Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo)-cura di Edoardo Gerlini-MARSILIO Editori-
-DESCRIZIONE-del’Antologia della Poesia giapponese – a cura di Edoardo Gerlini-Marsilio Editori–Fin dai primi contatti con l’Occidente la poesia giapponese non ha smesso di colpire l’immaginazione degli europei per via delle sue peculiari caratteristiche come la brevità dei componimenti, il costante riferimento agli elementi naturali, la particolare importanza data alla calligrafia, la sostanziale assenza di rima compensata dalla scelta di strutture ritmiche e prosodiche estremamente durature: caratteristiche queste spesso fraintese o deformate da una visione tipicamente orientalista ed eurocentrica di stampo novecentesco. Questo inedito progetto editoriale in tre volumi, corrispondenti al periodo antico (fino al 1185), periodo medievale (fino al 1868) e periodo moderno (fino alla fine del secolo scorso), si propone di selezionare e presentare sotto una nuova luce versi, canti e liriche prodotti in Giappone nell’arco di più di diciotto secoli. Un ricco apparato critico e il testo a fronte rendono questa antologia un prezioso strumento di studio e riferimento sia per l’esperto di culture dell’Asia orientale che per il semplice appassionato di poesia e letteratura mondiale.
Il primo volume dell’Antologia, Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo), raccoglie più di trecento componimenti scaturiti dal pennello di circa un centinaio tra i più rappresentativi poeti dei periodi Nara (710-794) e Heian (794-1185). Le venti sezioni che compongono il volume corrispondono alle più importanti raccolte e antologie compilate nei primi secoli della storia della letteratura giapponese, come il Man’yōshū, il Kokinshū, il Kaifūsō, ma anche opere mai tradotte in italiano come il Kudai waka o lo Honch ō monzui. Canti religiosi, struggenti poesie d’amore, elaborati giochi di parole e artifici retorici che diventeranno modello imprescindibile per tutta la successiva storia letteraria dell’arcipelago. Un’attenzione particolare è stata inoltre dedicata alla poesia in cinese composta da giapponesi, che rappresenta l’altra faccia di questa tradizione poetica, spesso sconosciuta al lettore europeo.
Edoardo Gerlini
Edoardo Gerlini -Ricercatore-Università Ca’ Foscari di Venezia
SSD-LINGUE E LETTERATURE DEL GIAPPONE E DELLA COREA [L-OR/22]
Struttura-Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea Sito web struttura: https://www.unive.it/dsaam Sede: Palazzo Vendramin-Research Institute for Digital and Cultural Heritage
-L’antica poesia giapponese ci parla quasi in italiano –
Antologia della poesia giapponese
Articolo di Daniele Abbiati
FONTE Articolo-IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
Una lingua profondamente diversa dalla nostra ma in cui ritroviamo Petrarca, Leopardi, Merini…
Articolo di Daniele Abbiati–La lingua giapponese non è soltanto figlia della lingua cinese, ne è anche allieva. Un’allieva fedele, solerte e molto, molto paziente, perché cominciò a studiare un secolo prima della nascita di Cristo e finì (anche se, come sappiamo, non si finisce mai di imparare…) al termine del XIX secolo, quando si poté dire che i giapponesi parlavano e scrivevano secondo un autentico (e autoctono e autonomo) «canone giapponese». Anche noi, qui in Europa, abbiamo dovuto sudare per costruirci l’italiano, il francese, lo spagnolo e via, appunto, discorrendo. Ma il nostro corso di studi è stato molto più accelerato, decisamente più breve di una laurea breve, in confronto a quello dei giapponesi. Per due motivi. Da un lato i maestri latini avevano già acquisito, in centinaia e centinaia di anni, il patrimonio culturale di altri maestri, quelli greci, cucinandolo da par loro. Dall’altro… ma a questo punto è meglio cedere la parola a chi ha facoltà di parlare: «mentre con un alfabeto fonetico come quello latino siamo teoricamente in grado, una volta apprese le convenzioni ortografiche e fonetiche basilari, di pronunciare correttamente anche parole di una lingua che non conosciamo, con i sinogrammi è praticamente impossibile conoscere con totale certezza la pronuncia di un carattere che non abbiamo mai visto, ed è di conseguenza molto difficile risalire esattamente al tipo di pronuncia legata a un determinato carattere in una certa area o contesto storico». Lo spiega Edoardo Gerlini, docente di Lingua giapponese classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Insomma, a noi studenti europei l’alfabeto fonetico latino ha dato una grossissima mano, mentre dall’altra parte del mondo i nostri omologhi giapponesi hanno dovuto vedersela con quella sorta di rebus spaccameningi dei sinogrammi.
Gerlini ha curato per Marsilio il primo volume di un progetto editoriale inedito (e non soltanto perché contiene anche testi giapponesi mai tradotti in italiano): Antologia della poesia giapponese. I. Dai canti antichi allo splendore della poesia di corte (VIII-XII secolo). Nell’Introduzione al volume, cui ne seguiranno due, fino a giungere ai nostri giorni, Gerlini dice molte cose che noi occidentali mediamente acculturati non potremmo immaginarci, portandoci oltre le porte di Tannhäuser (guarda caso, ecco un altro poeta, per quanto tedesco) che si aprono su un lontanissimo universo linguistico. Per esempio si dice che in Giappone il bilinguismo paritetico è proseguito fino agli inizi del Novecento; che i giapponesi lentamente si affrancarono dalla dittatura dei sinogrammi dotandosi dell’alfabeto fonetico dei katakana, molto più semplice da leggere e quindi da diffondere; che fu la scrittura onnade, cioè «per mano di donna», divergendo da quella otokode, cioè «per mano di uomo», a emancipare le lettere giapponesi. Così, seguendo la lezione del prof Gerlini, il lettore/studente completamente digiuno di sinologia e rimasto fermo alla fascinazione fluttuante di qualche haiku, quindi al XVII secolo, quando la lingua giapponese già si reggeva sulle proprie gambe, un po’ si preoccupa, aspettandosi una materia oscura e impenetrabile.
