Isabella Insolvibile La prigionia alleata in Italia 1940-1943
Collana dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri
Viella Libreria Editrice-ROMA
Descrizione del libro di Isabella Insolvibile –Tra il 1940 e il 1943 circa 70.000 soldati alleati furono prigionieri in Italia. Catturati sui fronti africani, vennero detenuti in quasi tutte le regioni italiane, in campi che rappresentarono uno specifico universo di cattività, indagato qui per la prima volta nella sua interezza.
L’Italia della seconda guerra mondiale non fu in grado di rispettare i suoi doveri di potenza detentrice, e la miseria patita dai suoi cittadini ebbe serie conseguenze anche sui prigionieri. In alcuni casi, poi, le autorità dei campi si resero responsabili di veri e propri crimini di guerra nei confronti dei nemici detenuti.
La prigionia alleata nel nostro paese, che questo libro ricostruisce, è dunque un altro dei “luoghi” della storia in cui si infrange il mito degli italiani brava gente.
Introduzione
La cattura e la prima detenzione
Le modalità e le caratteristiche della cattura dei soldati nemici al fronte
La detenzione nei campi provvisori e di transito nella zona di operazioni
Il trasferimento in Italia
La gestione dei prigionieri alleati
Gli organismi italiani addetti alla gestione dei prigionieri
Il ruolo della potenza protettrice e della Croce Rossa Internazionale
La British Red Cross
La Santa Sede e gli altri organismi di tutela e cura
I campi in Italia
Il quadro generale
I campi di transito
I campi di concentramento
I campi di lavoro
Fame, freddo e malattie. Le condizioni materiali della prigionia
La fame
Il freddo
Le malattie
Essere prigionieri in Italia
La corrispondenza
La vita di prigionia: «the challenge of the day»
L’istruzione
La nostalgia di casa e la comunità del campo
Autorappresentazione e rappresentazione del nemico
La fraternizzazione
Reati, punizioni e fughe
Reati e punizioni: prigione e isolamento
«NO P.O.W. must escape alive»: le fughe
Tornare a casa, e non tornarci
Gli scambi di prigionieri fino all’armistizio
L’8 settembre: il mancato “tutti a casa” dei prigionieri alleati
La colpa e il dolo: violazioni della Convenzione di Ginevra e crimini di guerra
Le violazioni della Convenzione di Ginevra
I crimini di guerra
Conclusioni
Appendice
Abbreviazioni e sigle
Bibliografia
Indice dei nomi
Indice dei luoghi
L’Autrice-Isabella Insolvibile insegna Storia contemporanea all’Università telematica Mercatorum e collabora con la Fondazione Museo della Shoah. Si occupa di Resistenza, prigionia e crimini di guerra. Tra i suoi libri, ricordiamo Cefalonia. Il processo, la storia, i documenti (Viella 2017, con M. De Paolis); Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-46) (ESI 2012); Kos 1943-1948. La strage, la storia (ESI 2010).
Francesco Maselli A soli 14 anni organizzò iniziative studentesche nella Roma occupata dai tedeschi.
Nel dopoguerra si iscrisse al Partito Comunista.
Assistente di Antonioni e Visconti.
Il suo primo lungometraggio fu GLI SBANDATI del 1955, sui temi della Resistenza.
Si possono poi ricordare GLI INDIFFERENTI del 1964 dal romanzo di Alberto Moravia;
IL SOSPETTO del 1975, sugli anni della clandestinità durante il fascismo, con Gian Maria Volonté, Renato Salvatori e Annie Girardot; STORIA D’AMORE del 1986.
Francesco Maselli (detto Citto) Regista cinematografico, nato a Roma il 9 dicembre 1930. Formatosi nel periodo del Neorealismo, M. ha successivamente avviato una personale ricerca espressiva, nell’ambito della quale l’impegno sociale e politico si è fuso, nei momenti migliori, con l’insistente riflessione sul tema dell’ambiguità e l’attitudine allo scavo psicologico (Gli sbandati, 1955; Il sospetto di Francesco Maselli, 1975; Storia d’amore, 1986, per il quale ha ottenuto ex aequo il Gran premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia). La scelta dell’impegno si è espressa anche nell’attività a favore degli autori cinematografici italiani che M. ha svolto sia come pubblicista sia come esponente sindacale (v. ANAC).
