Se viene riconosciuta la carriera di Agnes Varda (1928-2019) come regista e artista plastica, la sua attività fotografica rimane ancora da esplorare. Tuttavia, la fotografia lo accompagna sin dai suoi inizi, dall’apertura del suo laboratorio-laboratorio Rue Daguerre a Parigi e dal suo status di fotografo ufficiale del National Popular Theater, ai suoi numerosi progetti personali. Nel corso della sua vita, continuerà a sperimentare i diversi usi del mezzo. I suoi “occhi curiosi” la porteranno in giro per il mondo
Nel 1956 la fotografa intervistò il Portogallo, affermando il suo gusto per i ritratti e i soggetti in movimento, operai del campo e del mare.
Agnès Varda, nata Arlette Varda (Ixelles, 30 maggio 1928 – Parigi, 29 marzo 2019), è stata una regista, sceneggiatrice e fotografa belga.
Articolo da Blog –UNA DONNA AL GIORNO-
Sono femminista perché credo nei diritti delle donne, nell’intelligenza delle donne, nelle loro capacità, nel posto che devono ricoprire nella società e nella famiglia.
Quello che mi sciocca è che ci si renda conto solo ora che il problema esiste. È legato al potere sociale innanzitutto e gli uomini ne sono complici. Quello che cambierà è che ne prenderanno coscienza. Bisogna determinare la dose di femminismo da inculcare ai ragazzi: ecco cos’è importante. Questa battaglia dobbiamo portarla avanti insieme, uomini e donne uniti.
Agnès Varda, regista francese di origine belga.
Ha raccontato le complessità dell’animo femminile portato sullo schermo i volti, le vite, i pensieri di tante donne, ascoltandone la voce e assecondando la sua volontà di autrice, senza cedimenti a vincoli esterni. Un modo di fare cinema intimo e personale. Viene considerata la prima regista femminista.
Nata con il nome di Arlette, il 30 maggio 1928 a Ixelles, in Belgio, madre francese e padre greco, ha passato la sua infanzia in Belgio. Giovanissima si è trasferita a Parigi e divenne fotografa al Theatre National Populaire di Jean Vilar, il creatore del Festival di Avignone. In questo ambiente ha incontrato l’uomo che divenne suo marito, il regista Jacques Demy.
Unica donna del gruppo originario coté rive gauche della Nouvelle Vague francese, nonostante ne abbia sempre rifiutato l’etichetta. Ha sempre mantenuto un’indipendenza teorica e poetica, che l’ha portata a praticare la sua arte con grande libertà di generi e formati.
Nel 1954 ha girato il suo primo film La Pointe Courte che portò un soffio di libertà nel cinema francese.
Il suo primo lungometraggio è stato Cléo dalle 5 alle 7, del 1962, affascinante ritratto femminile di una cantante ribelle che vagabonda per Parigi in attesa di sapere dai medici se ha una malattia mortale. È il suo film più vicino alla Nouvelle Vague ma anche uno dei più personali di quella gloriosa stagione.
Nel 1965 ha vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino con Il verde prato dell’amore, che le ha portato maggiore visibilità in Europa e negli Stati Uniti.
Dal 1968 ha soggiornato per lunghi periodi a Los Angeles dove ha girato Lions Love e realizzato il documentario Black Panthers dedicato al processo agli esponenti delle Pantere Nere, organizzazione rivoluzionaria afroamericana.
Nel 1971, a Parigi, conobbe e divenne amica di Jim Morrison, leader dei Doors, trasferitosi lì con la fidanzata Pamela Courson. È stata una delle pochissime persone presenti alla sepoltura del musicista prima che la notizia della sua tragica morte venisse diffusa alla stampa.
Dai soggiorni americani sono nati Mur murs, documentario sui murales di Los Angeles, il graffitismo ai tempi era un’arte di pura avanguardia e Documenteur, cronaca dello sradicamento d’una donna francese, temporaneamente separata dall’uomo che ama e sola in America insieme al figlio.
È stata tra le firmatarie del Manifesto delle 343 la dichiarazione pubblicata il 5 aprile 1971 dalla rivista Nouvel Observateur in cui 343 donne ammettevano di aver avuto un aborto, esponendo se stesse alle relative conseguenze penali. In Francia vigeva una legge del 1920 che multava con pene fino a sei anni chi avesse abortito o procurato aborti. Il manifesto fu un importante esempio di disobbedienza civile.
Il 1985, le ha consegnato il suo più ampio successo di pubblico, Senza tetto né legge, vita e morte di una ragazza alla deriva nel freddo d’una Francia opaca e respingente che ha vinto il Leone d’oro a Venezia.
Avendo prodotto autonomamente i suoi film con Ciné-Tamaris, Agnès Varda è riuscita a mantenere intatta la propria indipendenza e i diritti sui film suoi e del marito.
In digitale ha girato Les Glaneurs et la glaneuse nel 2000, un racconto-documentario sulle persone che cercano tesori o sussistenza rovistando nelle campagne o tra la spazzatura delle città, che ottenne critiche entusiaste e riconoscimenti internazionali.
Nel 2003, alla Biennale di Venezia, ha firmato alcune installazioni visive che hanno inaugurato una nuova fase della sua vita artistica. È del 2008 il suo originale autoritratto nel documentario Les plages d’Agnès.
Nel 2017 è uscito Visages Villages un viaggio attraverso la Francia rurale a bordo di un camion-macchina fotografica con lo street artist JR. Il film ha vinto il premio de L’Œil d’or al Festival di Cannes 2017 e ricevuto la candidatura nella categoria “miglior documentario” agli Oscar 2018. Con questa candidatura Agnès Varda è diventata la persona più anziana a venire candidata in gara a un Oscar.
Per la cineasta, l’arte cinematografica è sempre stata collegata alla realtà, per questo nella sua filmografia non ha mai lasciato da parte il genere documentario. I suoi lavori hanno affrontato spesso tematiche riguardanti la condizione femminile nella società. Nella sua lunga carriera, ha continuato instancabile a girare film diversi per formato e misura, sempre interessata alla cronaca umana e all’osservazione poetica e politica del mondo. Ha lavorato fino alla fine dei suoi giorni, continuando a sperimentare nuove tecnologie.
Insignita di un Premio César onorario nel 2005, è stata la prima regista nella storia del cinema a ricevere l’Oscar alla Carriera nel 2017. Alla cerimonia degli Oscar e poi a Cannes si è schierata apertamente con il movimento Me Too.
Descrizione-del libro Ernesto Rossi-L’Europa di domani-La crisi finanziaria ed economica che si è abbattuta sul continente europeo e sui singoli Paesi ha fatto traballare l’Unione europea, mettendone a dura prova la solidità, e allo stesso tempo ha mostrato la fragilità delle sue istituzioni. Nella spirale recessiva le politiche di austerità, promosse dai consessi dei capi di Stato, hanno acuito la crisi sociale. La frantumazione del welfare ha disgregato la coesione tra le nazioni, permettendo il riesplodere di antiche, e forse mai sopite, rivalità.
La riedizione delle analisi elaborate da Ernesto Rossi nel 1944 trova fondamento nella grande attualità delle tematiche e delle soluzioni proposte dall’autore, che crede fortemente nel progetto federalista come garanzia di un maggiore esercizio della democrazia.
Questo pamphlet – documento del tempo – non ha la pretesa di offrire soluzioni definitive a problematiche politiche ed economiche aperte ma si propone di suggerire spunti di riflessione su tematiche che interessano il lettore in quanto cittadino europeo.