E sbaglia, perché fin dalle prime pagine dell’antologia che presenta i testi in giapponese e in italiano, scopre (vale a dire: ricorda) che, al netto degli artifici retorici, pur importantissimi e caratterizzanti ogni lingua, l’anima della Poesia distillata dai traduttori parla un solo idioma in tutto il mondo. Per tutte le poesie vale la definizione che di quella giapponese diede, fra IX e X secolo, il poeta e funzionario di corte Ki no Tsurayuki: «ha come seme il cuore dell’uomo, che si tramuta, ecco, in innumerevoli foglie di parola». Prendiamo ad esempio un canto shintoista: «Dai remoti tempi/ delle auguste divinità,/ le foglie di bambù nano/ prendendo in mano, dicono,/ si cantava e si danzava». Ma questo è Platone, quando nel Fedone riporta il detto dei preposti ai Misteri: «i portatori di ferule sono molti, ma i Bacchi sono pochi»… E prendiamo questi versi di Kasa no Iratsume dal Man’yoshu, la più antica antologia di poesia giapponese: «Come candida rugiada/ sull’erbe all’ombra della sera/ nella mia dimora/ che sembra svanire, vano/ è forse il mio rimembrarti». Non sentiamo un’aria petrarchesca, in quel «rimembrarti»? Eccola qui, Sonetto CCXXXI. «E ‘l rimembrare et l’aspettar m’accora». E Mansei che scrive: «Il mondo umano/ a che cosa compararlo?/ A una nave che vogando/ lascia il porto all’alba/ senza tracce dietro di sé…» ci suona vicino al giovane e senile Leopardi come in questo Pensiero XXXIX: «Però parmi che i vecchi sieno alla condizion di quelli che partendosi dal porto tengon gli occhi in terra, e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta». E ancora qui, in queste sinestesie: «Freddo il suono delle foglie che cadono…», oppure «La fredda voce del grillo, soffiata qui dal vento…», echeggia Foscolo: «mentr’io sentia dai crin d’oro commosse/ spirar d’ambrosia l’aure innamorate». L’amore, certo, e per giunta proprio quello cortese, sbocciato dalle parti dell’imperatore di turno, l’amore che trabocca per Minamoto no Yoshi: «Un corso d’acqua montana/ tra gli alberi/ freme nascosto, impetuoso/ il mio amore,/ e più non riesco oramai ad arginarlo», parallelo a quello di Alda Merini: «Ruscello vivo è l’amore che corre/ nei giardini dei poeti/ e genera rose, e genera pioggia e pianto».
Dunque, fra raccolte imperiali, sillogi personali, collezioni che escono dalla comfort zone dei palazzi nobiliari per scendere fino a sfiorare i sentimenti del volgo, questa antologia dell’antica poesia giapponese ci conforta. Mostrandoci un’altra, eccelsa interpretazione di uno spartito che è anche il nostro.
Catalogo della mostra alla galleria De Hauke & Co.,1929
AMEDEO MODIGLIANI
Descrizione del Catalogo Mostra di Amedeo Modigliani alla galleria De Hauke & Co.,anno 1929“La sua emotività si sviluppò a un punto tale che tutto in lui venne spinto agli estremi; e come la sua sensibilità si fece più acuta, crebbe l’intensità delle emozioni. Tale il motivo per cui lo svolgimento delle ultime opere di Modigliani non fa registrare alcuna novità di forma o di tecnica; vi troviamo soltanto mutamenti verso un acume più intenso nelle facoltà percettive di ordine sentimentale, che unisce, fonde definitivamente la composizione, mentre in opere precedenti l’emozione rimaneva spesso localizzata. Possiamo osservare, in questi lavori estremi, una sorta di abbandono all’immediatezza visiva, un abbandono ai fatti impulsivi che vanno oltre qualunque preordinazione e sembrano sottratti ai poteri dello spirito. La rapidità nell’improvvisazione è subentrata alla lentezza derivante dalla riflessione, dal bisogno di sperimentare, dalle difficoltà e dalle speranze. I ritratti e i nudi sono modellati con una rapida calligrafia veloce, come da gesti meccanici, e sono tali felicissimi gesti dell’inconscio a fornire il meglio dell’opera di Modigliani … La profonda tristezza del suo destino permea tutte le opere di lui, caricandole del loro valore sostanziale. Questa tristezza, infusa nei visi delle donne ritratte, li permea di un ineffabile pathos. Difficilmente si da un nudo femminile che non abbia il viso marcato dalla malinconia dell’artista : la tristezza dolente, rassegnata o distaccata, che li fa sembrare incomparabilmente casti. L’opera di Modigliani, così intrisa di straordinarie qualità sensitive, ci concede una sorta di diletto diffìcilmente reperibile fra i migliori pittori dei nostri giorni”
CHRISTIAN ZERVOS
(Catalogo della mostra alla galleria De Hauke & Co., 1929)
Il 1 gennaio 1900 nasce PAOLA BORBONI, LA SIGNORINA TERRIBILE DEL TEATRO ITALIANO
Tratto dal libro di MUSINI DANIELA- Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia
Editore Piemme
MUSINI DANIELA- Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia
Fu un’anticipatrice lungimirante in molte cose, Paola Borboni, oltre che attrice dotata di talento superlativo: fu la prima ad esibirsi in Teatro a seno nudo, la prima monologhista italiana, in quel lontano 1954, e probabilmente l’unica a calcare ancora i palcoscenici alla veneranda età di 93 anni e per di più con un’opera di Pirandello, mica pizza e fichi.<<Sono la prima attrice del Novecento>> amava ripetere con malizia e aveva ragione: era nata infatti il 1 gennaio del 1900 a Golese di Parma; quindi sicuramente la prima anagraficamente parlando, ma non solo. Non sarà stata forse la più grande della sua epoca (quando lei muoveva i primi passi c’erano ancora Eleonora Duse che giganteggiava e l’odiata Marta Abba che le aveva rubato la scena nella compagnia teatrale e nel cuore di Pirandello), ma sicuramente è stata la più spregiudicata e versatile. I suoi genitori avevano pensato per lei ad un mestiere quieto e tranquillo, da brava ragazza: maestra, ad esempio, ma si sa, le brave ragazze vanno in Paradiso, le altre dappertutto e soprattutto se la spassano un mondo. E Paolina (all’anagrafe) Borboni “brava ragazza” non fu mai, ma la vita se la godette tanto. Ma tanto tanto. Per cominciare, a sedici anni mollò la scuola, che aveva frequentato di mala voglia, per seguire la sua aspirazione più grande: fare l’attrice. Nel 1916 era considerato un mestiere poco edificante per una signorina di buona famiglia qual era, ma lei dei giudizi altrui se ne infischiava allegramente (e lo farà per tutta la vita) e quindi a Milano dove la famiglia si era trasferita dal parmense, frequenta l’Accademia dei Filodrammatici della città meneghina sotto la guida di Teresa Valvassura.
PAOLA BORBONI
È avvantaggiata in questo dal fatto che il padre Giuseppe è un impresario teatrale specializzato in allestimenti di opere liriche e conosce bene l’ambiente teatrale della città, ma la sua non fu una strada spianata, ma un percorso costruito con talento, arguzia, spregiudicatezza, intelligenza e carattere di ferro. La madre, Gemma Paris, ricchissima ereditiera di Parma, aveva investito il suo ingente patrimonio nell’attività del marito perché amava la Cultura e l’ambiente teatrale ma nonostante ciò non fu entusiasta all’inizio di avere una figlia attrice. Provò a dissuaderla, ma Paola era e sarà sempre un osso duro e non ci fu verso di farle cambiare idea. Giovane com’è e birichina come appare, le mettono alle costole allora un’austera governante che ha da subito vita difficile accanto a quella ragazzina turbolenta, esuberante e civetta. E infatti la signora resiste pochi mesi e se ne va sbattendo la porta. Paola tira un sospiro di sollievo: è libera finalmente da controlli e divieti dai quali si sentiva soffocare e che non tollererà mai nella sua lunghissima vita. Dopo un debutto a Lodi nella commedia “Il fiore della vita” dei fratelli Quintero, per lei a sedici anni c’è la grande occasione che arriva in maniera inaspettata: come spesso accade a Teatro o nell’Opera Lirica, la protagonista femminile della compagnia di Alfredo De Santis si ammala e lei, che è l’attrice giovane, la sostituisce nel “Dio della vendetta” di Shalomon Asch. Riscuote un successo personale eclatante e da quel momento non si ferma più. Affianca la grande Irma Gramatica (che aveva soffiato la parte di Mila di Codra nella dannunziana “La figlia di Iorio” nientemeno che alla Duse) in vari allestimenti, poi è una splendida Anna Page nelle “Allegre comari di Windsor” di Shakespeare e per nove anni sarà primattrice accanto a Armando Falconi con cui mette in scena ben trenta commedie italiane e francesi. Nel frattempo è cresciuta sia attorialmente che fisicamente: è diventata bella e sensualissima, ha affilato la sua ironia e incrementato la volitività, ha consolidato la testardaggine e potenziato la trasgressione. È audace e nel contempo raffinata, è provocante ma mai volgare, è allusiva e talvolta impudica ma sempre con classe. Gli spettatori, soprattutto quelli maschili, vanno in sollucchero quando lei appare sulla scena con tutta la sua insinuante e consapevole carica erotica. Nel 1925, mentre il Fascismo esalta la donna quale angelo del focolare e premia le mamme prolifiche, lei ha l’ardire di sfidare la censura andando in scena a seno nudo nello spettacolo teatrale “Alga Marina” di Carlo Veneziani. Doveva rappresentare una sirena che esce dall’acqua e quando tutti, vedendola seminuda, gridarono allo scandalo, lei replicò con la verve briosa e polemica che la connotava: <<Ipocriti che non siete altro! Se faccio la sirena, me lo dite come potrei uscire dall’acqua tutta vestita? Che forse le sirene vanno in giro protette da uno scafandro?>>
PAOLA BORBONI