Cresciuto in un ambiente intellettualmente stimolante (critico d’arte il padre, pittrice la sorella Titina), s’iscrisse al Centro sperimentale di cinematografia e appena conseguito il diploma cominciò a lavorare come aiuto regista, con Michelangelo Antonioni per il mediometraggio L’amorosa menzogna (1949) e con Luigi Chiarini per Patto col diavolo (1950); quindi, ancora con Antonioni per Cronaca di un amore (1950), di cui fu anche co-sceneggiatore, e per La signora senza camelie (1953), e con Luchino Visconti. Nel 1949 aveva anche esordito nella regia con Bagnaia, paese italiano ‒ primo dei molti documentari da lui diretti ‒, distinguendosi presto per la padronanza del mezzo tecnico e la disponibilità verso gli interpreti. Tali doti spinsero Cesare Zavattini, che in quegli anni andava sperimentando le sue teorie sul Neo-realismo, a chiamarlo al suo fianco in Storia di Caterina ‒ penultimo episodio del film collettivo L’amore in città (1953) ‒, puntigliosa ricostruzione di un fatto di cronaca (l’abbandono del figlio da parte di una domestica) interpretato dalle stesse persone che l’avevano vissuto.
Nei suoi primi lavori non documentaristici, tuttavia, più che alla cronaca M. si mostrava interessato al romanzo, all’interpretazione di storie nutrite di ambiguità, legate al mondo della borghesia. Gli sbandati segue le vicende di un gruppo di giovani altoborghesi dopo l’8 settembre 1943, in presenza delle prime manifestazioni di una resistenza organizzata; I delfini (1960) ritrae un composito ambiente di vitelloni di provincia; Gli indifferenti (1964) è una puntuale trascrizione del primo romanzo di A. Moravia, efficace nella resa degli ambienti e nell’analisi dei comportamenti, intesi quasi come connotati di classe. Più esplicitamente politica ‒ e intrecciata con la sua esperienza di militante nelle file del Partito comunista italiano ‒ è l’analisi delle contraddizioni e dell’ambiguità dell’intellettuale borghese (tanto affascinato dalle dispute ideologiche quanto indeciso al momento di passare all’azione) che M. propose in Lettera aperta a un giornale della sera (1970); mentre il successivo Il sospetto di Francesco Maselli (così intitolato per evitare l’omonimia con Il sospetto di Alfred Hitchcock) risulta il suo film più compatto: è la storia di un militante comunista (Gian Maria Volonté) che, inviato in Italia nel 1934 a rinsaldare la rete clandestina antifascista, si accorge di essere stato usato come esca dai compagni; arrestato, si rifiuta di collaborare con la polizia e accetta una pesante condanna pur di salvare la propria dignità e dare un senso alla propria esistenza.
Dedicatosi a lungo al lavoro per la televisione (si ricorda, in particolare, Tre operai, 1980, dall’omonimo romanzo di C. Bernari), M. ha compiuto anche ricerche nel settore della fotografia e dell’elettronica, ed è tornato al cinema con una serie di film ‒ alcuni dei quali girati in doppia versione, cinematografica e televisiva ‒ in cui si fa prevalente l’attenzione all’universo femminile: Storia d’amore, che propone un insolito ritratto di giovane donna proletaria (Valeria Golino) in un contesto di alienazione e marginalità; Codice privato (1988), in cui una donna (Ornella Muti) cerca di scoprire nel computer tracce dell’esistenza segreta del suo uomo; Il segreto (1990), altra indagine sull’inquietudine femminile ambientata in una borgata romana; L’alba (1991), esercizio di stile su un amore clandestino che si consuma nella stanza di un albergo. Successivamente ha diretto l’apologo politico Cronache del terzo millennio (1996) e, per la televisione, Il compagno (1999), basato sull’omonimo romanzo di C. Pavese. Nel luglio 2001 più di trenta registi, tra cui M., si sono recati a Genova per documentare le iniziative dei no-global durante la riunione del G8; dal loro lavoro è nato il film collettivo, coordinato da M., Un altro mondo è possibile.
Bibliografia
Bolzoni, La barca dei comici, Roma 1986, pp. 127-33; S. Parigi, Francesco Maselli, Firenze 1992; Francesco Maselli: l’occhio e il ritmo, a cura di M. Argentieri, Napoli 1994.
ROMA. Miti greci per principi dauni al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia-
Roma- 21 nov 2024-Al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, alla presenza del Ministro della Cultura, Alessandro Giuli, è stata inaugurata la mostra “Miti greci per principi dauni”, che celebra la restituzione all’Italia di 25 reperti archeologici, tra cui un importante gruppo di vasi apuli ed attici a figure rosse, recuperati nell’ambito di una riuscita operazione di diplomazia culturale condotta con i Carabinieri del Comando Tutela del Patrimonio Culturale e finora conservati nelle collezioni di antichità classica dell’Altes Museum di Berlino.
