Pescara-Personale di Gino Berardi al Museo delle Genti d’Abruzzo
Gino Berardi al Museo delle Genti d’Abruzzo
Pescara- 9 dicembre 2024- Personale di Gino Berardi al Museo delle Genti d’Abruzzo-Ha attraversato e reinterpretato le correnti artistiche del Novecento, spaziando dall’impressionismo all’arte astratta: con la personale che sarà inaugurata giovedì prossimo, 12 dicembre, nelle sale del Museo delle Genti d’Abruzzo, Gino Berardi ripercorre il suo percorso creativo costruito attraverso uno studio del colore e un utilizzo della materia in continua evoluzione. Le sue opere si caratterizzano per un forte impatto visivo e una vibrante suggestione cromatica, che catturano l’essenza delle esperienze vissute e la restituiscono come frutto di una interiorità profonda e di una spiccata sensibilità artistica. La mostra “Dall’Impressionismo all’Astratto” rappresenta un’occasione unica per esplorare la crescita e la proiezione stilistica di Berardi. Le sue prime opere, caratterizzate da paesaggi e marine di chiara ispirazione impressionista, si trasformano gradualmente in composizioni astratte ed informali, in cui il colore e la forma si intrecciano in un dialogo continuo. La mostra offre la possibilità di immergersi in un universo visivo ricco di emozioni, in cui il passato e il presente convivono in armonia. Le opere di Berardi, attraverso un linguaggio visivo unico, raccontano di un’artista che non teme di esplorare nuove frontiere, mantenendo sempre una connessione con l’esperienza umana e il mondo che lo circonda. Con la forza del colore riesce a rendere palpabile l’energia e la vitalità del suo tempo, esprimendo una gioia di vivere che si manifesta attraverso ogni pennellata.
Gino Berardi al Museo delle Genti d’Abruzzo
Il curatore della mostra, Gennaro Petrecca, ricorda nella sua presentazione che l’arte di Berardi “sfida le convenzioni e invita a una riflessione profonda su ciò che è visibile e ciò che è suggerito.”
La mostra sarà inaugurata giovedì 12 dicembre alle ore 17 e resterà aperta al pubblico fino al 12 gennaio con orario lunedì – venerdì: 9-13; sabato e domenica 16-20.
Roma Municipio XI-Natale 2024 e il “Concerto per Ludo”
Roma Municipio XI-Natale 2024-Sono ormai vari giorni che a Vigna Pia, come in tutta Roma, le luminarie rendono il quartiere colorato e più allegro, soprattutto in questo periodo in cui stare allegri non è sempre facile. Anche quest’anno, come un segnalibro o un inciso sottolineato, ci sarà il Concerto per Ludo che ci accompagnerà verso il Natale. Il Concerto per Ludo vuole essere un ricordo in musica di una ragazza che ora è una dolce Poesia astratta .Il Concerto “Melodie di Natale” con l’esibizione del coro “Lost On Friday” sarà, si spera, un modo di allontanare la polvere dai nostri ricordi più cari. Il concerto è un tassello che contribuisce alla costruzione del “Mosaico collettivo” che si fa “concretezza” in una borsa di studio in memoria di Ludo-
Ludovica Dell’Atti
Borsa di studio in memoria di Ludovica Dell’Atti
I genitori, la sorella, le amiche, gli amici e tutti i cari di Ludovica desiderano ricordare Ludovica Dell’Atti scomparsa prematuramente nel dicembre del 2022, mettendo a disposizione una borsa di studio per un programma scolastico annuale negli USA rivolta a studenti meritevoli iscritti al concorso di Intercultura della provincia di Roma.
Ludovica aveva compiuto da poco 17 anni e sognava di passare un anno negli USA da quando aveva iniziato il liceo linguistico. Ludovica amava l’inglese e pur non avendo frequentato corsi specifici aveva una buonissima padronanza di linguaggio, adorava mettersi alla prova parlando con dei veri madrelingua.
Attraverso lo spirito del viaggio vorremmo ricordarla ogni anno dedicandole una borsa di studio che permetta ad un ragazzo di viaggiare con lo stesso entusiasmo.
Il tuo contributo potrà aiutare a portare avanti il suo sogno!
Coro Lost on Friday
Notizie- Il Coro Lost on Fridaynasce nel gennaio 2010 dalla volontà dei componenti di riunirsi insieme cantando, sotto la guida del M° Rita Stocchi e con il valido accompagnamento al a. Da allora il coro ha intrapreso un’intensa attività concertistica, con un repertorio principalmente legato al gospel e allo spiritual, e si è esibito per beneficenza in numerose Basiliche romane, registrando un crescente consenso da parte del pubblico. Ha inoltre tenuto concerti presso il Teatro Angerosa del carcere circondariale di Rebibbia a Roma e ha partecipato in diretta, nel febbraio del 2014, al programma televisivo “La canzone di noi” su Tv2000. Il nome Lost on Friday (Persi di venerdì) nasce dal nostro giorno di prove e dal fatto che in quella sera non c’è possibilità di trovarci altrove se non a cantare nelle sale della Parrocchia di Santa Melania Juniore che gentilmente ci ospita. Il nostro logo ci rispecchia: un gruppo di persone unite, pur restando ciascuno con la propria individualità. Il loro numero, 13, riprende quello delle note in un’ottava, ma in realtà noi siamo molti di più: il coro si compone attualmente di una quarantina di persone. Le offerte raccolte durante i concerti sono elargite in opere umanitarie gestite dai responsabili dei siti dove si tengono le esibizioni. Ha al suo attivo negli ultimi anni la partecipazione a molteplici esibizioni a scopo benefico, tra cui ci piace ricordare quello nel 2022 presso la Basilica di Santa Francesca Romana in occasione del concerto organizzato dall’associazione Misioneros del Camino.Il Coro è attualmente diretto dal M° Fabrizio Adriano Neri.
Natale 2024 e il “Concerto per Ludo”
Il Concerto per Ludo “Melodie di Natale”-Coro LostOnFriday- al pianoforte Antonio Cama-Dirige il Maestro Fabrizio Adriano Neri.
Appuntamento venerdì 20 dicembre 2024-Ore 20:30
Parrocchia – Sacra Famiglia al Portuense
via Filippo Tajani, 10-Roma Municipio XI-
Offerta libera e consapevole per la borsa di studio in memoria di Ludovica
Musiche di Pëtr Il’ič Čajkovskij (op. 71)- L’International Classic Ballet-
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Roma- Teatro Olimpico- LO SCHIACCIANOCI- con musiche di Pëtr Il’ič Čajkovskij (op. 71), L’International Classic Ballet, fondato a Madrid nei primissimi anni del duemila, ha raccolto intorno a sè alcuni tra i più talentuosi professionisti del balletto clssico della scena internazionale.
. Roma- Teatro Olimpico- LO SCHIACCIANOCI- con musiche di Pëtr Il’ič Čajkovskij (op. 71)
Un ensemble di trenta ballerini provenienti da tutto il mondo, traducono, per il grande pubblico, il repertorio classico nella sua accezione più pura con la grazia espressiva che le coreografie del Novecento richiamano.
“𝗨𝗡𝗔 𝗦𝗖𝗘𝗟𝗧𝗔 𝗔𝗨𝗗𝗔𝗖𝗘
𝗖𝗛𝗘 𝗛𝗔 𝗖𝗢𝗡𝗤𝗨𝗜𝗦𝗧𝗔𝗧𝗢 𝗟𝗘 𝗣𝗟𝗔𝗧𝗘𝗘 𝗣𝗜𝗨’ 𝗣𝗥𝗘𝗦𝗧𝗜𝗚𝗜𝗢𝗦𝗘
𝗘 𝗟𝗘 𝗔𝗡𝗜𝗠𝗘
𝗣𝗜𝗨’ 𝗔𝗙𝗙𝗘𝗦𝗜𝗢𝗡𝗔𝗧𝗘 𝗔𝗟 𝗕𝗔𝗟𝗟𝗘𝗧𝗧𝗢 𝗖𝗟𝗔𝗦𝗦𝗜𝗖𝗢
𝗗𝗜 𝗧𝗨𝗧𝗧𝗔 𝗘𝗨𝗥𝗢𝗣𝗔”
.