Quello spettacolo scatenò un elettrizzante putiferio, con il pubblico che quasi faceva a botte per accaparrarsi un posto in prima fila e che la felice penna di Orio Vergani raccontò così: <<Le repliche di quella commedia mobilitirano più binocoli di quanti ne fossero stati usati in mezzo secolo di prove ippiche a San Siro.>> Seni nudi in scena in Italia non se n’erano visti se non di sfuggita in qualche malandrino teatrucolo di periferia che ospitava scalcinate compagnie di avanspettacolo con le soubrettine disposte a tutto pur di attirare gli spettatori. Intanto il padre muore prematuramente e la madre si ritrova oberata da debiti. Paola è costretta a lavorare a ritmi serrati e ad accettare anche ruoli che più che mettere in luce le sue enormi capacità attoriali, mirano ad evidenziare il suo innegabile sex-appeal. Ma a lei sta bene tutto ciò: è egocentrica ed esibizionista, ama le sfide e i riflettori, ha un seno perfetto e un corpo che è un invito al peccato e li esibisce con gusto e malizia in “Diana al bagno”, in cui appare nuda, velata appena da una tunica trasparente e gode degli sguardi accesi degli uomini in platea che l’applaudono freneticamente. <<Mi divertivo a fare un po’ di chiasso, madre natura mi aveva dato la bellezza. E, allora, perché non farne partecipe il pubblico?>> I ruoli che le affidano nei primi tempi appartengono ai cliché della commedia sofisticata: <<Dovevo fare la cocotte, la rubamariti, l’amante>> ricorderà lei da anziana, non senza una punta di civettuolo compiacimento. Voci (maligne?) la vogliono in quel periodo amante fugace di Mussolini, dal quale era andata a perorare una causa e dal quale era uscita un filino scarmigliata. Comunque sia nel 1929 è così famosa che viene invitata a bordo della corazzata Giulio Cesare con una delegazione del Parlamento Italiano. A proposito di politica: lei, trasgressiva, ironica e audace anche nel linguaggio, ammoniva sempre le giovani attrici delle sue compagnie: <<Le mutande sono come i governi. C’è sempre qualcuno che li vuole far cadere.>> Quanto a lei le portava sempre rosse, quando le portava. Corteggiatissima e disincantata quanto basta, sapeva tenere a bada gli uomini e quando vedeva una sua giovane allieva corteggiata da qualche marpione, soleva ammonirla: <<Ricordati carina, che anche nel migliore degli uomini sonnecchia sempre una canaglia.>> Lei ne aveva incontrati di tipi così, hai voglia!
PAOLA BORBONI
Fu corteggiata persino dal più irresistibile dei seduttori: Gabriele d’Annunzio, al quale disse di no per un antico rispetto nei confronti della sua collega Eleonora Duse (anche se il rapporto tra i due era finito da un pezzo) ma soprattutto per non far parte di quella vendemmia della carne che ogni notte andava in scena al Vittoriale. Non era tipa lei da confondersi con le clarisse e le badesse di passaggio che movimentavano le insonni notti dell’Imaginifico. Non fu mai una comparsa, ma sempre protagonista. Della scena e della vita: <<Ero bella, molto. Ero intelligente, molto. Avevo talento, molto. Ho dato molto fastidio>>, soleva ripetere. Nonostante in molti, infastiditi dalla sua bravura e dal suo mordace temperamento, le remassero contro 1935 diventa capocomico della Compagnia Pirandelliana e mette in scena ben diciassette opere del drammaturgo siciliano, riuscendo a dosare mirabilmente i chiaroscuri della sua voce e a dare vita alle vibrazioni dell’anima di personaggi indimenticabili, come l’inquieta Silia Gala de “Il gioco delle parti”, ma anche quello disperato di Donna Anna Luna ne “La vita che ti diedi” che lui aveva scritto espressamente per Eleonora Duse, ma che la grande Tragica non volle poi interpretare. Paola adorava Pirandello: <<Era bellissimo. Ai miei occhi era un uomo bellissimo. Elegante, assolutamente elegante, naturalmente elegante.>> Chissà, se lui non fosse stato perso per quel demonio di donna che fu Marta Abba, forse loro due avrebbero costituito una coppia magnifica. Si erano incontrati nel foyer del Teatro Quirino; lei indossava un abito blu, di una sfumatura particolare detta blu Nattier (dal nome di un pittore del Settecento, un colorista straordinario che aveva creato quella particolare nuance) e lui l’aveva omaggiata con un <<Che donna elegante!>>. Diventa quindi una delle più intense interpreti pirandelliane, ma la sua versatilità la porta anche ad apparire nei filmetti sexy degli anni Settanta: lo fa per soldi e perché la diverte far arricciare il naso ai critici teatrali che non le perdonavano quelle scivolate goliardiche. Il cinema in realtà non l’attrae più di tanto (anche se ha girato oltre 70 film dal 1918 al 1990) ma dice sì a Pietro Germi per il suo “Gelosia”, a Fellini che la vuole nel suo capolavoro “I vitelloni” e a Manfredi per quel gioiello che fu “Per grazia ricevuta”, e a Dino Risi che le riserva uno dei ruoli più divertenti della sua carriera nel film “Sesso matto” del 1973, in cui lei appare per quel che è: una vegliarda di settantatré anni concupita da un immenso Giancarlo Giannini il quale, animato da impulsi erotici geriatrici, trascura e tradisce la sua carnalissima moglie (una Laura Antonelli di stordente sensualità) perché invaghito di lei (in realtà, si scoprirà alla fine, il vero oggetto del desiderio era la di lei madre novantenne). Ma il Teatro resta e resterà fino alla fine il suo vero amore: <<Il cinema è un’operazione commerciale e l’attore resta sempre un po’ marionetta. Mentre il Teatro è vita, è come mangiare, dormire, amare>>
PAOLA BORBONI