Sono intervenuti: la direttrice del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Luana Toniolo; il Direttore generale Musei e curatore della mostra, Massimo Osanna; il Capo Dipartimento per la tutela del patrimonio culturale e curatore della mostra, Luigi La Rocca; il procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Roma, Giovanni Conzo; il Comandante dei Carabinieri Tpc, Gen. D. Francesco Gargaro; il Capo Dipartimento per la valorizzazione del patrimonio culturale, Alfonsina Russo; l’Ambasciatore tedesco in Italia, Hans-Dieter Lucas.
Il progetto espositivo, a cura di Luigi La Rocca, Massimo Osanna e Luana Toniolo, nasce nell’ambito dell’Accordo di cooperazione culturale siglato lo scorso 13 giugno a Berlino tra i Ministeri della Cultura italiano e tedesco, la Fondazione per l’Eredità Culturale della Prussia (SPK) e l’Altes Museum di Berlino.
Grazie a questa intesa, raggiunta a valle di un importante lavoro delle Procure della Repubblica di Roma e Foggia e dei Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, oltre che degli uffici del Ministero della Cultura, rientra definitivamente in Italia un importante gruppo di vasi, provenienti dalla Puglia settentrionale, area abitata dall’antica popolazione dei Dauni.
In virtù della provenienza daunia, i materiali torneranno poi in Puglia e saranno assegnati definitivamente all’istituendo Museo di Foggia presso Palazzo Filiasi, all’esito dei lavori di restauro e adeguamento funzionale attualmente in corso e finalizzati alla realizzazione di un museo dedicato proprio alle attività di contrasto al fenomeno dello scavo clandestino e della illecita esportazione di beni archeologici.
Tra gli oggetti in mostra un gruppo di straordinari vasi a figure rosse di grandi e medie dimensioni – ben attribuibili per caratteristiche stilistiche ad alcuni dei ceramografi più noti e prolifici, attivi nella seconda metà del IV secolo a.C., come il Pittore di Dario e il Pittore dell’Oltretomba -, e due vasi attici, prodotti cioè nella regione di Atene, e uno lucano pure appartenenti al rimpatrio da Berlino.
Oggetti di lusso prodotti essenzialmente per essere deposti nelle tombe e decorati con scene mitologiche. Grazie a un allestimento immersivo e accessibile, le opere raccontano la loro storia e quelle degli dei e degli eroi in essi raffigurati.
Il nucleo di reperti compariva nell’elenco di beni trafugati dal noto trafficante d’arte Giacomo Medici, condannato nel 2009 per traffico illecito di beni culturali. In base alle indagini, fu prima acquisito da una famiglia svizzera (collezione Cramer) e poi venduto all’Altes Museum dal commerciante di antichità Christopher Leon, per 3 milioni di marchi nel 1984.
Le opere saranno esposte al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 16 marzo 2025.
Con l’occasione ed in virtù del dialogo virtuoso tra Italia e Germania, è stato avviato un programma di prestiti di opere a lungo termine con lo stesso museo berlinese, grazie alla collaborazione dei Parchi archeologici di Paestum e Velia e del Museo archeologico nazionale di Napoli.
Fonte:
Ufficio Stampa e Comunicazione MiC 21 nov 2024
Fame, dono e sfida antifascista in una festa del luglio 1943
Presentazione di Mirco Zanoni / Premessa di Alberto Grandi
Viella Libreria Editrice-Roma
Sinossi del libro di Marco Cerri-All’indomani del 25 luglio 1943, la destituzione di Mussolini venne salutata con forme di distruzione simbolica del regime fascista (abbattimento di busti e statue del duce, cancellazione delle scritte murali, saccheggi delle sedi fasciste, falò purificatori, ecc.). I sette fratelli Cervi, insieme agli antifascisti del loro paese, portarono invece in piazza due bidoni del latte, ricolmi di pastasciutta; proposero, cioè, un banchetto collettivo all’interno del quale, senza distinzioni e gerarchie, una comunità avrebbe ritrovato un nuovo senso della propria identità. Alla fine degli anni Ottanta, si ebbe la felice intuizione di riproporre l’antico gesto dei sette fratelli; nel corso degli anni, la festa della pastasciutta antifascista si è diffusa in tutta Italia, fino a diventare una delle manifestazioni più importanti e conosciute dell’antifascismo italiano.