Biografia di Ernesto Rossi
Ernesto Rossi (Caserta 1897-Roma 1967) -Residente a Bergamo, professore, antifascista. Interventista e volontario nella prima guerra mondiale, ne esce mutilato e invalido. Studioso di storia ed economia, è seguace di Salvemini e di Einaudi, tra i fondatori di ‘Italia libera’, aderente all’’Unione democratica’ di Giovanni Amendola.Redattore del Non Mollare, del Caffè, della Rivoluzione liberale. Professore a Bergamo, tiene i contatti con l’antifascismo all’estero. Tra i massimi esponenti di Giustizia e Libertà insieme a Riccardo Bauer, “dotato di spirito indomabile” è arrestato il 30.10.1930 per attentato all’ordine costituzionale dello Stato e dimostrazioni a carattere insurrezionale e condannato dal Tribunale Speciale il 30.5.1931 a 20 anni di reclusione. “ ammise di aver esplicato intensa opera antifascista…nelle varie riunioni segrete fra affiliati egli, Rossi, aveva preso viva parte alle discussioni sull’organizzazione e sul movimento della “Giustizia e Libertà” nonché sulla scissura tra la concentrazione (blocco unitario delle varie tendenze antifasciste del fuoriuscitismo) e la stessa Giustizia e Libertà…”.
Recluso a Roma. Nel 1934 gli è inflitta dal Consiglio di disciplina del carcere 3 mesi di cella di segregazione per frasi offensive verso il duce. Liberato il 29.10.1939, data della liberazione. A fine pena, il 29.10.1939, è confinato a Ventotene per 5 anni, dove è tra i redattori del noto ‘Manifesto di Ventotene’ nel 1941. Il 9 luglio 1943, Rossi fu arrestato con Vincenzo Calace e Riccardo Bauer e nuovamente tradotto a «Regina Coeli». Il 25 luglio 1943 lo salva da un nuovo processo davanti al Tribunale Speciale. Liberato il 30.7.1943. Nell’agosto 1943 partecipa alla fondazione del Movimento federalista europeo. Dirigente del Partito d’azione.
L’8 settembre capeggiò una manifestazione popolare a Bergamo, il che lo segnalò all’attenzione dei neofascisti e dei tedeschi. Ricercato e in pessime condizioni di salute, per le privazioni sofferte nei lunghi anni di carcere e confino, fu costretto a cercare rifugio in Svizzera.
Rientra a Milano nel 1945. Consultore nazionale, sottosegretario del governo Parri, è assertore di una moderna società democratica, svolge un’intensa attività pubblicista e di scrittore.
Nel 1955 fondatore del Partito radicale. Autore di numerose opere tra cui La riforma agraria, Critica del capitalismo, Settimo non rubare, I padroni del vapore, Il manganello e l’aspersorio, Viaggio nel feudo Bonomi ed altri. Muore a Roma il 9.2.1967.
Stefano Savella articolo per PugliaLibre
Già subito dopo le elezioni europee del maggio scorso le questioni riguardanti le politiche comunitarie hanno rapidamente abbandonato i rulli dei programmi di comunicazione. Quando il nuovo presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, presenterà tutti i nomi della sua squadra, è assai probabile che si tornerà a parlare di governance europea soltanto per le eventuali raccomandazioni dell’Unione nei confronti del nostro paese. Ci troviamo dunque di fronte a un’assenza assai evidente di una “narrazione” europea che approfondisca aspetti politici ed economici ma allargandosi anche a quelli sociali, a tutti quei fenomeni che sotto traccia, giorno dopo giorno, contribuiscono alla costruzione di un’Europa più solida. Per chi voglia ricercare frammenti di questa narrazione, è perciò necessario rifarsi ai grandi classici dell’europeismo, agli scritti di quegli intellettuali che, già nella prima metà del Novecento, si erano posti il problema di un’organismo sovranazionale che rendesse l’Europa un continente di pace.
L’Europa di domani. Un progetto per gli Stati Uniti d’Europa, di Ernesto Rossi, è uno di questi documenti nei quali è possibile riscoprire ciò le origini della formazione del pensiero europeista ma anche l’idea di un’Europa federale che resta ancora ai margini del dibattito pubblico, malgrado la sua urgenza. Ripubblicato dalla Stilo Editrice (pp. 104, euro 10), questo libello scritto dall’intellettuale casertano nel 1944 è preceduto da una introduzione di Mauro Rubino, laureato in Lettere all’Università di Bari, che dopo studi specialistici sul romanzo postmoderno si occupa ora di saggistica politica. Qui Rubino affronta analiticamente i diversi aspetti che Rossi, in un contesto storico quale quello dei mesi conclusivi del secondo conflitto mondiale, indicava come necessari per addivenire alla costruzione di un’Europa autenticamente federale; lo fa, inoltre, alla luce della fortuna che le intuizioni di Rossi hanno avuto nei decenni successivi e al loro recepimento sia in ambito comunitario sia all’interno di alcuni Stati nazionali, come la Germania e il Regno Unito, particolarmente decisivi per la tenuta delle istituzioni europee.
Tanto il lettore già attento alle dinamiche della politica europea, quanto quello che intende comprendere meglio il percorso storico che ha preceduto l’attuale fisionomia degli organismi di governo e di rappresentanza di Bruxelles e Strasburgo, troveranno molte affermazioni di Ernesto Rossi straordinariamente profetiche. «I rappresentanti dei medesimi partiti votano insieme nelle assemblee legislative, indipendentemente dalla loro cittadinanza nazionale: il socialista di un altro Stato membro della federazione contro il conservatore suo connazionale, ed il conservatore è appoggiato dai conservatori degli altri Stati contro il socialista suo connazionale»: parole scritte nel 1944 e nient’affatto scontate, ma ormai da alcuni decenni pratica comune nel corso dei lavori del Parlamento europeo. Ma è evidente che c’è ancora molta strada da fare, contrariamente agli auspici di Rossi, su un’Europa federale, i cui rappresentanti rispondano, appunto, a un governo sovranazionale e non a quelli dei propri paesi di appartenenza. Eppure, anche in questo caso le parole di Rossi avrebbero potuto tracciare un percorso assai più coerente, anche in relazione alle questioni economiche che oggi l’Unione, proprio per mancanza di poteri effettivi, fa fatica ad affrontare. Scriveva infatti Rossi in questo libro che «L’unificazione economica dà vigore all’unificazione politica. […] creando fin dalle origini dello Stato federale europeo un complesso di tali interessi gli si permetterebbe di affondare subito le radici nel territorio più saldo, in modo da renderlo poi capace di resistere all’infuriare delle tempeste».