E sulle tavole del palcoscenico costruisce una carriera leggendaria passando con disinvoltura da Sofocle a Marco Praga, da Rosso San Secondo a d’Annunzio, da Diego Fabbri a George Bernard Shaw, da Garcia Lorca a Ugo Betti, Giuseppe Dessì. Ci furono allestimenti che fecero epoca come quando dà vita ad una immensa Elettra nella “Orestiade” di Eschilo accanto ad un’icona come Maria Melato, o quando appare nelle vesti della Clitemnestra alfieriana in un allestimento memorabile accanto a Ruggero Ruggeri, Gasmann, Rina Morelli e Mastroianni o quando fornirà una magistrale interpretazione ne “L’anima buona di Sezuan” di Bertold Brecht per la regia di Strehler. È poliedrica e aperta alle novità (sarà lei, con intelligente lungimiranza, a imporre Pinter in Italia) interpretando ardui autori come Ionesco e Beckett. Non si risparmia, ha energia ed entusiasmo e calca il palcoscenico in tutta la sua prismatica bellezza, in tutte le sue istrioniche forme: commedia, dramma, cabaret, operetta. È superlativa in tutti i ruoli, una primadonna nata, un vero animale da palcoscenico. Dal 1954 al 1968 stupisce il pubblico con un suo personale one woman show: portare in scena sette recital, formati da cinque monologhi ciascuno, che lei inscrive in un ambizioso progetto teatrale di madri, zitelle e donne sole al tramonto, dove, prima e sola in Italia, interpreta una serie di testi di autori italiani tra cui Bacchelli, Alvaro, Savinio, Buzzati e l’immancabile Pirandello. Riuscirà a metterne in scena solo cinque dei sette programmati, con un successo incredibile corredato da premi e riconoscimenti prestigiosi. Per rinforzare la memoria, scrive e riscrive le battute del copione su un foglio: <<venti, trenta volte, così non le dimentico più>>, fedele ad un metodo utilizzato dai grandi attori dell’Ottocento, come ad esempio Ruggiero Ruggieri, dal fisico statuario e dalla voce stentorea, grande interprete dei drammi dannunziani, con il quale recitò spesso a Teatro.
PAOLA BORBONI
Ci fu un altro memorabile compagno di scena che divenne anche compagno di vita, Salvo Randone, più giovane di lei di sei anni, ma più saggio e ponderato di lei che rimarrà una capricciosa, irresistibile bambina anche a novant’anni. Restano insieme per molti anni e si lasceranno malamente quando lui, chiamato in qualità di primo attore da Paolo Grassi, abbandona di colpo la compagnia teatrale e approda al Piccolo Teatro di Milano. Paola non glielo perdonerà. Sa essere rancorosa, caustica e anche vendicativa, all’occorrenza. Ha un brutto carattere, dicono i colleghi: autoritaria, perfida, velenosa, aggressiva, persino antipatica. Lei lo sa e non fa nulla per cambiare. Le sue liti sono leggendarie, le sue battute al vetriolo, le sue invettive taglienti. Ne hanno fatto le spese molti attori, ma l’alterco più clamorosa avvenne con Rascel con cui nel 1968 al Sistina di Roma Paola è in scena nella commedia musicale “Venti zecchini d’oro” scritta da Pasquale Festa Campanile per la regia di Zeffirelli. Fra lei e il piccoletto non corre buon sangue; sono entrambi polemici e puntigliosi e gli attriti sono quotidiani. Per fargli dispetto, conoscendo la puntualità e la professionalità di Rascel, arrivava sempre con un regale ritardo, portandolo all’esasperazione. Una culmine di una vibrante discussione Rascel, inviperito, le gridò: <<Vecchia! Sei vecchia! Vecchia!>> e lei, acuminata come un ago: <<Sono vecchia, sì, ma sono stata giovane e bella. Tu alto, mai!>>
PAOLA BORBONI
Sempre al Sistina nel 1972 applausi per lei a scena aperta nelle vesti di Cecilia Patterson in “Ciao Rudy” accanto ad Alberto Lionello, Mita Medici e Giusi Raspani Dandolo. Anno memorabile quel 1972: mette in atto uno dei suoi coup de théâtre meglio riusciti: sposa Bruno Villaraggio, in arte Bruno Vilar, uno sconosciuto artista (mimo, poeta e pittore) di trent’anni anni, ossia quarantadue meno di lei. Al matrimonio lei appare vezzosa e maliziosa, lui intimidito e innamoratissmo. La pubblica opinione irride e deride, le riviste di gossip raggiungono tirature record grazie a questa coppia sbilenca in cui lei, intelligente e autoironica, lo presenta in pubblico non come marito, ma come il mio futuro vedovo. Ma il destino è bislacco e le riserva un’atroce messa in scena: il 23 giugno 1978 lei e il marito sono in viaggio. Ad un tratto lo schianto, esiziale: Bruno muore, lei, a settantotto anni riemerge dalla carcassa accartocciata dell’auto, malconcia, ma pervicacemente viva. Ha varie fratture, ma sopravvive, seppure con il cuore che le scoppia dal dolore. <<Io l’ho sposato perché mi chiudesse gli occhi. La cosa orrenda è che poi è morto lui e io non finirò mai di piangerlo>> racconterà in un’intervista. È distrutta dentro, ma riemerge, ancora una volta, grazie al Teatro. Dopo quell’incidente rimarrà claudicante per sempre, ma non demorde. Sarah Bernhardt in fondo aveva continuato a recitare con una gamba amputata, figuriamoci se lei si arrende per una zoppìa seppure vistosa. E pazienza se dovrà usare le stampelle anche quando è in scena: non se ne vergogna, non le occulta, anzi, le riveste di stoffe damascate e sgargianti, per stupire, come sempre.
