I poeti vanno in giro col viso pitturato di nero. ( Breve elogio dei futuristi russi)
Breve elogio dei futuristi russi-Che errore stupefacente! Mi ero dimenticato che la poesia non è fatta per essere letta in silenzio, sul divano, a letto, in metropolitana. Così, piuttosto, si sorseggiano i romanzi: con sussiego borghese o con sovreccitazione urbana, comunque con quella posa lì. La poesia va ascoltata, ballata, gridata: essendo la quintessenza della vita, la poesia va vissuta. Oh… i poeti declamano i loro versi, aggiornando la voce, compiaciuta, recitano; ma la poesia è l’esegesi di una battaglia, non accondiscende, non ristora l’anima, non rincuora gli afflitti. La poesia, voglio dire, non è questione di ugola né di portamento; la poesia, lampo liturgico, pretende l’intero corpo del poeta, che sia travisato, svaligiato, vagliato, malato, inerme, rabbioso.
Resto un inguardabile ingenuo, e mi sorprende – ne leggo nel memorabile studio di Angelo Maria Ripellino su Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia – ricordare che i poeti russi, cavalcando la Rivoluzione – anzi: preparandola con atti teatrali, dunque politici, di genio – sfoggiavano la loro poesia addobbandosi in fogge eccentriche. Pitturandosi il viso. Questo continua a folgorarmi. Si pitturavano il viso. Come guerrieri, come lottatori nordici, come sciamani, adepti di una qualche religione dissepolta lì per lì, tra la carneficina dei miti d’Asia. Così andava in giro, per dire, Davyd Burljuk, pioniere del futurismo alla russa: “redingote da cantore del Sinodo e l’occhialino; il suo viso era dipinto a inchiostro di China: sulla guancia sinistra il profilo d’un cammello, opera di Sar’jan, e sulla destra misteriosi segni cabalistici, simili a onischi”.
Majakovskij, di solito, amava i cappotti lunghi, a volte verniciati di giallo, e dare spettacolo con il viso dipinto di rosso: una volta, sulle guance, si era fatto dipingere una tigre, stilizzata, un’altra un cobra, aggrovigliato nell’atto di puntare la preda. A vederlo, doveva fare paura – la poesia, in effetti, tra decalogo e urlo, nasce per incutere timore. Era il febbraio del 1914 e i futuristi russi s’impegnavano a boicottare il tour di Filippo Tommaso Marinetti. Velemir Chlebnikov – che sul petto s’era fatto disegnare il profilo di Manas, eroe dell’epica kirghisa – aveva scritto un volantino che imponeva ovunque. Diceva così: “Oggi altri indigeni e la colonia italiana sulla Nevà per considerazioni personali cadono ai piedi di Marinetti, tradendo il primo passo dell’arte russa sulla via della libertà e dell’onore, e costringono l’Asia a chinare il suo nobile collo sotto il giogo dell’Europa”. La polemica, per così dire, affonda nei meandri della storia russa – basta leggere cosa scrive Dostoevskij dell’Europa canaglia, covo di Baal, della ‘missione’ della Russia e del suo legame necessario con l’Asia (ora in: La bellezza salverà il mondo. Pensieri. Aforismi. Polemiche, De Piante, 2021) –, qui trova nuova carica eversiva, tra clown e gladio. Intanto, “il Maciste russo” – tale V. Gol’cšmidt –, atleta futurista “disperatamente audace”, dicono i cronisti del tempo, “si gettava in mare a capofitto, a mo’ di rondine, da un’altissima rupe, gridando: Viva Vladimir Majakovskij!”. Tutto – anche le giornate dell’ottobre ’17 – era teatro (tutt’altro che teatrale): dipingersi il viso significava svelarsi. Celato il viso, contraffatto, finalmente il poeta può essere se stesso.
Mascherati, i poeti russi smascheravano le ipocrisie dell’era, dell’uomo. Dietro ogni travisamento traluceva una verità di indecente delicatezza. La poesia era un acceleratore di vita. Di Velemir Chlebnikov, sulla cui “esistenza sbandata, prodiga, inerme” circolavano leggende, andato in Persia al seguito delle truppe rosse inebriato dal sentore d’Asia, si dice che “avviluppatosi in un sacco, vendette camicia e calzoni per comprarsi da mangiare ma, incontrata una povera, le diede tutto il denaro che aveva guadagnato”. Finì letteralmente nudo, nei suoi ultimi giorni, con indosso una pelliccia che lo tramutava in qualcosa tra il povero Cristo e il re barbaro in esilio, dimentico del regno. “In Chlebnikov il disinteresse assumeva un carattere di vera abnegazione, di martirio per l’idea poetica”, disse di lui Majakovskij. Chlebnikov fu poeta eccezionale e stralunato: in Italia ha trovato eccellenti interpreti in Ripellino e in Paolo Nori; non è semplice trovare i suoi libri. Mendico di tutto, fa ancora paura a molti, la sua bibliografia è clandestina, appena improvvisata, chissà.
Tra i futuristi russi affascina, per stranezza e folgore, la storia di Vasilij Kamenskij, “gioviale e fanciullesco”, “esuberante pioniere del volo”. Nato a Perm’ nel 1884, su una barca – così almeno amava dire, girovago della menzogna –, orfano a cinque anni, cresciuto da zii che commerciavano sul fiume Kama, Kamenskij abbandonò la scuola a sedici anni, si fece rivoluzionario, azionò scioperi, fu spedito in esilio, prima a Istanbul poi a Teheran. Burljuk, che si dilettava pure come pittore, lo raffigura con enormi occhi azzurri, a precipizio, una chioma di riccioli biondi, baffi, labbra da donna, mento importante; pare un Apollo russo. Ossessionato dalla velocità e dal volo, divenne pilota: le sue evoluzioni sul monoplano Blériot XI rasentano la leggenda; un incidente, nel 1911, mise fine alle sue ambizioni celesti. Fu amico di Chlebnikov, fu il più estremo tra i futuristi, promotore di un linguaggio funambolico, isterico, narciso, tutto corpo e poco testo. Ecco un paio di poesie del 1914:
La chiamata dell’aviatore
Cacofonia di anime
Ffrrrrrrrrrr
Sinfonia motoria
Sono io – Sono io –
Lirico-lottatore-futurista
Pilota-aviatore
Vasilij Kamenskij
Elastico propellente
Che monta in cielo
E lascia come biglietto da visita
Una penzolante civetta morta
Mi spiace per lei
Mantello da tango cucito a mano
e calze
con pantaloni.
*
La mia preghiera
Mio Dio:
Pietà di me
Dimenticami.
Ho pilotato un aereo
E ora sono in un fosso.
Voglio crescere
Come edera velenosa.
Amen.
*
Tango con mucche
La vita è più breve del cigolio di un passero
come un cane che nuota
su una lastra di ghiaccio
in mezzo al fiume a primavera
con allegria di latta, lattescente,
miriamo al destino.
…………..
bene, allora VAI al DIAVOLO
SENZA CORNA né FERRI
voglio ballare da solo
un TANGO con le mucche
e attraversare su ponti distillati
le lacrime di gelosia dei tori
le lacrime della RAGAZZA scarlatta.
L’epica finì presto. Il futurista Kamenskij proponeva – ad esempio nel romanzo “La capanna di fango”, 1910 – un clamoroso ritorno ai boschi; Majakovskij lo convinse che lo scintillio di Mosca era ‘amazzonico’. Stordito dalla Rivoluzione, che imbracciò, come molti, certo di una rivolta dello spirito, continuò a perpetuare formule linguistiche ormai inaccettabili agli occhi della burocrazia rossa. Si fece anarchico, preferì l’abisso. Nel 1931 pubblicò una biografia eccentrica, Il cammino di un entusiasta, tradotta da Sellerio nel 1989, ora fuori catalogo. Nel ’48, un ictus fiacca Kamenskij, che ne emerge paralizzato. Ripellino gli dedica un brandello mirabile: “Oggi, benché paralitico, Kamenskij dipinge gioiosi pastelli che raffigurano con lo stile fanciullesco della sua poesia d’allora spiagge, navi, barche, cacciatori, aeroplani, anatre fra canneti. E con ottimismo straziante afferma d’aver ancora vent’anni”.
Pare il ritratto di un’epoca: il poeta ‘rivoluzionario’, ora paralitico, eppure per sempre giovane, che dipinge un mondo ideale, a pastello, di aerei e cacciatori. Kamenskij pare uno di quei disadatti usciti da una strofa di Rimbaud. Il cammeo di Ripellino ha il genio della biografia di un santo: c’è sentore di miracolo, una luce arcana e blu, lì dentro.
Fonte-Pangea • Rivista avventuriera di cultura & idee è un progetto di Associazione Culturale Pangea- Direttore editoriale: Davide Brullo.
SINOSSI- Il libro Tullia Romagnoli Carettoni nell’Italia repubblicana-è stata partigiana, insegnante, funzionaria dell’Udi, dirigente socialista, senatrice dapprima con il Psi poi con la Sinistra indipendente, figura di spicco in vari organismi nazionali e internazionali. La sua biografia permette di ripercorrere i primi tre decenni della storia repubblicana: la transizione postfascista, il miracolo economico, le riforme mancate e quelle varate dal centro-sinistra, le battaglie per i diritti civili degli anni Settanta; ma anche la Guerra fredda, il processo di decolonizzazione, il movimento internazionale delle donne. A partire dal suo archivio personale, il volume restituisce il profilo di una “socialista autonoma” che, in Italia e nel mondo, si è battuta per intrecciare universalismo e differenze.
In copertina: Tullia Carettoni, da poco eletta senatrice del Psi (1963 ca). AUFN, TRC/I, busta 38, fasc. 1.
INDICE
Introduzione
1. Storia politica, questioni di genere, biografia
2. Costruire un archivio, costruire una memoria: il fondo Tullia Romagnoli Carettoni
3. Attraverso le sue carte: una lunga transizione postfascista
1. Tra le giovani donne della nuova Repubblica
1. Da Tullia Romagnoli a Tullia Carettoni
2. Partigiana combattente
3. «Tornata a valle», la Resistenza continua
4. Con Rodolfo Siviero: il recupero delle opere d’arte trafugate
5. Scuola e famiglia: l’impegno nell’Udi
6. «Candidata della pace» alle elezioni del 1948
7. Il “pellegrinaggio politico” in Urss e in Cina
8. Gli anni Cinquanta: tra modernità e tradizione
2. Nella stanza dei bottoni
1. Napoli, 1959. Nella Direzione del Psi
2. Dalla Scuola al Movimento femminile socialista
3. La “questione femminile” negli anni del centro-sinistra
4. Nel salotto delle Tribune politiche
5. 1963: l’ingresso a Palazzo Madama
6. Verso la stagione dei diritti civili
7. La Commissione Franceschini per i beni culturali
3. “Socialista autonoma” nella Sinistra indipendente
1. Conflittualità sociale e immobilismo parlamentare: l’uscita dal Psi
2. Una scuola per l’infanzia
3. Con Parri, per l’unità delle sinistre
4. Dagli Affari esteri alla Vicepresidenza del Senato
4. Nel mondo. I diritti umani
1. Contro la “guerra americana”: l’Issoco e il Comitato Italia-Vietnam
2. La tutela internazionale dei diritti umani: America Latina, Africa e Medioriente
3. L’Italia, la Cee e i paesi fascisti europei
4. Sulla linea della distensione
5. 1975: Anno internazionale della donna
5. In Italia. I diritti civili
1. In difesa del divorzio
2. La “lex Tullia” antireferendum
3. La riforma di famiglia e la “legge per le divorziate”
4. Aborto: problemi e leggi
5. Per il controllo delle nascite
6. Una legge «ipocrita ma necessaria»: la 194/1978
6. Per l’abrogazione della causa d’onore
1. 25 aprile 1976: il contributo della Resistenza alla libertà femminile
2. La protezione sotto attacco
3. La tutela dell’uguaglianza nel ddl 4/1976
4. Lo smantellamento della proposta
5. Il dibattito su delitto d’onore e matrimonio riparatore
6. L’infanticidio per causa d’onore
7. «Un gioco perfido di contro luci»
8. La legge 442/1981
Epilogo
1. Al Parlamento europeo (1979-1984)
2. La Presidenza dell’Istituto italo-africano (1980-1996)
3. All’Unesco (1984-2005)
4. Attraverso i confini
Indice dei nomi
AUTORE–Paola Stelliferi ha insegnato Storia delle donne e di genere all’Università degli Studi di Padova ed è stata assegnista di ricerca all’Università degli Studi Roma Tre. Fa parte della Società italiana delle storiche, per la quale è stata membro del consiglio direttivo nazionale. È autrice di Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei collettivi di quartiere (Bup, 2015), di saggi di ricerca sulla storia dell’aborto nell’Italia repubblicana e sulla storia e la memoria dei femminismi.
