1933 al 1940) con la pianista Ada Colleoni, amica delle figlie e divenuta moglie del violoncellista Enrico Mainardi; tra i due, nonostante vi fossero trent’anni di differenza, nacque un profondo legame, come risulta da una raccolta di circa 600 lettere e 300 telegrammi che il Maestro le inviò.[51][52][53]
Era un appassionato intenditore e collezionista d’arte, nonché conoscente o amico di molti pittori; secondo il nipote Walfredo, la sua collezione nella casa milanese di via Durini arrivava a contare fino a 200 quadri[31].
Critica
Toscanini fu pressoché idolatrato dalla critica finché fu in vita; la RCA Victor, che l’aveva sotto contratto, non si faceva problemi a definirlo il miglior direttore d’orchestra mai esistito. Tra i suoi sostenitori non vi erano solo i critici musicali, ma anche musicisti e compositori: un parere d’eccezione viene da Aaron Copland.[54]
Tra le critiche che gli furono mosse spicca quella “revisionista”, secondo la quale l’impatto di Toscanini sulla musica americana è da giudicare in definitiva più negativo che positivo, poiché il Maestro prediligeva la musica classica europea a quella a lui contemporanea. Tale bacchettata venne dal compositore Virgil Thomson, il quale deprecò la poca attenzione di Toscanini per la musica “contemporanea”. Va tuttavia sottolineato come Toscanini abbia speso parole d’ammirazione per compositori a lui senz’altro contemporanei, quali Richard Strauss e Claude Debussy, di cui diresse e incise la musica. Altri compositori attivi nel XX secolo i cui brani furono eseguiti sotto la direzione di Toscanini furono Paul Dukas (L’apprendista stregone), Igor’ Stravinskij (Le rossignol e la Suite da Petruška), Dmitrij Shostakovich (sinfonie numero 1 e 7) e George Gershwin, del quale diresse i tre lavori maggiori (Rapsodia in Blu, Un americano a Parigi e il Concerto in Fa).
Un’altra critica spesso mossa a Toscanini è quella di essere troppo “metronomico”, cioè di battere il tempo fin troppo rigidamente, senza mai distaccarsi dalle partiture. Questa sua caratteristica gli valse la rivalità di Wilhelm Furtwängler, caratterizzato da un modo di dirigere totalmente opposto a quello del Maestro italiano; i due si detestarono per anni e non ne fecero mistero.
Nota è l’aspra discussione sorta fra Toscanini e Maurice Ravel in relazione ai tempi della partitura del celebre Boléro del compositore francese.[55] Alla prima esecuzione a New York, il 4 maggio 1930, infatti, il direttore affrettò il tempo, dirigendo due volte più velocemente di quanto indicato, per poi allargarlo nel finale. Ravel gli ricordò che il brano andava eseguito con un unico tempo, dall’inizio alla fine, e che nessuno poteva prendersi certe libertà (lo stesso compositore, dopo la prima esecuzione, aveva anche fatto preparare un avviso che imponeva di eseguire il Boléro in modo tale che durasse esattamente diciassette minuti), e Toscanini gli rispose: “Se non la suono a modo mio, sarà senza effetto”, risposta che Ravel commentò dicendo: “i virtuosi sono incorreggibili, sprofondati nelle loro chimere come se i compositori non esistessero”.[56]
Francobollo emesso nel 2007 nel 50º anniversario della morte Francobollo della Repubblica di San Marino che celebra Arturo Toscanini, sempre per il 50° dalla morte
Toscanini registrò 191 dischi, specialmente verso la fine della carriera, molti dei quali sono ancora ristampati. Inoltre sono conservate molte registrazioni di esibizioni televisive e radiofoniche. Particolarmente apprezzate sono quelle dedicate a Beethoven, Brahms, Wagner, Richard Strauss, Debussy tra gli stranieri, Rossini, Verdi, Boito e Puccini tra gli italiani.
I beni che documentano la vita di Toscanini sono stati dati dai suoi eredi a istituzioni pubbliche italiane e statunitensi. A New York presso la New York Public Library si conservano molte delle partiture annotate e la rassegna stampa degli eventi che videro protagonista il Maestro; alcuni documenti sono invece conservati presso la Fondazione Arturo Toscanini di Parma; a Milano si trovano documenti presso l’archivio del Museo Teatrale alla Scala, l’Archivio di Stato e il Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi”; il 19 dicembre 2012 vi fu un’asta su lotti di lettere e spartiti del Maestro: tutto ciò rischiava di andare disperso, ma 60 lotti su 73 andarono all’Archivio di Stato[61].