𝗦𝗽𝗲𝘁𝘁𝗮𝗰𝗼𝗹𝗶
giovedì 5 dicembre ore 20.30
venerdì 6 dicembre ore 20.30
sabato 7 dicembre ore 16.30
sabato 7 dicembre ore 20.30
domenica 8 dicembre ore 17.30
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𝗗𝗔𝗧𝗘 𝗘 𝗢𝗥𝗔𝗥𝗜 𝗦𝗣𝗘𝗧𝗧𝗔𝗖𝗢𝗟𝗜
𝗦𝗽𝗲𝘁𝘁𝗮𝗰𝗼𝗹𝗶
giovedì 5 dicembre ore 20.30
venerdì 6 dicembre ore 20.30
sabato 7 dicembre ore 16.30
sabato 7 dicembre ore 20.30
domenica 8 dicembre ore 17.30
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𝗣𝗥𝗘𝗭𝗭𝗢 𝗕𝗜𝗚𝗟𝗜𝗘𝗧𝗧𝗢
Da € 18,00 a € 46,00 (escluso diritto di prevendita)
Čajkovskij compose le musiche del balletto tra il 1891 e il 1892. La prima rappresentazione, che ebbe luogo il 18 dicembre 1892 presso il Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, Russia, fu diretta interamente dal compositore italianoRiccardo Drigo e coreografata dal ballerino russo Lev Ivanov; questa esecuzione tuttavia non riscosse successo.[1] Tra gli interpreti di questa prima esecuzione spiccano l’italiana Antonietta Dell’Era, nel ruolo della Fata Confetto, il russo Pavel Gerdt come Principe Coqueluche, una giovanissima Ol’ga Preobraženskaja nella parte di Colombina e il giovane Nicolaj Legat. Il ruolo di Clara era interpretato da una bambina della scuola di ballo del Teatro Mariinskij.
La suite, estremamente popolare in sede concertistica, fu realizzata nell’agosto 1892 dal musicista stesso, che a differenza degli altri due propri balletti, per i quali non era convinto a creare una suite, lo fece su invito come “anteprima” della prossima realizzazione, addirittura quando non era stata ancora iniziata l’orchestrazione integrale del balletto (i primi numeri furono proprio quelli della Suite).[2] La diresse personalmente a San Pietroburgo il 7 marzo 1892, un esito trionfale. La Suite dura una ventina di minuti, utilizzando lo stesso organico dell’opera ballettistica.[3]
Una novità in quest’opera è la presenza di uno strumento che fu visto dal compositore a Parigi: la celesta. Čajkovskij lo volle assolutamente inserire nell’organico strumentale e lo aggiunse in alcuni passaggi del secondo atto: Scene iniziali, Passo a due (Danza della Fata Confetto) e Apoteosi con associazione al personaggio della Fata. Lo strumento venne usato da Čajkovskij anche nel proprio poema sinfonico Il Voevoda, op. 78, contemporaneo al balletto. Prima di lui, in assoluto, Charles-Marie Widor nel 1880. Il nostro musicista temeva che i suoi “rivali” russi potessero precederlo nell’utilizzo dello strumento.
Alcune versioni diverse
Dopo la prima esecuzione di Ivanov vanno ricordate quelle riviste da Aleksandr Gorskij nel 1919 e da Lopukhov nel 1929. Gorskij ha creato una sua versione del balletto per il Teatro Bol’šoj di Mosca, nella quale il ruolo di Clara è passato a una danzatrice adulta e quindi nel secondo atto al posto della Fata Confetto e il principe Coqueluche erano gli stessi Clara e Schiaccianoci a danzare il pas de deux. In seguito in Russia per molto tempo si è mantenuta la versione di Gorskij, come ad esempio nelle produzioni di Vasilij Vainonen del 1934 per il Teatro Kirov di Leningrado (già Mariinskij di San Pietroburgo) e quella di Jurij Grigorovič del 1966 per il Bol’šoj di Mosca. Nel giugno del 1934 ci fu il debutto europeo del balletto al Sadler’s Wells di Londra, riprendendo la coreografia di Ivanov. In Italia arrivò solamente quattro anni dopo, nel 1938, alla Scala di Milano, con la coreografia di Margherita Froman.
Gli anni successivi videro numerose versioni differenti del balletto, tra le quali quelle di Boris Romanov, Frederick Ashton e quelle di Nicholas Beriozoff. La rivisitazione più particolare fu quella di George Balanchine che nel 1954 decise di dividere il balletto in due parti, seguendo la trama originale: la realtà e il sogno. Questa versione è stata rappresentata dal New York City Ballet con il titolo George Balanchine The Nutcracker®.
Lo schiaccianoci è anche uno dei soggetti più rappresentati nelle scuole di ballo; una versione ad esempio è quella creata per la Scuola di Ballo dell’Accademia del Teatro alla Scala di Milano da Frederic Olivieri, rappresentata al Piccolo Teatro di Milano nel 2011 e nel 2012, un’altra invece per la Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma da Pablo Moret ed Ofelia Gonzalez rappresentata al Teatro Nazionale nel 2012 e nel 2013.
Lo schiaccianoci moderno
Lo schiaccianoci è stato ripreso più volte dal cinema, dal teatro e dallo sport.
Un esempio cinematografico è il film Fantasia di Walt Disney, in cui fate, funghi, pesci, fiori, cardi e orchidee danzano al ritmo dello Schiaccianoci: la partitura musicale di Čajkovskij è stata riproposta fedelmente. Il balletto originale dura solamente novanta minuti, quindi è più breve rispetto al Lago dei cigni o a La bella addormentata. In queste rappresentazioni i compositori omettono brani, li riordinano o addirittura aggiungono brani tratti da altre opere. Nel 1983 infatti, ne Lo schiaccianoci: fantasia su ghiaccio, un adattamento televisivo per uno spettacolo di pattinaggio su ghiaccio, le musiche originali sono state riordinate secondo un’altra scaletta e sono state aggiunte poi musiche di un altro compositore russo, Mikhail Ippolitov-Ivanov.
L’attuale popolarità de Lo schiaccianoci è in parte dovuta a Willam Christensen, fondatore della compagnia San Francisco Ballet, che importò il lavoro negli Stati Uniti nel 1944. Il successo del balletto e la coreografia di George Balanchine per la sua prima rappresentazione nel 1954 creò una vera e propria tradizione invernale nelle rappresentazioni dell’opera negli Stati Uniti.
Lo schiaccianoci ebbe anche una parodia sul settimanale Topolino, pubblicata nel 1988 con protagonista Minni, Minni e il re dei topi: la storia ha la particolarità che i ruoli dello Schiaccianoci e del Re dei Topi sono invertiti, con il primo nella parte del cattivo e il secondo in quella del buono.[4]
Nel 1990 viene realizzato un lungometraggio d’animazione intitolato: La favola del principe schiaccianoci ispirato alla favola di E. T. A. Hoffmann Schiaccianoci e il re dei topi, con le musiche originali del celebre balletto. Nel 1993 il regista Emile Ardolino produce una versione cinematografica del balletto sulla base della coreografia di George Balanchine, intitolata George Balanchine The Nutcracker® con Macaulay Culkin nel ruolo dello Schiaccianoci. Il film si distingue per essere una ripresa dell’esibizione in teatro del balletto ad opera del corpo di ballo del New York City Ballet, con le musiche originali di Čajkovskij e una voce narrante affidata in Italia ha Michele Kalamera come uniche parti audio. Al 2001 risale il film d’animazione Barbie e lo schiaccianoci (tit. orig. Barbie in the Nutcracker), che ripropone la storia e le musiche del balletto. Nel 2007 uscì il film d’animazione Tom & Jerry e la favola dello schiaccianoci (titolo originale Tom and Jerry: A Nutcracker Tale).