PAOLA BORBONI
La televisione l’acclama e a “Portobello”, l’indimenticato programma condotto dall’inarrivabile Enzo Tortora, riesce persino a far parlare il pappagallo, da sempre chiuso in un ostinato mutismo, nonostante centinaia di ospiti, anche illustri, c’abbiano provato. Arriva lei, elegantissima come sempre con il suo amato turbante e l’occhio birbante di sempre e quel dispettoso pappagallo la prende in simpatia e le risponde: anche lui, insomma, si inchina alla regina delle scene Paola Borboni. A ottant’anni si innamora, corrisposta di un uomo di quaranta: il regista Fabio Battistini. La vita insomma continuava per lei anche a quella veneranda età fra tenerezze, interviste, comparsate, ricordi e palcoscenico. Sì, ancora il palcoscenico. A 93 anni va in scena per l’ultima volta con il suo amato Pirandello: “Il berretto a sonagli” e poi l’anno si ritira in una casa di riposo a Bodio Lomnago vicino Varese. Ma in fondo non lascia del tutto le scene, non ne è capace: nelle malinconiche sere dell’ultima stagione della sua vita reciterà ancora per gli adoranti ospiti di quel ricovero e li delizierà citando le sue celebri battute, <<posso andare d’accordo con un cattivo, con un cretino no>> o la risposta famosissima che diede ad un’impertinente quanto sciocca giornalista, <<Signora, i denti sono suoi?>> <<Certo cara, li ho pagati>>), o raccontando gli aneddoti più divertenti della sua vita.
PAOLA BORBONI
Uno lo ripeteva spesso e ne rideva anche lei, ossia quella volta che Salvo Randone, una notte in cui erano in viaggio in treno insieme, e lei aveva la luna di traverso e non la finiva più di rompere gli zebedei, esasperato, approfittò di un rallentamento del treno per buttarsi giù, senza valigia, senza meta, in piena campagna. Quando le chiedevano quali fossero le doti indispensabili per essere vincenti in quel mestiere che lei portò avanti per ben 76 anni, rispondeva con un sorriso: <<Per fare l’attrice ci vuole fascino, morbidezza, attrazione fisica, morale e psichica. Ma ci vuole anche molta generosità per essere una e cento persone. E poi molta fantasia.>> Il sipario si chiuse definitivamente per lei il 9 aprile 1995. Sul prato dell’ospizio, in quella giornata piena di sole, ci fu una danza policroma di farfalle e di petali.
MUSINI DANIELA- Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia
Daniela Musini-Tratto dal mio libro Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia (Piemme) Ps: Sereno e luminoso 2023 a tutti Voi
Richard Wagner-Tristano e Isotta(Tristan und Isolde)
dramma musicale su libretto dello stesso compositore
Tristano e Isotta (Tristan und Isolde) è un dramma musicale di Richard Wagner, su libretto dello stesso compositore. Costituisce il capolavoro del Romanticismo tedesco e, allo stesso tempo, è uno dei pilastri della musica moderna, soprattutto per il modo in cui si allontana dall’uso tradizionale dell’armonia tonale.
Richard Wagner-Tristano e Isotta (Tristan und Isolde)
Richard Wagner
Richard Wagner-Tristano e Isotta (Tristan und Isolde)
La trama è basata sul poemaTristan di Gottfried von Straßburg, a sua volta ispirato dalla storia di Tristano raccontata in lingua francese da Tommaso di Bretagna nel XII secolo. Wagner condensò la vicenda in tre atti, staccandola quasi completamente dalla storia originale e caricandola di allusioni filosofiche di stampo schopenhaueriano.
Decisivo per la stesura dell’opera fu l’amore intercorso tra il musicista e Mathilde Wesendonck (moglie del suo migliore amico), destinato a restare inappagato. Wagner era ospite dei Wesendonck a Zurigo, dove ogni giorno Mathilde poteva ammirare pagina per pagina l’evolvere della composizione. Trasferitosi a Venezia per fuggire lo scandalo, Wagner si ispirò alle notturne atmosfere della città lagunare, dove scrisse il secondo atto e dove attinse l’idea per il preludio del terzo. Scrisse Wagner nella sua autobiografia:
«In una notte d’insonnia, affacciatomi al balcone verso le tre del mattino, sentii per la prima volta il canto antico dei gondolieri. Mi pareva che il richiamo, rauco e lamentoso, venisse da Rialto. Una melopea analoga rispose da più lontano ancora, e quel dialogo straordinario continuò così a intervalli spesso assai lunghi. Queste impressioni restarono in me fino al completamento del secondo atto del Tristano, e forse mi suggerirono i suoni strascicati del corno inglese al principio del terz’atto.»
Terminato a Lucerna nel 1859, Tristano venne inizialmente proposto al teatro di Vienna, dove però fu respinto in quanto giudicato ineseguibile. Dovettero trascorrere ben sei anni prima che il dramma potesse essere rappresentato per la prima volta al Koenigliches Hof- und National- Theater (Opera di Stato della Baviera) di Monaco di Baviera il 10 giugno 1865, diretta da Hans von Bülow con Ludwig e Malwina Schnorr von Carolsfeld nelle parti dei due protagonisti, e con il concreto sostegno del re Ludwig II.