STORIA- La lezione di Ernesto Rossi- Alberto Cavaglion, scrittore Fonte Pagine Ebraiche- 22/01/2019 – 16 שבט 5779
Non ho potuto purtroppo prendere parte, come avrei desiderato, all’importante convegno “L’emigrazione intellettuale dall’Italia fascista. Studenti e studiosi ebrei dell’Università di Firenze in fuga all’estero” che si è svolto a Firenze. Era mia intenzione proporre agli studiosi un’ipotesi di ricerca su un aspetto della storiografia sul 1938 che mi sembra poco esplorato. Provo a spiegarmi qui, ma prima desidero scusarmi con i miei abituali lettori: la tiro in lungo più del solito, il tema è importante e non semplice. Mi ero in passato rivolto a mettere in fila alcune pagine di Franco Venturi, Emilio Lussu, Giuseppe Di Vittorio, Ernestina Bittanti-Battisti, qualche cosa su di loro ho scritto, ma non mi era mai capitato di cercare una spiegazione complessiva, di vedere se esiste un filo che tenga unita la sdegnata reazione di quei pochi (ma poi non così pochi come comunemente si crede) alla campagna razziale. Parto, senza avere una risposta esaustiva, da una constatazione di fatto, ancorché del tutto ovvia, quasi elementare. L’ipotesi che mi piacerebbe verificare è la seguente: mi chiedo e chiedo a chi in questi anni s’è occupato di 1938 che cosa voglia dire, e da dove derivi, il fatto che la reazione al razzismo antiebraico delle «pecore matte» muove sempre da una motivazione economicistico-pratica. Mi chiedo se questo tipo di reazione sia da ricondursi a una specifica formazione economica di alcune delle «pecore matte». Andando più nel profondo immagino – e per questo vi pongo come ipotesi di lavoro – che il denominatore comune in senso lato vada cercato in una matrice empirista, «cattaneano-salveminiana », che accomuna, pur nella disomogeneità delle posizioni, l’antirazzismo di Venturi, Lussu, Di Vittorio, della stessa Ernestina Bittanti Battista e, appunto, la posizione della più matta delle mie adorate pecore, Ernesto Rossi: «Il pensiero di tanti altri che avranno troncata la loro carriera e non sapranno a che santo votarsi mi ha fatto andar via ogni volontà di ridere», scriveva Rossi alla moglie il 9 settembre di ottant’anni fa. Se, come dicevo, il sarcasmo era stato – fino ad allora – la cifra stilistica preferita da Ernesto Rossi per deridere il Duce, l’antisemitismo e la cacciata degli ebrei dai pubblici uffici e in specie dal mondo delle università, segna un mutamento nella forma prima che nella sostanza. Non sono stati molti gli intellettuali antifascisti che hanno percepito in modo altrettanto lucido la gravità del problema, ma non sono stati nemmeno così pochi a rivendicare, alla maniera delle Interdizioni cattaneane, la priorità dell’economia sulle ideologie. Nei diari, nei carteggi che conosciamo – anche di leader e antifascisti importanti–si osserva, intorno al 1938, un imbarazzante silenzio di cui poco fino ad oggi s’è parlato. Anche dopo l’8 settembre l’antifascismo politico sottovaluterà la questione ebraica, come ci ha spiegato Enzo Forcella in memorabili pagine del suo diario dedicate al 16 ottobre 1943. Anche di questo diffuso fenomeno di sottovalutazione non capisco perché non si discuta mai, a fronte del molto che s’è scritto e si continua a scrivere del mondo cattolico o della (presunta) cultura fascista. Sono lettere, quelle di Rossi, che vanno intrecciandosi con le coeve lettere ai famigliari di altri antifascisti, per esempio di Vittorio Foa o dello stesso Massim Mila, che sul 1938 in vero non scrive molto nelle sue lettere dalla prigione. Allarmano Ernesto Rossi i destini di amici, colleghi: «A Firenze sono stati espulsi anche il Finzi e il Limentani, che conoscevo ». Al razzismo Ernesto Rossi dedicherà riflessioni importanti anche dopo la guerra ne Il manganello e l’aspersorio, uno dei primi libri che affronterà dopo la Liberazione il 1938. Il caso che più s’avvicina alla riflessione di Rossi e merita una diretta comparazione è quello di Luigi Einaudi. Fra i saggi di Einaudi che si possono rileggere oggi in rete, uno spicca fra gli altri. S’intitola I contadini alla conquista della terra italiana nel 1920-1930 e venne stampato sulla «Rivista di storia economica» nel dicembre 1939. Il tema è la rivoluzione agraria, ma il futuro Presidente della Repubblica non perde di vista l’attualità soffermandosi sul ruolo positivo che gli ebrei hanno avuto nella costruzione della Nuova Italia. In una decina di pagine, ricche di aneddoti autobiografici, Einaudi racconta “il gran tramestio di terre”, che in momenti successivi mutò il volto del paesaggio in Piemonte. Interessante è quello che Einaudi scrive sia del primo “tramestio” (successivo alla Rivoluzione francese), sia del secondo, avvenuto in conseguenza della vendita dei beni ecclesiastici con le leggi Siccardi, negli anni Sessanta dell’Ottocento. Nonostante la facilità di accesso ai beni messi all’asta, gli acquirenti si trovarono di fronte ad un dilemma di coscienza: prima di procedere nell’acquisto dovevano pur sempre superare qualche remora. Se avessero comprato sarebbero incorsi nella scomunica: ogni deliberatorio, non munito del beneplacito della Santa Sede, sarebbe stato considerato nullo. Gli ebrei appena emancipati dal ghetto potevano invece comprare: si trattava quasi sempre di beni facili da dividere e altrettanto facili da rivendere. Il fenomeno, apprendiamo dalle pagine einaudiane, ebbe dimensioni notevoli nella provincia di Alessandria (43%), Cuneo (20-21%) e Torino (16%); minore rilevanza a Vercelli e Asti. A Luigi Einaudi pare importante sottolineare, nel 1939, che senza la mediazione degli ebrei i contadini del Piemonte non avrebbero potuto salvare l’anima e garantire un futuro decoroso ai propri figli. Naturalmente gli acquisti riattizzarono l’ostilità della stampa cattolica. Decisamente pragmatica e al tempo stesso anticonformista e politica, come quella espressa da Rossi nelle lettere dal carcere, è la prospettiva di Luigi Einaudi: «Socialmente, l’opera dei mercanti ebrei fu più benefica di quella dei loro predecessori cristiani, perché, con differenze lievi – né la stabilità del metro monetario avrebbe consentito voli ardimentosi – e con agevolezze nei pagamenti a miti saggi di interesse, agevolarono, assai più dei cristiani, il passaggio della terra ai contadini». In modo semplice, quasi scolastico, Luigi Einaudi s’oppone alla rozza propaganda del tempo, descrivendo, potremmo dire, gli effetti benefici della sola rivoluzione agraria dell’età moderna attuatasi senza spargimento di sangue. L’emigrazione ebraico-italiana derivante dalle leggi di Mussolini anche da parte di Ernesto Rossi è spiegata con le leggi dell’economia e cioè con il calcolo della perdita secca per le Università italiane: «È un bel numero di cattedre che rimangono vacanti: una manna per tutti i candidati, che si affolleranno ora ai concorsi portando come titoli i loro profondi studi sulla razza, sull’ordinamento corporativo, sull’autarchia ecc.». Una corrispondente «circolazione delle élites», scrive, si avrà per gli agenti di cambio, per i medici negli ospedali, per i dirigenti delle aziende e per tutti gli altri posti lasciati dagli ebrei. Ernesto Rossi proseguiva così la sua lucida e pratica analisi dei danni economici, che sorprende per gli evidenti calchi dall’empirismo cattaneano: «Si raggiungono press’a poco, con la cacciata degli specialisti, gli stessi risultati che con la distruzione delle macchine: quasi nessuno riesce a vedere i danni generali, indiretti, diffusi, mentre gli interessati all’eliminazione della concorrenza si rallegrano del vantaggio immediato che posson ritrarre nel periodo di transizione. Speriamo che nei paesi democratici ci sian dirigenti capaci di comprendere quale straordinario fattore di progresso può esser per loro la sistemazione di tanti elementi di prim’ordine, malgrado le inevitabili lamentele di tutti coloro che, in un primo tempo, si sentiranno danneggiati». L’economia, sì. Certo, ma anche, come sempre in Ernesto Rossi, un profondo senso della storia. Infatti, quella medesima lettera alla mamma, scritta dal carcere il 22 ottobre, si chiude con una notazione che non ha eguali e che brilla per la sua lucidità di interpretazione storiografica, con il più classici dei paragoni con il passato: «Secondo quanto ci narrano gli storici, la politica di fanatismo e d’intolleranza dei re francesi e spagnoli contribuì nel secolo XVII alla prosperità dell’Olanda e dell’Inghilterra, che accolsero i profughi ebrei ed ugonotti, più di qualsiasi scoperta o invenzione». Alberto Cavaglion, scrittore-Pagine Ebraiche, gennaio 2019
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Roma Capitale-Villa Borghese- Riapre al pubblico la Loggia dei Vini-
Roma Capitale-A Villa Borghese -Riapre al pubblico la Loggia dei Vini-L’apertura, ad accesso gratuito per tutti, sarà valorizzata dal progetto d’arte contemporanea LAVINIA, a cura di Salvatore Lacagnina, concepito per dialogare con lo spazio della Loggia e con tutte le fasi di rifacimento.
Il progetto, realizzato da Ghella e promosso da Roma Capitale, Assessorato della Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con la collaborazione di Zètema Progetto Cultura, è stato presentato alla presenza dell’assessore alla Cultura di Roma Capitale Miguel Gotor, della direttrice della Direzione Patrimonio artistico delle Ville storiche della Sovrintendenza Capitolina Federica Pirani, del direttore dei Rapporti Istituzionali, Comunicazione e Sostenibilità di Ghella Matteo d’Aloja e del curatore Salvatore Lacagnina.
