Descrizione del libro di Luigi Inzaghi. La vita di Beniamino Gigli è stata tra le più affascinanti del secolo XX. Non bello di forme come Franco Corelli, giudicato anzi troppo grasso e brutto per comparire sulle scene del Colón, Gigli cantava invece ammirevolmente più di qualsiasi altro tenore del suo tempo, escluso Caruso, in quanto possedeva la virilità di Martinelli, il pathos di Caruso, la liquidità di Bonci, il temperamento di Crimi, la grazia di Gayarre, la dolcezza di Angelo Masini e il calore di Roberto Stagno. I suoi modi di fare contrastavano grandemente da quelli convenzionali degli altri tenori, grazie alla sua voce che risuonava piena, ricca ed espressiva nel timbro. Là dove limitò il suo ardore per giovare all’arte, sfoggiò in cambio delle meravigliose mezze-voci e delle sonore note di testa. Non cercò neppure di convincere il pubblico presentando sempre una figura idilliaca o di appassionato fervore, né pronunciare un francese perfetto, ma anche in ciò la sua approssimazione meritava un elogio. Là dove ostentava note acute, in barba al dettato melodico del compositore, venne stigmatizzato dai critici ma apprezzato da Cilèa e da Alfano che approvarono le modifiche al loro genio creativo. I suoi do di petto nella pira verdiana furono alquanto arrischiati, arrivando bene solamente al Si naturale: il resto lo lasciava ai suoi falsettoni più arditi! Sposo non integerrimo, oltre ad aver cantato in 62 diverse opere di ogni genere dal 1907 al 1953, beneficò una quantità enorme di persone, di enti privati e pubblici, da meritargli medaglie, diplomi, onorificenze da capi di Stato e dalla Chiesa Cattolica. Accusato di collaborazionismo con nazisti e fascisti, venne escluso dal grande concerto toscaniniano che inaugurò il Teatro alla Scala di Milano nel primo dopoguerra. Avvicinatosi allora alla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, accettò la candidatura a deputato delle Marche.
Il libro contiene oltre 300 illustrazioni – Le origini e gli studi – Le famiglie – La carriera – Il litigio col Metropolitan – I concerti – Attore cinematografico – La discografia – La Musica Sacra – Città delle esibizioni gigliane – Le opere della carriera – Cronologia – Documenti – Registrazioni – Film e cortometraggi
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John Julius Norwich “I normanni nel Sud. 1016-1130”
Sellerio editore
Descrizione del libro di John Julius Norwich -Una storia di uomini, di armi e di bellezza: lo «stile arabo-normanno» diventa un romanzo grazie alla penna appassionata di John Julius Norwich che dopo “Breve storia della Sicilia” e “Il mare di mezzo” torna ad emozionarci con “I normanni nel Sud. 1016-1130”.
Le gesta e le imprese dei normanni, il loro lento viaggio alla conquista dell’Italia meridionale in un racconto storico divertito che scorre agile e veloce, coinvolgente come un romanzo, appassionante come una saga epica. La conquista normanna di Sicilia e dell’Italia meridionale è l’epopea più avvincente che ci giunge dal Medioevo. Un pugno di guerrieri poveri chiamati, dal villaggetto di Hauteville in Francia del Nord, a battersi, con la forza, con il coraggio e con l’astuzia, contro bizantini, longobardi, saraceni: è l’esempio chiaro di cosa volesse dire in quell’epoca essere cavaliere. E il risultato, strabiliante agli occhi di papi e imperatori, fu l’edificazione in poco più di un secolo, su terre favorite dalla natura, del regno più florido e moderno del tempo, guidato da una linea dinastica, gli Altavilla, breve e favolosa.
«Qui, al centro del Mediterraneo, si trovava il ponte che riuniva Nord e Sud, Est ed Ovest, latini, teutoni, cristiani e musulmani – scrive Norwich – magnifica inconfutabile testimonianza di un’era di illuminata tolleranza, ignota ovunque nell’Europa medievale e raramente eguagliata nei secoli che seguirono». Un colorato affresco che rappresenta il mescolarsi di culture e genti quale fonte di civiltà, ed è, in questi anni di migrazioni e trasferimenti, una lezione che ha tanto da insegnarci ancora oggi.
E l’autore lo dipinge da scrittore, con la freschezza, l’entusiasmo, di una scoperta che riguarda gli umani, l’ardore che deriva dal trasporto dello storico verso i luoghi di cui tratta, una scrittura elegante e carica di umo
Descrizione del libro “Ritratti 2005-2016 “ di Annie Leibovitz –Per questa raccolta Annie Leibovitz ha selezionato 150 ritratti di figure celebri e di grande influenza sulla scena mondiale. Le sue immagini documentano la cultura contemporanea attraverso l’occhio e l’intuizione dell’artista, facendo leva su una sorprendente capacità di mettere a nudo i tratti più intimi anche di personaggi la cui notorietà sembrerebbe aver già svelato ogni segreto. Annie Leibovitz è una delle fotografe più influenti del nostro tempo e la sua carriera si snoda su quasi cinque decenni, a partire dagli anni ’70 quando si è dedicata a immortalare il mondo del rock-and-roll.
La Grande fotografa Anna-Lou Leibovitz
Anna-Lou Leibovitz nasce negli Stati Uniti nel 1949 da una famiglia benestante, il padre è un ufficiale mentre la madre è un’affermata ballerina. Cresce tra i numerosi spostamenti dettati dalle esigenze del padre, membro dell’aereonautica, tra una base militare e l’altra.
Ha grande considerazione della madre, la sua prima fonte d’ispirazione artistica. Decide di seguire le sue orme come cantante ma poi, in seguito ad alcune fotografie scattate personalmente, decide di dedicarsi allo studio della pellicola.
Le fotografie in questione sono alcuni scatti ripresi da lei durante una scalata sul monte Fuji nel 1967.
Un talento nato che riesce appena tre anni dopo, nel 1970, a farsi assumere dalla rivista Rolling Stone, rinomata per l’attenzione nei confronti della musica e dell’attualità.
La sua scalata ai ranghi è rapida e travolgente, appena 10 anni dopo è la responsabile della fotografia della rivista.
Nel frattempo segue in tour i veri Rolling Stone. Attraversa con loro tutta l’America nella loro grande serie di concerti, nel 1975.
Lavorando a stretto contatto con gli artisti la sua visione del mondo cambia e sviluppa un profondo attaccamento agli attimi di intimità che si creano coi membri del gruppo.
Realizza quindi come la fotografia sia lo strumento decisivo nel raccontare ogni genere di storia, anche quelle il cui significato appare minimo, perché è la voce del fotografo stesso a dargli nuova vita ed importanza.
Decide così di coniugare la propria carriera al proprio percorso da fotografa freelance, proiettato alla scoperta dell’anima della vita stessa; delle piccole cose, delle storie che i volti, i paesaggi, gli ambienti, possono raccontare.
Nel 1980 scatta l’ultima fotografia a John Lennon e a sua moglie, Yoko Ono, prima che Lennon venga ucciso, appena cinque ore dopo.
Dalla morte di Lennon inizia un percorso di transizione che la porta a dedicarsi maggiormente a se stessa e alla propria vocazione: tre anni dopo riesce ad abbandonare la dipendenza da cocaina ed ad entrare a gran merito tra i ranghi dei fotografi di Vanity Fair.
Qui si dedica attivamente ai ritratti: la sua perizia è tale che numerosissimi attori, cantanti, politici, artisti di ogni livello desiderano farsi immortalare dalla fotografa.