INDICE
Presentazione di Mirco Zanoni
Premessa di Alberto Grandi
Introduzione
La storia dei Cervi e la pastasciutta
Premessa
Il martirologio dei Cervi
Una nuova narrazione
La pastasciutta dei Cervi
27 luglio 1943: la pastasciutta in piazza
Controversie su una data
Decisione, organizzazione e produzione della pasta
Dalla latteria di Caprara alla piazza di Campegine
Sul numero dei partecipanti alla festa
Sull’investimento economico per la pastasciutta
Qualità e tipologia della pastasciutta di Campegine
Come un carnevale
Premessa
Scamiciati, ubriachi e pazzi
Socialità e derisione
Teatralizzazioni carnevalesche
Bevute a garganella
Il carnevale dei Cervi
Antifascismo e saccheggi popolari
Spreco carnevalesco e forme redistributive
La distribuzione della pastasciutta
La fame inesauribile
Ideologia e cultura fascista dell’alimentazione
La cucina del poco e del senza
La fame e il suo sentimento
Astenia e dimagrimento progressivo
Pane e conflitto
Le sfide dei Cervi
La politica degli ammassi e la borsanera
Repressione e impotenza del regime
Borsanera e potlach dei Cervi
La piazza in festa
Tra catarsi e stasi aggregativa
La prefigurazione utopica di un nuovo mondo
Gli abbracci del 25 luglio
Guerra e deperimento della cultura del pasto comune
La condivisione della parola
Il dono dei Cervi
Verticalità del dono
Forme orizzontali di prodigalità e motivazioni del dono
L’idealizzazione fascista della mezzadria
La (relativa) agiatezza dei Cervi
Originalità e riscatto sociale dei Cervi
Sull’inaffidabilità anarchica dei Cervi
Gli arrestati del 25 luglio
La pastasciutta tra immaginario e consuetudini culinarie
Elementi storici
La pastasciutta dei napoletani
I futuristi contro la pastasciutta
Mitologie della cucina emiliana
La dieta contadina padana
Gastronomia festiva nel Reggiano
Del burro e del formaggio
La dieta dei Cervi
La sfoglia e la zuppa
Successo e declino della pastasciutta
Il fuoco di una tradizione
La pastasciutta e la crisi dell’antifascismo
L’idea della festa della pastasciutta e l’inizio della sua storia
Il consolidamento della festa e la rete delle pastasciutte antifasciste
Promotori, luoghi e date della festa
Lo spettacolo della festa
Tra fedeltà filologica e innovazione
Il successo simbolico della pastasciutta antifascista
La ridefinizione dei contenuti della festa
Un antifascismo da mangiare
Conclusioni
Interviste e sitografia
Indice dei nomi
L’Autore
Marco Cerri, di formazione sociologica, da tempo si occupa di storia della Resistenza italiana. Si è già interessato alla vicenda della famiglia e dei fratelli Cervi in una ricerca sulla costruzione del loro mito nell’Italia repubblicana (Papà Cervi e i suoi sette figli. Parole della storia e figure del mito, Rubbettino, 2013).
In copertina: Bidone per la raccolta e il trasporto del latte (anni Trenta). Gattatico (RE), Museo di Casa Cervi.
Fotografia di John Freeman.
Viella Libreria Editrice
Via delle Alpi 32 – 00198 Roma Tel. 06.8417758 – Fax 06.85353960
POESIA CURDA in ricordo di Asia Ramazan Antar, eroina curda morta a 20 anni per difendere la Siria dall’Isis.
Pubblichiamo questa Poesia per onorare una giovane guerrigliera curda ,di 20anni, morta in combattimento. Questa è la poesia che Asia Ramazan Antar ha inviato, come testamento e lettera di addio alla madre . La poesia si conclude con queste parole :” Se non torno, la mia anima sarà parola …per tutti i poeti.” Noi, Poeti della Sabina, vogliamo testimoniare la memoria della giovane guerrigliera e onorare il messaggio che ha inviato a tutti i Poeti del mondo. La Poesia e gli Eroi non hanno confini.Giovane Asia Ramazan Antar riposa serena nel paradiso degli Eroi e canta le tue poesie alle stelle e alla luna quando si accendono la sera .
POESIA CURDA in ricordo di Asia Ramazan Antar, eroina curda morta a 20 anni per difendere la Siria dall’Isis.