EDITORE
Viella Libreria Editrice
Via delle Alpi 32 – 00198 Roma Tel. 06.8417758 – Fax 06.85353960
Bruna Bertolo e Ornella Testori- L’ufficiale in bicicletta-
Editore NEOS- Torino
Il caso di Lucia Boetto Testori rievocato in un libro , L’ufficiale in bicicletta ,dalla figlia Ornella-Particolarmente coinvolgente è quando una figlia racconta la vita dei suoi genitori: in questo libro* è quella di una mamma straordinaria, Lucia Boetto Testori, che fu giovanissima protagonista della Resistenza antifascista nel Cuneese, non solo trasportando sulla sua bicicletta esplosivi, ma come “ufficiale-ispettore”, tenendo i collegamenti tra i partigiani e i dirigenti del Cln di Torino, e compiendo anche imprese rischiosissime con gli Alleati inglesi, paracadutati in aiuto degli “Autonomi” di Enrico Martini “Mauri”, per cui fu insignita di una medaglia di bronzo al Valor militare.
Ornella Testori – che nella sua professione si è occupata di biologia e medicina, in particolare quella nucleare, conducendo studi sulla tiroide – rievoca con precisione e anche humour le spericolate azioni di Lucia ragazza, non solo come le ha ascoltate dalla sua viva voce, ma approfondendole con una precisa documentazione, mentre un affresco che inquadra più propriamente gli avvenimenti è presentato nella prima parte del libro, in un’attenta e ampia ricerca della storica Bruna Bertolo e le prefazioni di Luciano Boccalatte e di Nino Boeti.
Fu Frida Malan che mi fece conoscere Lucia, che io vedevo sempre con lei, Bianca Guidetti Serra e Gisella Giambone nelle manifestazioni partigiane, in particolare quando erano invitate a qualche dibattito dai movimenti delle donne, e loro quattro rappresentavano concretamente l’ampio schieramento politico e ideologico della Resistenza: Frida, i “GL” nell’ala socialista, Bianca, quella azionista poi vicina al Pci, Gisella quella garibaldina derivante dal padre Eusebio, ucciso al Martinetto, e Lucia quella liberale degli “Autonomi”. A quel filone di pensiero si riferivano sia Lucia sia il marito Renato Testori – annota la figlia Ornella – e moltissimi antifascisti cuneesi che poi divennero partigiani nelle file degli Autonomi e di “Giustizia e Libertà”: «crociani ed einaudiani, un poco gobettiani», e giustamente polemizza con quella vulgata riduttiva della narrazione «Antifascismo-e Resistenza-solo comunista». Una vulgata, appunto, perché le ricostruzioni storiche fanno giustizia di questa «appropriazione indebita» – come la chiama Ornella – presentando invece un variegato quadro “plurale”.
Con questo intento io intervistai Lucia, nel mio libro dedicato alla vita vissuta di “testimoni della Resistenza”, in particolare delle valli valdesi, che mi onoro di aver conosciuto personalmente, costituendo un grande lascito per tutti (“… Eppur bisogna andar…”, Claudiana, 2006). Serbo il ricordo di una signora elegante, che conservava una serena bellezza, non scalfita dalle dure vicende patite, ma rievocate con misurata passione (l’eccidio di Boves, gli ebrei in fuga dalla Francia chiusi nei vagoni piombati come antefatti dolorosi e choccanti della sua “presa di coscienza”, la disfatta della IV Armata che si rovesciava nel Cuneese), e che raccontava straordinarie vicende, la più straordinaria di tutte quella della “bandiera del Corpo dei Volontari della Libertà” (che infatti dà il titolo all’intervista) che lei portò arrotolata intorno al corpo a Torino, perché doveva sfilare al corteo della Liberazione il 6 maggio 1945. Lucia non poté partecipare al corteo, pare perché il marito Renato Testori non la svegliò in tempo: la bandiera sfilò portata dal partigiano siciliano Vincenzo Modica, “Petralia”, che aveva l’altro braccio al collo, ferito.
Da questa significativa vicenda di “non esserci”, dopo tanto operare e rischiare, inizia simbolicamente quell’occultamento del ruolo delle donne nella Resistenza dal dopoguerra in poi, e l’allontanamento dalla vita politica per farne solo mogli e madri: ci è voluto il ruolo delle storiche femministe degli anni ’70-’80 per riscoprirle. E l’intervista si chiudeva con un amaro ricordo: tanti anni dopo, in una manifestazione del 25 Aprile, Lucia desiderava toccare la bandiera che aveva portato a rischio della vita, ma, decorata di medaglia al valore, la bandiera era scortata con tutti gli onori, e Lucia non poté avvicinarsi. Questo epilogo segna simbolicamente il percorso di tante donne oscure, dimenticate, che invece hanno combattuto “senza armi” come Lucia, per costruire il nostro presente: Senza il lavoro delle donne – ho sentito riconoscere da tanti partigiani – la Resistenza non avrebbe potuto sopravvivere.
* Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta. Torino, Neos, 2023, pp. 127, euro 17,00.
Articolo di Piera Egidi Bouchard-
Fonte Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Paola Agosti,Benedetta Tobagi-Covando un mondo nuovo-
-Giulio Einaudi editore-
Il libro di Benedetta Tobagi e Paola Agosti-Questa splendida raccolta di fotografie degli anni Settanta è il frutto di una selezione a quattro mani di Paola Agosti, autrice degli scatti, testimone e interprete unica di un’epoca, e Benedetta Tobagi, che ora ridà loro voce, con grande immediatezza e piglio narrativo, raccontandoci quella che è stata definita la sola rivoluzione riuscita del Novecento, ovvero quella delle donne. All’alba del decennio l’Italia è un Paese plurale, dove convivono ragazze in minigonna e signore nerovestite con lo scialle in testa, battagliere avvocate e altrettanto battagliere operaie e contadine. Plurali sono anche le anime del movimento femminista, sia per i diversi rapporti che intrattengono con i vari partiti sia per quale ritengono la sfera giusta su cui concentrare gli sforzi. A Roma la via prediletta è quella dell’azione politica, a Milano prevale il tentativo di liberarsi attraverso i gruppi di autocoscienza. Nonostante le differenze, però, le grandi lotte del decennio vengono portate avanti a ranghi uniti, in primis quella per il diritto all’aborto. Oltre a illustrare e narrare tutto questo, Agosti e Tobagi trasmettono l’incredibile vitalità e creatività del movimento delle donne negli anni Settanta, che si manifestano negli slogan, come quello che dà il titolo al libro, nei pupazzi che portano ai cortei, nelle pratiche di self help e nei girotondi. La gioia di una stagione dirompente che ha conquistato alcuni dei diritti di cui godiamo oggi, una fonte di ispirazione tuttora valida.
«Tenere insieme liberazione individuale e collettiva, l’impegno per una profonda trasformazione ed evoluzione personale e al tempo stesso per un cambiamento radicale della società, per renderla piú giusta, aperta, umana, perché l’una e l’altra cosa possono accadere davvero soltanto insieme: è una nota di fondo che dagli anni Settanta si è travasata nel femminismo intersezionale contemporaneo, e mi pare possa essere uno degli elementi piú preziosi che il movimento delle donne porta in dote al XXI secolo».
Benedetta Tobagi- Pavia – L’autrice di Covando un mondo nuovo parteciperà all’incontro Una liberazione individuale e collettiva, alle ore 21 presso il Collegio nuovo (via Abbiategrasso, 404). Conduce l’incontro Marina Tesoro. L’incontro si tiene in presenza e in remoto. È obbligatoria la registrazione al seguente link entro il 2 dicembre per la partecipazione in presenza; entro il 3 dicembre, ore 18.30 per chi desidera collegarsi da remoto. L’evento è trasmesso anche in diretta Facebook su @collegionuovopavia.
La sua vita, caratterizzata dall’inquietudine e dalla nevrosi, finì con il suicidio a 38 anni.
Le sue poesie, dimenticate per anni, corrono sul filo dell’ironia e di una voluta semplicità.
Sara Teasdale nacque l’8 agosto 1884. Sua madre era Mary Elizabeth Willard e suo padre John Warren Teasdale. Era la figlia minore di una famiglia di due fratelli e una sorella.
Sara era di costituzione fragile e fu spesso ammalata. Visse pertanto protetta in seno alla sua famiglia fino all’età di nove anni sviluppando un mondo immaginario all’interno del suo universo solitario. A 10 anni i suoi genitori infine decisero di permetterle di uscire e di entrare in contatto con l’esterno. Solo all’età di 14 anni stette abbastanza bene per iniziare la scuola ma non ottenne alcun diploma.
La prima poesia della Teasdale fu pubblicata sul Reedy’s Mirror, un giornale locale, nel 1907. La sua prima raccolta di poesie, “Sonetti e altre poesie”, fu pubblicata quello stesso anno. La seconda raccolta di poesie, “Elena di Troia e altre poesie”, fu pubblicata nel 1911. Furono bene accolte dalla critica, che ne elogiò la maestria lirica e il soggetto romantico.
Negli anni 1911-1914, la Teasdale fu corteggiata da alcuni uomini, tra cui il poeta Vachel Lindsay, che era molto innamorato di lei. Tuttavia, non avendo la sensazione che egli le avrebbe potuto garantire una sufficiente tranquillità economica e stabilità familiare, la Teasdale preferì invece sposare Ernst Filsinger, che era stato un ammiratore della sua poesia per un certo numero di anni, il 19 dicembre 1914.
La terza raccolta di poesie della Teasdale, “Fiumi verso il mare”, fu pubblicata nel 1915 e fu un best seller, ristampato più volte. Un anno dopo, nel 1916 si trasferì a New York con suo marito, dove risiedettero in un appartamento dell’Upper West Side di Central Park West.
Nel 1918, la sua raccolta di poesie “Love Songs” (uscita nel 1917) vinse tre premi: il premio di Poesia della il Premio Pulitzer 1918 per la poesia e il premio annuale della Società di Poesia d’America.