Nel contempo assiste alla scomparsa della compagna di vita Susan Sontag, di cui era profondamente innamorata, strappatagli dalla leucemia. Le sue fotografie seguono gli ultimi anni di vita dell’artista passo dopo passo verso la fine.
Da questo momento in avanti il suo lavoro si concentra maggiormente sulla trasmissione del sapere e sulla riorganizzazione delle proprie opere.
Ha pubblicato numerosi libri, calendari, fotografie di moda e ritratti e continua ancora a tenere masterclass di fotografia e a parlare (e a far parlare) del suo talento.
Annie Leibovitz: lo stile e la fotografia
La fotografia di Annie Leibovitz si diversifica parecchio durante lo svolgimento della sua carriera senza mai arenarsi a lungo su una preferenza stilistica
La fotografa preferisce sfruttare a 360 gradi le possibilità degli strumenti a sua disposizione; i colori, il fotoritocco digitale, le tecniche classiche, il bianco&nero, tutti questi elementi sono strumenti usati a piacere ed a seconda delle esigenze.
Ci sono però alcune costanti: la composizione, la linearità, la scelta curata e attenta delle forme e dei toni; tutto questo contribuisce a dare coerenza all’immagine che risulta propriamente bella, raffinata, gradevole e seducente all’occhio.
Ma il suo talento sta anche nel sapere piegare le proprie tecniche all’esigenze dei soggetti. Ecco allora che gli scatti pubblicitari, molto numerosi, sono piuttosto colorati, esagerati ed artefatti.L’immagine si riempie di dettaglio e colori manipolati con una maestria incredibile che sfrutta una palette scelta adoperata in concerto con la luce per creare ricchissime gamme di sfumature che esaltano la brillante vivacità dei toni e, allo stesso tempo, creano contrasti morbidi con transizioni di colore leggere ma decise. Le pubblicità di Annie, soprattutto quelle del suo periodo più maturo, danno piena voce al potenziale che uno studio fotografico può mettere a disposizione. Tra le varie imprese che chiesero i suoi servizi troviamo la Disney, la quale commissionò una serie di scatti che ritraggono attrici che impersonano le principesse più famose. Ci sono poi le riviste di moda e le copertine del “Rolling Stone” senza dimenticare il suo lavoro per la Lavazza e la Pirelli, entrambe note per i loro calendari, realizzati quasi esclusivamente da fotografi di affermato talento.
Ma il vero animo della fotografa traspare dagli scatti più personali: fotografie strappate agli angoli della vita quotidiana che ritraggono l’amore in tutte le sue forme, dal più romantico al più casalingo, passando per l’idealizzazione di quel sentimento che unisce tutti gli uomini verso la vita.
Qui il bianco&nero è preponderante; i contrasti sono molto accentuati, danno un aspetto laccato all’immagine che evidenzia il ruolo della luce nello scatto e nel contempo gli imprime un filo di drammaticità.
Alcune delle fotografie che la fotografa stessa ricorda più affettuosamente sono quelle improvvisate, frammenti di emozioni e personalità che emergono naturalmente: un Mick Jagger in ascensore, un John Lennon che improvvisamente si spoglia e si rannicchia al fianco di sua moglie, piccoli spezzoni di vita di coppia estratti dal proprio bagaglio personale.
Non sorprende quindi che tante personalità abbiano riconosciuto il talento di un’autrice così versatile e abbiano desiderato essere immortalate proprio da lei.
Il lavoro sui ritratti è forse il più noto: dalla Regina Elisabetta II, passando per il Presidente Obama e la sua famiglia, fino a vip ed artisti come Leonardo Di Caprio, Angelina Jolie, lennon, Maryl Streep e molti altri.
Sono immagini molto diverse tra loro, per tecnica, scelte e composizione. Ogni elemento dell’immagine lavora con gli altri per dare tridimensionalità emotiva alla rappresentazione.
Annie ricerca la bellezza all’interno delle sue fotografie e riesce a trovarla avvicinandosi all’anima dei suoi soggetti ma riuscendo nel contempo a mantenere un sottile velo di distacco che gli permette di raccontare, in maniera quasi imparziale, anche gli ultimi giorni di vita della sua compagna.
Curiosità:
Annie è stata la prima donna fotografo ad esporre alla Washington National Portrait Gallery.
Ritrattista affermata, Leibovitz ha uno stile caratterizzato dalla stretta collaborazione tra fotografo e modello.
Origini e formazione
Di ascendenze ebraiche, Annie Leibovitz nasce a Waterbury, nel Connecticut, terza di sei figli. Suo padre era un ufficiale dell’Aeronautica USA, e molto spesso doveva spostarsi per seguire diversi incarichi, questo portò Anne a numerosi trasferimenti e ad un’infanzia molto movimentata tra una base militare e l’altra. Durante uno di questi viaggi, la Leibovitz scopre la fotografia e si appassiona fin da subito.[1] La madre di Annie, invece, è un’istruttrice di danza classica, ed è proprio l’influenza di questa figura che trasmetterà alla fotografa l’amore per l’arte in generale e per il bello.[2] La donna era solita documentare la vita della famiglia, producendo filmati ricordo e scattando diverse fotografie.
Le prime foto scattate da Annie sono state scattate nella base militare delle Filippine, dove il padre era impegnato nella guerra del Vietnam. Questa esperienza e il contatto con la guerra nei primi anni di vita segneranno non solo la personalità della Leibovitz ma anche il suo lavoro e le sue convinzioni future. Crescendo e rientrando negli Stati Uniti la ragazza rifiuterà il mondo in cui è cresciuta per dedicarsi al suo opposto: l’arte, al punto da intraprendere un corso di pittura, per poi proseguire gli studi universitari presso l’Istituto d’Arte di San Francisco. La fotografia continua ad essere una passione, portata avanti in parallelo a tutte le altre questioni della sua vita. Grazie ai suoi studi conosce i celebri fotografi Robert Frank ed Henri Cartier Bresson, si appassiona sempre di più all’arte della fotografia e ne apprende le varie tecniche ed i segreti del mestiere, decidendo di farla diventare la sua strada e abbandonando il corso di pittura.
Carriera fotografica
Nei primi anni dopo gli studi, Annie Leibovitz inizia diverse collaborazioni saltuarie con riviste minori, venendo però sempre più apprezzata per il suo approccio alla fotografia e per la qualità degli scatti. Fin da subito si specializza nei soggetti umani, ritratti per lo più, e inizia a ritagliarsi una buona fetta di popolarità. Nel 1969 si reca nel kibbutz israeliano Amir, per documentare la vita dei volontari, creando così il portfolio che le permetterà di fare il salto e approdare alla rivista Rolling Stone. Terrà questo impiego per 13 anni, dal 1970 al 1983, in cui affinerà la sua tecnica e produrrà scatti sempre più ricercati e riconoscibili, accrescendo la sua fama e popolarità. Celebre la copertina con Meryl Streep che sembra staccarsi un viso particolarmente plastico. Nel 1975, occupò il ruolo di fotografa della tournée di concerti del gruppo rock dei The Rolling Stones, voluta e assoldata dalla band stessa.[3] Negli anni 1980 la Leibovitz fotografò delle celebrità per una campagna pubblicitaria internazionale della American Express. Dal 1983 ha lavorato come fotografa ritrattista per Vanity Fair. Nel 1990 viene premiata col Infinity Awards per la Applied photography. Nel 1991 ha tenuto un’esposizione alla National Portrait Gallery. Annie Leibovitz ha inoltre pubblicato cinque libri di sue fotografie, Photographs, Photographs 1970-1990, American Olympians, Women, e American Music. Nel 1998 e ha realizzato il Calendario Pirelli 1999. Nel 2008 ha realizzato il calendario Lavazza 2009. Infine è stata scelta come fotografa per il Calendario Pirelli 2016 che vede ritratte 12 donne tra cui Yoko Ono, Tavi Gevinson e Patti Smith.