DESCRIZIONE del libro di Ann Mark-Vita di Vivian Maier-Nella periferia di Los Angeles, il 17 luglio 1955, apriva per la prima volta i suoi cancelli Disneyland. Quasi trentamila persone si riversarono nei viali mai calpestati prima, un fiume in piena di bambini pronti a lasciarsi meravigliare. Lì, tra famiglie, figuranti e pupazzi, c’era Vivian Maier, una tata di origine francese da poco trasferitasi sulla West Coast in cerca di un nuovo incarico. La donna girovagava da sola tra la folla con una macchina fotografica in mano: dopo anni di scatti in bianco e nero, aveva deciso di passare al colore per immortalare gli attori travestiti da nativi americani e i castelli di cartapesta, per rendere giustizia a quell’atmosfera sognante e un po’ finta. Ma conclusa la gita, quelle foto non furono viste da nessuno, come le altre decine di migliaia di immagini che Vivian Maier scattò e tenne nascoste agli occhi del mondo per decenni. La storia del loro ritrovamento è già leggendaria: montagne di rullini chiusi in scatole di cartone fino al 2007, quando per un caso fortunato John Maloof, il figlio di un rigattiere di Chicago, acquistò in blocco il contenuto di un box espropriato. All’interno trovò un archivio brulicante di autenticità e umanità, il patrimonio di una fotografa sconosciuta che in pochi anni sarebbe stata celebrata in tutto il mondo. Ma mentre le sue opere diventavano sempre più popolari, la sua biografia restava un segreto impenetrabile, perché Vivian aveva sepolto il suo talento con la stessa cura e riserbo con cui aveva protetto la sua vita. Adesso, grazie alla meticolosa ricerca investigativa di Ann Marks, che ha avuto accesso a documenti personali e fonti di primissima mano, quelle vicende personali finora oscure vengono sottratte all’oblio, al mistero e alla leggenda. “Vita di Vivian Maier” rivela in tutta la sua complessità la storia di una donna fuggita da una famiglia disfunzionale, fra illegittimità, abuso di sostanze, violenza e malattia mentale, per poter finalmente vivere alle sue condizioni. Nessuno, neanche le famiglie presso cui prestava servizio, aveva idea che quella bambinaia di provincia nascondesse uno dei maggiori talenti fotografici del periodo, in grado di ritrarre le disparità e le ingiustizie degli Stati Uniti del boom economico, le persone comuni, i bambini, la semplice vita urbana. In questo, che trabocca di foto (anche inedite), l’opera e la vita finalmente si intrecciano in un’unica storia: il ritratto che emerge è quello di una sopravvissuta, fiduciosa nel suo talento nonostante le sfide della malattia mentale, una donna socialmente consapevole, straordinariamente complessa e soprattutto libera.
Ann Marks spent thirty years as a senior executive in large corporations and served as chief marketing officer of Dow Jones/The Wall Street Journal.After retirement, she put her research and analysis skills to use as an amateur genealogist and became inspired to unlock the mysterious life of photographer Vivian Maier. She has dedicated years to studying Maier’s archive of 140,000 images and is an internationally renowned resource on Vivian Maier’s life and work. Her research has been featured in major media outlets, including the Chicago Tribune, The New York Times, and the Associated Press. Marks lives in Manhattan with her husband and three children.
Wanda Osiris | Dal registro alla Storia-Archivio di Stato-
Wanda Osiris – all’anagrafe Anna Menzio – nacque a Roma il 3 giugno 1905, da Giuseppe, palafreniere del re, e Adele Pandolfi.
Il suo precoce interesse per lo spettacolo la portò al debutto nel 1923, come soubrette presso il cinemateatro Eden di Milano, dove diede inizio alla sua scalata verso il successo. Divenne presto una figura iconica, con la sua pelle artificiosamente ocra, il trucco marcato, i capelli ossigenati, piume, paillettes, tacchi e fiumi di profumo Arpège, sempre rivestita di sfarzo e sensualità.
Il primo vero trionfo fu agli inizi degli anni Trenta, all’Excelsior di Milano, accanto a Totò ne Il piccolo cafè. Con l’avvento della notorietà vennero coniati anche i suoi soprannomi, la Wandissima e la Divina, che solo il fascismo tenterà di contenere, italianizzando il suo nome d’arte in “Vanda Osiri”.
Lavorò a fianco di grandi personaggi del tempo, come Carlo Dapporto, Macario, Nino Taranto, Walter Chiari, Renato Rascel e molti altri. Ma soprattutto le sue riviste divennero famose per le eccentriche scenografie e le enormi scalinate che scendeva con grazia e disinvoltura, sempre attorniata da un ampio corpo di ballo che sceglieva lei stessa.
Fra i suoi maggiori successi si ricordano: Tutte donne (1939), Che succede a Copacabana? (1943), Grand Hotel (1948), Made in Italy (1953) e Festival (1954), a cui si affiancano canzoni di grande risonanza, come Sentimental (1949) e Ti parlerò d’amor (1944).