Ernst Filsinger era spesso via di casa a lungo per affari la qual cosa causò molta solitudine per la Teasdale. Nel 1929, la Teasdale si trasferì in Missouri per tre mesi in modo da soddisfare i criteri per ottenere il divorzio. Di questo non volle informare Filsinger e lo fece solo su insistenza dei suoi avvocati. La cosa scioccò e sorprese Filsinger.
Dopo il divorzio, la Teasdale ritornò a New York City, andando ad abitare a soli due isolati di distanza dalla sua vecchia casa in Central Park West. Tuttavia ne approfittò per riprendere la sua amicizia con Vachel Lindsay, che era ormai sposato con figli.
Nel 1933, si suicidò con un’overdose di sonniferi. Il suo amico Vachel Lindsay si era suicidato due anni prima. È sepolta nel cimitero di Bellefontaine a St. Louis.
NOTTE DI GIUGNO
*
Oh Terra, quanto sei cara stanotte,
Come posso dormire mentre intorno
Aleggia odore di pioggia e lontano
La voce dell’oceano parla alla spiaggia.
Terra, mi hai dato tutto quel che ho,
Ti amo, ti amo, oh che cosa ho
Io che possa darti in cambio — se non
Il mio corpo dopo che sarò morta?
A Song To Eleonora Duse In “Francesca da Rimini “
Oh would I were the roses, that lie against her hands,
The heavy burning roses she touches as she stands!
Dear hands that hold the roses, where mine would love to be,
Oh leave, oh leave the roses, and hold the hands of me!
She draws the heart from out them, she draws away their breath,—
Oh would that I might perish and find so sweet a death!
A November Night
There! See the line of lights,
A chain of stars down either side the street —
Why can’t you lift the chain and give it to me,
A necklace for my throat? I’d twist it round
And you could play with it. You smile at me
As though I were a little dreamy child
Behind whose eyes the fairies live. . . . And see,
The people on the street look up at us
All envious. We are a king and queen,
Our royal carriage is a motor bus,
We watch our subjects with a haughty joy. . . .
How still you are! Have you been hard at work
And are you tired to-night? It is so long
Since I have seen you — four whole days, I think.
My heart is crowded full of foolish thoughts
Like early flowers in an April meadow,
And I must give them to you, all of them,
Before they fade. The people I have met,
The play I saw, the trivial, shifting things
That loom too big or shrink too little, shadows
That hurry, gesturing along a wall,
Haunting or gay — and yet they all grow real
And take their proper size here in my heart
When you have seen them. . . . There’s the Plaza now,
A lake of light! To-night it almost seems
That all the lights are gathered in your eyes,
Drawn somehow toward you. See the open park
Lying below us with a million lamps
Scattered in wise disorder like the stars.
We look down on them as God must look down
On constellations floating under Him
Tangled in clouds. . . . Come, then, and let us walk
Since we have reached the park. It is our garden,
All black and blossomless this winter night,
But we bring April with us, you and I;
We set the whole world on the trail of spring.
I think that every path we ever took
Has marked our footprints in mysterious fire,
Delicate gold that only fairies see.
When they wake up at dawn in hollow tree-trunks
And come out on the drowsy park, they look
Along the empty paths and say, “Oh, here
They went, and here, and here, and here! Come, see,
Here is their bench, take hands and let us dance
About it in a windy ring and make
A circle round it only they can cross
When they come back again!” . . . Look at the lake —
Do you remember how we watched the swans
That night in late October while they slept?
Swans must have stately dreams, I think. But now
The lake bears only thin reflected lights
That shake a little. How I long to take
One from the cold black water — new-made gold
To give you in your hand! And see, and see,
There is a star, deep in the lake, a star!
Oh, dimmer than a pearl — if you stoop down
Your hand could almost reach it up to me. . . .
There was a new frail yellow moon to-night —
I wish you could have had it for a cup
With stars like dew to fill it to the brim. . . .
How cold it is! Even the lights are cold;
They have put shawls of fog around them, see!
What if the air should grow so dimly white
That we would lose our way along the paths
Made new by walls of moving mist receding
The more we follow. . . . What a silver night!
That was our bench the time you said to me
The long new poem — but how different now,
How eerie with the curtain of the fog
Making it strange to all the friendly trees!
There is no wind, and yet great curving scrolls
Carve themselves, ever changing, in the mist.
Walk on a little, let me stand here watching
To see you, too, grown strange to me and far. . . .
I used to wonder how the park would be
If one night we could have it all alone —
No lovers with close arm-encircled waists
To whisper and break in upon our dreams.
And now we have it! Every wish comes true!
We are alone now in a fleecy world;
Even the stars have gone. We two alone!
“I Know The Stars”
I KNOW the stars by their names,
Aldebaran, Altair,
And I know the path they take
Up heaven’s broad blue stair.
I know the secrets of men
By the look of their eyes,
Their gray thoughts, their strange thoughts
Have made me sad and wise.
But your eyes are dark to me
Though they seem to call and call—
I cannot tell if you love me
Or do not love me at all.
I know many things,
But the years come and go,
I shall die not knowing
The thing I long to know.
“If I Must Go”
IF I must go to heaven’s end
Climbing the ages like a stair,
Be near me and forever bend
With the same eyes above me there;
Time will fly past us like leaves flying,
We shall not heed, for we shall be
Beyond living, beyond dying,
Knowing and known unchangeably.
A Ballad Of The Two Knights
Two knights rode forth at early dawn
A-seeking maids to wed,
Said one, “My lady must be fair,
With gold hair on her head.”
Then spake the other knight-at-arms:
“I care not for her face,
But she I love must be a dove
For purity and grace.”
And each knight blew upon his horn
And went his separate way,
And each knight found a lady-love
Before the fall of day.
But she was brown who should have had
The shining yellow hair —
I ween the knights forgot their words
Or else they ceased to care.
For he who wanted purity
Brought home a wanton wild,
And when each saw the other knight
I ween that each knight smiled.
A Boy
OUT of the noise of tired people working,
Harried with thoughts of war and lists of dead,
His beauty met me like a fresh wind blowing,
Clean boyish beauty and high-held head.
Eyes that told secrets, lips that would not tell them,
Fearless and shy the young unwearied eyes—
Men die by millions now, because God blunders,
Yet to have made this boy he must be wise.
A Cry
Oh, there are eyes that he can see,
And hands to make his hands rejoice,
But to my lover I must be
Only a voice.
Oh, there are breasts to bear his head,
And lips whereon his lips can lie,
But I must be till I am dead
Only a cry.
Her voice is like clear water
That drips upon a stone
In forests far and silent
Where Quiet plays alone.
Her thoughts are like the lotus
Abloom by sacred streams
Beneath the temple arches
Where Quiet sits and dreams.
Her kisses are the roses
That glow while dusk is deep
In Persian garden closes
Where Quiet falls asleep.
A Little While
A little while when I am gone
My life will live in music after me,
As spun foam lifted and borne on
After the wave is lost in the full sea.
A while these nights and days will burn
In song with the bright frailty of foam,
Living in light before they turn
Back to the nothingness that is their home.
A Maiden
Oh if I were the velvet rose
Upon the red rose vine,
I’d climb to touch his window
And make his casement fine.
And if I were the little bird
That twitters on the tree,
All day I’d sing my love for him
Till he should harken me.
But since I am a maiden
I go with downcast eyes,
And he will never hear the songs
That he has turned to sighs.
And since I am a maiden
My love will never know
That I could kiss him with a mouth
More red than roses blow.
A Song Of The Princess
The princess has her lovers,
A score of knights has she,
And each can sing a madrigal,
And praise her gracefully.
But Love that is so bitter
Hath put within her heart
A longing for the scornful knight
Who silent stands apart.
And tho’ the others praise and plead,
She maketh no reply,
Yet for a single word from him,
I ween that she would die.
A Maiden
Oh if I were the velvet rose
Upon the red rose vine,
I’d climb to touch his window
And make his casement fine.
And if I were the little bird
That twitters on the tree,
All day I’d sing my love for him
Till he should harken me.
But since I am a maiden
I go with downcast eyes,
And he will never hear the songs
That he has turned to sighs.
And since I am a maiden
My love will never know
That I could kiss him with a mouth
More red than roses blow.
A Minuet Of Mozart’s
Across the dimly lighted room
The violin drew wefts of sound,
Airily they wove and wound
And glimmered gold against the gloom.
I watched the music turn to light,
But at the pausing of the bow,
The web was broken and the glow
Was drowned within the wave of night.
A Prayer
When I am dying, let me know
That I loved the blowing snow
Although it stung like whips;
That I loved all lovely things
And I tried to take their stings
With gay unembittered lips;
That I loved with all my strength,
To my soul’s full depth and length,
Careless if my heart must break,
That I sang as children sing
Fitting tunes to everything,
Loving life for its own sake.
A Winter Bluejay
Crisply the bright snow whispered,
Crunching beneath our feet;
Behind us as we walked along the parkway,
Our shadows danced,
Fantastic shapes in vivid blue.
Across the lake the skaters
Flew to and fro,
With sharp turns weaving
A frail invisible net.
In ecstasy the earth
Drank the silver sunlight;
In ecstasy the skaters
Drank the wine of speed;
In ecstasy we laughed
Drinking the wine of love.
Had not the music of our joy
Sounded its highest note?
But no,
For suddenly, with lifted eyes you said,
“Oh look!”
There, on the black bough of a snow flecked maple,
Fearless and gay as our love,
A bluejay cocked his crest!
Oh who can tell the range of joy
Or set the bounds of beauty?
A Winter Night
My window-pane is starred with frost,
The world is bitter cold to-night,
The moon is cruel, and the wind
Is like a two-edged sword to smite.
God pity all the homeless ones,
The beggars pacing to and fro.
God pity all the poor to-night
Who walk the lamp-lit streets of snow.
My room is like a bit of June,
Warm and close-curtained fold on fold,
But somewhere, like a homeless child,
My heart is crying in the cold.
Advice To A Girl
No one worth possessing
Can be quite possessed;
Lay that on your heart,
My young angry dear;
This truth, this hard and precious stone,
Lay it on your hot cheek,
Let it hide your tear.
Hold it like a crystal
When you are alone
And gaze in the depths of the icy stone.
Long, look long and you will be blessed:
No one worth possessing
Can be quite possessed.
After Death
Now while my lips are living
Their words must stay unsaid,
And will my soul remember
To speak when I am dead?
Yet if my soul remembered
You would not heed it, dear,
For now you must not listen,
And then you could not hear.
After Parting
Oh I have sown my love so wide
That he will find it everywhere;
It will awake him in the night,
It will enfold him in the air.
I set my shadow in his sight
And I have winged it with desire,
That it may be a cloud by day
And in the night a shaft of fire.
Alchemy
I lift my heart as spring lifts up
A yellow daisy to the rain;
My heart will be a lovely cup
Altho’ it holds but pain.
For I shall learn from flower and leaf
That color every drop they hold,
To change the lifeless wine of grief
To living gold.
Alone
I am alone, in spite of love,
In spite of all I take and give—
In spite of all your tenderness,
Sometimes I am not glad to live.
I am alone, as though I stood
On the highest peak of the tired gray world,
About me only swirling snow,
Above me, endless space unfurled;
With earth hidden and heaven hidden,
And only my own spirit’s pride
To keep me from the peace of those
Who are not lonely, having died.
Anadyomene
The wide, bright temple of the world I found,
And entered from the dizzy infinite
That I might kneel and worship thee in it;
Leaving the singing stars their ceaseless round
Of silver music sound on orbed sound,
For measured spaces where the shrines are lit,
And men with wisdom or with little wit
Implore the gods that mercy may abound.