La critica dell’epoca si divise tra coloro che videro in quest’opera un capolavoro assoluto e quelli che la considerarono una composizione incomprensibile. Tra questi ultimi figura il critico austriaco Eduard Hanslick, noto per le sue posizioni conservatrici in ambito musicale. Fu proprio l’atteggiamento di Hanslick a fornire a Wagner l’idea per il personaggio di Sixtus Beckmesser ne I maestri cantori di Norimberga.Il cosiddetto “accordo del Tristano“, che apre la partitura.Una copia del manoscritto originale . Finale.
Al Teatro alla Scala di Milano, il 29 dicembre 1900, andò in scena nella traduzione italiana di Boito ed Angelo Zanardini con la direzione di Arturo Toscanini. Nel 1902 avvenne la prima rappresentazione in concerto nel Théâtre du Château-d’Eau di Parigi di “Tristan et Isotte” nella traduzione francese di Alfred Ernst.
Musica
Nella musica del Tristano si è voluta vedere un’anticipazione del futuro.[1] Servendosi dell’uso ossessivo del cromatismo e della tecnica della sospensione armonica, Wagner ottiene un effetto di suspense che dura per tutto il corso dell’azione. Le cadenze incomplete del preludio non vengono risolte fino alla fine del dramma, che si chiude col canto di amore e morte di Isotta (Liebestod). Come dice il critico Rubens Tedeschi, il linguaggio musicale del Tristano deve farsi infinitamente duttile per dipingere – oltre il pochissimo che accade – il moltissimo che viene alluso. Il Leitmotiv deve quindi smussare la propria nettezza melodica a favore della massima incertezza. In questo sbiadire dei contorni melodici si insinua l’allentamento dei rapporti armonici, come l’ombra notturna dei due amanti contribuisce all’ambiguità dei significati. È una sorta di ondeggiamento perpetuo simile al movimento del mare. Hanslick stroncò il valore della partitura affermando che “contiene della musica ma non è musica” e denunciando “il fumo dell’oppio suonato e cantato”. Lo stesso Wagner, in una lettera a Mathilde Wesendonck, definì il proprio lavoro “qualcosa di terribile, capace di rendere pazzi gli ascoltatori”.
Particolarmente impressionanti per la loro modernità – al limite della dodecafonia – sono le variazioni del tema del Filtro d’amore e della Canzone mesta del pastore, a metà del terzo atto, che accompagnano il protagonista nella sua delirante allucinazione. Il cromatismo e il prevalere dell’armonia sulla melodia appaiono già evidenti fin dalle prime battute del preludio (tema del Desiderio). Carl Dahlhaus definisce queste battute come una serie informe e insignificante di intervalli se non fosse per gli accordi che sorreggono e determinano la condotta melodica. La condotta armonica del tema del Desiderio (ossia il famoso “accordo del Tristano”) acquista carattere motivico in proprio. Allo stesso modo, il motivo del Destino deve la sua inconfondibile fisionomia non tanto alla condotta melodica quanto al collegamento con una successione di accordi che ha l’evidenza inquietante dell’enigma. In altre parole, la condotta armonica (che se ascoltata autonomamente non avrebbe senso) scaturisce nel rapporto che intercorre tra il motivo melodico del tema del Destino e un contrappunto cromatico a suo modo integrato nel motivo stesso: affiora l’idea paradossale di un “motivo polifonico”.[2]
La prima rappresentazione del Tristano nel 1865 ebbe un effetto non indifferente sul pubblico dell’epoca. Rubens Tedeschi segnala che l’estetica del decadentismo europeo nacque in quel momento, sebbene all’interno di un processo che sarebbe accaduto anche senza il diretto intervento di Wagner. La “valanga intellettuale” investì letterati, pittori e musicisti preparando la ribellione della avanguardie novecentesche. Valgono tra tutte le parole di Giulio Confalonieri:
«Tristano non ha soltanto soddisfatto una sete e placato una febbre ormai brucianti nell’umanità intera, ma altresì infettato la musica di un bacillo che nulla, nemmeno le più moderne penicilline, sono ancor riuscite ad eliminare del tutto.»
Interpretazione
Wagner all’epoca del Tristano.
Si dice spesso che nel Tristano Wagner abbia voluto mettere in scena la filosofia di Schopenhauer. In effetti, in una lettera spedita a Franz Liszt nel dicembre del 1854, Wagner scrisse che l’incontro col grande filosofo gli aveva rivelato un “accorato e sincero desiderio di morte, la piena incoscienza, la totale inesistenza, la scomparsa di tutti i sogni, unica e definitiva redenzione”. Ma (come nota il critico Petrucci nel suo Manuale wagneriano), se così fosse, Tristano e Isotta avrebbero saputo dominare la loro passione. Schopenhauer insegna che per raggiungere la serenità occorre accettare la sofferenza e rassegnarsi alla concezione pessimistica dell’impossibilità del desiderio. Tristano è invece letteralmente divorato dal desiderio. L’esaltazione della notte – cantata per tutto il secondo atto come brama irrisolta di fuggire la luce del giorno e con essa la vacuità del reale – trova nella morte la sua naturale conseguenza in quanto liberazione. Una liberazione, dunque, non pessimistica rinuncia ma simbolo (per metà ascetico, per altra metà panteistico) di unione cosmica. Per questo motivo, Tristano era addirittura venerato dal filosofo Nietzsche, anche in virtù delle sue ideologie dell’ateismo: “Vorrei immaginare un uomo capace di ascoltare il terzo atto del Tristano senza il supporto del canto, come una gigantesca sinfonia, senza che la sua anima esali l’ultimo respiro in un doloroso spasimo”.