Vita privata
La sua compagna di vita è stata Susan Sontag, fino alla morte di quest’ultima, avvenuta nel 2004.[4]
Biblioteca DEA SABINA-Associazione CORNELIA ANTIQUA
FIUMICINO – Il Restauro del Castello di Porto
Nel 1930 l’Architetto Giuseppe Breccia Fratadocchi riceve l’incarico di restaurare il Castello di Porto presso Fiumicinoed adeguarlo alle esigenze di una nuova destinazione. La Congregazione dei Figli di Santa Maria Immacolata che lo aveva appena acquistato dalla Diocesi di Porto e Santa Rufina , Castello un tempo era la sede episcopale. L’antico Episcopio di Porto , fortificato nel XIII secolo da Papa Callisto II e nel XVI secolo da Papa Sisto IV assumendo la forma di Palazzo-Fortezza, aveva conosciuto , nel corso dei secoli, periodi di abbandono e subendo gravi danni , alternati a periodi di rinascita caratterizzati da interventi di riqualificazione e abbellimento sia nel cortile e sia nella chiesa. Al momento della vendita il Castello si presentava in grave stato di degrado e con numerosi episodici rimaneggiamenti e lavori di manutenzione provvisoria. In precedenza Papa Pio XI aveva suggerito il nome dell’Ingegner Carlo Castelli , progettista di sua fiducia, per curare il restauro. La necessità di recuperare il monumento per l’uso di un Istituto religioso a scopo educativo e con annesso appartamento riservato al Vescovo Cardinale , spinge il Cardinale Tommaso Boggiani, Vescovo della Diocesi suburbicaria di Porto, a rivolgersi al giovane allievo dell’Accademico Giovannoni. Già allora le più accreditate teorie del restauro nei casi di riuso di edifici storici auspicavano riusciti percorsi progettuali tali da garantire la vitalità stessa del monumento, in questo caso si trattava cioè di fare del Castello un “Monumento Vivente” sia pure nel rispetto di criteri fisiologici. L’Arch. Breccia segue le teorie del restauro dei monumenti già diffuse in Francia da Louis Cloquet e definite “restauri di innovazione” da Giovannoni. L’Architetto Breccia si entusiasma talmente al tema che, forte della stima del Cardinale Boggiani, costituisce una propria Impresa Edile assumendo il ruolo di progettista , Direttore dei Lavori e impresario al fine di ottenere ogni garanzia sul risultato finale . Nel novembre dello stesso anno, 1930, organizza una visita al Cantiere per il Sindacato Provinciale Fascista Ingegneri. L’esigenza di una nuova camerata proposta nel precedente studio della Diocesi con un corpo di fabbricato aggiunto ad un solo piano sul lato Sud-Ovest, ha il sapore della consueta ed estranea superfetazione la quale verrebbe a turbare l’imponente chiarezza del volume che si erige nella solitudine del paesaggio della foce del Tevere. L’Architetto Breccia opta pertanto per quella che egli considera la sola alternativa possibile: la demolizione della facciata Sud, assai modesta e di chiara fattura ottocentesca a due e tre livelli, e la ricostruzione della stessa sopraelevata di un piano ed avanzata di circa 1,8 metri dal filo della facciata precedente , cioè una soluzione in analogia con gli interventi di riallineamento ,allora frequenti, nelle riconfigurazioni urbanistiche dei centri storici . La nuova facciata, semplice, a intonaco, si caratterizza con elementi propri dell’architettura del Castello; un coronamento con merli nell’antica facciata d’origine poi nascosti dal volume ottocentesco ed il piccolo aggetto dell’ultimo piano , continuo e poggiante su mensole, elemento suggerito da un altro fronte del Castello. L’Architetto Breccia vuole evidenziare bene il nuovo volume aggiunto limitandone l’estensione e lasciando in vista , sul lato destro, il filo dell’antica facciata con una accentuata rientranza. Inoltre elimina la copertura provvisoria a due spioventi del grande torrione sulla via Portuense per sostituirla con un tetto a quattro spioventi che appoggia sulla antica merlatura ripristinata. Anche la torre mozzata dell’angolo Sud-Ovest viene liberata della copertura ad uno spiovente e e ripristinata la merlatura . Il Castello , così liberato da ogni sporadica deformazione , recupera un’immagine che si caratterizza per coerenza stilistica . Il lavoro incontrerà i più ampi consensi , ma L’Architetto Breccia dovrà rinunciare all’attività di costruttore edile , risultata troppo costosa e non compatibile con il suo carattere di appassionato Architetto. Lo stesso Cardinale Boggiani gli commissionerà poi il progetto della propria tomba da realizzarsi a Bosco Marenco (Alessandria). La Congregazione ancora nel dopoguerra si rivolgerà a lui per altri importanti lavori da eseguirsi nel palazzo romano sito in via del Mascherone.
Gaspara Stampa, una delle più grandi poetesse Rinascimentali-
‘Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto…” Gaspara Stampa, una delle più grandi poetesse Rinascimentali, dal petrarchismo femminile alla fama ”scandalosa”. Nata nel 1523 a Padova, da Bartolomeo e Cecilia Stampa – suo padre, originario di Milano, era una mercante di gioielli, e morì nel 1531. La vedova Cecilia si trasferì quindi a Venezia – sua città di provenienza – insieme a Gaspara e i suoi fratelli Cassandra e Baldassarre. Qui Gaspara, ragazza vispa e dall’intelligenza acuta, fu allieva insieme ai fratelli del letterato toscano Fortunio Spira, intimo del celebre poeta Pietro Aretino – grazie a lui, tutti i fratelli vengono formati a leggere e scrivere in latino. Gaspara inoltre apprende il liuto dal compositore e musicista fiammingo Perissone Cambio.
All’altissimo e raffinato livello d’istruzione però si avvicenda anche una vita drammatica – l’adorato fratello Baldassarre infatti muore a soli diciannove anni, nel 1544 – il lutto sconvolse l’intera famiglia e Gaspara in particolare, la quale durante un periodo di riflessione quasi si fece suora – tuttavia, passato il lungo periodo di crisi, tornò alla “dolce vita” di Venezia.
Nonostante questa tragedia, la casa degli Stampa divenne un raffinato circolo letterario, frequentato da molti noti scrittori, pittori e musicisti veneziani – tra cui ricordiamo Francesco Sansovino, figlio del grande architetto e scultore fiorentino Jacopo Sansovino e Girolamo Parabosco, celebre compositore e organista a San Marco.
Gaspara, affezionatamente chiamata ”Gasparina”, diventa un’icona nella vivace vita culturale veneziana – la sua bellezza, la sua cultura e la sua intelligenza le valgono moltissimi ammiratori e corteggiatori. La sua vena poetica trovò finalmente sfogo quando incontrò nel 1548 il Conte Collalto di Collaltino, giovanotto garbato, di bell’aspetto e fine letterato. La storia d’amore con il Conte, durata per tre anni, dà a Gaspara l’impulso per lavorare alle sue Rime, in cui la poetessa attraversa tutte gli stadi della passione – evitando artefici retorici – e questo modo di scrivere ”esplicito” la mise al mezzo dello scandalo. D’altronde basta leggere la LXXX delle sue Rime d’Amore, dal sapore piuttosto erotico – Prendi, Amor, de’ tuoi lacci il più possente, / che non abbia né schermo, né difesa, / onde Evadne e Penelope fu presa, / e lega il mio signor novellamente.