Tuttavia, l’avvento della televisione contribuì pian piano a sfumare il mito di Wanda, complice anche la diffusione di un nuovo prototipo di bellezza e di fare varietà. Eppure, ancora oggi Wanda Osiris incarna l’emblema della soubrette italiana della prima metà del Novecento e per questo riconosciuta dal grande pubblico come la prima vera diva nazionale.
Morì a Milano nel 1994, all’età di 89 anni.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma > Stato civile italiano > Roma > 1905
È stata la prima Diva dello spettacolo leggero italiano. I suoi spettacoli erano caratterizzati dallo sfarzo; amava discendere scale hollywoodiane attorniata da giovani ballerini che sceglieva lei stessa. Per lei vennero coniati gli appellativi di Wandissima e di Divina. Le interpretazioni canore molto personali, il trucco tipicamente ocra, i capelli ossigenati, le piume, i tacchi, le paillettes, i fiumi di profumo Arpège, le rose e i ricchi costumi (ideati e realizzati da Folco Lazzeroni Brunelleschi), divennero caratteristici. Registrata allo stato civile come Anna Menzio, nacque a Roma il 3 giugno 1905 nella casa di Via Quirinale 16, figlia di Adele Pandolfi e del marito Giuseppe Menzio, palafreniere del Re presente a Monza nel momento dell’assassinio di Umberto I.
Lasciata la famiglia e abbandonati gli studi di violino per seguire la passione teatrale, arrivò a Milano dove debuttò nel 1923 al cinema Eden.
Durante il fascismo, in ottemperanza alle direttive emanate da Achille Starace per conto del governo, le fu imposto di italianizzare il nome d’arte, che divenne Vanda Osiri. Nel 1937 fu scritturata da Macario per mettere in scena la rivista Piroscafo giallo. Nel 1938 è in Aria di festa, dove appare in una gabbia d’oro. A Milano nel 1940 uscì da un astuccio di profumo in Tutte donne; a Roma nel 1944 recitò per la prima volta con Carlo Dapporto, in Che succede a Copacabana, nel 1945 in L’isola delle sirene e La donna e il diavolo.
Dopo la fine della guerra, tornò a Milano e sempre con Dapporto divenne la regina del gran varietà. Nel 1946 entrò a far parte della compagnia teatrale di Garinei e Giovannini.
Nel 1948, Al Grand Hotel, sorprese il pubblico in un’opera teatrale al massimo sfarzo e lusso. Conobbe Gianni Agus con il quale ebbe una lunga relazione professionale. Sul finire degli anni quaranta, la Osiris diventò la regina incontrastata dei salotti e al Teatro Lirico le sue apparizioni erano degne dei botteghini della Scala. Nel 1951 lavorò in Gran baraonda con il Quartetto Cetra, Turco, Dorian Gray e Alberto Sordi.
Nel 1954 ritornò con Macario in Made in Italy, mentre nel 1955 in Festival, diretto da Luchino Visconti, non ottenne il successo sperato. L’anno dopo, nella rivista La granduchessa e i camerieri (tra gli attori compariva anche Gino Bramieri) inciampò nell’abito di crinoline: si temette la fine della sua carriera, ma dopo cinque giorni la Divina calcò di nuovo la scena. Ugualmente, il successo si spense rapidamente con il tramonto del varietà, progressivamente soppiantato dalla nascente commedia musicale, e l’affermarsi impetuoso di un modello di soubrette del tutto nuovo (impersonato da figure come Delia Scala, Lauretta Masiero, Marisa del Frate) e al radicale rinnovamento di stile portato avanti dalla “ditta” Garinei e Giovannini in accordo con l’evoluzione dei gusti del pubblico.[2]
Nel 1963 in una riedizione di Buonanotte Bettina, interpretò la parte della suocera a fianco di Walter Chiari e Alida Chelli, poi con la concorrenza della televisione e la decadenza del varietà, il suo percorso teatrale si interruppe. Recitò in prosa negli anni settanta: la sua parte più celebre fu in Nerone è morto? di Hubay nel 1974, con la regia di Aldo Trionfo.
Accudita dalla figlia Ludovica Rivolta in Locatelli, detta Cicci (1928-2013), e dalla nipote Fiorenza, Wanda Osiris morì a Milano nel 1994, all’età di 89 anni, a causa di un edema polmonare. È tumulata al Cimitero monumentale di Milano, non lontano dalla tomba di Gino Bramieri.[3]
Vita privata
Nel 1928, dalla relazione con Osvaldo Rivolta, nasce la figlia Ludovica, detta Cicci.