Un film ungherese-britannico in lingua inglese del 2010 è stato firmato dal regista russo Andrej Končalovskij, intitolato Lo schiaccianoci (tit. orig. The Nutcracker in 3D). Si tratta di un “fantasy” che utilizza sia la musica del balletto, sia altre composizioni di Čajkovskij (come la Quinta Sinfonia), per gli arrangiamenti di Eduard Artemiev e Tim Rice (canzoni). Il film ha ricevuto grandi critiche negative all’estero[5] ed addirittura un Premio per Peggior uso del 3D nella trentunesima edizione 2010 del Razzie Awards 2010, svoltasi il 26 febbraio 2011, che ad Hollywood premia i peggiori film dell’anno. In Italia è uscito il 2 dicembre 2011 con altrettanto insuccesso.
Il 2 novembre 2018 la Disney ha distribuito nelle sale una libera trasposizione cinematografica del romanzo, nel quale vennero riprese anche parti delle musiche del balletto originale. Il titolo del film, diretto da Lasse Hallström, Lo schiaccianoci e i quattro regni, ha tra gli interpreti Keira Knightley nel ruolo della Fata Confetto, Morgan Freeman in quello di Drosselmeyer, Helen Mirren nella parte di Madre Cicogna e la giovane Mackenzie Foy nel ruolo della protagonista Clara. Sono inoltre presenti i celebri ballerini Misty Copeland e Sergei Polunin per le scene di ballo.[6]
La trama del libretto dunque si basa sulla versione del medesimo racconto elaborata da Alexandre Dumas (Storia di uno schiaccianoci), dal tono più leggero. Qui verrà analizzata la versione originale del balletto, quella di Ivan Vsevoložskij e Marius Petipa.
Atto I
Durante la vigilia di Natale, agli inizi del XIX secolo, il signor Stahlbaum, in Germania, allestisce una festa per i suoi amici e per i loro piccoli figli.
Questi, in attesa dei regali e pieni di entusiasmo, stanno danzando quando arriva il signor Drosselmeyer, lo zio di Clara e Fritz, che porta regali a tutti i bambini, intrattenendoli con giochi di prestigio, nonostante all’inizio incuta paura ai bambini.
Alla sua nipote prediletta Clara regala uno schiaccianoci a forma di soldatino che Fritz, il fratello della bambina, rompe per dispetto. Ma Drosselmeyer lo ripara per la gioia della bambina.
Arrivano alla festa anche gli altri parenti e amici che si uniscono ballando con gioia. Clara, stanca per le danze della serata, dopo che gli invitati si ritirano, si addormenta sul letto e inizia a sognare. È mezzanotte e tutto intorno a lei inizia a crescere: la sala, l’albero di Natale, i giocattoli e soprattutto una miriade di topi che cercano di rubarle lo schiaccianoci.
Clara tenta di cacciarli, quando lo Schiaccianoci si anima e partecipa alla battaglia con i soldatini di Fritz: alla fine rimangono lui e il Re Topo, che lo mette in difficoltà. Clara, per salvare il suo Schiaccianoci, prende la sua scarpetta e la lancia addosso al Re Topo, distraendolo; lo Schiaccianoci lo colpisce uccidendolo. Ed ecco che lo Schiaccianoci si trasforma in un Principe e Clara lo segue, entrando in una foresta innevata. L’Atto si chiude con uno splendido Valzer dei fiocchi di neve.
Atto II
I due giovani entrano nel Regno dei Dolciumi, dove al Palazzo Reale li riceve la Fata Confetto e il principe Coqueluche, che presentano loro la corte del castello. Schiaccianoci racconta come la sua battaglia con il re dei Topi si sia conclusa felicemente grazie all’intervento di Clara, allora la fata organizza una festa in onore della fanciulla. Quindi tutti gli abitanti del palazzo si esibiscono in una serie di danze che compongono il Divertissement più conosciuto tra le musiche di Čajkovskij e culminano nel celeberrimo Valzer dei fiori.
Tra queste danze spicca in modo particolare il pas de deux (passo a due) della Fata Confetto con il Principe Coqueluche, in cui nella seconda variazione (Danza della Fata Confetto) si può riconoscere in modo eclatante il suono della celesta. A coronamento di questo passo a due tutti gli abitanti di quel posto fantastico si esibiscono in un gran divertissement coinvolgendovi anche Clara e Schiaccianoci, che alla fine vengono incoronati come nuovi sovrani del Regno dei Dolciumi. Quindi la Fata Confetto si inchina davanti a loro e dopo li conduce su di una slitta trainata da renne, che prende il volo tra i saluti di tutti.
Segue una festante apoteosi, rappresentata da uno sciame di api volanti attorno a un grande alveare.
Nella versione di Aleksandr Gorskij e in quelle successive che ne riprendono lo schema, il balletto si conclude con il risveglio di Clara accanto al suo schiaccianoci-soldatino e con una sua danza in ricordo del sogno che l’ha portata in un mondo ricco di avventure fantastiche.
Robert Creeley (Arlington, Massachusetts, 21 maggio 1926 – Odessa, Texas, 2 aprile 2005) Poeta statunitense, tra i maggiori esponenti della lirica postmoderna. Viaggiò in Europa e Asia vivendo per quarant’anni in Giappone, dove apprese la filosofia buddhista e lo zen. È spesso accostato ai poeti della Black Mountain, pur essendone lontano stilisticamente.
LE PIETRE
Cercando di pensare
ad una via d’uscita,
le pietre del pensiero
che spostano,
lanciate
in acqua,
molte altre cose.
Così la vita
è acqua, anche l’amore
ha una sostanza
simile.
Mancando
l’acqua una domenica
mattina Dio
non provvederà –
che sia mia moglie,
il suo calore
disteso
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al mio fianco, che sia questo
senso di calda
umidità la condizione
di ogni fioritura?
Lascia cadere
la pietra,
pensa bene, pensa
bene di me.
Robert Creeley
LA FINESTRA
La posizione esiste
dove la metti, dove si trova,
hai tu, per esempio,
quella grossa cisterna là,
argentata, con la chiesa bianca a fianco,
hai tu spostato tutto questo
e a quale scopo? Com’è pesante
il mondo monotono
con ogni cosa al suo posto.
Un uomo passa, una macchina accanto
nella strada che termina,
una foglia
gialla
sul punto di cadere.
Tutto
cade
al suo posto.
Il mio volto è pesante
a questa vista. Sento
l’occhio che si spezza.
Robert Creeley
PASSEGGIANDO
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Nella mia testa
passeggio, ma non sono
nella mia testa, dove si
può passeggiare
senza pensarlo, è forse
la strada stessa qualcosa
di più che veduto. Credo
potrebbe essere, sentire
come la sentono i miei piedi,
proseguire e alla fine
raggiungere, adagio,
uno scopo della mia intenzione.
IL LIMITE
Non posso
andare avanti
o indietro.
Sono preso
nel tempo
come limite.
Quello che pensiamo
pensiamo –
per nessun altro motivo
pensiamo se non per
pensare soltanto –
ciascuno per sé.
IL MECCANISMO
Se dovessimo cadere ora
alle nostre ostinate ginocchia
e sprofondare nel sonno, io
affondato nelle tue, allora
cosa ci terrebbe uniti
se non un peso
senza consistenza. Credi tu
nell’amore, e quanto.
Robert Creeley
“TENGO PER ME QUESTE MISURE…”
Tengo per me queste misure
che ho care,
di giorno in giorno le pietre
accumulano posizione.
Non esiste niente
se non ciò che il pensiero rende
meno tangibile. La mente,
per quanto veloce, rimane
indietro, vi sostituisce
come pietre semplici lapidi
solo per tornare
fiduciosa là dove
non può più. Tutto
oblia. La mia mente sprofonda.
Tengo tra le mani questo peso
è l’unico modo di descriverlo.