Ah, Aphrodite, was it not from thee
My summons came across the endless spaces?
Mother of Love, turn not thy face from me
Now that I seek for thee in human faces;
Answer my prayer or set my spirit free
Again to drift along the starry places.
April
The roofs are shining from the rain.
The sparrows tritter as they fly,
And with a windy April grace
The little clouds go by.
Yet the back-yards are bare and brown
With only one unchanging tree—
I could not be so sure of Spring
Save that it sings in me.
April Song
Willow in your April gown
Delicate and gleaming,
Do you mind in years gone by
All my dreaming?
Spring was like a call to me
That I could not answer,
I was chained to loneliness,
I, the dancer.
Willow, twinkling in the sun,
Still your leaves and hear me,
I can answer spring at last,
Love is near me!
Arcturus
ARCTURUS brings the spring back
As surely now as when
He rose on eastern islands
For Grecian girls and men;
The twilight is as clear a blue,
The star as shaken and as bright,
And the same thought he gave to them
He gives to me to-night.
At Midnight
Now at last I have come to see what life is,
Nothing is ever ended, everything only begun,
And the brave victories that seem so splendid
Are never really won.
Even love that I built my spirit’s house for,
Comes like a brooding and a baffled guest,
And music and men’s praise and even laughter
Are not so good as rest.
Day And Night
IN Warsaw in Poland
Half the world away,
The one I love best of all
Thought of me to-day;
I know, for I went
Winged as a bird,
In the wide flowing wind
His own voice I heard;
His arms were round me
In a ferny place,
I looked in the pool
And there was his face—
But now it is night
And the cold stars say:
“Warsaw in Poland
Is half the world away.”
The Inn Of Earth
I came to the crowded Inn of Earth,
And called for a cup of wine,
But the Host went by with averted eye
From a thirst as keen as mine.
Then I sat down with weariness
And asked a bit of bread,
But the Host went by with averted eye
And never a word he said.
While always from the outer night
The waiting souls came in
With stifled cries of sharp surprise
At all the light and din.
“Then give me a bed to sleep,” I said,
“For midnight comes apace”—
But the Host went by with averted eye
And I never saw his face.
“Since there is neither food nor rest,
I go where I fared before”—
But the Host went by with averted eye
And barred the outer door.
Biografia
Sara Teasdale nacque l’8 agosto 1884. Sua madre era Mary Elizabeth Willard e suo padre John Warren Teasdale. Era la figlia minore di una famiglia di due fratelli e una sorella.
Sara era di costituzione fragile e fu spesso ammalata. Visse pertanto protetta in seno alla sua famiglia fino all’età di nove anni sviluppando un mondo immaginario all’interno del suo universo solitario. A 10 anni i suoi genitori infine decisero di permetterle di uscire e di entrare in contatto con l’esterno. Solo all’età di 14 anni stette abbastanza bene per iniziare la scuola ma non ottenne alcun diploma.
La prima poesia della Teasdale fu pubblicata sul Reedy’s Mirror, un giornale locale, nel 1907. La sua prima raccolta di poesie, “Sonetti e altre poesie”, fu pubblicata quello stesso anno. La seconda raccolta di poesie, “Elena di Troia e altre poesie”, fu pubblicata nel 1911. Furono bene accolte dalla critica, che ne elogiò la maestria lirica e il soggetto romantico.
Negli anni 1911-1914, la Teasdale fu corteggiata da alcuni uomini, tra cui il poeta Vachel Lindsay, che era molto innamorato di lei. Tuttavia, non avendo la sensazione che egli le avrebbe potuto garantire una sufficiente tranquillità economica e stabilità familiare, la Teasdale preferì invece sposare Ernst Filsinger, che era stato un ammiratore della sua poesia per un certo numero di anni, il 19 dicembre 1914.
La terza raccolta di poesie della Teasdale, “Fiumi verso il mare”, fu pubblicata nel 1915 e fu un best seller, ristampato più volte. Un anno dopo, nel 1916 si trasferì a New York con suo marito, dove risiedettero in un appartamento dell’Upper West Side di Central Park West.
Nel 1918, la sua raccolta di poesie “Love Songs” (uscita nel 1917) vinse tre premi: il premio di Poesia della il Premio Pulitzer 1918 per la poesia e il premio annuale della Società di Poesia d’America.
Ernst Filsinger era spesso via di casa a lungo per affari la qual cosa causò molta solitudine per la Teasdale. Nel 1929, la Teasdale si trasferì in Missouri per tre mesi in modo da soddisfare i criteri per ottenere il divorzio. Di questo non volle informare Filsinger e lo fece solo su insistenza dei suoi avvocati. La cosa scioccò e sorprese Filsinger.
Dopo il divorzio, la Teasdale ritornò a New York City, andando ad abitare a soli due isolati di distanza dalla sua vecchia casa in Central Park West. Tuttavia ne approfittò per riprendere la sua amicizia con Vachel Lindsay, che era ormai sposato con figli.
Nel 1933, si suicidò con un’overdose di sonniferi. Il suo amico Vachel Lindsay si era suicidato due anni prima. È sepolta nel cimitero di Bellefontaine a St. Louis.
Influenze
La poesia “Verranno le dolci piogge” della sua raccolta “Fiamma e Ombre” del 1920 ispirò una famosa storia breve con lo stesso nome di Ray Bradbury.
(EN)
«There will come soft rains and the smell of the ground,
and swallows circling with their shimmering sound;
and frogs in the pools singing at night,
and wild plum trees in tremulous white;
robins will wear their feathery fire,
whistling their whims on a low fence-wire;
and not one will know of the war,
not one will care at last when it is done;
not one would mind,
neither bird nor tree,
if mankind perished utterly;
and Spring herself, when she woke at dawn,
would scarcely know that we were gone.»
(IT)
«Verranno le dolci piogge e l’odore di terra,
e le rondini che volano in circolo con le loro strida scintillanti;
e le rane negli stagni che cantano di notte,
e gli alberi di susino selvatico che fremono di bianco;
i pettirosso vestiranno il loro piumaggio infuocato,
fischiettando le loro fantasie su una bassa recinzione in rete metallica;
e nessuno saprà della guerra,
nessuno presterà attenzione infine quando sarà avvenuto;
nessuno baderebbe,
né uccello né albero,
se l’umanità scomparisse completamente;
e la Primavera stessa, al suo risveglio all’alba,
si renderebbe conto appena che noi ce ne siamo andati.»
I poemi di Teasdale “La Nuova Luna”, “Solo nel Sonno” e “Stelle”, divennero pièce corali di Ēriks Ešenvalds, compositore lettone, per Musica Baltica. “Stelle” è divenuto molto famoso per l’uso di bicchieri di cristallo per ottenere il suono calmante delle “stelle”.[1][2]
Nel 1994, fu accolta nella St. Louis Walk of Fame.
Nel 2010, le opere di Sara Teasdale sono state per la prima volta pubblicate in Italia, con la traduzione di Silvio Raffo.
Quarta di copertina del libro lettere a Pier Paolo Pasolini-Sii generoso, ti prego, tu che sei marxista, con la mia gioia decadente. Per conto mio, non mi resta che augurarti nuovi linciaggi, nuovi processi, nuovi guai: che l’ingiustizia pubblica possa riconsegnarti, intatta, la tua «sognante vita interiore» (Kafka) e che tu abbia il tempo per ricordare di darmi quella sceneggiatura che mi hai promesso (perché è proprio ora). Con allegria,
Il libro sarà In libreria dal 6 dicembre 2024
Risvolto-del libro Lettere a P. P. Pasolini a cura di Massimo Ferretti- Nonostante i quasi quarant’anni trascorsi dalla sua pubblicazione, il volume delle Lettere a Pier Paolo Pasolini mantiene tuttora, a rileggerlo, la freschezza primitiva di un carteggio (tra i più compiuti e i più belli, oltretutto, dell’epistolario pasoliniano) dove prende corpo l’amicizia o anzi il vergiliato fra un autore di nativa vocazione socratica, che ha appena attinto la sua prima maturità, ed uno invece giovanissimo, l’adolescente segnato dalla malattia e da un’inquietudine perpetua come un personaggio di Thomas Mann. Nel loro rapporto breve e persino violento, dove ognuno pare oscuramente rivolgersi alla parte più introversa e lacerata dell’altro, si consuma uno straziante rito di reciproca cognizione di sé che si interrompe, deragliando, proprio nel momento dell’effettivo e rispettivo auto-riconoscimento. Poi entrambi vorranno prodigare a vicenda gli ossimori della amicizia appassionata e del susseguente disamore, quando colui che aveva detto nel ’55 al suo giovane e ignoto corrispondente «sei un mistero davvero appassionante» (poi per contrappasso, alla fine, «sei un fascista che vuole morire») si sentirà ritrarre da costui come un individuo «meravigliosamente affascinato dal solo bene del mondo: la corruzione».
Dal Poscritto alla nuova edizione di Massimo Raffaeli
Pier Paolo Pasolini: riassunto della vita, le opere più importanti e il pensiero del poeta, regista e giornalista tra i maggiori artisti del Novecento. Pier Paolo Pasolini nacque nella città di Bologna nell’anno 1922 ed impiegò la maggior parte della sua adolescenza proprio nella sua città di origine, ottenendo la laurea in lettere all’università di Bologna. In seguito alla guerra, egli si trasferì nella regione del Friuli Venezia Giulia e successivamente nel 1949 si spostò a Roma dove occupò il resto della sua vita. Pasolini morì nella città di Roma. La sua attività di scrittore è stata particolare, egli è considerato una persona osservatrice riguardante il cambiamento che è avvenuto in Italia nel periodo dopo la guerra e le sue opere hano sempre fatto scaturire discussioni e contrasti.
Lo scrittore Pasolini può essere considerato uno dei maggiori e più significativi autori contemporanei poiché produsse molteplici raccolte letterarie poetiche, tra cui possiamo ricordare “Poesie a Casarsa” che rappresenta una raccolta di liriche composte in dialetto friulano; “La meglio gioventù”, “Le ceneri di Gramsci”, “Il canto popolare”.
Soprattutto le Poesie di Casarsa e La meglio gioventù sono invase da una corrente autobiografica in modo particolare. “Ragazzi di vita” suscitò in quegli anni molto scalpore in quanto l’argomento che venne trattato era l’omosessualità e la prostituzione maschile. Molti attacchi e polemiche nacquero all’uscita di questo romanzo che trattava per l’opinione pubblica un tema scandaloso.
L’opera dal titolo “La religione del mio tempo” rappresenta la sua controversia originale e personale contro ogni assioma e principio politico o religioso che venga a confinare le indipendenze importantissime dell’essere umano. La sua opera poetica e letteraria è particolarmente penetrata da una complicata capacità creativa artistica ed umana infatti vengono approfonditi temi quali la celebrazione del mondo originario, l’ambizione ad una visione storica e ragionevole della realtà e la necessità di adesione umana.
Nota opera letteraria di Pasolini è sicuramente “Trasumanar e organizzar” composta nel 1971, essa rappresenta una famosa raccolta di poesie e composizioni poetiche che si possono considerare delle testimonianze private e letterarie; vi sono dichiarazioni personali e linguistiche. L’opera “La nuova gioventù” rappresenta la seconda parte della “La meglio gioventù” ed essa riprende gli stessi argomenti poetici della composizione precedente confermandoli e modificandoli però in qualche modo nella forma.