Il nome LAVINIA è un omaggio a Lavinia Fontana, tra le prime artiste riconosciute nella storia dell’arte, presente nella collezione Borghese dai primi del Seicento. Il progetto prevede l’esposizione, fino al 26 gennaio 2025, delle opere site specific degli artisti Ross Birrell & David Harding, Monika Sosnowska, Enzo Cucchi, Gianni Politi, Piero Golia, Virginia Overton.
La Loggia dei Vini a Villa Borghese, originale ed elegante architettura a pianta ovale impreziosita da decorazioni e affreschi, edificata tra il 1609 e il 1618 per volontà del cardinale Scipione Borghese e utilizzata per riunioni e feste conviviali durante il periodo estivo. La Loggia dei Vini fa parte di un complesso architettonico che comprende anche la sottostante Grotta, destinata alla conservazione dei vini e collegata al Casino Nobile di Villa Borghese attraverso un passaggio sotterraneo. Da tempo chiusa al pubblico, dopo alcuni interventi compiuti nel corso del Novecento, la Loggia torna ora a rivivere al termine del primo dei tre lotti di restauro che ha interessato la volta interna, con le cornici in stucco e l’affresco centrale – realizzato dal pittore Archita Ricci e raffigurante Il Convito degli dei – i pilastri, danneggiati da infiltrazioni d’acqua e le scale d’accesso.
Il restauro, realizzato grazie a una donazione di Ghella, con la cura scientifica della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, è effettuato da R.O.M.A. Consorzio. I prossimi due interventi saranno dedicati alla restituzione degli intonaci dei pilastri interni e della parte esterna dell’edificio, al ripristino dell’emiciclo e della sua pavimentazione in cotto.
Per dare ulteriore valore al progetto di restauro e far dialogare il pubblico con la Loggia, lo spazio sarà animato con opere, performance, letture, laboratori e attività didattiche, orchestrate secondo una narrazione unitaria.
Per questo nasce LAVINIA, un nuovo programma d’arte contemporanea concepito per dialogare con lo spazio della Loggia e con le fasi di restauro. LAVINIA aspira a entrare silenziosamente nella vita quotidiana, si rivolge a chi passeggia nel parco, evitando qualsiasi forma di «auctoritas». Mette in discussione le nozioni di arte pubblica e di tradizione, il rapporto fra arte e architettura, apre al potenziale dello storytelling.
Nella Loggia, suggestivo luogo di ricevimenti, venivano serviti, al fresco della penombra, vini pregiati e prelibati sorbetti; proprio per questo, ogni inaugurazione di LAVINIA sarà associata a un gusto di gelato ideato appositamente per l’occasione. Il primo gusto è “arancia e erba cedrina”.
INFORMAZIONI PER IL PUBBLICO
LAVINIA – LOGGIA DEI VINI A VILLA BORGHESE
Dal 19 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025
Ingresso gratuito
Orari: dal giovedì alla domenica
dalle 9:00 alle 19:00 fino al 26 ottobre 2024
dalle 9:00 alle 17:00 dal 27 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025
È considerata la prima architetta della Cina moderna. Suo marito era il famoso Liang Sicheng, conosciuto come il padre dell’architettura cinese moderna. Insieme hanno lavorato alla riscoperta e al restauro di siti archeologici cinesi, hanno collaborato alla creazione del dipartimento di architettura della Northeastern University di Shenyang nel 1928 e, dopo il 1949, hanno insegnato come docenti alla Università Tsinghua di Pechino. L’artista americana Maya Lin è sua nipote, figlia di Henry Lin, fratello minore di Huiyin.[2][3]
Primi anni
Lin Huiyin nacque ad Hangzhou, nella provincia di Zhejiang, il 10 giugno 1904. Era figlia di Lin Changmin, un importante funzionario del governo Beiyang, e di sua moglie He Xueyuan.[4][5][6]
Nei primi anni 1920 viaggiò con il padre a Londra, dove conobbe il poeta cinese Xu Zhimo, con il quale ebbe una breve relazione, e successivamente negli Stati Uniti. Nel 1924 sia Lin che il suo futuro marito Liang Sicheng, il cui matrimonio insieme era già stato organizzato dalle rispettive famiglie, si iscrissero all’Università della Pennsylvania. Lin avrebbe voluto frequentare la facoltà di architettura come Liang, ma non venne ammessa in quanto considerata non adatto ad una ragazza: infatti per completare i loro progetti talvolta gli studenti dovevano lavorare anche di notte, e per una ragazza era considerato sconveniente farlo senza la presenza di un accompagnatore. Si laureò così nel 1927 alla facoltà di belle arti, riuscendo nel frattempo a seguire alcuni corsi di architettura. In seguitò trascorse un semestre all’Università Yale, studiando scenografia.[3][5][6][7]
Il matrimonio con Liang Sicheng e il ritorno in Cina
Nel 1928 Lin Huiyin e Liang Sicheng si sposarono in Canada, e da quel momento lavorarono sempre insieme. Tornati in Cina quello stesso anno, contribuirono alla creazione del dipartimento di architettura dell’Università Nordorientale di Shenyang, al tempo la seconda scuola di architettura del paese, e Lin progettò una stazione ferroviaria nella città di Jilin.[5][6][8][9]
Nei primi anni 1930 si trasferirono a Pechino e iniziarono a organizzare spedizioni nell’entroterra per studiare e preservare esempi dell’antica architettura cinese. Tra le loro scoperte più notevoli vi fu il tempio di Foguang, che datarono come risalente al tempo della dinastia Tang, inserito nel 2009 tra i siti patrimonio dell’umanità dell’UNESCO come parte del Monte Wutai. Le difficili condizioni degli studi sul campo minarono però la salute di Huiyin, che si ammalò di tubercolosi.[6][10]
Nel 1937, a causa dello scoppio della seconda guerra sino-giapponese, Lin e Liang dovettero interrompere le loro spedizioni e si ritirarono con i due figli in un cottage vicino a Kunming. A partire dal 1949 insegnarono architettura alla Università Tsinghua di Pechino, ma Lin morì a causa della tubercolosi nel 1955.[6][7][11]
L’inverno ha una sua ragione il freddo è come un fiore – un fiore ha il suo profumo, l’inverno un pugno di ricordi. L’ombra di un ramo secco, come un esile fumo azzurro, dipinge una sola pennellata sulla finestra del pomeriggio. Al freddo, la luce del sole diventa pallida e lentamente si inclina. E così bevo il mio tè in silenzio come in attesa che un ospite parli.
1936
Lin Huiyin, la prima architetta della Cina moderna che amava scrivere poesie
Mentre firmava progetti e pianificava Pechino, si dilettava con la letteratura
(da ‘The collected poems of Lin Huiyin‘, 1985)
Lin Huiyin (林徽因, Lín Huīyīn),conosciuta anche come Phyllis Lin o Lin Whei-yin durante il periodo trascorso negli Stati Uniti (Hangzhou, 10 giugno 1904 – Pechino, 1 aprile 1955)
[ Poetessa, scrittrice, architetto e storica dell’architettura cinese, autrice di poesie, saggi, racconti e opere teatrali apprezzati per la loro sottigliezza, bellezza e creatività. ]
Persino Omero celebrava la bellezza eburnea di Penelope, complice la dea Atena la fece più bianca nella carnagione al ritorno di Ulisse.
《Poi la rese più alta e maestosa a vedersi,
più bella l’aveva fatta la dea, più bianca dell’avorio intagliato;
fatto questo la divina tra le Dee se ne andò via.
Nella stanza giunsero le ancelle dalle bianche braccia, facendo rumore: allora il dolce sonno la lasciò; lei si accarezzò le guance con le mani…》
Odissea libro XVIII
Persino Omero celebrava la bellezza eburnea di Penelope, complice la dea Atena la fece più bianca nella carnagione al ritorno di Ulisse.