VARIAZIONI
L’amore esiste solo
così com’è l’amore. Questi
sensi ricreano
la loro definizione – una mano
trattiene in sé
ogni ragione. Gli occhi
hanno visto tanta bellezza
che si chiudono.
Ma prosegui. Così la voce
ancora, questi sensi ricreano
lo stato singolare provato
e provato ancora.
Ascolto. Ascolto
la mente che si chiude, la voce
che prosegue oltre,
le mani dischiuse.
Tenaci tengono
così strette soltanto se stesse,
sterili prese
di tale sensazione.
Ascolta, là dove
gli echi sono più
intensi, più luminosi,
sensazioni di suono
che si svelano e si celano
non più soltanto di amore, l’intenzione della mente,
la visione degli occhi, le mani che si stringono –
spezzati in echi, questi sensi ricreano
la loro definizione. Sento che la mente
si chiude.
Robert Creeley
QUALCHE POSTO
L’ho risolto, ho trovato
nella vita un centro
e me lo sono assicurato.
È la casa,
gli alberi al di là,
una vista limitata la racchiude.
Il tempo
la raggiunge
solo come in forma di vento, un breve
soffocato respiro. E se
la vita non lo raggiungesse?
Quando dovesse accadere
qualcosa, me l’ero assicurata,
proprio io, proprio,
insistendo.
Non c’è nulla che io sia,
nulla che non sia. Un luogo
in mezzo, io esisto. Sono
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più del pensiero, meno
del pensiero. Una casa
con venti ma una distanza
– qualcosa di sciolto al vento,
la sensazione del tempo come di quella esistenza,
sentieri verso le luci che lui ha abbandonato.
PAROLE
Sei sempre
con me,
non esiste
un luogo
separato. Ma se
nel luogo
tormentato
non posso parlare,
non solo indulgenza
o timore
ma una lingua
guasta
da ciò che gusta –
Esiste una memoria
di acqua,
di cibo quando uno ha fame.
Un giorno
e non sarà questo
allora dirò
parole
come chiari, bellissimi
filtri di cenere,
come polvere
da un luogo inesistente.
UNA PREGHIERA
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Benedici
una cosa piccola
ma infinita
e quieta.
Vi sono sensi
che creano un oggetto
col loro semplice sentirlo.
10 poesie di Robert Creeley tratte da “Parole” (dal libro “Per amore”, edizione italiana di Mondadori, 1971, traduzione di Perla Cacciaguerra, introduzione di Agostino Lombardo)
VALENTINA PER TE
*
Da dove, fino dove
il pensiero da fare –
Da dove, per dove
persino i significati ora mentono
Come, dove
queste speranze di riconciliare il cielo –
Anche la strada cambia
senza di te, anche il giorno.
Robert Creeley
Robert Creeley (Arlington, Massachusetts, 21 maggio 1926 – Odessa, Texas, 2 aprile 2005) Poeta statunitense, tra i maggiori esponenti della lirica postmoderna. Viaggiò in Europa e Asia vivendo per quarant’anni in Giappone, dove apprese la filosofia buddhista e lo zen. È spesso accostato ai poeti della Black Mountain, pur essendone lontano stilisticamente.
Roma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco Leggeri-
Torretta di Porta Pertusa
Nota -Fotoreportage di Franco Leggeri,la Torretta di Poerta Pertusa si trova a Roma ,sulla via Aurelia vicino al Vaticano di fronte all’ingresso dell’Ospedale San Carlo di Nancy, esisteva una sola foto in B/N. risalente agli anni 1940.
La storia in beve-Il Tomassetti parla di questa Torretta e la chiama “torretta nei pressi di Porta Pertusiam…(1)”. Il Tomassetti cita gli Atti Capitolini e citazioni della Camera Apostolica.
Questa Torretta è l’ultima delle torri di avvistamento della via Aurelia immediatamente a ridosso , linea d’aria (100/150 metri) dalle mura vaticane proprio di fronte a Porta Pertusa in posizione strategica sopra a Via Baldo degli Ubaldi in posizione dominante Valle Aurelia e Valle del Gelsomino-Via Gregorio VII. Dalla Torretta era possibile vedere Villa Carpegna e la Torre Rossa,oggi non più esistente ma ricordata dalla via omonima (poi è stato scoperto che Torre Rossa è in essere e pubblicherò foto e storia..).La Torretta ha una altezza di circa 7 m. La base di 3 m. circa.
La torretta si trova all’interno della Villa Pacelli in via Aurelia civ. 290 di fronte all’ospedale San Carlo . Nel 1947 Pio XII donò la villa Pacelli alla Congregazione Oblati di Maria Immacolata che ancora la possiedono , la villa è sede Generalizia della Congregazione.
Per le foto si ringrazia Monsignor Gilberto Pinon Gaytàn- Padre Generale della Congregazione Oblati di Maria Immacolata che mi ha ricevuto e mi ha permesso di scattare le foto . Per ultimo allego anche la foto in B/N del 1940-
(1)- Durante la Repubblica Romana del 1849 i francesi cercarono, ma invano, di aprirla per attaccare Garibaldi il quale aveva piazzato l’artiglieria repubblicana nei giardini vaticani.
È strutturata su tre aperture: due accessi secondari posti ai lati del portale principale, contornato da un maestoso bugnato. Attualmente è murata, e si trova su viale Vaticano, vicino alla via omonima, in corrispondenza del torrione di San Giovanni (restaurato da papa Giovanni XXIII che vi risiedette negli ultimi tempi del suo pontificato) che costituisce il baluardo sud-occidentale delle originali mura leonine.
L’epoca di edificazione, come anche per la porta Cavalleggeri, è alquanto controversa. Come l’altra, sembra dover risalire al tempo del rientro dei papi dalla cattività avignonese, quindi verso la fine del XIV secolo, quando i pontefici, di ritorno a Roma da Avignone con un consistente seguito, fissarono definitivamente la loro dimora in Vaticano (abbandonando la precedente residenza del Laterano) e le tre aperture delle mura leonine[1] si rivelarono insufficienti a soddisfare le esigenze del conseguente incremento demografico ed edilizio. Venne aperta forando le mura originarie, da cui il nome, e sembra dovesse servire solo per un utilizzo da parte della Curia e non per il traffico cittadino. Stefano Piale, basandosi sul fatto che non ne esistono menzioni precedenti all’umanista Flavio Biondo, ritiene che fu aperta dall’antipapa Giovanni XXIII, facendola quindi risalire al primo quarto del XV secolo. Di contro, potrebbe invece esserci un riferimento in un documento del 1279.
Praticamente nessuna citazione fa riferimento alla posterula situata poco oltre la porta, della quale esiste una sola testimonianza che la definisce “porta Palatii”.
Il restauro più consistente, insieme a quello dell’intero tratto occidentale di mura, sembra si possa far risalire a papa Pio IV, nel 1565, che però non vide la fine dei lavori, sebbene presso la porta sia stata apposta, in memoria, una lapide con lo stemma dalla sua casata, i Medici.
Fu probabilmente chiusa e riaperta in varie occasioni, di una sola delle quali però si ha notizia, poiché un documento del 1655 riferisce che fu aperta per l’arrivo a Roma della regina Cristina di Svezia[2].
Roma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco Leggeri
Traduzione di Salvatore Quasimodo-Illustrazioni di Renato Guttuso –
Einaudi editore-20 febbraio 1952 (prima edizione)
PABLO NERUDA – Poesie. Traduzione di Salvatore Quasimodo. Illustrazioni di Renato Guttuso. Torino, Einaudi editore, 1952 (20 Febbraio).-Cm. 22, pp. 169 (7). Con 5 suggestive tavole a piena pagina f.t. ed una piccola illustrazione n.t. di Renato Guttuso. Bella brossura editoriale illustrata dallo stesso Guttuso. Trascurabili segni del tempo. Esemplare nel complesso ben conservato. Importante traduzione italiana delle poesie di Pablo Neruda curata da Salvatore Quasimodo. Ricercata prima edizione seguita da molte ristampe identiche per forma e contenuto. Cfr. Iccu; Galati (1980): cita erroneamente il 1965 come data per la prima edizione italiana.