Questo genere di poesia come non fu apprezzato dalla ”società bene” così non fu accolto con troppo entusiasmo del Conte, che più volte e a periodi alterni si allontanò da Gaspara, fin quando la relazione non si ruppe completamente nel 1551. Nonostante Gaspara fosse una meritevolissima partecipe dell’Accademia dei Dubbiosi – con lo pseudonimo di Anaxilla – soffrì un lungo periodo di depressione, dal quale uscì proprio con la poesia. Tra il 1552 e il 1553 iniziò una relazione con un altro uomo – sempre senza mai sposarsi – che fu più presente e più attento ai suoi sentimenti rispetto al ”bel Conte”, e ciò le porto un po’ di sospirata serenità.
Purtroppo, l’idillio non durò a lungo, soffrendo di problemi di salute dal 1553, dopo un periodo di cure a Firenze spirò a soli trentun anni a Venezia, a causa di febbri e mal de mare – inteso non come il disagio avvertito durante la navigazione, ma come malattia giunta da oltremare, portata dalle navi.
poesie di Gaspara Stampa-
-Da Rime di Gaspara Stampa, Biblioteca Universale Rizzoli, 1978-
Io assimiglio il mio signor al cielo meco sovente. Il suo bel viso è ‘l sole; gli occhi, le stelle, e ‘l suon de le parole è l’armonia, che fa ‘l signor di Delo. Le tempeste, le piogge, i tuoni e ‘l gelo son i suoi sdegni, quando irar si suole; le bonacce e ‘l sereno è quando vuole squarciar de l’ire sue benigno il velo. La primavera e ‘l germogliar de’ fiori è quando ei fa fiorir la mia speranza, promettendo tenermi in questo stato. L’orrido verno è poi, quando cangiato minaccia di mutar pensieri e stanza, spogliata me de’ miei più ricchi onori.
*
Se d’arder e d’amar io non mi stanco, anzi crescermi ognor questo e quel sento, e di questo e di quello io non mi pento, come Amor sa, che mi sta sempre al fianco, onde avien che la speme ognor vien manco, da me sparendo come nebbia al vento, la speme che ‘l mio cor può far contento, senza cui non si vive, e non vissi anco? Nel mezzo del mio cor spesso mi dice un’incognita téma: – O miserella, non fia ‘l tuo stato gran tempo felice; ché fra non molto poria sparir quella luce degli occhi tuoi vera beatrice, ed ogni gioia tua sparir con ella.
*
Voi, che ‘n marmi, in colori, in bronzo, in cera imitate e vincete la natura, formando questa e quell’altra figura, che poi somigli a la sua forma vera, venite tutti in graziosa schiera a formar la più bella creatura, che facesse giamai la prima cura, poi che con le sue man fe’ la primiera. Ritraggete il mio conte, e siavi a mente qual è dentro ritrarlo, e qual è fore; sì che a tanta opra non manchi niente. Fategli solamente doppio il core, come vedrete ch’egli ha veramente il suo e ‘l mio, che gli ha donato Amore.
*
Or che torna la dolce primavera a tutto il mondo, a me sola si parte; e va da noi lontana in quella parte, ov’è del sol più fredda assai la sfera. E que’ vermigli e bianchi fior, che ‘n schiera Amor nel viso di sua man comparte del mio signor, del gran figlio di Marte, daranno agli occhi miei l’ultima sera, e fioriranno a gente, ove non fia chi spiri e viva sol del lor odore, come fa la penosa vita mia. O troppo iniquo, e troppo ingiusto Amore, a comportar che degli amanti stia sì lontano l’un l’altro il corpo e ‘l core!
*
Io benedico, Amor, tutti gli affanni, tutte l’ingiurie e tutte le fatiche, tutte le noie novelle ed antiche, che m’hai fatto provar tante e tanti anni; benedico le frodi e i tanti inganni, con che convien che i tuoi seguaci intriche; poi che tornando le due stelle amiche m’hanno in un tratto ristorati i danni. Tutto il passato mal porre in oblio m’ha fatto la lor viva e nova luce, ove sol trova pace il mio disio. Questa per dritta strada mi conduce su a contemplar le belle cose e Dio, ferma guida, alta scorta e fida luce.
*
Se poteste, signor, con l’occhio interno penetrar i segreti del mio core, come vedete queste ombre di fuore apertamente con questo occhio esterno, vi vedreste le pene de l’inferno, un abisso infinito di dolore, quanta mai gelosia, quanto timore Amor ha dato o può dar in eterno. E vedreste voi stesso seder donno in mezzo a l’alma, cui tanti tormenti non han potuto mai cavarvi, o ponno; e tutti altri disir vedreste spenti, od oppressi da grave ed alto sonno e sol quei d’aver voi desti ed ardenti.
*
Se soffrir il dolore è l’esser forte, e l’esser forte è virtù bella e rara, ne la tua corte, Amor, certo s’impara questa virtù più ch’in ogn’altra corte, perché non è chi teco non sopporte de’ dolori e di téme le migliara per una luce in apparenza chiara, che poi scure ombre e tenebre n’apporte. La continenzia vi s’impara ancora, perché da quello, onde s’ha più disio, per riverenza altrui s’astien talora. Queste virtuti ed altre ho imparate io sotto questo signor, che sì s’onora, e sotto il dolce ed empio signor mio.
*
Volgi, Padre del cielo, a miglior calle i passi miei, onde ho già cominciato dietro al folle disio, ch’avea voltato a te, mio primo e vero ben, le spalle; e con la grazia tua, che mai non falle, a porgermi il tuo lume or sei pregato: trâmi, onde uscir per me sol m’è vietato, da questa di miserie oscura valle. E donami destrezza e virtù tale, che, posti i miei disir tutti ad un segno, saglia ove, amando il nome tuo, si sale, a fruire i tesori del tuo regno; sì ch’inutil per me non resti e frale la preziosa tua morte e ‘l tuo legno.
*
Purga, Signor, omai l’interno affetto de la mia coscienzia, sì ch’io miri solo in te, te solo ami, te sospiri, mio glorioso, eterno e vero obietto. Sgombra con la tua grazia dal mio petto tutt’altre voglie e tutt’altri disiri; e le cure d’amor tante e i sospiri, che m’accompagnan dietro al van diletto. La bellezza ch’io amo è de le rare che mai facesti; ma poi ch’è terrena, a quella del tuo regno non è pare. Tu per dritto sentier là su mi mena, ove per tempo non si può cangiare l’eterna vita in torbida, e serena.
*
Mesta e pentita de’ miei gravi errori e del mio vaneggiar tanto e sì lieve, e d’aver speso questo tempo breve de la vita fugace in vani amori, a te, Signor, ch’intenerisci i cori, e rendi calda la gelata neve, e fai soave ogn’aspro peso e greve a chiunque accendi di tuoi santi ardori, ricorro, e prego che mi porghi mano a trarmi fuor del pelago, onde uscire, s’io tentassi da me, sarebbe vano. Tu volesti per noi, Signor, morire, tu ricomprasti tutto il seme umano; dolce Signor, non mi lasciar perire!