^ D’Annunzio gli aveva scritto: “Venga a Fiume d’Italia, se può. È qui oggi la più risonante aria del mondo e l’anima del popolo è sinfonia come la sua orchestra”.
^ Comune di Milano, App di ricerca defunti Not 2 4get (i suoi resti attualmente riposano al Cimitero Maggiore di Milano nella celletta 729 del Riparto 211).
^ Enzo Restagno, Ravel e l’anima delle cose, Il Saggiatore, Milano, 2009, pag.34
^ Da un’intervista di Dimitri Calvocoressi a Ravel per il Daily Telegraph dell’11 luglio 1931, in Maurice Ravel. Lettres, écrits, entretiens Ed. Flammarion, Parigi, 1989
^ Un singolare aneddoto è legato alla prima di quest’opera, che esordì incompleta e postuma alla morte di Puccini. Toscanini interruppe infatti l’esecuzione a metà del terzo atto, all’ultima pagina completata dall’autore; alcuni testimoni riportano che, voltatosi verso il pubblico, il direttore affermò: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». Toscanini non diresse mai più la Turandot, tanto meno nella versione completata da Franco Alfano (di cui egli fu, peraltro, promotore, nonché recensore avendone bocciata una prima versione, presso l’editore Ricordi di Milano). Vd. Julian Budden, Puccini, traduzione di Gabriella Biagi Ravenni, Roma, Carocci Editore, 2005, ISBN 88-430-3522-3, pp. 458s.
Marco Capra (a cura di), Toscanini. la vita e il mito di un Maestro immortale, Milano, Rizzoli, 2017
Piero Melograni, Toscanini. La vita, le passioni, la musica, Milano, Mondadori, 2007.
Adriano Bassi, Arturo Toscanini, Collana I Signori della Musica, Milano, Targa Italiana, 1991
(EN) B.H. Haggin, Contemporary Recollections of the Maestro, Boston, Da Capo Press, 1989 (ristampa di Conversations with Toscanini e di The Toscanini Musicians Knew)
Harvey Sachs, Toscanini, Boston, Da Capo Press, 1978 (edizione italiana EDT/Musica, 1981). – Nuova ed. ampliata in pubblicazione nel giugno 2017.
(EN) Harvey Sachs, Reflections on Toscanini, Prima Publishing, 1993.
Arturo Toscanini, Lettere (The Letters of Arturo Toscanini. Compiled, edited and selected by Harvey Sachs, Knopf, 2002), traduzione di Maria Cristina Reinhart, a cura di Harvey Sachs, Milano, Il Saggiatore, 2017 [col titolo Nel mio cuore troppo d’assoluto: le lettere di Arturo Toscanini, Saggi Garzanti, 2003], ISBN978-88-428-2344-5.
Howard Taubman, The Maestro. The Life of Arturo Toscanini, Westport, Greenwood Press, 1977.
(EN) Joseph Horowitz, Understanding Toscanini. A Social History of American Concert Life, Berkeley, University of California Press, 1994.
(EN) Tina Piasio, “Arturo Toscanini”, in Italian Americans of the Twentieth Century, ed. George Carpetto and Diane M. Evanac, Tampa, FL, Loggia Press, 1999, pp. 376-377.
(EN) William E. Studwell, “Arturo Toscanini.” In The Italian American Experience: An Encyclopedia, ed. S.J. LaGumina, et al., New York, Garland, 2000, pp. 637-638.
una mostra per celebrare il centenario di Marcello Mastroianni
A Castel Sant’Angelo a Roma è in programma la mostra Marcello Mastroianni. Ieri, Oggi, Sempre, dal 12 ottobre 2024 al 12 gennaio 2025. La mostra, dedicata al centenario della nascita di Marcello Mastroianni (Fontana Liri, 1924 – Parigi, 1996), rappresenta un evento ufficiale della diciannovesima Festa del Cinema di Roma ed è un appuntamento imperdibile per gli appassionati del cinema italiano e della fotografia d’autore. L’esposizione presenta una straordinaria raccolta di fotografie che ripercorrono la carriera e la vita di uno dei più grandi protagonisti del cinema italiano, simbolo della Dolce Vita.