Licenza Poëtica di Peter Ciaccio-La legge di Lidia Poët
Articolo di Peter Ciacco-La legge di Lidia Poët-La speranza è che nonostante tutto questa serie televisiva contribuisca a far conoscere questa donna straordinaria, italiana e valdese, montanara e intellettuale
In tempo per il XVII Febbraio è uscita per Netflix una serie tv che oscilla tra il legal e il crime, con protagonista una delle personalità più importanti della storia valdese, una donna che lottato per i diritti di tutti e tutte. La legge di Lidia Poët [pronunciato Pòet, sic] pare prendere, però, solo pochi elementi dalla storia: qualche nome, l’ambientazione torinese e due eventi biografici, cioè la cancellazione di Poët dall’albo l’11 novembre 1883, appena tre mesi dalla storica iscrizione quale prima avvocata, e il rigetto del ricorso da parte della Cassazione il 18 aprile 1884. Tutto, ma proprio tutto, il resto è frutto di invenzione. Pertanto non si può parlare di un’opera biografica. La scelta degli autori di omettere due informazioni importanti e potenzialmente gustose per il pubblico, quali il suo essere valdese e montanara, è di difficile comprensione. Di solito, i personaggi più caratterizzati sono quelli in cui è più facile identificarsi: quanti maschietti di città si sono commossi di fronte ai sentimenti della piccola Heidi?
La sensazione è che al personaggio Lidia sia stata strappata l’anima. È soltanto una donna di fine Ottocento che rivendica il diritto di esercitare l’avvocatura. Non è poco, certo, ma non è neppure abbastanza per renderla credibile agli occhi del pubblico e suscitare empatia. Altri aspetti della serie, poi, non tornano. Tralasciando alcune incongruenze narrative e il fatto che Torino sembri appena scartata dal cellophane per quanto è pulita, colpisce un linguaggio non consono all’ambientazione: i personaggi sono alquanto sboccati e si danno quasi tutti del tu. Come spiegare queste e altre scelte? Non sembra possibile che in una serie così raffinata nelle scenografie e nei costumi, con bravi interpreti che reggono da soli la credibilità della narrazione, con una bella colonna sonora rock (particolarmente azzeccata in chiusura la canzone King di “Florence+the Machine), gli autori abbiano scelto deliberatamente di non raccontare né la vera Lidia Poët né la vera ambientazione storico-sociale.
Una risposta possibile è che la serie parli in realtà dei nostri giorni. Lidia e le questioni intorno a lei potrebbero non essere altro che “idee” (in senso platonico) del nostro mondo, anzi della nostra Italia. Così si spiegherebbero il linguaggio informale vicino all’italiano contemporaneo, l’indifferentismo religioso, il libertinismo sessuale, una gioventù mai stimata dalle generazioni più mature, l’uso regolare di stupefacenti per sopravvivere a un mondo alienante, drogato di ansia da prestazione.
Soprattutto, così si spiegherebbe l’elemento più paradossale della serie. Lidia non appare, infatti, particolarmente intelligente. Arriva a scoprire la verità non attraverso il ragionamento, ma grazie al sentimento delle viscere. Una circostanza peraltro non molto utile alla causa dell’emancipazione femminile. Allo stesso tempo il maschilismo dei suoi interlocutori è becero e triviale, ridotto a macchietta. Insomma, ne emerge un dibattito su femminismo e patriarcato banalizzato come su certi post di Facebook.
In conclusione, la speranza è che nonostante tutto questa serie contribuisca a far conoscere questa donna straordinaria, italiana e valdese, montanara e intellettuale, e che susciti interesse intorno alle sue battaglie. Sarebbe importante in un’Italia che ha difficoltà a fare i conti con il passato e che spesso si dimentica di onorare la memoria dei suoi figli e delle sue figlie migliori.
Fonte–Riforma.it–Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
8 settembre 1943.Da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”
Laterza Editori
da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”-“Eravamo numeri. Non più uomini. Il mio era 7943. Ero uno dei tanti. Mi avevano preso sulle montagne ai confini con l’Austria, mentre tentavo di arrivare a casa, dopo l’8 settembre del ’43. Ci portarono a piedi fino a Innsbruck e poi, dopo quattro o cinque giorni, ci caricarono sui treni e ci portarono in un territorio molto lontano, che a noi era sconosciuto, oltre la Polonia, vicino alla Lituania, nella Masuria, in un lager dove poco tempo prima erano morti migliaia di uomini; gli storici parlano di cinquanta-sessantamila russi. Erano prigionieri, morti di fame
e di tifo. Noi andammo ad occupare le baracche che avevano lasciato libere, nello Stammlager 1-B.