*
(Da Rime di Gaspara Stampa, Biblioteca Universale Rizzoli, 1978)
Biografia-Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
Gaspara Stampa (Padova, 1523 – Venezia, 23 aprile1554) -Nacque a Padova verso il 1523 da un ramo cadetto della famiglia Stampa: alla morte del padre Bartolomeo (1531), commerciante di gioielli, la vedova Cecilia, con Gaspara e i fratelli Baldassare e Cassandra, si trasferì a Venezia. Cassandra era cantante e Baldassare poeta: quest’ultimo morì per malattia nel 1544 a diciannove anni[1], e ciò turbò molto Gaspara, tanto da farle meditare una vita monacale, stimolata su questa strada da suor Paola Antonia Negri[2]; di lui restano i sonetti stampati con quelli della ben più nota sorella.[3]
In laguna venne accolta dalla raffinata ed istruita società veneziana; al suo interno condusse una vita elegante e spregiudicata, segnalandosi per la sua bellezza e per le sue qualità. Fu difatti cantante e suonatrice di liuto[2], oltre che poetessa, ed entrò nell’Accademia dei Dubbiosi con il nome di Anasilla (così veniva chiamato in latino il fiume Piave – Anaxus – che attraversava il feudo dei Collalto, cui apparteneva quel Collaltino che lei amò). L’abitazione degli Stampa divenne uno dei salotti letterari più famosi di Venezia, frequentato dai migliori pittori, letterati e musicisti del Veneto, e molti accorrevano a seguire le esecuzioni canore di Gaspara delle liriche di Petrarca[1].
Sufficientemente colta nella letteratura, nell’arte e nella musica, Gaspara fu portata dalla forte carica della sua personalità a vivere in modo libero diverse esperienze amorose, che segnano profondamente la sua vita e la sua produzione poetica. I romantici videro in lei una novella Saffo, anche per la sua breve esistenza, vissuta in maniera intensamente passionale. La vicenda della poetessa va però ridimensionata e collocata nel quadro della vita mondana del tempo, dove le relazioni sociali, comprese quelle amorose, rispondono spesso a un cerimoniale e ad una serie di convenzioni precise. Fra queste è da segnalare l’amore per il conte Collaltino di Collalto, uomo di guerra e di lettere, che durò circa tre anni (1548-1551): tuttavia a causa di lunghi periodi di lontananza Collaltino non ricambiò il sentimento intenso che Gaspara provò per lui, e la relazione si concluse con l’abbandono della poetessa, che attraversò anche una profonda crisi spirituale e religiosa[4].
Morì a Venezia il 23 aprile 1554[5], dopo quindici giorni di febbri intestinali (mal cholico): alcune fonti riportano che si suicidò con il veleno per motivi amorosi, altre che le pene d’amore peggiorarono la sua salute fino a condurla alla morte per malattia.
Le Rime
A Collaltino è dedicata la maggior parte delle 311 rime della Stampa (pubblicate dalla sorella Cassandra nel 1554 e dedicate a Giovanni Della Casa), che, concepite secondo il modello petrarchesco, costituiscono una delle più interessanti raccolte liriche del Cinquecento fra cui Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto. Daniele Ponchiroli ha definito così queste rime: «Umanamente complesso, ricco di “moderna” psicologia, il canzoniere della Stampa, che la nostra romantica sensibilità ha visto soprattutto come un “ardente diario” amoroso, risente dell’inquieta originalità di una vicenda umana “confessata” con femminile espansione. Nessun altro canzoniere cinquecentesco ci offre un così vivo interesse documentario e psicologico».
L’originalità coincide con i limiti stessi di una versificazione che tende a risolversi nelle forme immediate e quasi discorsive di una confessione autobiografica, rifiutando una più complessa elaborazione tecnico-formale del discorso poetico. Luigi Baldacci ha detto: «Il valore della sua poesia, la sua possibilità di suscitare un’eco, consistono nell’aver saputo quasi sempre rifiutare l’esperienza retorica dei contemporanei e nell’essersi umiliata il più delle volte, secondo un’elezione istintiva, a un uso della poesia che certo quel secolo non conobbe mai così immediato, o se conobbe si preoccupò di schermare perché lo stesso elemento biografico si portasse a un più alto grado di mito petrarchesco e di rievocazione di quella paradigmatica vicenda. […] E per questo a proposito di Gasparina si è parlato, anche ai nostri tempi, di diario: definizione che trova conferma in un intervento di troppo immediata biografia in quello che dovrebbe essere il dominio più sacro della poesia. Questo, si sa, fu il suo limite, ma anche la ragione della sua positiva eccentricità di fronte alla cultura poetica del suo tempo, della quale le era ignoto il calcolo e la tecnica del dettare».
Dalla professione di musicista la Stampa ebbe come dice Ettore Bonora “l’impulso a svolgere in un tessuto melodico tenue e vario la sua lirica amorosa, alleggerendo la poetica petrarchesca, pure a lei presente, in forme che toccano sovente la grazia e la facile orecchiabilità di componenti popolari”, e in particolare nel gruppo dei madrigali “il virtuosismo melodico arriva a riscattare la facilità quasi convenzionale delle immagini, trasforma la parola in sospiro, come avverrà a tanta poesia melodrammatica che appunto dai madrigali prese l’avvio per i suoi movimenti più patetici”.
Opere
Rime di madonna Gaspara Stampa, Venezia, Plinio Pietrasanta 1554 che ha pubblicato la sorella.
Arsi, piansi, cantai, spettacolo di Margherita Stevanato con un testo originale di Luciano Menetto e musiche di Claudio Ambrosini in occasione dei cinquecento anni dalla nascita (1523-2023)
Note
Copia archiviata (PDF), su simonescuola.it. URL consultato il 28 marzo 2013 (archiviato dall’url originale il 7 aprile 2014).
^Rime […] di Gaspara Stampa con alcune altre […] di Baldassare Stampa, Venezia, Francesco Piacentini, 1738, pp. 191-208.
^ Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Testi e storia della letteratura, Torino, Paravia, 2010, vol. B: L’Umanesimo, il Rinascimento e l’età della Controriforma, pag. 168-171
^ Giulio Reichenbach, Gaspara Stampa, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1935. URL consultato il 24 agosto 2023.
Bibliografia
Luigi di San Giusto, Gaspara Stampa, Bologna-Modena, A.F.Formiggini, 1909.
Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Testi e storia della letteratura, Torino, Paravia, 2010, vol. B: L’Umanesimo, il Rinascimento e l’età della Controriforma, pag. 168-171.
Ettore Bonora ,Gaspara Stampa, Storia Lett. Italiana, Milano, Garzanti, 1966, pp.271-76
Mario Pazzaglia, Scrittori e critici della letteratura italiana, Bologna, Zanichelli, 1979, vol. 2., pag. 290-291.
Stefano Bianchi, La scrittura poetica femminile nel Cinquecento veneto: Gaspara Stampa e Veronica Franco, Manziana, Vecchiarelli, 2013. ISBN 978-88-8247-337-2
Roberta Lamon, Le Donne nella Storia di Padova, Padova, 2013, pagine 34-36
RIETI- La storia d’amore tra la scrittrice americana Margaret Fuller Ossoli e il marito marchese Giovanni Angelo Ossoli ,
garibaldini della Repubblica Romana del 1849-Storia di un amore contrastato dalla famiglia di Ossoli.
Margaret Fuller -Nata nel Massachussetts nel 1810,pubblicò nel 1844 la sua celebre opera ” Estate sui laghi” dove inserì le sue idee progressiste e femministe “ante litteram”. Fu proprio la pubblicazione del libro che le procurò una certa notorietà e l’assunzione al New York Tribune. Senza dubbio, fu la prima giornalista donna ad essere assunta da un giornale importante.