Promossa dall’istituto Pantheon e dalla Direzione dei Musei Nazionali della città di Roma del Ministero della Cultura, la mostra è curata da Gian Luca Farinelli, Direttore della Cineteca di Bologna, con il patrocinio della Regione Lazio. È organizzata da Civita Mostre e Musei in collaborazione con la Fondazione Cinema per Roma, la Cineteca di Bologna, l’Archivio Storico dell’Istituto Luce, la Biblioteca Museo Teatrale SIAE, la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, Rai Teche e con il supporto di archivi privati. La mostra offre un viaggio visivo nella storia del cinema italiano attraverso l’obiettivo di noti fotografi, che hanno catturato momenti sia intimi che pubblici della vita del grande attore. Con 100 fotografie per celebrare i suoi 100 anni, l’esposizione si propone di esplorare i momenti più iconici e significativi della vita di Marcello Mastroianni, figura che ha rappresentato il cinema italiano nel mondo. Le immagini in mostra metteranno in luce le molteplici sfaccettature dell’attore, non solo attraverso i suoi ruoli cinematografici più celebri, ma anche nella sua vita privata, lontano dai riflettori, cercando di rivelare i meccanismi dietro le quinte attraverso un percorso coinvolgente e interattivo. Il percorso espositivo si articola su due temi principali: il primo si concentra su momenti salienti delle riprese e degli spettacoli; il secondo, presenta un’analisi dell’uomo Marcello Mastroianni, approfondendo la sua personalità e narrando la sua storia.
“Castel Sant’Angelo si conferma ancora una volta un punto di riferimento fondamentale per l’incontro e il dialogo tra diversi linguaggi e discipline, con le sue mostre che spaziano dalla fotografia, all’arte, all’archeologia, al cinema. Quello che oggi si inaugura è un progetto corale, di collaborazione tra una pluralità di istituzioni, dedicato a una figura iconica della cultura italiana e internazionale, in un luogo altrettanto simbolico per il nostro patrimonio”, evidenzia MassimoOsanna, Direttore generale Musei.
“L’obiettivo della mostra ‘Ieri, Oggi, Sempre’ non è solo commemorare attraverso la fotografia uno dei più grandi personaggi del cinema italiano e mondiale, ma valorizzare gli aspetti della sua vita e della sua arte che non sono conosciuti e ciò che – dopo cento anni dalla sua scomparsa – ha rappresentato per la nostra società e il nostro sistema culturale. L’esposizione è frutto di uno sforzo istituzionale comune volto all’esaltazione di quella naturalezza malinconica e umanità ironica che hanno scritto la storia della cultura italiana del secondo Novecento e che lo hanno fatto amare dagli italiani come uno di loro. Da sempre sosteniamo iniziative come questa”, afferma FedericoMollicone, Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati.
“Nel paese dei mostri sacri e degli istrioni, Mastroianni ha saputo diventare la presenza più umana e carismatica, il divo più internazionale, coltivando uno stile nell’ombra, senza eccessi, senza abusi, preferendo le inflessioni interiori. Anche per questo non lo si può confondere con nessun altro, né lo si può dimenticare. La sua silhouette così discreta, senza parole inutili, così autoironica, ha portato nel mondo intero un’idea della nostra civiltà, della nostra cultura, che ben pochi altri hanno saputo offrire con la stessa eleganza”, dichiara Gian Luca Farinelli, curatore della mostra.
Pier Paolo PASOLINI-“La terra di lavoro” da:” Le Ceneri di Gramsci”-
-La terra di lavoro da:. Le Ceneri di Gramsci
Questo è l’ultimo degli undici poemetti che costituiscono “Le ceneri di Gramsci” di P.P.Pasolini, considerato se non il suo capolavoro, uno dei libri più letti per la virulenza dei versi che raggiungono nei testi portanti vertiginose altezze poetiche.
Colpisce il pathos, affiora l’immagine del quadro di Daumier “Il vagone di terza classe” ma gli sguardi di quegli emarginati che si vergognano della loro povertà, vissuta come una colpa, non sono un’immagine descrittiva fine a se stessa. Non sfugge a Pasolini la dolorosa scoperta dello schiacciamento delle masse popolari da parte del potere, vittime di una società che in quei primi anni ’50 si sta delineando nelle sue forme aberranti di privilegio e di esclusione
E questi versi di denuncia non sono altro che il suo bisogno di raccontare le deformazioni della realtà sottraendosi alla logica perversa di una società corrotta e servile.