Questo mito del candore epidermico era il segno di una pelle virginea, nemmeno profanata dal sole, e nella storia ebbe fasi alterne finendo per ribaltare il senso di un candore che sapeva di chiuso e malato come nel caso de “La signora delle camelie” .
Più che una storia di cosmesi è una storia di costume.
Per tutta l’antichità e sino all’ottocento per la classe aristocratica il segno esteriore di ricchezza era la pelle bianca.
Una pelle abbronzata era sintomo di povertà, poiché solo chi svolgeva lavori umili e manuali era in qualche modo costretto a vivere sotto il sole, con l’ovvio risultato di aver una pelle scura. Mentre coloro che erano ricchi potevano permettersi di non lavorare, o di svolgere impegni direttivi comodamente seduti tra le stanze dei palazzi, evitando dunque il contatto con il sole.
Abbiamo testimonianza che già ai tempi dei Romani, le patrizie, ovvero le donne appartenenti alla classe più abbiente, avevano l’abitudine di proteggersi dai raggi del sole per mezzi di ombrellini. Le varie raffigurazioni femminili di epoca medioevale che ci sono pervenute sempre immortalano donne, per lo più di fattezze angeliche, con pelli bianchissime. Ancora nel 1500 Guido Reni dipinge una lotta di classe tra degli amorini abbronzati, che appunto rappresentavano i plebei, e degli amorini pallidi, indicanti la classe abbiente. E così in tutta la storia dell’arte sino alle donne paffute dell’800 per terminare con le donne atletiche di inizio ‘900. Tutte sempre con un unico segno distintivo, la pelle bianca. E va detto che, come accadeva fino a pochi anni fa per la tintarella perfetta, talvolta anche nell’antichità l’avere la pelle bianca si trasformava in una ossessione al punto da giungere ad utilizzare prodotti chimici – spesso nocivi – pur di sbiancare ulteriormente la cute.
Lo spartiacque fu l’anno 1903 quando Niels Ryben Finsen ottenne il premio Nobel per aver scoperto che la fototerapia, ovvero la terapia basata sull’uso della luce, era in grado di curare le malattie infettive, alcune delle quali tra l’altro, come lupus e rachitismo, erano prodotte dalla mancanza di vitamina D che non veniva assorbita dal corpo delle persone proprio per la mancanza di esposizione al sole.
L’avvento della fototerapia abbinato alla rivoluzione industriale, che come già detto portò le classi meno abbienti a spostarsi a lavorare dai campi alle fabbriche perdendo così la loro caratteristica di lavorare sotto il sole e di conseguenza il colorito scuro della pelle, creò le basi per lo sviluppo della cultura dell’abbronzatura. I medici infatti iniziarono a ricettare ai loro pazienti periodi di esposizione al sole per curare o per prevenire malattie.
Tuttavia la tintarella divenne una moda grazie alla stilista francese Coco Chanel che negli anni 20 del diciannovesimo secolo, tornando da un periodo di ferie in Costa Smeralda, per il colorito della sua pelle abbronzata fece tendenza tra le sue clienti, le quali vollero emularla. Ulteriore elemento impulsivo fu l’avvento della televisione a colori nei successivi anni 30 che iniziò a mostrare donne bellissime e rigorosamente abbronzate. Infine fu con la fine della seconda guerra mondiale quando i militari americani tornarono dalla Europa nel paese natio, abbronzati, che la tintarella venne identificata con la lotta per la democrazia, poiché colore caratteristico di coloro che lottarono per essa.
Da allora fu un continuo percorso in ascesa, fino all’eccesso. L’essere abbronzato era lo status che distingueva i ricchi che potevano permettersi ferie in località balneari o di montagna, rilassandosi al sole, a differenza degli operai che lavoravano nel chiuso delle fabbriche rimanendo bianchi.
L’era moderna ha quindi fatto un passo indietro, togliendo dalla carnagione chiara l’etichetta di povertà e giungendo infine probabilmente alla giusta via di mezzo: l’assenza di sole ammala il corpo così come l’eccesso, da qui lo sviluppo di una nuova cultura volta ad educare in merito al corretto modo di prendere il sole rispetto alle caratteristiche genetiche del proprio corpo.
Foto: Louis Jean Lagrenee – Penelope che legge una lettera da Odysseus.
La masseria delle allodole-Film sul genocidio armeno
Dai fratelli Taviani un coraggioso recupero della storia. Il loro genocidio armeno parla di tante altre tragedie
Descrizione del Film sul genocidio armeno -E’ la saga dei due fratelli Avakian, che facendo scelte di vita diverse, preparano due destini tragicamente opposti di vita e di morte, per i loro figli. Il fratello maggiore, Assadour, lascia l’Armenia da ragazzo per andare a studiare medicina a Venezia. Diventa un medico di successo a Padova, si sposa con una nobildonna e ha due figli. Il fratello più tranquillo, Aram, legato alle tradizioni familiari, nella sua farmacia nel villaggio natale in Anatolia, fa conoscere le novità occidentali, ma la sua numerosa famiglia incarna i valori e la cultura del popolo armeno. Dopo molti anni di lontananza, nel 1915 i due fratelli combinano una rimpatriata: Assadour con la famiglia si prepara a tornare in Anatolia con due automobili, carico di doni e di nostalgia. Aram arreda con eleganza la “masseria delle allodole”, la villa in campagna, preparando per tutti loro un’accoglienza memorabile. Ma l’incontro con questi familiari italiani non avverrà mai. Si scoprirà più tardi, infatti, che sono stati coinvolti nell’orrendo genocidio perpetrato sugli armeni dai turchi, alleati dei tedeschi, nel corso della prima guerra mondiale.
Tratto da: liberamente ispirato al romanzo omonimo di Antonia Arslan
Produzione: GRAZIA VOLPI PER AGER 3, RAI CINEMA, EAGLE PICTURES, NIMAR STUDIO (SOFIA), SAGRERA TV, TVE (MADRID), FLACH FILM, FRANCE 2 CINEMA, CANAL+, 27 FILMS PRODUCTION, ARD DEGETO (PARIGI)
Distribuzione: 01 DISTRIBUTION
Data uscita: 2007-03-23
NOTE
PRESENTATO COME EVENTO SPECIALE AL 57MO FESTIVAL DI BERLINO (2007).- FILM REALIZZATO CON IL CONTRIBUTO DI MIBAC.- CANDIDATO AI NASTRI D’ARGENTO 2007 PER: MIGLIOR SCENOGRAFIA E COSTUMI.