Pablo Neruda
Biografia di Pablo Neruda
Pablo Neruda, Pseudonimo del poeta cileno Ricardo Neftalí Reyes Basoalto (Parral 1904 – Santiago 1973). Premio Nobel per la letteratura nel 1971, N. è considerato una delle voci più autorevoli della letteratura contemporanea latino americana, per la sua sensibilità acuta ma non preziosa, ricchissima d’immagini ma non complicata. È stato testimone di molti degli eventi cruciali che hanno segnato il XX secolo: dalla guerra civile spagnola alla guerra fredda, dai movimenti di liberazione in America Latina alla morte di S. Allende. La sua opera poetica comprende un’impressionante antologia di testi fra i più alti della poesia moderna di lingua spagnola, sostenuti da un prodigioso dono di «canto» che si articola nelle strutture musicali più disparate, con una costante sperimentazione linguistica e metrica, sui temi congeniali dell’amore, del paesaggio natale e delle speranze collettive.
Vita
Di origini modeste, frequentò il liceo di Temuco e l’univ. di Santiago, dove nel 1921 si mise in mostra vincendo una gara poetica con La canción de la fiesta. Nominato console in India nel 1926, iniziò una brillante carriera diplomatica che gli dette modo di maturare le sue esperienze con continui viaggi e incontri. Stabilitosi in Spagna nel 1934, sempre al seguito dell’ambasciata cilena, si legò subito con il gruppo repubblicano di R. Alberti, F. García Lorca, M. Hernández e dette vita, sulle colonne della rivista da lui stesso fondata, El caballo verde para la poesía, a una vivace polemica con J. R. Jiménez. La guerra civile, il suo temperamento drammatico e, non ultima, la morte di Lorca e di Hernández, lo spinsero sempre più a precisi impegni politici che tanta parte hanno avuto poi nella sua vita e in tutta la produzione posteriore. Dopo ancora qualche anno di servizio diplomatico, nel 1944 N. tornò in Cile, e fu eletto senatore; ma un’accusa di tradimento lo costrinse ben presto a esulare in Messico, da dove compì lunghi viaggi in Europa (Parigi, Polonia, Ungheria). Nel 1949 presiedette a Città di Messico il congresso mondiale dei Partigiani della pace. Nel 1951 visitò l’Italia e la Cina. Nel 1952 fu ancora in Italia, da dove venne espulso come straniero indesiderabile. Tuttavia, a seguito di un movimento d’opinione pubblica, il decreto fu revocato, e N. poté trascorrere un lungo periodo a Capri. Nel 1953 tornò in patria, nel suo rifugio di Isla Negra presso Valparaíso. Con l’avvento alla presidenza della Repubblica di S. Allende (1970), fu nominato ambasciatore a Parigi. Nel 1972, gravemente malato, tornò in Cile, mentre il governo Allende era in crisi. Nel 1973, quando ormai la minaccia del colpo di stato militare era incombente, N. seguì Allende sul cammino della morte, mentre la dittatura di Pinochet s’instaurò in tutto il paese.
Opere
Trovatosi a scrivere negli anni in cui l’opera di R. Darío dettava legge in tutta l’Ispano-America, N. non aveva potuto fare a meno di allinearsi con le tendenze moderniste, benché la sua ispirazione fosse già orientata verso altre strade. Uscito finalmente dal pericoloso equivoco tra il 1924 e il 1935, e avendo raggiunto una notevole maturità espressiva, poté dare sfogo alla sua originalità, divenendo, in breve tempo, il maggior rappresentante degli anti-modernisti. Il sentimento riacquista allora l’importanza che l’esasperato formalismo gli aveva negato e la personalità intensa e drammatica del poeta si fa luce con versi che sembrano scritti, come disse Lorca, «più che con l’inchiostro, con il sangue». La società borghese, giudicata corrotta e ipocrita, è presa continuamente di mira con attacchi violenti alle convenzioni, ai sentimenti codificati, all’ordine costituito, mentre, con immagini grottesche, se ne sviliscono i suoi sacerdoti. Dal 1940 N., ormai marxista convinto, si dedica quasi esclusivamente alla poesia sociale e alla lotta politica: il dolore, l’umiliazione, la speranza sono i temi ricorrenti di questa nuova produzione, accompagnati da una vena di profondo calore umano che riesce a smorzare i toni marcatamente propagandistici e a dare spesso pagine d’intensa poesia. Tra le sue opere principali si ricordano: Crepusculario (1923), Veinte poemas de amor y una canción desesperada (1924), Tentativa del hombre infinito (1926), Residencia en la tierra (1933; 2a ed., con l’aggiunta di un 2º vol. contenente le liriche composte dopo il 1931, 1935), España en el corazón (1937), Tercera residencia (raccolta delle poesie composte dopo il 1935, 1945), Canto general (1950), la sua opera maggiore, amplissimo poema sulla storia del Cile e della stessa America latina come insieme di tradizioni e incrocio di civiltà; Odas elementales (1954), Nuevas odas elementales (1956), Tercer libro de las odas (1957), Estravagario (1958), Navigaciones y regresos (1959), Memorial de Isla Negra (1964), Arte de pájaros (1966), Fulgor y muerte de Joaquín Murieta (1967, dramma scritto in Italia), La barcarola (1968), Las manos del dia (1968), Aun (1969), l’apocalittico Fin del mundo (1969), Las piedras del cielo (1970), La spada encendida (1970), Geografía infructuosa (1972). Da segnalare infine le prose autobiografiche di Confieso que he vivido (1973; trad. it. 1975) e la traduzione italiana integrale della sua opera poetica (1960-73).
Pablo Neruda
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Pёtr Il’ič Čajkovskij LETTERE DA SANREMO (1877-1878)
A cura di Marina Moretti-Introduzione di Valerij Sokolov
Zecchini Editore Varese
Il soggiorno di Pёtr Il’ič Čajkovskij a Sanremo, dalla fine di dicembre 1877 alla metà di febbraio 1878, si colloca in un periodo cruciale della vita del compositore, che nella fitta corrispondenza indirizzata alle persone più vicine e legate a lui da rapporti di affetto e di lavoro rivela il complesso e a volte contraddittorio e tormentoso intreccio di sentimenti che agitavano il suo animo. Le lettere alla baronessa Nadežda von Meck, al fratello Anatolij, alla sorella Aleksandra Davydova e ad alcuni tra i più importanti esponenti del mondo musicale russo, qui presentate per la prima volta in traduzione italiana, tra le descrizioni dell’ambiente, della vita quotidiana e della sua “anima malata”, ruotano sempre intorno a ciò che per il compositore è centrale: la sua musica e la possibilità di dedicarsi ad essa con tutte le sue forze, per poter “lasciare di se stesso un ricordo duraturo”. E questo gli riuscì anche grazie al periodo sanremese, una tappa importante sulla strada del suo destino.