Nel 1846, con il vecchio continente scosso dalle idee libertarie e rivoluzionarie, la Fuller, che conosceva bene le principali lingue europee, fu inviata come corrispondente a Londra. Qui fu accolta entusiasticamente da molti intellettuali dell’epoca ed in particolare, da Giuseppe Mazzini. Fu poi a Parigi, dove intervistò George Sand e poi nel 1847, a Roma. E’ qui che incontrò il marchese Giovanni Angelo Ossoli, di dieci anni più giovane. Dal loro matrimonio, osteggiato fortemente dalla famiglia del nobile italiano, nacque a Rieti, nel settembre del 1848, Angelo Eugenio Filippo Ossoli, detto Angelino.
Per timore che la famiglia Ossoli diseredasse il rivoluzionario Angelo, sposato con una donna di non nobili origini e di fede protestante, il matrimonio fu tenuto segreto. Margaret si rifugiò a Rieti in attesa di tempi migliori anche se la distanza da Roma creava impedimento al suo lavoro per il New York Tribune . Avendo affittato una casa in via della Verdura, lasciò il figlio a Rieti, affidandolo a una balia.
Riprese le sue corrispondenze dall’Italia, facendo la spola tra la Capitale e il centro sabino. Nel febbraio 1849, iniziò la breve e avventurosa storia della rivoluzione di Roma. Fu proclamata la Repubblica e Margaret, non solo come giornalista, ma per il suo fervido impegno, ebbe un ruolo di primo piano. In quei pochi mesi, Roma, tra le realtà le più arretrate in Europa, divenne un faro per il mondo, trasformandosi in un fervente laboratorio a cielo aperto grazie al quale fu abolita la pena di morte, permessa la libertà di culto e riconosciuto il valore del suffragio universale, seppur limitato ai soli maschi.
Roma 30 aprile 1849 “Cara Miss Fuller, Siete stata nominata Regolatrice dell’Ospedale Dei Fate Bene Fratelli. Andatevi alle 12 se la campana di allarme non è suonata prima. Arrivata là riceverete tutte le donne che vengono pei feriti, darete loro i vostri ordini tanto da essere sicura di avere un certo numero di esse notte e giorno. Che Dio ci aiuti. Cristina Trivulzio di Belgioioso.”
Durante la Repubblica Romana, mentre il suo compagno, il reatino marchese Giovanni Angelo Ossoli, combatteva sulle mura vaticane, a Margaret fu affidata la direzione dell’ambulanza presso l’ospedale Fatebenefratelli e successivamente presso il Quirinale. Potè tornare a Rieti solo dopo la sconfitta della Repubblica Romana, operata dalle truppe francesi. E’ qui che Margaret e Giovanni trovarono il figlio fortemente denutrito. La balia , infatti, non ricevendo più denaro per il blocco francese, aveva smesso di occuparsi del piccolo. Ci volle un mese di cure intense prima che Angelino potesse ristabilirsi in salute. Temendo ritorsioni dal governo pontificio, i tre si rifugiarono prima a Perugia e poi a Firenze dove, nonostante l’invasione del feldmaresciallo d’Aspre, Margaret riuscì a lavorare sul suo saggio “Storia della Rivoluzione Italiana”, opera dedicata alle vicende della Repubblica Romana e ai suoi protagonisti. Nel maggio 1850, la famiglia Ossoli riuscì ad arrivare a Livorno e a salpare verso New York con il vascello Elisabeth, un mercantile che trasportava marmo e tessuti. Proprio in vista del porto della città americana, la nave s’incagliò e in poche ore fu inghiottita dai flutti. Lo stewart cercò di salvare Angelino ma entrambi, spinti dalla forza delle onde, furono ritrovati a riva senza vita. Margaret e Giovanni furono visti per l’ultima volta, mentre si aggrappavano disperatamente all’albero di prua. Con loro scomparve per sempre, anche il manoscritto su una delle pagine più ardite e avventurose della nostra storia.
Era il 19 luglio 1840. Nel febbraio del 1849 nasce la Repubblica Romana e per giorni ci furono feste e cortei per le strade di Roma. E tra i vari canti, che il popolo cantava spontaneamente, ce n’era soprattutto uno, un canto-inno semplice, appassionato, allegro, sarcastico e anticlericale. Fu quasi certamente l’inno popolare della Repubblica Romana del 1849 e ne sintetizza con simpatia gli ideali di libertà da ogni tirannia e dal potere temporale della Chiesa.
L’inno è stato ricostruito sulla base di testimonianze storiche ed inserito nella colonna sonora del film “In nome del popolo sovrano” (Ita 1990) del regista Luigi Magni, recentemente scomparso, mentre l’arrangiamento musicale è del maestro Nicola Piovani. Si dice che l’autore del canto, eseguito anche nei giorni drammatici della difesa della Repubblica Romana nel giugno del 1849, sia Goffredo Mameli, l’ autore dell’inno italiano “Fratelli d’Italia“. Certamente il canto si può considerare un arrangiamento di una composizione poetica -quasi esattamente con le stesse parole- che Mameli, poco prima della morte nella difesa della Repubblica Romana, aveva inserito in una raccolta che aveva progettato di pubblicare.
Maria Stuarda Regina di Scozia-Articolo di Giovanni Teresi-
Fonte RAI Cultura-Letteratura
Maria Stuarda, forma italianizzata di Mary Stuart, è stata sicuramente la regina più importante della Scozia.
Nota Biografica di Giovanni Teresi:
Nata l’8 dicembre 1542 da Giacomo V Re di Scozia e dalla sua seconda moglie Marie de Guise, duchessa francese imparentata con la casa reale di Francia, Maria era la nipote di Margaret Tudor, sorella di Enrico VIII d’Inghilterra, il re famoso per aver rotto i legami con la chiesa cattolica e aver istituito la fede anglicana.
Poco dopo la sua nascita, il padre morì lasciando lei come unica erede e nel 1543, nella cappella del Castello di Stirling, la piccola fu incoronata Maria, Regina di Scozia.
Ci fu una breve reggenza di James Hamilton mentre nel 1554 la madre Marie de Guise decise di rompere il fidanzamento tra la figlia ed il principe Edoardo, figlio di Enrico VIII che con questo sposalizio avrebbe messo le mani sul regno di Scozia.
Descrizione del romanzo:
Il “brutale corteggiamento” ebbe inizio. Così venne definito quello che seguì a questa rottura, le campagne militari inglesi contro la Scozia nel tentativo di rapire Maria e farla sposare con Edoardo. Marie de Guise fuggì portando con sè la figlia di castello in castello fino ad arrivare nella corte di Francia storica alleata scozzese dove il re Enrico IIapprofittò per farla sposare con il figlio Francesco II nel 1558 che però morì poco dopo.
Cresciuta e allevata alla corte dissipata di Caterina de’ Medici, fu la legittima regina di Scozia. Nella terra che fu di William Wallace fu richiamata dai membri dell’aristocrazia, ansiosi anzitutto di assicurare al loro paese l’indipendenza dai vicini meridionali. Infatti, il Parlamento scozzese, senza l’assenso della sovrana, aveva ratificato la modifica della religione di Stato passando da quella cattolica a quella protestante sotto la spinta del furore del riformatore John Knox.
Maria sbarcò a Leith nel 1561, possedendo numerose virtù e talenti appresi dall’educazione ricevuta in Francia, ma era manchevole di quella forza per far fronte alla pericolosa situazione scozzese.