CRITICA
“‘La masseria delle allodole’ è molto, molto interessante, ricco di meravigliose immagini, recitato da un cast internazionale (i più bravi sono André Dussolier e Mohamed Bakri). E segnato dall’inconfondibile grandioso stile dei Taviani, inasprito dal senso di rivolta verso la persecuzione degli armeni e verso gli assassinii di massa dei giorni nostri.” (Lietta Tornabuoni, ‘La Stampa’, 14 febbraio 2007)
“Forte, sincero, pietoso: ecco ‘La masseria delle allodole’, l’atteso film dei fratelli Taviani sul genocidio degli armeni. (…) Nessuna pressione esterna e, alla fine, solo il silenzio con cui i giornalisti in sala hanno accompagnato lo sguardo su questo film dall’argomento forte, scenograficamente calligrafico e teatralmente interpretato. Una pellicola dagli alti additivi di fiction e di pathos che, pur articolandosi anche lungo microcosmi familiari allargati e storie d’amore ‘miste’, cerca il rimbalzo per arrivare a rappresentare il capitolo tragico di un intero popolo, senza per questo ideologizzarne la memoria, ma senza nemmeno risparmiare qualche crudezza nella messinscena. (…) E allora niente premeditazioni politiche, solo il tentativo di raccontare una verità documentata storicamente per farla riemergere dalla feritoia-tabù in cui era stata inabissata, abbracciando una prospettiva defilata e sentimentale.” (Lorenzo Buccella, ‘L’Unità’, 14 febbraio 2007)
“‘La masseria delle allodole’ non ha nulla dei film che hanno reso giustamente illustre, anche se spesso contestato, il nome dei Taviani. Inquadrature sempre ravvicinate uso tv; doppiaggio alla meno peggio degli attori non italiani (Tchéky Karyo, Moritz Bleibtreu, Angela Molina, André Dussollier, Paz Vega, Arsine Khanjan) e recitazione enfatica degli altri; provincialismo dei bambini (si sente un ‘subbito’); sfondi di cartapesta; inverosimiglianze. Questi sarebbero pessimi requisiti in ogni circostanza, ma sono micidiali quando si pretende di ricostruire, con tanta disinvoltura, un ‘genocidio’ che i turchi tuttora negano. Comunque, se i prossimi film che si occupano della controversia, avranno la forza drammatica della ‘Masseria delle allodole’, l’onore di Enver Pascià – considerato il promotore delle stragi di armeni – sarà al sicuro. Coproduzione italo-bulgaro- spagnola, ‘La masseria delle allodole’ ha da una parte l’impronta anonima dei film per tutti fatti per non piacere a nessuno; dall’altra – specie nell’inizio arcadico – evoca il ‘Giardino dei Finzi Contini’, che Vittorio De Sica, ormai vecchio, diresse addormentandosi sulla macchina da presa, dopo notti insonni al casinò. Però vinse l’Oscar. Ai fratelli Taviani si può solo fare lo stesso augurio.” (Maurizio Cabona, ‘Il Giornale’, 14 febbraio 2007)
“Forse non bisognerebbe cercare di rinchiudere tragedie così grandi, come il massacro degli Armeni, in un film, in una storia: si rischia sempre di dire troppo o troppo poco, di banalizzare o di schematizzare. Succede anche con ‘La masseria delle allodole’, che i fratelli Taviani hanno tratto dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan. Forse per una scelta di stile che guarda soprattutto a una destinazione televisiva di tipo generalista. E che finisce per evidenziare quella mancanza di originalità e rigore che in passato aveva contraddistinto le letture storiche fatte dai due registi. Adottando per questo film il punto di vista del romanzo, che fa vivere il dramma del genocidio attraverso le peripezie della famiglia Avakian, i Taviani scelgono di ‘spiegare’ per immagini una tragedia epocale, con diverse sfumature di coinvolgimento nelle file turche e contraddittori atteggiamenti in quelle armene, ma finiscono irrimediabilmente per stemperarne la forza emotiva e spettacolare. Solo in una scena la capacità di sintetizzare in un’immagine tanti discorsi torna a farsi ammirare: è quando una madre, che ha partorito un maschio durante la deportazione verso Aleppo, è costretta a chiedere aiuto a un’amica perché le è stato ordinato di uccidere il neonato. Basta quell’inquadratura senza parole per dire l’atrocità del genocidio armeno. Il resto è solo inerte illustrazione.” (Paolo Mereghetti, ‘Corriere della Sera’, 14 febbraio 2007)
“Tutti sappiamo o crediamo di sapere molto della Shoah avendo letto al riguardo migliaia di parole e visto montagne di immagini, fisse o in movimento, autentiche o fittizie. Mentre sul massacro degli armeni ma il discorso vale per molte pagine atroci, anche recenti abbiamo quasi sempre nozioni vaghe. Parole, più che immagini. Dati, più che emozioni. In questo senso il film che i fratelli Taviani hanno tratto dal romanzo omonimo di Antonia Arslan, ‘La masseria delle allodole’, dovrebbe fare finalmente da apripista, per così dire, a una maggior conoscenza del genocidio armeno. Impossibile, dopo averlo visto, dire non sapevamo, non immaginavamo. Nella storia (vera) della famiglia Avakian c’è infatti tutto (o quasi) ciò che occorre sapere. (…) Eppure a questo film sontuosamente ambientato e fotografato manca qualcosa di fondamentale al cinema (un po’ meno in tv, che ci sembra la destinazione più naturale dell’opera). E cioè quel sapore di verità che a volte si condensa in un gesto, una voce, uno sguardo, ma che raramente troviamo in questa grande coproduzione europea interpretata da un cast italo-franco-ispano-tedesco cui si aggiunge la armeno-canadese Arsinée Khanjian, moglie e musa di quell’Egoyan che con ‘Ararat’ raccontò, più che la tragedia degli armeni, la difficoltà del raccontarla.” (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 15 febbraio 2007)
“Purtroppo il film tende a schematizzare la rilettura storico-sentimentale, un po’ sulla scia delle fiction da guardare distrattamente in tv durante la cena domenicale: le tragiche peripezie della famiglia Avakian, corredate dagli svariati atteggiamenti in seno al popolo armeno e dai differenti gradi di coinvolgimento dei turchi «pulitori etnici», riescono solo sporadicamente a centrare l’ambizioso obiettivo artistico. Nonostante l’apprezzabile impegno degli interpreti – tutti dignitosi, con note particolari di merito per Paz Vega, Alessandro Preziosi, Mohammad Bakri, Mariano Rigillo e Christo Jivkov – le sequenze che impongono un segno stilistico forte alla sbrigativa routine (spesso a macchina fissa) degli sfondi e dei dialoghi si contano sulle dita di una mano.” (Valerio Caprara, ‘Il Mattino’, 15 febbraio 2007)
Articolo di Massimo Monteleone-23 marzo, 2007-Come sempre, nel cinema dei fratelli Taviani, il dramma storico-politico-collettivo viene raccontato attraverso le vicende e i destini di alcuni personaggi, dei componenti di una famiglia, di un nucleo ristretto. Perchè la Storia è fatta dalle persone, su cui però troppo spesso si accanisce la disumanità di strategie politico-ideologiche che annullano ogni rispetto etico e umano. La masseria delle allodole, tratto dal romanzo dell’italo-armena Atonia Arslan, non vuole essere – secondo i due registi – un accurato quadro storico. Anche se la denuncia del genocidio armeno nel 1915 da parte del partito dei “Giovani Turchi” è centrale nella narrazione, risulta evidente che i Taviani guardino al massacro del passato come esempio negativo e radice di analoghe intolleranze e tragedie posteriori: dall’Olocausto degli Ebrei ad opera dei nazisti fino alla “pulizia etnica” nell’ex-Jugoslavia e ai conflitti politico-religiosi del presente. La didascalia alla fine del film ricorda che “Il popolo armeno attende ancora giustizia” per ciò che ha subìto durante la Grande Guerra. Il romanzo e il film fanno riemergere questa verità taciuta e rimossa colpevolmente dalla Turchia. Un film necessario, dunque, con pagine dure di forte tensione e macabra crudezza (la strage dei maschi – bambini e adulti – rifugiatisi nella masseria e ancora ignari dell’ordine di sterminarli). Fra gli interpreti del cast multilinguistico si distinguono per intensità Paz Vega, Tcheky Karyo, Arsinee Khanjian, Andrè Dussolier e Mohammad Bakri. L’impegno e la moralità dell’opera sono fuori discussione. Però, trattandosi di una coproduzione europea che coinvolge enti televisivi, i Taviani hanno preferito un registro espressivo realistico che tende alla “fiction” TV. Hanno tralasciato quasi del tutto (ad eccezione dell’iniziale presagio di sangue e di certe inquadrature oniriche) lo stile che li ha resi maestri fra gli anni ’60 e gli ’80: il realismo trasfigurato in Mito, lo straniamento epico-brechtiano, le visioni metaforiche e meta-storiche, l’insolito connubio fra tentazione mélo e pamphlet politico-letterario. In una parola: la poesia. La masseria delle allodole non è Allonsanfan, Kaos o La notte di San Lorenzo. Certo, la tragedia evocata surclassa per importanza le esigenze dell’Arte. Ma i capolavori dei Taviani testimoniano che si può essere poeti drammatici e non solo narratori.