Pёtr Il’ič Čajkovskij LETTERE DA SANREMO
Biografia di Pёtr Il’ič ČajkovskijMusicista russo (Votkinsk 1840 – San Pietroburgo 1893). Compositore geniale e versatile, tra le sue opere più celebri spiccano Eugenio Oneghin (1879) e La Dama di picche (1890). Assai importante è la produzione che dedicò al balletto, di cui C̆. è considerato, sotto l’aspetto musicale, uno dei padri. I suoi capolavori (Il lago dei cigni, 1876; La bella addormentata nel bosco, 1890; Schiaccianoci, 1892), tengono presenti le esigenze coreografiche e ritmiche della rappresentazione, imponendo e suggerendo agli interpreti nuove e ardite soluzioni. Vita e opereStudiò con A. Rubinstein, e si diplomò a San Pietroburgo nel 1865. Fu professore al conservatorio di Mosca. Compì numerosi giri artistici, quale compositore e direttore, in Francia, Germania, Italia e in altri paesi. Tra le sue musiche emergono specialmente le opere Eugenio Oneghin (1879) e La Dama di picche (1890); i balletti Il lago dei cigni (1876), La bella addormentata nel bosco (1890), Schiaccianoci (1892); la musica per La fanciulla di neve (1873); la IV, la V e la VI (Patetica) tra le sei sinfonie; i concerti per violino op. 35 (1877) e per pianoforte (specie il III, op. 75; 1893). Fu musicista di schietta e generosa natura, non molto disciplinata spiritualmente e piuttosto incline a certa sentimentale eloquenza (soprattutto melodica), oltremodo comunicativa anche per la frequente amplificazione oratoria. Rispetto ai musicisti nazionalisti russi del Gruppo dei Cinque, egli fu il principale esponente della tendenza “occidentalizzante”, anche se i caratteri nazionali sono tutt’altro che assenti nella sua produzione. I suoi lavori sono tuttora popolarissimi: egli è l’autore russo più eseguito in patria, mentre la sua Sinfonia patetica ed anche le Sinfonie IV e V e i Concerti per violino e orchestra e per pianoforte e orchestra sono fra i brani del repertorio sinfonico più frequentemente eseguiti nelle sale da concerto d’Europa e d’America. I suoi balletti sono considerati come pezzi classici del genere e le sue opere teatrali sono state oLe lettere alla baronessa Nadežda von Meck, al fratello Anatolij, alla sorella Aleksandra Davydova e ad alcuni tra i più importanti esponenti del mondo musicale russo, qui presentate per la prima volta in traduzione italiana, tra le descrizioni dell’ambiente, della vita quotidiana e della sua “anima malata”,
Il 6 novembre 1893, a San Pietroburgo, muore Pёtr Il’ič Čajkovskij.Di Čajkovskij sono ben note le pagine strumentali ispirate al nostro Paese: e in questa raccolta inedita di lettere da Sanremo troviamo le ragioni più profonde dell’estetica del compositore più russo di tutti, e insieme più cosmopolita.
Roma -Debutta al Teatro Lo Spazio lo spettacolo “MACBETH CIRCUS SHOW”
Roma-Debutta al Teatro Lo Spazio, dal 12 al 15 dicembre, MACBETH CIRCUS SHOW- La rappresentazione del potere, spettacolo scritto da Paolo Vanacore con la regia di Gianni De Feo.
Roma -Teatro Lo Spazio lo spettacolo “MACBETH CIRCUS SHOW”
Sullo sfondo della celebre opera di Shakespeare lo spettacolo si articola su due piani, quello della realtà e quello della rappresentazione. I due piani spesso andranno a sovrapporsi, a dialogare, a coincidere in modo grottesco e surreale. Il testo è l’archetipo per eccellenza dell’ambizione sfrenata, della falsità e dell’ipocrisia che spesso anima il mondo dello spettacolo, un mondo in cui l’arte e il talento perdono sempre di più il loro valore a discapito della fama, della smania di apparire, più che di essere.
Le atmosfere della messa in scena richiamano, a tratti, il sapore e il gusto retrò di un circo senza tempo dove i personaggi al limite del grottesco si scontrano, si accaniscono, si accapigliano a difesa di un ruolo di cui ognuno di loro si sente investito, in un eccentrico delirio di autocelebrazione. Le ambientazioni e i trucchi si ispirano al decadentismo dell’espressionismo berlinese.
Roma -Teatro Lo Spazio lo spettacolo “MACBETH CIRCUS SHOW”
Un gioco metateatrale che vede coinvolti due buffi e patetici uomini in costume e maschere clownesche, mentre recitano alcuni momenti salienti della tragedia shakespeariana secondo quell’antico stile in cui i ruoli femminili erano ancora affidati ad attori maschi. Alle loro “giocolerie” verbali si contrappongono i toni più secchi della perfida direttrice del fantasmagorico teatro dove sarà rappresentato appunto il Macbeth. Tuttavia, anch’essa è vittima di un’ossessiva sete di Potere.
In un ritmo serrato, il dialogo alterna momenti di puro lirismo a una comicità surreale. I tre personaggi saranno stilisticamente caricati fino all’espressione più estrema e assurda della loro follia, per poi essere depauperati e destrutturati come marionette dai fili spezzati. Le musiche originali faranno da contrappunto alla trama drammaturgica fino a spingersi in esibizioni canore, nello stile di un autentico Show.
Roma -Teatro Lo Spazio lo spettacolo “MACBETH CIRCUS SHOW”
La Farsa del Potere o la sua Rappresentazione trova infine pace nella consapevolezza della caducità delle cose, in un finale senza via d’uscita, dove ciò che rimane è silenzio. “…e tutti i nostri ieri saran serviti a rischiarar la via verso la morte che incenerisce:”
MACBETH CIRCUS SHOW
La rappresentazione del Potere
di Paolo Vanacore (da un’idea di Gianni De Feo)
Con : Eleonora Zacchi, Riccardo De Francesca, Gianni De Feo
Musiche Alessandro Panatteri
Scene Roberto Rinaldi e Aurora Bresci – Costumi Roberto Rinaldi
Regia Gianni De Feo
Produzioni: Camera Musicale Romana – Florian Metateatro – Centro artistico il Grattacielo
In Scozia, nell’XI secolo, Macbeth e Banco sono di ritorno da una vittoriosa battaglia contro i rivoltosi. Incontrano alcune streghe che fanno loro una profezia: Macbeth sarà signore di Cawdor e in seguito re di Scozia, mentre la progenie di Banco salirà al trono. Parte della profezia si avvera subito. Giunge infatti un messaggero che comunica a Macbeth che re Duncano gli ha concesso la signoria di Cawdor. Venuta a conoscenza della profezia delle streghe, l’ambiziosa Lady Macbeth incita il marito a uccidere il re.
Atto II
Del delitto viene incolpato il figlio di Duncano, Malcolm, che si trova costretto a fuggire in Inghilterra. Ora che Macbeth è re di Scozia, la moglie lo convince a liquidare Banco e soprattutto il figlio di costui, Fleanzio, nel timore che si avveri la seconda parte della profezia. I sicari di Macbeth assassinano Banco in un agguato, ma Fleanzio riesce a fuggire. Durante un banchetto a corte, Macbeth è terrorizzato dall’apparizione del fantasma di Banco.
Atto III
Inquieto, Macbeth torna dalle streghe per interrogarle. Il verdetto è oscuro: egli resterà signore di Scozia fino a quando la foresta di Birnam non gli muoverà contro, e nessun “nato di donna” potrà nuocergli. Lady Macbeth, intanto, lo incita a uccidere la moglie e i figli del nobile profugo Macduff che, insieme a Malcolm, sta radunando in Inghilterra un esercito per muovere contro Macbeth.
Atto IV
L’esercito invasore giunge segretamente al comando di Malcolm e Macduff. Giunti nei pressi della foresta di Birnam, i soldati raccolgono i rami degli alberi e con questi avanzano mimetizzati dando l’impressione che l’intera foresta si avanzi (come nella profezia). Lady Macbeth, nel sonno, è sopraffatta dal rimorso e muore nel delirio. Macbeth, rimasto solo, fronteggia l’invasore, ma è ucciso in duello da Macduff, l’uomo che, venuto al mondo con una sorta di parto cesareo, avvera la seconda parte del vaticinio (“nessun nato di donna ti nuoce”).
A cura di Elido Fazi–Introduzione di Franco Buffoni –Testo inglese a fronte-
Fazi Editore -Roma
DESCRIZIONE-
Composto nel 1815 e rimasto incompiuto, The Fall of Hyperion rappresenta l’estremo tentativo di Keats di fondare una moderna mitologia poetica. The Fall of Hiperion riafferma generosamente la necessità dello sguardo poetico, non più “febbre di se stesso” ma concreta vicinanza al dolore del mondo, profezia del suo destino. “Perché solo la poesia raccontare può i suoi sogni, e con il puro incanto delle parole redimere può l’immaginazione da un’oscura malia, da un ottuso incantesimo”.