Pier Paolo Pasolini che fu continuamente indirizzato verso una cultura letteraria di tipo sperimentale scrisse anche importanti opere di carattere più narrativo come “Ragazzi di vita”, “Una vita violenta” e “Il sogno di una cosa”. Quest’ultima opera è un romanzo alquanto immaturo ed inesperto di Pier Paolo Pasolini ma particolarmente incantevole, in cui l’autore rappresenta ed esprime le insufficienti e povere condizioni in cui vivono i contadini che risiedono nella regione italiana del Friuli Venezia Giulia negli anni successivi alla guerra.
Il poema dal titolo “Una vita violenta” invece possiede un’espressione ed una forma realistica, in cui la descrizione dinamica ed energica del mondo popolare e popolano che risiede nei villaggi e borghi della città di Roma e l’esposizione e l’enunciazione delle vicende e della storia personale e psicologica del personaggio principale del romanzo nella sua graduale presa di consapevolezza, si traspongono in scritti di sofferente e brusca partecipazione e trasporto poetico. Le opere di Pier Paolo Pasolini sono caratteristiche del periodo storico che fa parte della letteratura del Novecento con le sue peculiarità espressive e stilistiche. Egli può essere considerato infatti, a tutti gli effetti, uno dei principali e più importanti esponenti della letteratura italiana del Novecento.
Roma Capitale-L’Open Studio Gallery presenta la mostra fotografica di Chiara Ricciotti-
Roma Capitale-L’Open Studio Gallery di Patrizia Genovesi è lieto di presentare la mostra fotografica di Chiara Ricciotti, talentuosa fotografa italiana che esplora con sensibilità i confini tra moda e ritratto in un percorso visivo suggestivo e profondo. La mostra raccoglie una serie di immagini che vanno oltre la semplice rappresentazione della moda, trattandola come un potente mezzo narrativo e di espressione.
Ogni scatto esposto esprime una visione della moda che trascende i canoni tradizionali, enfatizzando l’umanità del soggetto, il movimento e le emozioni. Con uno sguardo cinematografico e una spiccata estetica, Ricciotti combina rigore strutturale e spontaneità, catturando momenti intensi e autentici. Le ambientazioni si intrecciano armoniosamente con il mood delle fotografie, arricchendo la narrazione visiva e coinvolgendo profondamente lo spettatore.
Chiara Ricciotti, nata in Italia nel 1997, ha nutrito fin da giovane la sua passione per la fotografia. Dopo aver completato un Master sotto la guida di Patrizia Genovesi nel 2019 e aver maturato esperienza nel campo della moda e del ritratto, oggi è responsabile del laboratorio fotografico presso l’ACM – Accademia di Costume e Moda di Roma. Attualmente frequenta un Master in Fashion Photography presso l’ISFCI di Roma, continuando a perfezionare uno stile personale e intensamente emozionale, ispirato al cinema e alle persone che incontra.
Questa esposizione rappresenta un’opportunità unica per il pubblico di esplorare la moda come un viaggio emozionale e artistico, dove ogni immagine è concepita per suscitare emozioni e creare un dialogo visivo profondo. La Direzione Artistica è curata da Patrizia Genovesi.
Informazioni, orari e prezzi
Dettagli e Informazioni per il Pubblico
La mostra sarà aperta dal 1 al 20 dicembre 2024.
Open Studio Gallery di Patrizia Genovesi in Via di Villa Belardi 18, Roma.
Inaugurazione 30 novembre 2024, ore 18:00 – su prenotazione
Orari di apertura: dal lunedì al venerdì, dalle ore 10:00 alle 19:00 su prenotazione
Per ulteriori informazioni e prenotazioni:
Email: openstudiogallery.pg@gmail.com www.patriziagenovesi.com
Instagram: @c_ricciotti
LinkedIn: Chiara Ricciotti
DESCRIZIONE dell’Antologia di Poesie di Edith Södergran-L’antologia racchiude quasi cento poesie (versione originale e traduzione italiana di Bruno Argenziano a fronte) tratte dalla multiforme produzione di Edith Södergran, madre dell’espressionismo finlandese, e principalmente dalle raccolte Poesie (Dikter, 1916), La lira di settembre (Septemberlyran, 1918), L’ombra del futuro (Framtidens skugga, 1920), La terra che non è (Landet som icke är, 1925).
Bruno Argenziano:”Nella rivista letteraria svedese “Horisont” n°1 del 1992 avente per tema “Edith Södergran”, in occasione del centenario della sua nascita, una nota scrittrice svedese contemporanea intitola il suo contributo così: “Il coraggio di non censurare la propria anima”. Chi ha avuto modo di studiare la multiforme produzione poetica della scrittrice finno-svedese, non può non sottoscrivere il succitato giudizio, pregnante quanto mai nella sua lapidaria semplicità. Che sia stata una donna ad esprimerlo non è strano se si pensa alla fascinazione che la Södergran tuttora esercita sull’animo femminile (Bruno Argenziano).
Una Poesia di Edith Södergran copertina
Notturno
Ho intonato un canto. Venuto non so da dove – è scivolato come seta sulle mie corde. Che sia dovuto agli sciolti capelli neri della notte? O forse ai bianchi tratti sognanti della luna? E la notte cantava, cantava della solitudine che cullando a tutto dà pace, cantava delle sognanti naiadi, dei ruscelli senza brusio, del segreto della gora… La notte aveva il fiato sospeso – una rosa mi si è avvizzita tra le mani – e tale la quiete come fosse svanito l’ultimo sospiro del tutto.
Mauro Pagliai -Dopo aver fondato e diretto per quasi cinquant’anni la casa editrice Polistampa, Mauro Pagliai ha dato vita nel 2007 alla nuova sigla Mauro Pagliai Editore, con l’obiettivo di conquistare una posizione significativa nell’industria libraria nazionale. L’ambizione è far uscire presso la nuova casa editrice sia talenti poco conosciuti sia i “pesi massimi” del panorama italiano e, al tempo stesso, approfondire il legame con i maggiori premi e festival letterari, con le Università e i centri di ricerca, oltre che con le più accreditate e prestigiose rassegne artistiche italiane. Per rendere effettivo questo ambizioso progetto editoriale, Mauro Pagliai ha formato una redazione di giovani professionisti e collaboratori che, con la direzione del figlio Antonio, vuol essere competitiva nei confronti delle grandi case editrici e aperta alle nuove ricerche e ai nuovi talenti del mondo della cultura.
Copia anastatica dell’Articolo scritto da MARIA BELLONCI
per la Rivista PAN diretta da Ugo Ojetti- n°3 del 1935
Biografia di Maria BELLONCI-Nacque a Roma il 30 novembre 1902, primogenita di Gerolamo Vittorio Villavecchia, discendente da una famiglia aristocratica piemontese, e di Felicita Bellucci, di origine umbra. Il padre, professore di chimica, fondatore della chimica merceologica in Italia, dal 1896 al 1934 tenne la direzione del Laboratorio chimico centrale delle gabelle.
Breve biografia di Lucrezia Borgianasce a Subiaco il 18 aprile 1480, figlia di Vannozza Cattanei (la donna che rimase al fianco di Alessandro VI per un quindicennio, devota come una moglie morganatica e madre di quattro dei suoi figli: Juan, Cesare, Jofrè e Lucrezia) e di Rodrigo Borgia, poi papa con il nome di Alessandro VI. Si sposa a 13 anni con Giovanni Sforza di Pesaro (il suo abito nuziale vale ben 15.000 ducati) e successivamente a 18 anni, dopo il decreto di annullamento del primo matrimonio, con Alfonso d’Aragona, duca di Bisceglie, fatto uccidere due anni dopo dal fratello di lei, Cesare Borgia, il celebre Valentino. Fra i due matrimoni intesse inoltre una relazione con Pedro Calderon, uomo di fiducia del padre. Anche questo rapporto viene troncato drammaticamente dalla famiglia: prima ferito di spada, Pedro viene poi ritrovato cadavere nel Tevere, mani e piedi legati. In seguito ai nuovi progetti matrimoniali della famiglia Borgia, Lucrezia si sposa con Alfonso d’Este, primogenito del duca Ercole I. Accompagnata da un grande corteo, il 2 febbraio 1502 entra a Ferrara, portando con sé la terribile fama di essere al tempo stesso “figlia, moglie e nuora” del papa Alessandro VI.
Biografia di Maria BELLONCI
di Luisa Avellini – Dizionario Biografico degli Italiani
Biografia di Maria BELLONCI-Nacque a Roma il 30 novembre 1902, primogenita di Gerolamo Vittorio Villavecchia, discendente da una famiglia aristocratica piemontese, e di Felicita Bellucci, di origine umbra. Il padre, professore di chimica, fondatore della chimica merceologica in Italia, dal 1896 al 1934 tenne la direzione del Laboratorio chimico centrale delle gabelle.
Gli studi e il matrimonio, 1909-1928
Iscritta nel 1909 alla scuola delle monache del Sacro Cuore, presso Trinità dei Monti – un collegio che le sarebbe rimasto nel cuore come una seconda casa piena di affabili, profonde liturgie – fra il 1913 e il 1921 frequentò il ginnasio-liceo Umberto I. Di questi anni intellettualmente attivi e illuminati dai primi amori adolescenziali rievocò, in una pagina giornalistica datata 3 gennaio 1959, «il senso di vita traboccante dei miei sedici anni per il quale mi pareva d’essere chiusa in una mandorla d’immortalità» (Pubblici segreti, Milano 1965, pp. 110 s.1). Ma una formazione interiore importante è attribuita nei suoi ricordi anche ad alcune frequentazioni ambientali, come S. Maria Maggiore: la basilica a pochi passi dall’abitazione familiare, in via Farini, le offriva «il linguaggio narrativo dei mosaici» e la contemplazione di «cadenze espressive» che suggerivano un «neorealismo storico» (ibid., 30 agosto 1959, p. 173).
Nel corso degli anni Venti si presentarono due eventi biograficamente decisivi: la stesura di una prima prova narrativa – il romanzo Clio o le amazzoni (1922) – e l’occasione di sottoporre quella prova d’apprendistato al giudizio di Goffredo Bellonci, illustre critico militante d’origine bolognese, nonché in quegli anni redattore del Giornale d’Italia. Il lavoro, giudicato promettente ma acerbo, non vide mai la luce; ma la relazione allieva-maestro che s’instaurò con Bellonci, più anziano di vent’anni, generoso di consigli di lettura e di presentazioni ai letterati romani, sfociò nel fidanzamento (1925-27) e quindi nel matrimonio, celebrato l’11 agosto 1928. «Quando ci sposammo, lui mi fece lezione sui classici per anni […]. Sono stata cresciuta da lui per scrivere», confessò anni dopo (intervista a Giorgio Torelli, in Epoca, 4 marzo 1973).
La biografia di Lucrezia Borgia, 1929-1939
Il 7 luglio 1929 uscì, sulle colonne del Popolo di Roma, l’articolo Letture di fanciulle: primo di una serie di interventi pubblicati due volte al mese nella rubrica «L’altra metà», dedicati al tema della donna nella vita sociale e nella storia, un dato della biografia intellettuale che situò precocemente la questione critica dello specifico e personale femminismo di Maria. Qualche mese dopo (marzo 1930) l’illustre filologo e accademico d’Italia Giulio Bertoni, imbattutosi in un elenco di gioielli di Lucrezia Borgia, affidò alla già appassionata indagatrice di fonti il compito di studiare il documento per darne conto all’associazione di Studi romani. La descrizione delle gioie borgiane – in particolare quella dell’armilla recante inciso un distico di Pietro Bembo – aprì all’aspirante scrittrice nuovi orizzonti: i tempi inquieti e il profilo chiaroscurale della figlia di papa Alessandro VI, tramite il medium degli oggetti che la ornarono, si imposero come esigenza di studio storico approfondito e di racconto biografico, in un percorso di letture e di ricerche archivistiche svolte fra Roma, Mantova e Modena, che si protrasse dall’inverno del 1930 fino al 1937.