Via Appia. La strada che ci ha insegnato a viaggiare-
Un racconto con le straordinarie fotografie realizzate da Andrea Frazzetta-
Roma- La mostra “Via Appia la strada che ci ha insegnato viaggiare “ è aperta fino al 1° dicembre 2024 al Complesso di Capo di Bove sito al IV miglio dell’Appia antica.La mostra ospita una stanza immersiva che accompagna lo spettatore lungo un percorso unico al mondo, tra passato e presente, in un racconto per immagini di grande potenza, costruito con le straordinarie fotografie realizzate da Andrea Frazzetta nel corso del suo viaggio condotto da Roma fino a Brindisi per National Geographic.
Accompagnati in cuffia dal racconto di Giovanni Carrada (autore RAI per Superquark e Noos, esperto nella divulgazione e comunicazione del patrimonio culturale), guidati dalle voci di Francesco Prando nella versione in italiano ed Edwin Alexander Francis in quella inglese, nella proiezione immersiva su doppio schermo, realizzata con la regia di Raffaella Ottaviani, si viene travolti in un coinvolgente percorso tra archeologia, paesaggio, persone e storie. Il viaggio del fotografo diventa il nostro viaggio nella bellezza e nella storia, attraverso un territorio segnato dall’antico ma anche dalla modernità, in un percorso ricco di stimoli che attraversa quattro regioni, collega il Tirreno all’Adriatico, conduce verso Oriente.
Partendo dal basolato romano, affiancato da sepolcri monumentali e resti delle grandiose ville imperiali, si ha l’impressione di ‘entrare’ nelle fotografie di Andrea Frazzetta e di vivere con lui il viaggio lungo i 540 chilometri che separano Roma da Brindisi, tra i restauratori all’opera nella Villa dei Quintili, gli invitati di un matrimonio nella piazza di Terracina, le vivaci scolaresche che si rincorrono tra le colonne di Minturno. Lungo il tragitto ci si perde tra le gallerie dell’anfiteatro di Capua, nelle immense distese di grano della Campania Felix, tra i campi eolici, gli uliveti, le gravine. Si resta incantati dai colori e dalla luce di Taranto e ci si ritrova a ballare la pizzica a Mesagne, per arrivare infine, carichi di emozione, al porto di Brindisi dominato dall’iconica colonna che oggi segna la fine del nostro viaggio ma che apre lo sguardo alla Grecia e all’Oriente, facendoci d’un tratto comprendere tutta la forza della Regina Viarum.
-Enrico Brignano in scena al Teatro Sistina con “I 7 Re di Roma”
Roma-A trentacinque anni dalla sua storica prima rappresentazione, Enrico Brignano riporta sul palco del Teatro Sistina la leggendaria opera musicale “I 7 Re di Roma”, scritta da Gigi Magni e musicata da Nicola Piovani. Questa attesissima nuova edizione debutterà proprio sul palco del prestigioso Teatro Sistina di Romadall’8 ottobre al 1° dicembre 2024, regalando al pubblico romano un’esperienza unica e coinvolgente.
Enrico Brignano, con la sua ineguagliabile comicità e presenza scenica, interpreterà i sette re di Roma, in un susseguirsi di travestimenti che porteranno il pubblico a rivivere le epoche e le storie della fondazione della Città Eterna. L’adattamento del testo, curato da Manuela D’Angelo, garantisce una fusione perfetta tra il rispetto per l’opera originale e la sensibilità moderna, assicurando uno spettacolo adatto al pubblico contemporaneo.
Sul palco, Brignano sarà affiancato da un cast stellare, tra cui Michele Gammino nel ruolo di Giano, una figura divina e narratore che guiderà il pubblico in questo viaggio tra mito e realtà. Accanto a loro, talenti del calibro di Pasquale Bertucci, Giovanna D’Angi, Ludovica Di Donato, Michele Marra, Simone Mori, Ilaria Nestovito, Andrea Perrozzi, Andrea Pirolli, Emanuela Rei ed Elisabetta Tulli. Quando
Data/e: 8 Ottobre 2024 – 1 Dicembre 2024
Orario: 20:30 – 22:30 (La domenica alle 16.00)
Dal 1998 al 2000 interpreta il ruolo di Giacinto in Un medico in famiglia; la serie TV gli offre una maggiore visibilità e soprattutto un riconoscimento da parte del pubblico che lo segue anche in teatro; del 1999 è il primo spettacolo tutto suo, Io per voi un libro aperto, da Ostia Antica, trasmesso in diretta anche da Mediaset su Canale 5. Nel 2000 gira il suo primo film da regista e protagonista Si fa presto a dire amore, al fianco di Vittoria Belvedere. Inizia l’ascesa nel mondo dello spettacolo grazie alle tournée estive di teatro e cabaret e nel 2001 Carlo Vanzina lo sceglie per il ruolo di Francesco nel film South Kensington, dove recita al fianco di Rupert Everett.
Interrompe la carriera cinematografica per dedicarsi maggiormente alla sua vera passione, il teatro, e così scrive e interpreta diversi spettacoli prima di tornare nuovamente sul grande schermo al fianco di Vincenzo Salemme e Giorgio Panariello con i quali girerà altri film negli anni successivi. Nel 2007 conduce un quiz su Rai 2, dal titolo Pyramid, con Debora Salvalaggio. Dal 2007 al 2011 fa parte del cast dei comici di Zelig. Nel 2008 interpreta una piccola parte nel film Asterix alle Olimpiadi, e insieme a Fiorello e Fabrizio Frizzi, ha partecipato ad un progetto a sfondo benefico per realizzare un centro di supporto ai bambini affetti da gravi patologie e alle loro famiglie.[2]
Inoltre è una seconda volta ospite (e vittima) a Scherzi a parte, condotto questa volta da Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu. Sabato 28 aprile 2012 ha fatto parte della giuria speciale nel talent show Amici di Maria De Filippi. Grazie al successo ottenuto dal suo primo monologo, sarà presente nel programma in tutte le serate successive in veste di comico. Il 19 maggio durante la finale all’Arena di Verona condanna gli assassini dell’attentato alla scuola di Brindisi: “Non siete uomini e non siete nemmeno bestie perché loro queste atrocità non le commettono. Mi auguro che finiate nella caldaia dell’Inferno”.
Il 17 agosto 2013 riceve a Catanzaro il “Riccio d’argento” della 27ª edizione di Fatti di musica per il nuovo spettacolo Il meglio d’Italia. Sempre nel 2013 viene scelto per doppiare il pupazzo di neve parlante Olaf nel film DisneyFrozen – Il regno di ghiaccio. Dal 28 febbraio 2014 conduce per quattro venerdì il programma su Rai 1Il meglio d’Italia.
Dopo aver fatto il giurato a 60 Zecchini e Italia’s Got Talent ed essere stato una presenza costante a Che tempo che fa,[3] nel 2020 su Rai 2 lancia Un’ora sola vi vorrei, one man show che riprende il suo spettacolo teatrale partito nel 2019 e al quale partecipa anche la compagna Flora Canto. Due anni dopo su Prime Video viene pubblicato un suo spettacolo registrato all’Auditorium Parco della Musica di Roma dopo lo stop dovuto alla pandemia COVID-19. Nello stesso periodo torna a teatro con un nuovo show, Ma … diamoci del tu!.[4] Lo spettacolo viene riproposto anche negli anni seguenti e nel 2024 si allarga ai palcoscenici di diverse paesi stranieri (Paesi Bassi, Germania, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Svizzera e Spagna).[5]
Roma-Apertura Straordinaria dei Sotterranei di Fontana di Trevi
Roma-sabato 19 ottobre ore 13.10 “Sotterranei di Fontana di Trevi: Antica Città dell’Acqua del Vicus Caprarius. Apertura Straordinaria” Hotel Trevi, Vicolo del Babuccio 20/21.