Dopo quattro o cinque giorni, ci proposero di arruolarci nella repubblica di Salo, ossia di aderire all’Italia di Mussolini. Eravamo un gruppo di amici che avevano fatto la guerra in Albania e in Russia. Eravamo rimasti in pochi. Ci siamo messi davanti allo schieramento, e quando hanno detto “Alpini, fate un passo avanti, tornate a combattere!”, abbiamo fatto un passo indietro. Gli altri ci hanno seguito.
E fummo coperti d’insulti, di improperi. Avevamo visto cos’eravamo noi in guerra, in Francia prima, poi in Albania e in Russia. Avevamo capito di essere dalla parte del torto. Dopo qello che avevamo visto, non potevamo più essere alleati con i tedeschi. Perciò da allora fummo dei traditori. Fummo della gente che non voleva più combattere. E ci trattarono come tali. Nell’ordine dei lager venivamo subito dopo gli ebrei e gli slavi; noi che non eravamo nemmeno riconosciuti dalla Croce rossa internazionale. Ci chiamavano internati militari, ma eravamo prigionieri dentro i reticolati, con le mitragliatrici piazzate nelle torrette che ci seguivano ogni volta che ci spostavamo. Abbiamo resistito. Tanti di noi non sono tornati. Più di quarantamila nostri compagni sono morti in quei lager, durante la prigionia. Io ritornai nella primavera del 1945, a piedi, dall’Austria, dove ero fuggito dal mio ultimo campo di concentramento.
Arrivai a casa che pesavo poco più di cinquanta chili, pieno di fame e di febbre. E feci molta fatica a riprendere la vita normale. Non riuscivo nemmeno a sedermi a tavola con i miei, o a dormire nel mio letto. Ci vollero molti mesi per riavere la mia vita.
Avevamo dietro le spalle la Storia, che ci aveva aperto gli occhi su quello che eravamo noi e su quel che erano coloro i quali ci venivano indicati come nostri nemici. Quello che ci avevano insegnato nella nostra giovinezza era tutto sbagliato. Non bisognava credere, obbedire, combattere. E l’obbedienza non doveva essere cieca, pronta e assoluta. Avevamo imparato a dire no sui campi della guerra. E molto più difficile dire no che si.
Ripeto spesso ai ragazzi che incontro: imparate a dire no alle lusinghe che avete intorno. Imparate a dire no a chi vuol farvi credere che la vita sia facile. Imparate a dire no a chiunque vuole proporvi cose che sono contro la vostra coscienza. E’ molto più difficile dire no che si.”
da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”, Laterza, 2021.
“Santi e culti dell’anno Mille. Storia e leggende tra cultura dotta e religiosità popolare”
Ugo Mursia Editore
«Quella dei santi era una contestazione silenziosa, ma che non sfuggiva però a chi aveva tutt’altra condotta di vita e ai potenti. Cercavano di ucciderli o di rapirli.»
Di fronte alla crisi della Chiesa feudale, con il papato in balia delle nobili famiglie romane e un clero sempre più secolarizzato, intorno al Mille si ebbe una forte reazione spirituale, con figure ascetiche che si affermarono come santi, introducendo diversi e radicali modi di vivere il rapporto col sacro. Attraverso una nuova lettura di questi personaggi e dei loro rapporti, Paolo Golinelli ricostruisce, con un linguaggio vivace e accattivante, un mondo aperto al soprannaturale e al meraviglioso, dove ogni piccolo avvenimento induceva a pensare al miracolo, soprattutto per chi aveva bisogno di protezione. Il discorso si allarga quindi alla religione popolare, in narrazioni che, seppur spiegate razionalmente, possono ancora affascinare i lettori di oggi.
Paolo Golinelli, docente di Storia Medievale nell’Università degli Studi di Verona, si occupa principalmente del rapporto tra religione e società nel Medioevo, percorso attraverso le fonti agiografiche e alcuni tra i personaggi più emblematici del tempo. Tra i suoi ultimi libri, L’ancella di san Pietro. Matilde di Canossa e la Chiesa (2015), e pubblicati con Mursia: Celestino V. Il papa contadino (2007), Matilde e i Canossa (2007), Il Medioevo degli increduli (2009), Medioevo Romantico (2011), Terremoti in Val Padana (2012), Un millennio fa (2015), Breve storia di Matilde di Canossa (2015).
“Santi e culti dell’anno Mille. Storia e leggende tra cultura dotta e religiosità popolare” (Ugo Mursia Editore)
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