Nel frattempo Goffredo Bellonci aveva informato Arnoldo Mondadori dell’attività in corso e si avviò così la trattativa per la pubblicazione del lavoro. Alla curiosità dell’editore, fece riscontro la lettera di Maria: «Si tratta di un’opera alla quale lavoro da due anni assiduamente: ho voluto seguire la vita veramente straordinaria di questa donna sui documenti del tempo, numerosissimi, sparsi in tutti gli archivi di’Italia. Ho avuto la fortuna di trovare molte cose inedite che mi permettono di ricostruire questa vita con una novità di prospettiva che, credo, stupirà tanto quelli che sono avvezzi a vedere nella Borgia il simbolico fiore del male, quanto quelli che addirittura vorrebbero fare di lei un innocente fiorellino sbattuto dalla tempesta» (Milano, Fondazione Mondadori, Arch. storico Arnoldo Mondadori editore, Carteggio Maria Bellonci 1932-1968: 5 novembre 1932).
Nel marzo 1933 l’autrice firmò il contratto per la pubblicazione e nel 1935 si apprestava alla consegna, ma una serie di difficoltà editoriali rinviò la programmazione fino alla primavera del 1938 quando finalmente, dopo aver accettato a malincuore la richiesta di alcuni tagli, congedò il suo lavoro per la stampa.
Nel Piccolo libro delle consolazioni segrete (Fondazione Bellonci), un diario tenuto fra 1936 e 1937, si trova conferma di un dato importante, documentato dagli studi di Ilaria Calisti (2008, Appendice) e di Luisa Avellini (2011): la nascita di un’amicizia profonda, corroborata dall’interesse comune per i destini femminili, e in particolare per il diritto delle donne all’affermazione intellettuale, e sfociata in un insistito scambio intellettuale, con Anna Banti (Lucia Lopresti, moglie di Roberto Longhi). Dalle lettere di quest’ultima (della corrispondenza fra le due scrittrici restano solo le sue lettere, poiché Banti distrusse quelle di Bellonci con molti altri documenti verso la fine della vita), come anche dal Diario breve 1938-1943 (conservato anch’esso presso la Fondazione Bellonci) si evince che, ricevute dall’editore le bozze della biografia borgiana nel luglio 1938, lo scrittoio di Bellonci vide spesso la vicinanza informata e partecipe dell’amica.
Lucrezia Borgia e il suo tempo uscì nella primavera del 1939, con successo di pubblico e traduzioni in tedesco, ungherese e spagnolo. In luglio vinse il premio Viareggio ex aequo con Arnaldo Frateili (per Clara fra i lupi, Bompiani) e Orio Vergani (per Basso profondo, Garzanti). Il cammino dell’opera prima continuò sul binario delle ristampe e delle nuove edizioni con revisione dell’autrice, come quella del 1960, rivista e arricchita di numerose illustrazioni, ma soprattutto quella del 1974 nella collana «Scrittori italiani e stranieri» (SIS) sotto gli auspici di Vittorio Sereni, che avendo già accolto nella stessa collana una seconda edizione de I Segreti dei Gonzaga, sollecitava l’autrice a sottrarre anche il primo libro dal genere storiografico per sottolinearne la valenza narrativa.
Il secondo romanzo storico, 1941-1947
La rinnovata spinta creatrice che portò all’uscita nell’immediato dopoguerra de I Segreti dei Gonzaga (Milano 1947 e 1971) si muoveva in parallelo con le revisioni di Lucrezia. In questa fase, nello sguardo di Bellonci ormai sistematico sul Rinascimento e via via più solido e acuto, il profilo di Isabella d’Este – già vivido e plasticamente antagonista della Lucrezia Borgia del 1939 – ascese, nella sezione dei Segreti a lei riservata (Isabella fra i Gonzaga), al ruolo di comprimaria, per assurgere a quello di ‘fantasma’ di primo piano nel successivo impegno narrativo.
Anche per il trittico sui Gonzaga, come era accaduto con i gioielli di Lucrezia, lo spunto narrativo nacque da situazioni visuali, in particolare nella sezione Ritratto di famiglia condotta sulla contemplazione degli affreschi della Camera degli Sposi di Andrea Mantegna, ma anche per Isabella fra i Gonzaga con le visite pressoché medianiche all’appartamento della marchesa nel castello di Mantova. Si trattava di interrogare oggetti, profili pittorici, ambienti per trarne quasi il calco che l’intelligenza, la sensibilità, il più intimo carattere di una figura del passato vi avevano impresso.
Nella corrispondenza con Mondadori del 1941 Bellonci, segnalando l’uscita del Ritratto di famiglia nel numero di febbraio de La Lettura, dava notizia di una proposta di Bompiani, per aderire alla quale chiedeva l’autorizzazione al suo editore. Bompiani si diceva disposto a raccogliere il Ritratto in un volumetto illustrato, aggiungendovi anche lo scritto in corso di stesura dedicato all’appartamento di Isabella d’Este nel castello di Mantova, proposta forse sostitutiva dell’epistolario di Isabella che Bellonci avrebbe dovuto curare e che veniva rinviato per la chiusura dell’Archivio Gonzaga. Lo studio dell’appartamento e la lettura già avviata delle lettere della marchesa portavano dunque in primo piano negli interessi dell’autrice l’antagonista di Lucrezia, tanto che l’anno successivo trattò con Mondadori la stampa del libro organico cresciuto intorno al Ritratto con la gran parte delle tre sezioni (la terza era Il duca nel labirinto dedicata a Vincenzo Gonzaga) già pronte.
Tramite la preziosa documentazione epistolare dell’Archivio mondadoriano emerge, pur nel difficile passaggio della guerra e del primo dopoguerra vissuto dai Bellonci a Roma e nelle oscillazioni di umore di Maria connesse a una depressione strisciante, l’affollarsi di progetti nella mente della scrittrice, come il più volte preannunciato lavoro sulla Fine degli Este studiato per anni e poi abbandonato o come il progetto di un libro su Vespasiano Gonzaga di Sabbioneta accarezzato fino alla morte e mai realizzato.
Nel frattempo però un’altra brillante idea le aprì un nuovo fronte di attività e di notorietà: le riunioni di letterati che dal giugno 1944 erano divenute un’abitudine domenicale (gli ‘Amici della domenica’) di casa Bellonci si trasformarono nel 1946, con la partecipazione economica di Guido Alberti produttore del liquore Strega, nella struttura del premio letterario italiano più celebrato, dotato di un inusuale sistema di valutazione affidato a una votazione pubblica a due turni spettante all’intero gruppo di ‘Amici’.
La prima sessione del premio Strega, nell’estate del 1947, cui Bellonci per correttezza non presentò I segreti dei Gonzaga, vide vincitore Tempo di uccidere di Ennio Flaiano su una rosa di partecipanti di altissimo livello, fra i quali Alberto Moravia con La romana, Vasco Pratolini con Cronache di poveri amanti, Cesare Pavese con Il compagno, Anna Banti con Artemisia. Nella stessa estate, con i Segreti, Bellonci sfiorò la seconda affermazione al premio Viareggio, andato infine alle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci.
Narratrice senza limitazione di genere, 1951-1972
Nella seconda metà degli anni Quaranta le condizioni economiche precarie indussero Bellonci, come molti intellettuali del tempo, a impegnarsi in traduzioni di romanzi stranieri e in attività giornalistiche, proseguite peraltro per tutta la vita (da menzionare, per qualità e successo, le versioni dal francese dei Racconti di Stendhal, 1961; della Signora delle camelie di Dumas figlio, 1970; dei Tre moschettieri di Dumas padre, 1978; del Viaggio al centro della terra di Verne, 1983). Ma dal 1951, con la rubrica radiofonica Scrittori al microfono, iniziò anche una proficua collaborazione con la Rai, che dalla radio approdò poi nei decenni successivi alla televisione, passando per l’impegno nel Terzo Programma con l’appuntamento mensile delle ore 21 La donna e il secolo nel 1952, il ciclo di trasmissioni, sempre del Terzo Programma, intitolato Milano viscontea (1953) di cui pubblicò per la ERI i testi nel 1954, il programma Racconti di viaggio del 1955-57, fino alla rubrica «Taccuino» consistente nella lettura di un testo nell’intervallo di un concerto, che proseguì continuativamente sul Terzo Programma dal 1959 al 1974. Senza dimenticare la partecipazione, con l’Intervista impossibile a Lucrezia Borgia interpretata da Anna Maria Guarnieri, alla serie radiofonica delle «Interviste immaginarie» del 1974.
A fronte di un successo professionale costante, gli anni Cinquanta riservarono a Bellonci inquietudini private. Nel 1952 il marito venne licenziato dal Giornale d’Italia: la solidarietà del mondo della cultura e l’intervento di Alcide De Gasperi, cui Bellonci si era rivolta, procurarono all’anziano critico bolognese un nuovo impiego sulle pagine del Messaggero, ma la sua salute risentì del trauma con il primo manifestarsi dei disturbi cardiaci che lo avrebbero condotto alla morte nell’agosto 1964.
Al principio degli anni Sessanta, l’aspirazione a essere riconosciuta come narratrice senza limitazione di genere letterario aveva incontrato la chiaroveggenza critica di Giacomo Debenedetti, allora docente incaricato di letteratura moderna e contemporanea all’Università di Messina. In un intervento tenuto in un convegno a Positano nel 1961 Debenedetti – che frequentava con la moglie Renata il salotto degli Amici della domenica dal 1946 – si assunse l’impegno di parlare dell’opera di Bellonci mentre era in gestazione il terzo libro: un nuovo trittico di racconti, che sarebbe stato edito nel 1972 sotto il titolo di Tu, vipera gentile.
Secondo l’attitudine di intuizione prospettica propria delle letture critiche di Debenedetti fin dal 1961, il dato emergente fu che, in controtendenza rispetto a quanto il pubblico continuava ad attendersi da lei, «Maria Bellonci è intenta a un lavoro segreto» (cfr. Debenedetti, [1961], p. 9). Sembrava che la grande «trasparenza pubblica» dell’autrice, che in questa fase si confessava a diari e taccuini e diffondeva opinioni, interviste e polemiche, fosse un modo per «difendere il segreto dell’altro lavoro». «Ci si domanda» – concludeva Debenedetti – «se Maria Bellonci […] non abbia ora, nella sua più intensa maturità di scrittrice, il dubbio di avere solo giocato alla libertà». Ha ricevuto finora ordini dalla storia, e la tentazione ora può essere quella di «lavorare senz’ordini […] d’essere lei insomma a crearsi la trama delle sue storie con la stessa disponibilità con cui finora ne ha foggiato la forma vitale». Forse è giunto il momento per lei di sostituire ai romanzi ottenuti resuscitando la storia altri romanzi che «raccontino il possibile anziché riavverare il già accaduto» (ibid., pp. 10 s.). Debenedetti, scomparso prematuramente nel 1967, non ebbe la possibilità di verificare che il segreto del «romanzo romanzo» avrebbe dato il suo frutto migliore nell’ultimo lavoro di Bellonci: il racconto di se stessa narrato in prima persona da Isabella d’Este.