In occasione dell’Apertura Straordinaria – luoghi solitamente chiusi al pubblico e visibili eccezionalmente Solo per le nostre visite- visiteremo tre piani di un quartiere ormai nascosto, posto sul lato orientale di Via del Corso: i Sotterranei di Fontana di Trevi. Entreremo in ambienti risalenti al I sec. d.C., osserveremo le tecniche edilizie e i materiali utilizzati, capiremo l’importanza dell’area archeologica in questione. Narrerò le diverse funzioni che il luogo ha avuto nei secoli, la trasformazione da botteghe e complesso abitativo intensivo – a lussuosa domus di cui si conservano i n situ reperti di rivestim enti marmorei parietali e un pavimento musivo in tessere di marmi policromi. Cammineremo sul suolo di ambienti adiacenti al Vicus Caprarius e comprenderemo la vicinanza dell’Acquedotto Vergine. Sosteremo infine nel piano rialzato risalente all’età Medioevale ed ammireremo la struttura dall’alto. Capiremo meglio la storia della magnifica Fontana di Trevi e la stratificazione dei secoli… un percorso unico!
Costo: Euro 18 (ingresso, prenotazione, visita guidata e cuffie)
Riduzioni: Euro 17 – studenti 18/25 anni, insegnanti
Euro 15- ragazzi 14/18 anni
Euro 14- ragazzi under 14 anni, studenti universitari di Archeologia
Appuntamento davanti l’ingresso Hotel Trevi, vicolo del Babuccio 20/21
Prenotazione Obbligatoria entro Venerdi 18 ottobre
Termineremo la visita guidata alle ore 14.30 circa
Non è possibile partecipare alla visita se il cliente manifesta i sintomi del Covid 19 o stato febbrile.
E’ richiesto sempre il pagamento anticipato per evitare contatti personali.
E’ gradita la prenotazione almeno il giorno prima della data scelta.
La prenotazione è sempre obbligatoria e avviene SOLO tramite richiesta scritta a info@chiaraproietti.it o Whatsapp al 335 67 47 268 ( più diretto) o SMS indicando il nome e cognome del/i prenotati, il numero dei partecipanti e il recapito telefonico, la mail ed eventuali riduzioni.
Vi consiglio questa pratica, siamo al lavoro e non sempre riusciamo a rispondere in tempo reale alle chiamate dirette.
Poichè i gruppi sono SEMPRE limitati, non è consigliabile presentarsi sul luogo della visita senza aver ricevuto da parte nostra la conferma di partecipazione.
I biglietti NON sono rimborsabili ma cedibili a terzi.
Vi consiglio di portare i Vs auricolari monouso: dal 2023 per evitare un eccessivo consumo di plastica, saranno a pagamento.
Nota bene: Prima di iniziare la visita guidata – se ancora non ho il piacere di conoscerVi direttamente- Vi prego di assicurarVi che a guidare il gruppo sia Chiara Proietti e chiedete sempre di Visite Guidate di Chiara
Al momento la Legge che disciplina i Beni Culturali vieta l’ingresso in tutti i musei, monumenti e aree archeologiche comunali e nazionali ad animali di qualsiasi taglia. Sono ammessi Solo i cani guida per i non vedenti.
In caso di disdetta, Vi prego di avvertire almeno 24 ore prima dall’appuntamento, altrimenti sarò costretta a far pagare il costo per intero.
Vi Ringrazio e Vi Aspetto!
Chiara – Whatsapp 335 6747268 (orario 10-18)
Gruppo Facebbok: Visite Guidate di Chiara (NON la pagina)
Instagram: chiaraproiettiarte
«una certa dose di meledicenze, un po’ di veleno, alcuni aneddoti e pettegolezzi… Scrivo del mio tempo» Sergej M. Ejzenstejn
«Ma c’è stata la vita?…Si direbbe ci sia stata. Vissuta in modo acuto, allegro, doloroso, addirittura vivida in alcuni momenti,indubbiamente pittoresca, e tale che non la cambierei con nessun’altra» Sergej M. Ejzenstejn
Il bisogno di scrivere prende forma precocemente in Ejzenstejn, che sin dal 1917-1918 annota in quaderni e su foglietti improvvisati ogni sorta di riflessione: da considerazioni sul teatro a impressioni tratte dalle letture fatte, da divagazioni filosofiche a piccoli aneddoti buffi.
Nel 1946, sulla soglia dei cinquant’anni, mentre si accinge a scrivere le proprie memorie, egli nota come per tutta la vita, nel suo lavoro, si sia occupato «di opere à thèse» dimostrando, spiegando, insegnando. Mentre «qui», dichiara, «voglio girovagare per il mio passato, come amavo fare per antiquari e rigattieri del mercato Aleksandrovskij a Piter, per i bouquinistes dei lungosenna a Parigi, per Amburgo o Marsiglia di notte, per le sale dei musei delle cere».
Ecco allora che in queste pagine letture e stralci di vita vissuta s’intrecciano; Dumas e Hugo, Zola e Balzac si profilano nelle sale borghesi della casa paterna, Maeterlinck e Schopenhauer si stagliano sullo sfondo della guerra civile, le città d’Europa e d’America sono evocate ora attraverso incontri fortuiti con artisti di fama, da Pirandello a Cocteau, da Zweig a Joyce, ora tramite associazioni libere con temi ed eventi storici legati ai luoghi visitati: la polizia americana e francese e le tecniche del romanzo giallo, le millenarie piramidi dello Yucatan e la Chiesa ortodossa medievale, gli esordi teatrali e cinematografici a Riga e Pietrogrado, i ricordi d’infanzia sul Baltico, le prime impressioni della Rivoluzione, il fronte e la guerra civile nella Russia bianca, le emozioni per i successi professionali all’estero e in patria, i viaggi… Così la vita del grande regista «sfreccia nella memoria come un film con dei vuoti, dei pezzi spariti, con scene incollate in modo sconnesso, come un film la cui “idoneità alla distribuzione” sia pari al trentacinque per cento».
Eppure, lo scrittore Ejzensˇtejn non ci ha mai parlato in modo così chiaro. Giacché solo qui, e forse nei primi giovanili appunti «per sé», egli scrive senza altra finalità se non quella, appunto, di «scrivere». Nei suoi intenti c’è dunque l’idea di afferrare, tramite la scrittura, episodi, incontri, attimi,
immagini di quella vita che spesso noi tutti «percorriamo al galoppo, senza guardarci intorno, come un trasbordo dopo l’altro», e dalla quale, «come dal finestrino di un treno, sfrecciano via frammenti d’infanzia, pezzi di gioventù, scampoli di maturità».
È lui stesso, in apertura delle Memorie, ad annotare: «Come vorrei esaurire il capitolo riguardante la mia vita con tre parole! “Visse, meditò, si appassionò”. E che queste pagine possano servire a descrivere ciò di cui ha vissuto, su cui ha meditato e a cui si è appassionato l’autore».
Biografia di Sergey Michajlovic Ejzenstejn (1898-1948), massimo interprete del cinema russo e geniale innovatore della teoria cinematografica, iniziò il suo lavoro creativo come scenografo e regista teatrale (Il messicano, 1920-21; Anche il più saggio sbaglia, 1923; Mosca ascolti?, 1923; Maschere antigas, 1923-24). Il suo primo film è Sciopero (1924). Seguono: La corazzata Potëmkin (1925); Ottobre (1924); Il vecchio e il nuovo (La linea generale) (1926-29); Qué viva Mexico! (1930-31), incompiuto; Il prato di Bezin (1937), incompiuto; Aleksandr Nevskij (1938); Ivan il Terribile (I parte 1944, II parte, nota col titolo La congiura dei Boiardi, 1946). Dal 1928 fu anche insegnante di regia all’Istituto statale di cinematografia. Nel 1940 mise in scena La Valchiria di Wagner al teatro Bol’soj di Mosca. Al lavoro creativo di Ejzenstejn si affianca, fin dall’inizio, una straordinaria produzione di testi teorici nei quali l’indagine sul cinema si svolge, di regola, nel contesto di una penetrante riflessione sull’arte che oggi possiamo considerare senz’altro come uno degli episodi salienti del pensiero estetico moderno.
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