[…]
Dentro, nel treno
che corre mezzo vuoto, il gelo
autunnale vela il triste legno,
gli stracci bagnati: se fuori
è il paradiso, qui dentro è il regno
dei morti, passati da dolore
a dolore – senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,
eccoli con il mento sul petto,
con le spalle contro lo schienale,
con la bocca sopra un pezzetto
di pane unto, masticando male,
miseri e scuri come cani
su un boccone rubato: e gli sale
se ne guardi gli occhi, le mani,
sugli zigomi un pietoso rossore,
in cui nemica gli si scopre l’anima.
Ma anche chi non mangia o le sue storie
non dice al vicino attento,
se lo guardi, ti guarda con il cuore
negli occhi, quasi, con spavento,
a dirti che non ha fatto nulla
di male, che è un innocente…
[…]
in una gioia ch’è forse conservata
– come una scheggia dell’altra storia,
non più nostra – in fondo al cuore
di questi poveri viaggiatori:
vivi, soltanto vivi, nel calore
che fa più grande della storia la vita.
Tu ti perdi nel paradiso interiore,
e anche la tua pietà gli è nemica.
Opera pittorica allegata è di Honoré Daumier – Il vagone di terza classe
Giuseppe Clericetti -CAMILLE SAINT-SAËNS- Il Re degli spiriti musicali-
Zecchini Editore Varese
Il 16 dicembre 1921, alle 22.30, dopo una giornata di lavoro e studio, Camille Saint-Saëns si spegne nel suo letto, ad Algeri.
Dal libro di Giuseppe Clericetti, “Camille Saint-Saëns. Il Re degli spiriti musicali”:
In una lettera del 1914 a Gabriel Renoud, Saint-Saëns ammette che il suo animo ha subito duri colpi: ma non gli hanno tolto la fede, «l’avevo già persa». Il Nostro si riferisce verosimilmente al momento della perdita dei suoi due figli, nel 1878. In un’altra lettera dell’epistolario con Gabriel Renoud, Saint-Saëns parla esplicitamente del suo credo:
«[…] È stata una crisi terribile, una lacerazione orribile; capisco bene che molti rifiutano questa lotta! Ci si accontenta di una religiosità vaga; si recita il Credo senza riflettervi, senza vedere le impossibilità che esso enuncia a ogni parola, ed è così che vivono i nove decimi dei cristiani, rimettendosi al prete per farsi spiegare i dogmi che egli non spiega, il dogma essendo per definizione incomprensibile all’intelligenza umana… Quando scrivo musica religiosa mi metto volontariamente in questo stato di religiosità vaga, nel quale vive la maggioranza dei fedeli, ciò mi permette di scriverla in tutta sincerità».
Ciononostante la chiesa si approprierà dell’immagine post mortem di Saint-Saëns: la fotografia ufficiale del compositore sul suo letto di morte lo mostra con un crocifisso in grembo.
La Società Astronomica di Francia commenta le esequie religiose solenni: «il suo animo non credente ne ha riso».
CAMILLE SAINT-SAËNS
Visionario, artigiano, sperimentatore.
VIII+292 – f.to cm. 17×24 – Illustrato – Euro 37,00
Su Camille Saint-Saëns possiamo scoprire (quasi) tutto grazie ai due volumi di Giuseppe Clericetti, tanto diversi quanto insostituibili su un compositore considerato uno dei massimi rappresentanti dell’arte musicale del XIX secolo.
“Il Re degli spiriti musicali” costituisce il primo studio pubblicato in Italia su Saint-Saëns ed è articolato in due parti: una prima sezione presenta la biografia del compositore e la seconda parte è dedicata ai suoi scritti; il libro è completato dall’elenco delle sue composizioni, la bibliografia, l’indice dei nomi e una serie di preziose fotografie e illustrazioni.
Il secondo volume, “Visionario, artigiano, sperimentatore”, investiga i suoi poemi sinfonici che inaugurano il genere su territorio francese, il prezioso corpus delle 127 mélodies, i numerosi nessi con la musica di Mozart, i curiosi autoimprestiti, la prima partitura d’autore dedicata all’accompagnamento musicale in àmbito cinematografico, per finire con un esercizio di confronti interpretativi sulle prime registrazioni di Samson et Dalila.
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