Lo ‘schianto’ della morte di Goffredo, vittima di un infarto fulminante il 31 agosto 1964, mentre era ospite nella villa dei Mondadori in occasione del premio Viareggio, costituì uno spartiacque nella vita e nella scrittura.
Il trauma venne lentamente riassorbito. Bellonci prese a occuparsi dell’Istituto internazionale per la storia del teatro fondato da Goffredo a Venezia nel 1963, accettò di condurre per Il Messaggero la rubrica «Pubblici segreti» che mantenne fino al 1970 (tali interventi sono apparsi postumi col titolo Pubblici segreti 2, Milano 1989, per cura di Anna Maria Rimoaldi, che aveva curato anche Segni sul muro: racconti, articoli ed elzeviri 1944-70, ibid. 1988), dette alle stampe sotto il titolo di Pubblici segreti alcuni scritti usciti su Il Punto fra 1958 e 1964 (ibid. 1965), e costituì infine nel 1966 l’Associazione Goffredo Bellonci. Nella citata intervista a Giorgio Torelli per Epoca del 1973, a quasi dieci anni dalla scomparsa del marito, del superamento della crisi diede lei stessa la valutazione più consona: «Ho portato con me questa privazione di Goffredo in quello che faccio. E credo si avverta, nei miei scritti, tanta disperazione umana».
La frequentazione assidua della Rai e l’attenzione per le possibilità dello strumento televisivo furono in questo periodo all’origine di un incontro che si rivelò determinante per il futuro della vita e dell’opera della scrittrice: la conoscenza nel 1965 – in occasione della proiezione dello sceneggiato televisivo di tre racconti di Grazia Deledda, George Sand e George Eliot – con Anna Maria Rimoaldi che ne aveva curato la regia. Di formazione scientifica – era laureata in matematica e statistica – la nuova amica, appassionata di teatro ed esperta dell’ambiente della produzione televisiva, divenne collaboratrice di fiducia di Bellonci che la nominò poi anche sua erede ed esecutrice testamentaria.
Nello stesso tempo, sembra fra il 1969 e il 1970, s’interrompeva il lungo e duraturo sodalizio con Anna Banti: probabilmente per dissensi innescati da valutazioni opposte su lavori letterari, per reciproche delusioni o, complessivamente, per il logorarsi inevitabile di un legame intenso e prolungato proveniente però da stagioni tramontate.
Dalla Rai giunse intanto (1969) la proposta di una sceneggiatura televisiva dedicata a Isabella d’Este: un lavoro che, con la collaborazione costante della Rimoaldi, occupò quasi sette anni e migliaia di pagine, senza mai pervenire alla messa in onda. Nel frattempo Bellonci pubblicò sempre con Mondadori Come un racconto gli anni del Premio Strega (Milano 1971: già apparso nel 1968 nella collana del Club degli editori dedicata alle opere vincitrici del premio e diretta da lei stessa) e, poco dopo, Tu, vipera gentile.
Gli archivi mondadoriani permettono una precisa ricostruzione della vicenda ideativa del nuovo trittico nel quale emerge, a fianco del racconto eponimo che rielaborava Milano viscontea uscito nel 1954 presso la ERI e di Soccorso a Dorotea aggiunto nel 1971, il taglio innovativo di Delitto di Stato, la cui stesura era stata avviata nel 1955, ma protratta per problemi esterni (come la sospensione da parte di Mondadori di un assegno mensile concordato in precedenza) e interni: di carattere esistenziale (i tentativi di curare una depressione ricorrente; la mancanza dell’incoraggiamento di Goffredo a proseguire il lavoro), ma anche legati alle esigenze narrative (secondo la testimonianza postuma di Rimoaldi, soprattutto la difficoltà di «proseguire il racconto con il linguaggio cancellieresco dello Striggi […] quasi raffreddato dal calcolo politico»: cfr. E. Ferrero, Note ai testi, in Opere, II, 1997, p. 1513).
Nel febbraio 1962 Delitto di Stato era uscito in una prima stesura sulla rivista Pirelli diretta da Vittorio Sereni. Circa dieci anni dopo, durante l’inaugurazione a Mantova del Teatro scientifico del Bibbiena, un incontro occasionale con un lettore appassionato alla vicenda riaccese la facoltà creativa di Bellonci, decisa alla fine a superare ogni difficoltà stilistica facendo narrare la storia dal giovane Paride. Tu, vipera gentile giunse in libreria nell’ottobre 1972, nella collana mondadoriana SIS.
La soddisfazione per il successo fu oscurata fra 1973 e 1974 dalla grave malattia e poi dalla morte della madre, cui nel decennio successivo si aggiunsero i lutti per il fratello Leo, deceduto nel marzo 1979, e per la sorella Gianna, morta dopo una prolungata malattia nel marzo 1983.
Il romanzo capolavoro, 1976-1986
Mentre, nel corso del 1976, si palesava il fallimento per problemi economici del monumentale sceneggiato su Isabella d’Este – un’amarezza cocente per la scrittrice – giunse però dalla Rai la proposta di sceneggiare in due puntate Delitto di Stato, per la regia di Gianfranco De Bosio. Con l’appoggio di Anna Maria Rimoaldi e in un’amichevole sintonia con il regista, Bellonci consegnò nella primavera del 1977 il copione, partecipò con grande interesse alle riprese svolte a Mantova nell’estate del 1980, con un cast eccellente (Sergio Fantoni, Remo Girone, Eleonora Brigliadori); non mancò infine nel gennaio 1982 alla presentazione a Londra del film televisivo in occasione della mostra sui Gonzaga allestita al Victoria and Albert Museum.
Già da due anni era peraltro immersa in un arduo lavoro commissionato dalla ERI per la ricostruzione del testo originale del Milione di Marco Polo da codici antichi francesi, italiani e latini. L’impresa doveva fiancheggiare l’uscita dello sceneggiato diretto da Giuliano Montaldo prevista per il novembre 1982: il testo vide infatti la luce in giugno. Si era aggiunta poi nel 1981 l’ulteriore richiesta della Rai di trarre un video novel dalla sceneggiatura di Montaldo, ritrascrivere cioè in forma romanzata un film televisivo secondo un’abitudine angloamericana inusuale in Italia. Non occorre sottolineare come tutte queste attività di scrittura di fatto sperimentali, del resto praticate in prospettiva drammaturgica anche nella sceneggiatura abbandonata del film televisivo progettato per Isabella d’Este, offrissero a Maria motivi tecnico-stilistici di riflessione, l’aprirsi di nuove ‘zone poetiche’ che sollecitavano risposte nuove, pur nel quadro costante della sua raffinata attenzione per lo strumento linguistico del narratore, quella lingua italiana la cui «fluidità senza bastioni di regole fisse rende possibili tutti gli ardimenti, tutti gli scorci, tutti i moti» (Pubblici segreti, 1965, p. 136). Cosicché, quando Montaldo (1983) la invitò a rileggere i sette copioni della sceneggiatura isabelliana, riprese vigore l’ipotesi, già presente nelle sue agende del 1976, di far confluire il lungo e inutilizzato lavoro in un romanzo, che tuttavia sembrò in competizione, nella progettazione creativa di Bellonci ormai ultraottantenne, con il fantasma di Vespasiano Gonzaga, anch’esso presente a intermittenza nella ricerca documentaria e nelle prove di scrittura dell’autrice.
Fu Isabella d’Este ad avere la meglio, e nell’accanito lavoro del 1984-85 prese forma il capolavoro di Bellonci, Rinascimento privato (Milano 1985), il racconto di Isabella che, in prima persona, mette in scena se stessa e la propria vita con il controcanto delle dodici lettere (senza risposta ma mai distrutte e spesso rilette) di Robert de la Pole.
L’invenzione dell’ecclesiastico inglese, ammiratore segreto della marchesa, fu un’intuizione del febbraio 1981, a seguito di una lettera del giovane prete canadese André Desjardins studioso del Rinascimento, ammiratore e corrispondente di Bellonci: dalla missiva, in cui il giovane si scusava per aver tenuto nascosto senza una precisa ragione il sacerdozio nell’incontro romano di anni prima, la scrittrice prelevò direttamente l’inizio della prima lettera di Robert a Isabella.
Il romanzo apparve sulla metà di aprile 1985. Un coro di amici l’anno dopo convinse Maria a presentare finalmente un ‘suo’ romanzo al ‘suo’ premio Strega. Ma era destino che, il 4 luglio, la sua Isabella dovesse vincere sola.
Maria Bellonci, cedendo a un male incurabile, era morta infatti a Roma, poche settimane prima, il 13 maggio 1986.
I suoi scritti sono stati riuniti nei due «Meridiani» Mondadori delle Opere, I-II, a cura di E. Ferrero, Milano 1994-97.
Fonti e Bibliografia
Milano, Fondazione Mondadori, Arch. storico Arnoldo Mondadori editore, Carteggio M. B. 1932-1968; Roma, Fondazione Bellonci: M. Bellonci, Piccolo libro delle consolazioni segrete 1936; Diario breve 1938-1943.
Debenedetti, M. B., presentazione di M. Forti, Milano s.d. [ma 1961]; A. Banti, I pubblici segreti. Appunti, in Paragone, XVI (1965), ottobre, pp. 137-139; M. Grillandi, Invito alla lettura di M. B., Milano 1983; V. Branca, B., M., in Diz. critico della letteratura italiana (UTET), a cura di V. Branca, Torino 1986, ad vocem; E. Ferrero, Introduzione, in M. Bellonci, Opere, I, cit., pp. XI-XXXVI; G. Leto, Cronologia, ibid., pp. XXXIX-LXXII; L. Serianni, La prosa di M. B., ovvero la ricerca dell’acronia, in Studi linguistici italiani, XXII (1996), pp. 50-64; M. Onofri, Introduzione, in M. Bellonci, Opere, II, cit., pp. XI-XLIV; V. Della Valle, L’italiano «d’autrice» di M. B., ibid., pp. XLVII-LXXII; M. Simonetta, M. B., Manzoni e l’eredità impossibile del romanzo storico, in Lettere italiane, L (1998), pp. 248-263; S. Roush, Isabella inventrix. History and creativity in M. B.’s «Rinascimento privato», in Italica, LXXIX (2002), pp. 189-203; G. Antonelli, La voce dei documenti nella scrittura di M. B., in Narrare la storia: dal documento al racconto, a cura di T. De Mauro – N. Fusini, Milano 2006, pp. 95-112; I. Calisti, Per il romanzo storico di mano femminile nel Novecento: lo sguardo sul Rinascimento di Anna Banti e M. B., tesi di dottorato, Università degli studi di Bologna, 2008; Id., «La maestosa armonia di un tempo senza tramonti»: la ‘plenitudo temporis’ romana in «Rinascimento privato» di M. B., in Fra Olimpo e Parnaso. Società gerarchica e artificio letterario, a cura di F. Pezzarossa, Bologna 2008, pp. 193-224; L. Avellini, Gli orologi di Isabella. Il Rinascimento di M. B., Bologna 2011
Fonte Enciclopedia TRECCANI online. di Luisa Avellini – Dizionario Biografico degli Italiani
Il trattato dal titolo “David Maria Turoldo, il Resistente”, a cura di Guerino Dalola, in collaborazione con Donatella Rocco, Antonio Santini, Mino Facchetti, Pierino Massetti, Gian Franco Campodonico e di ANPI Franciacorta, consiste in un importante saggio autoprodotto con il patrocinio di vari enti e associazioni, tra cui la Città di Chiari, il Comune di Coccaglio, il Comune di Cologne, i Servi di Maria – provincia di Lombardia e Veneto e l’associazione Gervasio Pagani.