I rapporti con la cugina Elisabetta I d’Inghilterra
Nel frattempo sul trono di Inghilterra salì Elisabetta, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, la donna per cui il re ruppe i rapporti con la Chiesa di Roma. I rapporti tra le cugine, Maria Stuarda ed Elisabetta I, furono difficili e complicati. innanzitutto per la fedeltà che molti cattolici inglesi decisero di dare alla regina di Scozia non riconoscendo Elisabetta. Ancor di più, ad incrinare i rapporti tra le due regine, accorse la difficile situazione della successione.
Elisabetta non aveva figli e non era intenzionata ad averla. Maria invece, captando la possibilità di unire i due regni sotto la sua egida, si sposò con il cugino Lord Darnley, che grazie a sua madre vantava certi diritti di successione al trono inglese. Dal matrimonio nacque Giacomo VI di Scozia (poi Giacomo I d’Inghilterra), battezzato nel Castello di Stirlingsu una tavola rotonda, come a renderlo il nuovo re Artù che avrebbe presto unito Scozia e Inghilterra.
A rendere ulteriormente intricati i legami tra le regine fu la morte sanguinosa del marito di Maria Stuarda, accusata dalla cugina di essere complice dell’attentato. La regina scozzese aveva un segretario favorito, l’italiano Rizzio, in contrasto con Darnley e i nobili protestanti che dominavano la politica del paese. Rizzio fu ucciso dallo stesso Lord sotto gli occhi della regina. A sua volta, un anno dopo il marito di Maria fu ucciso da James Hepburn, IV conte di Bothwell, che divenne poi il marito della regina di Scozia, rendendo ancora più credibile la sua implicazione nell’assassinio del precedente marito.
I nobili scozzesi, benchè non eccessivamente morali, furono urtati da questi atti che disonoravano la nazione. Imprigionarono Maria a Lochleven per processarla. Ella fuggì per chiedere asilo alla cugina Elisabetta.
La regina d’Inghilterra, nonostante l’antipatia per Maria, odiava anche le ribellioni e la figura del calvinista Knox. Decise così di trattenerla in prigionia cercando di intavolare una trattativa ma con condizioni di pace alquanto irragionevoli, come che rinunciasse al trono a favore di Giacomo VI e che lo facesse educare in Inghilterra.
I continui rifiuti, la sete di vendetta, e l’aspirazione a sposare il re Filippo di Spagna la portarono per ben 19 anni ad essere imprigionata e ad essere accusata di complicità nelle congiure contro la regina anglicana. La prova della sua partecipazione fu trovata nella firma al documento della cospirazione di Babington che prevedeva la morte di Elisabetta. Il processo che ne seguì la condannò a morte, nonostante il figlio Giacomo chiese che la pena fosse commutata in esilio.
La condanna a morte fu firmata il 1° febbraio 1587 per quella che le Camere definirono “quel drago enorme e mostruoso ch’è la regina degli scozzesi”.
Durante il processo, Maria Stuarda, per sottolineare la sua fedeltà alla religione cattolica, alla Scozia e il non essersi piegata all’Inghilterra anglicana, disse ai suoi accusatori “guardate nelle vostre coscienze e ricordate che il teatro del mondo è più ampio del regno d’Inghilterra.” Essendo una regina straniera, nonché la prima sovrana ad essere giustiziata nonostante legittimamente unta e coronata, non poteva essere accusata di alcun tradimento.
La sua vita, divenuta così modello di eroina di romanzo, campionessa di fede, fu venerata dal mondo cattolico come santa e martire. Trascorse i suoi ultimi giorni pregando e perdonando il suo boia al quale disse “vi perdono con tutto il mio cuore, perché ora io spero che porrete fine a tutte le mie angustie”.
Morì decapitata l’8 febbraio del 1587 con ben due colpi di scure, indossando una sottoveste di raso rosso, colore liturgico del martirio per la religione cattolica usato per dimostrare la sua innocenza. La regina chiese che le dame, alla sua morte, vestissero il “nero spagnolo”. Il nero divenne il colore ufficiale del lutto per i re, i principi e nobili vari, cioè coloro che erano più vicini ai papi e agli uomini influenti della Chiesa.
Le opere a lei ispirate
La sua figura ispirò un romanzo di Alexandre Dumas in cui si concentra la malinconia per il ruolo storico per cui la Regina era nata ma che le sanguinose vicende le impedirono di essere. A lei furono anche dedicate un’opera lirica di Gaetano Donizetti e un’opera di teatro di Frederich Schiller. Vittorio Alfieri nel 1788 scrisse la tragedia “Maria Stuarda”.
A livello cinematografico sono decine i film in cui compare e due su tutti la vedono protagonista, entrambi intitolati “Mary Queen of Scots”, usciti nel 1971 e nel 2013. Nel primo la figura della regina fu recitata da Vanessa Redgrave che ottenne anche una candidatura agli Oscar per questo ruolo. Tra il 2013 e il 2017 le è stata dedicata anche una serie TV, chiamata ”Reign”, incentrata sulla sua giovinezza impersonata dall’attrice Adelaide Kane.
Nel 2018, invece, è uscito il film “Maria regina di Scozia“, diretto da Josie Rourke con protagoniste Saoirse Ronan e Margot Robbie. Si tratta dell’adattamento cinematografico di My Heart is my own: the life of Mary Queen of Scots, biografia della regina scozzese scritta da John Guy.
ROMA. Sul Gianicolo riapre dopo 5 anni l’antico santuario pagano che venne scoperto per caso-
Roma- Santuario Siriaco del Gianicolo -È una storia affascinante – ed a tratti misteriosa – quella che avvolge questo sito che, dopo cinque anni di chiusura – torna a essere fruibile dal pubblico: si tratta del Santuario Siriaco del Gianicolo, situato nel Rione Trastevere alle falde di Villa Sciarra.
Quattro aperture straordinarie in programma il 13, 20, 27 ottobre e il 10 novembre permetteranno al pubblico di vivere le atmosfere di questo tempio pagano (le cui prime fasi di costruzione risalgono al I Secolo d.C.) che si trovava all’interno di una “domus” privata.
La È una riapertura molto attesa che dopo cinque anni permetterà al pubblico di accedere a questa area archeologica, prima che diventi oggetto di importanti interventi PNRR”, spiega Daniela Porro, Soprintendente Speciale di Roma. “Verranno realizzati la messa in sicurezza ed il restauro delle strutture e sarà possibile allestire uno spazio espositivo ed un punto di accoglienza nella ex casa del custode”.
Scoperto per caso nel 1906, il Santuario Siriaco del Gianicolo deve il suo nome ad una delle prime ipotesi di destinazione d’uso del sito (ovvero il culto siriaco); teoria mai esclusa dagli studiosi (soprattutto nella prima fase della sua storia) che oggi, a seguito di scavi e ricerche condotti negli ultimi venticinque anni, concordano nel ritenere il Santuario un luogo di culto dedicato alla divinità Osiride. Questa ipotesi sarebbe confermata dal ritrovamento di una statua in bronzo (oggi esposta al Museo Nazionale Romano) avvolta nelle spire di un serpente, scoperta accanto a delle uova ed altri oggetti rituali ed identificabile con Osiride appunto, cui si aggiungono alcune sculture di Dioniso in marmo e quella di un faraone in basalto nero, tutte riconducibili ai culti egizi degli inferi e della fertilità.