Collana: Le porte
Numero collana: 2
Pagine: 80
Codice ISBN: 8881120011
Prezzo cartaceo: € 7,62
Codice ISBN e Pub: 9788864119199
Breve Biografia di John Keats
John Keats
John Keats(Moorgate-Londra-31 ottobre 1795 – Roma, 23 febbraio ; 1821)è stato un poeta britannico, unanimemente considerato uno dei più significativi letterati del Romanticismo, e uno dei principali esponenti della “seconda generazione romantica” inglese assieme a Lord Byron e Percy Bysshe Shelley, come loro deceduto in giovane età.
John Keats-Orfano, fu messo dai tutori come apprendista presso un chirurgo; superati (1816) gli esami di licenza all’Apothecaries’ Hall, fu nominato assistente al Guy’s Hospital. Intanto le letture, e in specie The Fairie Queene di Spenser, gli rivelarono la sua vera vocazione (il suo più antico componimento a noi noto è appunto la Imitation of Spenser, forse del 1813). J. H. L. Hunt riconobbe subito il genio di K. e ne pubblicò alcuni sonetti in The Examiner; la sua influenza è evidente nel primo volume di K. (Poems, 1817). Il periodo di raccoglimento che seguì la decisione di dedicarsi esclusivamente alla poesia (1816) fu occupato da K. nello studio serio, e per lui decisivo, di Shakespeare; nello stesso tempo risentì l’influenza di Wordsworth, che è sensibile nella poesia Sleep and poetry, la più importante di Poems. Nell’Endymion volle, sotto l’allegoria di un mito, dimostrare l’unicità della bellezza che si rivela in tutte le attività umane. Giudicato dai critici come un tipico prodotto della scuola poetica di Hunt (la cosiddetta Cockney School), Endymion fu stroncato nel Blackwood’s Magazine e nella Quarterly Review; ma che il dolore per queste stroncature fosse la causa prima della tisi di K. è leggenda. In Hyperion, scritto in blank verse, che mostra progresso nella concentrazione e nella forza artistica, è presente la medesima posizione di pensiero: la bellezza è forza che viene dalla conoscenza, la quale si acquista con lotta e dolore. In Lamia, sotto l’influsso delle Fables di Dryden, K. si concentrò in una presentazione drammatica del contrasto fra ragione e sentimento. Tutti e tre i poemi traggono materia dal mondo greco cui il poeta fu orientato anche da quella rinascita d’interesse per la Grecia, comune a molti romantici (Peacock, Shelley, Hölderlin, ecc.). In Hyperion echi miltoniani danno al poema un vigore e una dignità che l’Endymion non lasciava presentire. Peraltro, K. non poté sostenersi in quel tono di classica solennità e lasciò il poema interrotto (il tentativo di riprenderlo in The fall of Hyperion non ebbe successo). Meglio riuscì in soggetti romantici: Isabella, or the pot of basil (da Boccaccio); The eve of St. Agnes; The eve of St. Mark; La belle dame sans merci (da rilevare l’influsso di queste due ultime poesie sui preraffaelliti). K. scoprì nell’ode una forma lirica atta a esprimere le qualità essenziali del suo genio. Tutte le odi, a eccezione della Ode to sorrow (Endymion, IV) e del frammento della Ode to Maia, appartengono al 1819; in esse K., attraverso il presentimento della morte, sente la Bellezza che, immortale e impassibile, assiste al vanire delle vicende umane. L’Ode to autumn, con la sua perfetta serenità, chiude una carriera poetica breve quanto gloriosa. Nel sett. 1820 K. partì per l’Italia, ma troppo tardi: la consunzione lo divorava già irreparabilmente. È sepolto a Roma nel cimitero presso la piramide di Cestio. Nei tre anni scarsi che intercorsero tra il momento della sua dedizione alla poesia e il cedimento della sua salute, K. toccò le cime più alte della lirica romantica in Inghilterra.
Breve Biografia di Pier Paolo Pasolini e Poesia-Scrittore, poeta, autore e regista cinematografico e teatrale italiano (Bologna 1922 – Ostia, Roma, 1975). Dopo aver seguito nell’infanzia gli spostamenti del padre, ufficiale di carriera, compì gli studî a Bologna, dove si laureò nel 1945 con una tesi su Pascoli. Nel 1943 si trasferì nel paese materno di Casarsa della Delizia, in Friuli, con la madre e il fratello minore Guido, morto poi nella lotta di resistenza (il padre, fatto prigioniero in Africa, sarebbe tornato alla fine del 1945), e vi rimase fino al genn. 1950, quando, per sfuggire allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità, si stabilì con la madre a Roma. Da questo momento la sua vicenda biografica coincide appieno con la tumultuosa attività dello scrittore, del regista e dell’intellettuale impegnato a testimoniare e a difendere, spesso anche in sede giudiziaria, la propria radicale diversità, fino alla morte per assassinio, avvenuta la notte tra il 1° e il 2 nov. 1975 all’idroscalo di Ostia.
La Resistenza e la sua luce
Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce…
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
[…]
(da “La religione del mio tempo”, 1961)
Fin dagli esordî in friulano, che comprendono Poesie a Casarsa (1942) e La meglio gioventù (1954; poi ripreso con intenti diversi e notevole incremento di testi: La nuova gioventù, 1975), ben oltre la nozione ermetica di poesia pura, il giovane P. puntava alla scoperta di una lingua intatta, che fosse quasi un equivalente letterario del suo religioso desiderio di purezza (fonderà così nel 1945 l’Academiuta di lenga furlana). Il suo interesse per la poesia dialettale trovò espressione in due importanti antologie: Poesia dialettale del Novecento (in collab. con M. Dell’Arco, 1952) e Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955; poi, in versione ridotta: La poesia popolare italiana, 1960); mentre il suo talento di critico letterario, affascinato più dai modelli della critica stilistica (Auerbach, Spitzer, Contini) che dal sociologismo marxista d’ispirazione gramsciana, si esplicò in una serie di interventi sulla letteratura contemporanea, e soprattutto sulla poesia, che sarebbero confluiti in Passione e ideologia (1960). Gli anni Cinquanta furono gli anni della sua completa affermazione letteraria. La sua prima notevole raccolta di poesie in lingua, Le ceneri di Gramsci (1957), sembra chiudere definitivamente una stagione della poesia italiana. L’ansia profetica dell’Usignolo della chiesa cattolica (pubbl. nel 1958, ma composto prima del trasferimento a Roma) si sarebbe riproposta, dopo la parentesi decisiva delle Ceneri, nei termini mutati di un’ininterrotta controversia (La religione del mio tempo, 1961; Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971). P. fondava, intanto, insieme a F. Leonetti e R. Roversi, Officina, la rivista della polemica antinovecentesca; era anche diventato condirettore di Nuovi argomenti, rivista fondata nel 1953 da A. Moravia e A. Carocci. E aveva dovuto affrontare difficoltà molto più gravi dopo la pubblicazione dei suoi due romanzi d’ambientazione romana: Ragazzi di vita (1955), per il quale dovette subire un processo per oscenità, e Una vita violenta (1959), che era stato accolto freddamente tanto dalla critica marxista quanto dai giovani critici della neoavanguardia. Ma la vocazione di P., già insofferente dei limiti di un genere letterario, si era orientata verso altri mezzi d’espressione: il cinema (v. oltre), del quale si sarebbe poi occupato anche in veste di teorico, il teatro (Orgia, 1968; Affabulazione, 1969; Calderón, 1973) e il giornalismo (soprattutto, dal 1973, le collaborazioni al Corriere della sera, poi raccolte con altre in Scritti corsari, 1975). In ritardo rispetto alla data di composizione, erano intanto apparsi il romanzoIl sogno di una cosa (1962) e le prose narrative di Alì dagli occhi azzurri (1965), oltre a vari scritti minori. Postume, in ordine sparso, sono uscite raccolte di scritti giornalistici (Lettere luterane, 1976; Le belle bandiere, 1977; Il caos, 1979), di critica letteraria (Descrizioni di descrizioni, 1979; Il portico della morte, 1988), opere narrative (La divina mimesis, 1975; Amado mio, 1982; Petrolio, 1992, romanzo incompiuto che riassume e porta a livello di quasi insostenibile incandescenza tutti i temi dello scrittore), nonché le raccolte complete dei suoi testi teatrali (Teatro, 1988) e poetici (Bestemmia. Tutte le poesie, 1993). Diversi scritti appartenenti alla fervida stagione friulana del poeta sono stati raccolti dal cugino N. Naldini in Un paese di temporali e di primule (1993) e in Romàns (1994); per sua cura sono anche apparse le Lettere 1940-1954 (1986) e le Lettere 1955-1975 (1988). Tutte le opere di P. sono state raccolte nell’edizione diretta da W. Siti (10 tomi, 1998-2003).