Padre David Maria Turoldo è un frate morto nel 1992. Su padre David Maria Turoldo, che fu poeta, filosofo, sacerdote, autore, traduttore, fondatore di riviste e giornali, sono stati pubblicati centinaia di libri e documenti, ma senza dare ampia notizia sulla sua partecipazione alla Resistenza del 1943-45 contro il nazifascismo. Padre David Maria Turoldo è stato un grande Resistente a Milano, ma era in contatto anche con la Resistenza bresciana, soprattutto nella zona della Franciacorta.
Secondo Turoldo la figura del Partigiano riveste certamente una eccezionale e fondamentale importanza, ma in uno specifico momento e in una determinata situazione. Invece, sempre secondo Turoldo, essere Resistente è una scelta di vita che non può verificarsi solo in un determinato tempo e in uno spazio contingente. La Resistenza, i Resistenti attuano un impegno quotidiano, da realizzarsi nel percorso di ogni giorno, senza distrazioni, nel corso di una intera esistenza. La liberazione autentica dell’umanità, oltre che dal nazifascismo e dalle dittature, richiede una militanza, una acribia nel tempo, un impegno molto più profondo sul piano culturale, relazionale, politico, sociale, familiare. L’impegno del Resistente non ha fine e scadenze, perché la libertà non si rinnova da sola, ma deve essere sempre riconquistata con l’impegno di ognuno di noi. Infatti la Resistenza non è mai finita.
Turoldo non ha mai voluto schierarsi con nessun partito politico, perché, lui stesso spiegherà, la libertà, la costruzione di un mondo migliore, i diritti delle persone, la solidarietà, il progresso alternativo che non è tale se non è per tutti, il soccorso a chi vive nell’indigenza, a chi vive nelle difficoltà, a chi vive nel bisogno, il rispetto di tutte le fedi politiche e religiose, non sono istanze appartenenti all’uno o all’altro schieramento partitico, ma sono valori appartenenti alla nostra comune umanità.
Per il Resistente il vero campo di lotta è la normalità, la testimonianza, non solo con le parole, ma con esempi di vita. Il Resistente non è solo antifascista. La vera scelta del Resistente è un’alternativa totale, a favore di una società, di un contesto sociale, completamente diversi, per una nuova presente e futura umanità, perché la pace non è solo mancanza di guerra, ma è nonviolenza, è costruzione di convivenza solidale e fraterna.
Le esperienze di Turoldo furono molteplici come Partigiano in una delle vicende più importanti della sua vita: la Resistenza. Ma le fonti storiche non danno ricostruzione storiografica editata di ampio respiro di padre Turoldo per la sua attività nella lotta di Liberazione nazionale e per il contributo notevole che ha offerto nella ricostruzione morale e materiale del nostro Paese. “Una lacuna nella storia del pensiero democratico e antifascista di impronta cattolica alla quale bisognerebbe pensare di porre rimedio”, così scrive Aldo Aniasi, comandante partigiano, assessore e sindaco di Milano, deputato e ministro socialista e presidente della FIAP federazione italiana associazioni partigiane. Scrive sempre Aldo Aniasi, che come uomo della Resistenza padre Turoldo privilegiò sempre una scelta unitaria, lo spirito unitario della Resistenza, lo spirito dell’unità antifascista. Intrattenne rapporti con comunisti, socialisti, azionisti e incontrava personaggi come Eugenio Curiel, Rossana Rossanda e altri importanti dirigenti della sinistra.
Uno dei risultati più significativi dell’intero lavoro di confronto e dialogo realizzato nel convento di San Carlo a Milano per iniziativa di padre Turoldo e padre De Piaz è la nascita e la diffusione – soprattutto da parte di Teresio Olivelli, Claudio Sartori ed altri collaboratori bresciani – del giornale clandestino antifascista “Il ribelle”. Anche la predicazione in Duomo su incarico del Cardinale Schuster diventa espressione della Resistenza di padre Turoldo. Appena dopo la Liberazione del 25 Aprile 1945, saranno ventinove i Lager visitati da padre Turoldo alla ricerca di sopravvissuti e riuscirà a riportare in salvo a casa circa duecento prigionieri. Scrive Turoldo “Una sola possibilità affinché non si ripeta quanto è avvenuto: ricordare e capire, far ricordare e far capire… Così ho visto la sola Europa possibile, quella della solidarietà dei sopravvissuti”. Scrive Ernesto Balducci “Il grande dono di David è di essere nato povero, in mezzo ai poveri, agli ultimi… David è rimasto un povero. I poveri sono fuori del perimetro della storia”. In occasione degli appositi referendum, padre Turoldo vota contro l’abrogazione del divorzio e dell’aborto, perché i principi religiosi non possono essere imposti a chi non crede: la religione va spiegata e proposta, mai imposta con una legge. Nella primavera del 1978, padre Turoldo, insieme al confratello De Piaz, avvia una trattativa con le Brigate Rosse, per la liberazione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. L’iniziativa a cui partecipa anche il vescovo di Ivrea monsignor Luigi Bettazzi, presidente di Pax Christi, viene bloccata dall’opposizione delle autorità ecclesiastiche.
La Corsia dei Servi e Nomadelfia furono le iniziative più care sia a Turoldo sia a padre De Piaz, basate su concetti di primaria importanza: tanto la fede che le scelte politiche diventano operative e efficaci solo nell’ambito di una cultura che permetta di uscire dall’inerzia di una fede accolta solo per tradizione e pregiudizio, per tentare invece una rigenerazione dalla vera cultura con maggior impulso possibile.
Invitato a un congresso sul disarmo nel febbraio 1978, Turoldo ebbe l’occasione di incontrare Carlo Cassola, che lo invitò al convegno nazionale della LDU- Lega per il Disarmo Unilaterale. Gli aderenti attuali della Lega per il Disarmo Unilaterale sotto la sigla “Disarmisti Esigenti” stanno lavorando all’interno della campagna ICAN – International Campaign to Abolish Nuclear Weapons e con molte altre associazioni del panorama italiano affiliate a ICAN, tra cui anche PeaceLink- Telematica per la Pace, alla ratifica del trattato ONU, il TPAN, per la proibizione delle armi nucleari, varato a New York a palazzo di vetro nel luglio 2017 da 122 nazioni e dalla società civile organizzata in ICAN. ICAN grazie alla costituzione del trattato Onu per l’abolizione delle armi nucleari è stata insignita Premio Nobel per la Pace 2017. E poi ricordiamo la Salmodia della Speranza che attraversa la drammatica esperienza dell’Europa prima e durante la Seconda Guerra Mondiale: il trionfo dei dittatori, il nazismo, il fascismo, il razzismo, i grandi massacri, i Lager, Hiroshima e Nagasaki, la Resistenza. Per una Chiesa che accoglie i diversi, gli emarginati, gli oppressi, gli ultimi, le vittime di cui tutti siamo parte nel contesto sociale, comunitario, culturale e nel mondo, nel terribile deserto della sopraffazione e della violenza dove tante voci chiedono libertà, giustizia e verità per tutti quegli innocenti che ancora nascono solo per morire.
Laura Tussi – PeaceLink, Campagna “Siamo tutti Premi Nobel per la Pace con ICAN” Fabrizio Cracolici – ANPI sezione Emilio Bacio Capuzzo Nova Milanese (Monza e Brianza)
Biografia di David Maria Turoldo nasce il 22 novembre del 1916 a Coderno, in Friuli, nono di dieci fratelli. Nato come Giuseppe Turoldo, a tredici anni entra nel convento di Santa Maria al Cengio per far parte dei Servi di Maria, a Isola Vicentina, là dove si trova la sede del Triveneto della Casa di Formazione dell’Ordine Servita. È qui che trascorre l’anno di noviziato; dopo avere assunto il nome di fra’ David Maria, emette la professione religiosa il 2 agosto del 1935. Nell’ottobre del 1938 pronuncia i voti solenni a Vicenza.
Gli studi accademici
Intrapresi gli studi di teologia e di filosofia a Venezia, nell’estate del 1940 Turoldo viene ordinato presbitero nel santuario della Madonna di Monte Berico dall’arcivescovo di Vicenza ,monsignor Ferdinando Rodolfi. Nello stesso anno viene inviato a Milano, al convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo al Corso.
Per circa un decennio si occupa di tenere la predicazione della domenica in Duomo, su invito dell’arcivescovo Ildefonso Schuster, mentre insieme con il suo confratello Camillo de Piaz, compagno di studi nell’Ordine dei Servi, si iscrive all’Università Cattolica di Milano. Qui David Maria Turoldo si laurea l’11 novembre del 1946 in filosofia con una tesi intitolata “La fatica della ragione – Contributo per un’ontologia dell’uomo”, con il professor Gustavo Bontadini. Quest’ultimo successivamente gli propone di diventare suo assistente presso la cattedra di Filosofia Teoretica. Anche Carlo Bo gli offre un ruolo come assistente, ma per l’Università di Urbino, cattedra di Letteratura.
Dopo aver collaborato in modo attivo con la resistenza antifascista in occasione dell’occupazione nazista di Milano, David Maria Turoldo dà vita al centro culturale Corsia dei Servi e sostiene il progetto del villaggio Nomadelfia fondato nell’ex campo di concentramento di Fossoli da don Zeno Saltini.
David Maria Turoldo negli anni ’50
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta pubblica la raccolta di liriche “Io non ho mani”, con cui si aggiudica il Premio letterario Saint Vincent, e l’opera “Gli occhi miei lo vedranno”, proposta nella collana Lo Specchio di Mondadori.
Nel 1953 Turoldo è costretto a lasciare Milano, e si trasferisce prima in Austria e poi in Baviera, dove soggiorna presso i conventi dei Servi locali. Nel 1955 viene trasferito a Firenze, al convento della Santissima Annunziata, dove ha modo di conoscere il sindaco Giorgio La Pira e padre Ernesto Balducci.
Obbligato ad andare via anche dal capoluogo toscano, dopo un periodo di peregrinazioni lontano dall’Italia torna in patria e viene assegnato a Udine, al convento di Santa Maria delle Grazie. Nel frattempo si dedica alla realizzazione di un film, con la regia di Vito Pandolfi, intitolato “Gli ultimi” e tratto dal suo racconto Io non ero fanciullo. La pellicola, che rappresenta la povertà della vita rurale in Friuli, viene presentata nel 1963 ma non apprezzata dal pubblico locale, che la considera poco rispettosa.
Gli ultimi anni
In seguito Turoldo individua nell’antico Priorato cluniacense di Sant’Egidio in Fontanella un luogo in cui dare vita a un’esperienza religiosa comunitaria nuova, che coinvolga anche i laici: vi si insedia il 1° novembre del 1964, dopo aver ricevuto il consenso di Clemente Gaddi, il vescovo bergamasco.
Qui fa costruire una casa per l’ospitalità, che prende il nome di Casa di Emmaus in riferimento all’episodio biblico della cena di Emmaus, con Gesù che si manifesta ai discepoli dopo essere risorto.
Alla fine degli anni Ottanta David Maria Turoldo si ammala per un tumore al pancreas: muore all’età di 75 anni il 6 febbraio del 1992 a Milano, nella clinica San Pio X. I funerali vengono celebrati dal cardinale Carlo Maria Martini, che pochi mesi prima aveva assegnato a Turoldo il Premio Giuseppe Lazzati.
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