Il sito, che si compone di una struttura absidata ed una stanza poligonale, per morfologia ricorda le architetture delle domus tardo imperiali. Qui dunque, in modalità privata, continuavano a essere praticati i culti pagani: con l’editto di Tessalonica del 380 d.C., Teodosio proibiva qualsiasi forma di culto che non fosse il Cristianesimo, unica religione ammessa dall’impero. Il paganesimo restava così relegato nella discrezione delle mura domestiche, come nel caso del Santuario Siriaco. Da questo luogo sono emerse ulteriori importanti testimonianze: oltre ad essere il luogo in cui, secondo le fonti antiche, Caio Gracco si uccise nel 121 a.C., qui, stando ad una iscrizione ritrovata, doveva sorgere il Lucus Furrinæ, l’antico bosco e la fonte sacra a Furrina, un’antica divinità dell’antica Roma.
INFORMZIONI
Santuario Siriaco del Gianicolo a Roma
Ingresso: Via Dandolo 47
Visite: 13, 20, 27 ottobre, 10 novembre 2024
Orario: 9.30 – 12.30
Gruppi: 25 persone ogni 30 minuti
Visita libera e gratuita
Presentazioni del libro di Lorenzo Costa :”Il mondo della Sinfonia”a cura di Giuseppe Isoleri, Claudio Orazi e Maurizio Roi.Gli autori: Massimo Arduino, Luigi Bellingardi, Alberto Cantù, Guendalina Cattaneo Della Volta, Lorenzo Costa, Roberto Iovino, Francesca Oranges, Paola Siragnapp. XVIII + 358 –
Affrontare uno scritto sulla sinfonia come forma musicale non è impresa facile. L’orizzonte è talmente vasto e variegato che è difficile coglierne l’essenza anche in una trattazione che volesse avere la presunzione di essere completamente oggettiva od oggettivamente completa. L’intento di questa pubblicazione non è quello di scrivere una storia della sinfonia tantomeno quello di farne un’analisi critica o musicologica, ma piuttosto quello di rendere fruibile al pubblico una sorta di compendio di un ciclo di incontri di approfondimento su questa forma musicale e sulla sua evoluzione, promosso a Genova dall’Associazione Amici del Teatro Carlo Felice e del Conservatorio Niccolò Paganini, dalla Fondazione Teatro Carlo Felice, e realizzato dal sottoscritto insieme ai colleghi Massimo Arduino, Alberto Cantù, Maria Guendalina Cattaneo Della Volta, Roberto Iovino, Edwin Rosasco e Paola Siragna in cinque anni a partire dal 2010. Ma un’ulteriore domanda si pone: è attuale discutere e scrivere di una forma musicale astratta in un mondo dove lo scenario dominante sembra unicamente asservito alla produzione di ricchezza e allo sviluppo tecnologico?
La musica non commerciale può apparire addirittura inutile e sorpassata. Noi crediamo il contrario e cioè che l’esperienza artistica sia un momento fondamentale della crescita individuale di una persona e del progresso umano e culturale di un paese.
“È attraverso la bellezza che si perviene alla libertà”, scriveva Schiller nella sua “Lettera sull’educazione estetica”. Verissimo. La bellezza della musica ci educa ai sentimenti, che si imparano, non sono innati. La funzione dei miti, delle leggende e delle fiabe era proprio questa. Educare ai sentimenti. Ed il repertorio sinfonico assolve anch’esso a questa funzione sociale, irrinunciabile, salvifica, risarcitoria. Nelle sinfonie di Beethoven, Brahms, Čajkovskij, Bruckner, Mahler , Šostakovič, oltre la bellezza delle idee musicali e della loro trasformazioni, proporzioni, simmetrie, troviamo anche gli elementi per capire meglio l’amore, il dolore, l’inedia, la tristezza, la disperazione, la consolazione. Attraverso di loro capiamo un po’ più di noi stessi e attraverso il loro punto di vista artistico, decentriamo il nostro, conquistando una visione più bella e più consapevole del nostro stare al mondo.
Camillo Brezzi-L’ultimo viaggio nei lager. Dalle leggi razziste alla Shoah.
Editore il Mulino
L’ultimo viaggio nei lager di Camillo Brezzi, il Mulino-Tre citazioni brevi vi danno subito l’idea telegrafica del saggio di cui vi parleremo “
Il viaggio verso Auschwitz – pochi ne parlano perché pochi sono tornati- è uno dei capitoli più terribili della shoah.Il mio è durato sei giorni” (Liliana Segre).
“Nessuno però ci aveva detto che la nostra idea di peggio era uno scherzo in confronto all’inferno che ci attendeva (Sami Modiano).
“Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo (Primo Levi ).
Camillo Brezzi ha insegnato storia contemporanea all’Università Siena-Arezzo,ha al suo attivo numerosi saggi ed è direttore scientifico della Fondazione Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. In meno di 200 pagine l’autore ha sintetizzato, pensando soprattutto agli studenti, la più grande tragedia umanitaria, rappresentata dalla shoah, della seconda guerra mondiale. Non c’è nulla di nuovo, rispetto all’ampia letteratura sulla tragedia ebraica esistente. L’autore si è assunto però il difficile compito di realizzare una sintesi dei documenti,di una parte importante delle testimonianze e,in generale, della lo storia della shoah. Si ripercorrono anche i percorsi di alcuni deportati, a partire dalle fasi iniziali della “soluzione finale”. E poi ,l’arresto, il viaggio, l’arrivo ad Auschwitz-Birkenau. Cominciava così la discesa all’inferno, che abbiamo visto (nei tanti film e documentari) e letto in numerosi libri. Per ricordarcelo vengono riportate le testimonianze di Primo Levi, Liliana Segre, le sorelle Tatiana e Andrea Bucci, Shlomo Venezia, Pietro Terracina. Un libro fondamentale per capire- senza la necessità di consultare migliaia di volumi – un orrore troppo spesso dimenticato o sottovalutato.
La deportazione degli ebrei nei campi di sterminio rappresenta l’atto più drammatico della Seconda guerra mondiale. Un atto che fu messo in pratica dai nazisti con il solerte aiuto degli italiani, che si trattasse di militari della Repubblica Sociale o di comuni delatori. Il volume ripercorre le storie di alcuni deportati, concentrandosi sulle fasi iniziali della «soluzione finale»: l’arresto, poi il viaggio e l’arrivo sulla Judenrampe, la banchina di Auschwitz-Birkenau dove avveniva la prima selezione. È questa la prima tappa di una discesa all’inferno in cui i prigionieri cominciano a perdere lo status di esseri umani. Nei vagoni (usati solitamente per il trasporto di animali) viaggiano stretti, pressati uno all’altro, utilizzando un bidone per i bisogni corporali; i giorni e le notti si susseguono e si rischia di perdere la nozione del tempo; la fame e la sete si fanno sempre più crudeli, così come le urla dei comandi, pronunciati in una lingua incomprensibile ai più. Intrecciando le testimonianze di Liliana Segre, Primo Levi, le sorelle Tatiana e Andra Bucci, Shlomo Venezia, Pietro Terracina e Sami Modiano con quelle di altri sopravvissuti, il libro spalanca la porta su un orrore che non saremo mai in grado di comprendere fino in fondo, di cui è però necessario tramandare la memoria e mantenere salda la coscienza collettiva. Le impressioni, le sensazioni, le percezioni, che i salvati hanno restituito nelle loro memorie sono una preziosa fonte per ricostruire quell’indicibile tragedia, una ricchezza per gli studiosi, una grande pagina di letteratura civile.
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