Nel cinema P. operò a partire dal 1954, come sceneggiatore (con M. Soldati, La donna del fiume; con F. Fellini, Le notti di Cabiria; con M. Bolognini, Marisa la civetta, Giovani mariti, La notte brava, Il bell’Antonio, La giornata balorda; e, fra i tanti, con B. Bertolucci, La commare secca, autore anche del soggetto). P. dapprima trasferì i frutti della sua ricerca narrativa (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962; La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G., 1963, condannato per vilipendio alla religione di stato), reinventando un linguaggio cinematografico autonomo di alta qualità figurativa (P. era stato allievo di R. Longhi a Bologna). Il linguaggio di P. approdò a risultati più compiuti ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), in cui l’armonica fusione del cinema con la letteratura, la pittura e la musica diede l’avvio a quel “cinema di poesia” di cui P. doveva essere in Italia uno dei più convincenti teorici (Il cinema di poesia, 1965; Osservazioni sul piano sequenza, 1967; Empirismo eretico, 1972). Su questa linea, i film che seguirono, soprattutto Edipo re (1967), Teorema (1968) e Medea (1969), accesi da un realismo visionario che, nonostante scarti e manifeste libertà, sorregge poi anche gl’impegni drammatici e linguistici dei film della “trilogia della vita” (o, come altri l’hanno definita, “dell’Eros”), partiti alla riscoperta del sesso attraverso una rilettura delle fonti della grande favolistica mondiale: Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una Notte (1974). L’ultimo film, uscito postumo, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976), luttuosa metafora del potere e interpretazione in chiave provocatoria del libro omonimo di Sade. Non vanno dimenticati Che cosa sono le nuvole? (dal film collettivo Capriccio all’italiana, 1968) e Porcile (1969). Rimane un grande esempio del cinema d’inchiesta Comizi d’amore (1965), indagine sulla sessualità nell’Italia dei primi anni Sessanta, condotta da P. insieme a Moravia e Musatti. Esemplare parabola della storia d’Italia, dalla predicazione francescana ai funerali di Togliatti, è Uccellacci e uccellini (1966), ultima “legenda aurea” della civiltà italiana.
Pasolini e il Novecento
L’edizione delle Opere di Pasolini colloca la sua opera tra i classici del secondo Novecento. E a ragione, poiché solo Pasolini (come D’Annunzio e più di Pirandello) ha sperimentato tutti i generi della creazione del 20° secolo: romanzo e novella, teatro e cinema, critica letteraria e saggistica politica, e non meno la poesia. Già questa semplice ragione di “generi” crea un singolare accostamento: D’Annunzio, Pirandello, Pasolini, un essere nel proprio tempo, nel quale la retorica – strumento dell’argomentare, del persuadere, dell’insegnare, leva essenziale di ogni “passione e ideologia” – è esibita, non velata, non nascosta, non lenita da strumenti di “sordina”. Sì che non pare ardito oggi dire che Pasolini è stato per l’ultimo Novecento il rovesciamento speculare di quello che fu D’Annunzio all’ouverture del 20° secolo: là fu la parola chiamata a colmare le lacune del tempo, parola di gloria (e di lusso vitale dell’io), qui la parola della negazione, dell’abiezione, dei margini prossimi al niente: “i segni del desiderio di morire, / le occhiaie del vile, / il mento del debole, / … / le scarpe dello statale, / il culo del soldato semplice, / la calvizie del disadattato, / la schiena del condannato a morte” (Il dolore dei poeti, da Poesie marxiste, 1964-65). L’Italia repubblicana trova così oggi due emblemi nobili della propria identità: da una parte Calvino, la ragione e l’utopia, la trasparenza e la levità, l’Italia dell’Ariosto e di Galileo; dall’altra Pasolini, l’Italia di Jacopone e di Belli, di Gioacchino da Fiore e di Gadda: stracci e apocalissi. Una civiltà magmatica – il dialetto friulano e Dante, i tragici greci e gli Evangeli, il sottoproletariato e la Nuova Guinea – ma non più e soltanto latina: Pasolini sa partire da Alba pratalia, alba pratalia delle nostre origini e arrivare alla lugubre Nuova Preistoria che viviamo, alla profezia degli ultimi: “La Negritudine, dico, che sarà ragione”. In certo modo – come lucidamente hanno osservato Calvino e Barthes per l’utopia di Fourier – il profetismo pasoliniano si sbilancia oltre la rasserenata compiutezza delle ideologie: supera ogni finalismo della storia prevedendo la fine della storia, e intanto della propria. Nessun altro poeta come Pasolini ha messo in scena, costantemente provandola e riprovandola in parole come sarà nei fatti, la propria morte: “Stesura in ‘cursus’ di linguaggio ‘gergale’ corrente, dell’antefatto: Fiumicino, il vecchio castello e una prima idea vera della morte: […] – sono come un gatto bruciato vivo, / Pestato dal copertone di un autotreno” (Una disperata vitalità). Un Pasolini che incarna in sé, come scriverà, il destino di Cassandra: “Basti pensare a una figura come quella di Cassandra, che prevede, anzi vede fisicamente la propria morte” (Nota per l’ambientazione dell’Orestiade in Africa). Una lettura della storia dell’Italia unita, tutta incentrata sulle identità popolari: il cristianesimo e il marxismo; il pensiero laico-liberale, stendardo della borghesia, non fu mai una vera alternativa, ma parve a Pasolini la continuazione del Potere, non la plenitudine della Verità: “Quelli di voi che possiedono un cuore / votato alla maledetta lucidità, / vadano nei laboratori, nelle scuole, / a ricordare che nulla in questi anni ha / mutato la qualità del conoscere, eterno pretesto, / forma utile e dolce del Potere, NON MAI VERITÀ. // […] Vadano, tanto per cominciare, dai Crespi, dagli Agnelli, / dai Valletta, dai potenti delle Società / che hanno portato l’Europa sulle rive del Po: // è giunta per ognuno di loro l’ora che non ha / proporzione con quanto ebbe e quanto odiò” (Vittoria). Erano gli anni di Barbiana e tra poco di Lettera a una professoressa, l’utopia di un’eguaglianza fatta non per accumulo (produzione e consumo: la vagheggiata affluent society), ma per condivisione dell’essenziale: l’Italia di Pasolini e don Milani, Danilo Dolci e padre Turoldo, e anche – sia non indebito il paragone – dei papi veneti del Concilio, papi degli umili. Quella via, via di parola e di pane, di poveri e giustizia, fu l’orizzonte scomodo di Pier Paolo Pasolini: “Ma nei rifiuti del mondo, nasce / un nuovo mondo […] / la loro speranza nel non avere speranza” (La religione del mio tempo, 4). Quella vita che non ha nient’altro, per sostenerla, che il suo consumarla, sacro deserto della fame, della manna, ove si attraversa – come Mosè, come Edipo – il miraggio, “sospinti dalla violenza del suo assillo”. Così Pasolini ci ha rinnovato la biblica coscienza del sacro: quella coscienza – di Frazer e Cumont, di Caillois e di Deonna, ma anche di Bresson e di Tarkovskij – che “ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata” (Medea).
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