Schopenhauer e la filosofia della pace dei sensi saranno piuttosto trattati nel mistico Parsifal, che decretò l’allontanamento di Nietzsche dalla concezione wagneriana. A proposito del presunto ateismo del Tristano, vale la pena di segnalare un’osservazione di Antonio Bruers: “A chi giudicasse esagerato l’uso della parola ateo, dobbiamo rilevare un fatto che non si discute: in tutto il Tristano non è mai nominato Dio.”
Un altro dubbio circa il legame con Schopenhauer arriva da Thomas Mann: “Tristano si rivela profondamente legato al pensiero del Romanticismo e non avrebbe avuto bisogno di Schopenhauer come padrino. La notte è il regno di ogni romanticismo; scoprendola esso ha sempre identificato in lei la verità, in contrasto con la vaga illusione del giorno, il regno del sentimento in antitesi a quello della ragione”.
In effetti Tristano racchiude in sé la percezione di un mondo misterioso e fantastico in cui esprimere la propria “eterna eccezionalità”; racchiude l’inconsapevole ricordo di eventi passati e fondamentali; racchiude l’individuo che per comprendersi si isola dalla società. Cos’altro simboleggiano, per esempio, i favolosi castelli che Ludwig II eresse tra i monti della Baviera? Lo stesso Ludwig che, un’ora dopo aver assistito alla prima rappresentazione, decise di ritirarsi da solo nella notte, cavalcando nel bosco in preda ad una fortissima emozione. Allo stesso modo farà Zarathustra di Nietzsche, che per ritrovare se stesso si ritira sulla cima di una montagna. Siamo già molto lontani dall’eroe medievale del soggetto originale. L’eroe è stato trasferito dalla dimensione dell’amore cortese alla tenebrosa atmosfera degli Inni alla notte di Novalis.
Del resto, come sempre capita in Wagner, non è possibile non rintracciare alcune latenti allusioni politiche che tanto fecero discutere in seno alla Tetralogia. Già il poeta Hölderlin aveva decantato la “grande missione” della Germania, situata al centro dell’Europa e considerata come il “cuore sacro dei popoli”. In questa direzione, Tristano e Isotta potrebbero forse simboleggiare la verità intima che la forza del filtro magico ha saputo rivelare contrapponendola al resto del mondo, all’apparenza delle convenzioni sociali. Tali allegorie (che in futuro avrebbero contagiato pericolosamente la politica intesa come purezza dello spirito tedesco) si associano però al costante desiderio di annullamento nutrito dai protagonisti. Il loro desiderio non è deputato a risolversi nell’opulenza della vita materiale ma in un’altra dimensione, simbolo metafisico della vita più autentica e segreta. Questo è il vero dramma dei due amanti: l’impossibile conciliazione della dicotomia in cui sono costretti a vivere, divisi come sono tra anima e corpo, tra essenza e apparenza, come rivela il tormento allucinato di Tristano nel terzo atto, mirabilmente reso nell’incisione discografica di Wilhelm Furtwängler.
Tristano e Isotta non vivono un amore normale ostacolato dalle avversità come accade in Romeo e Giulietta, bensì inappagabile per sua stessa natura, condannato a vivere nel finito e soddisfabile solo nella morte. È la verità più profonda che gli amanti avrebbero taciuto reprimendola nel subcosciente. Non c’è da stupirsi, quindi (anche se per altri comprensibili motivi) che Cosima Wagner ironizzò riguardo l’amore intercorso tanti anni prima tra suo marito e Mathilde Wesendonck. Nel suo libro La mia vita a Bayreuth, Cosima scrisse: “Poverina, si spaventerebbe se sapesse cosa c’è nel Tristano!”
Trama
Antefatto
Per liberare la Cornovaglia da un ingiusto tributo imposto dagli irlandesi, Tristano ha ucciso il cavaliere Morold, patriota irlandese e fidanzato della principesse Isotta, figlia del re d’Irlanda. Ferito durante il combattimento, viene amorevolmente curato dalla stessa Isotta, la quale non conosce la sua identità. Soltanto il ritrovamento di un frammento della spada le fa capire di trovarsi davanti all’assassino del suo uomo; allora lo risparmia, facendosi promettere di sparire per sempre dalla sua vita. In seguito, Tristano infrange il giuramento e ritorna per portarla in sposa al Re di Cornovaglia, come pegno di riconciliazione tra i due paesi.
Atto I
Scena 1ª
La voce di un giovane marinaio si alza dal ponte di un vascello:
“Verso levante muove la nave, soffia il vento verso il nostro paese: e tu, bimba irlandese, dove rimani?…”
In rotta verso l’Inghilterra, Isotta sfoga la sua rabbia contro il giovane Tristano, cui la lega un confuso sentimento di amore e di odio. Lo fa chiamare affinché la venga a trovare ma Tristano, turbato, risponde di non poter abbandonare il timone della nave.
Scena 2ª
Isotta ricorda il passato, racconta alla sua ancella Brangania di essersi affezionata a un misterioso guerriero di nome Tantris, il giovane rimasto ferito nella battaglia, che lei raccolse curandone le ferite. In realtà, Tantris era Tristano, che presentandosi sotto falso nome era riuscito a scampare alla vendetta di Isotta grazie al suo sguardo supplicante.
“Con lucida spada mi presentai davanti a lui, per vendicare la morte di Morold. Dal suo giaciglio egli mi guardò: non sulla lama, non sulla mano, ma sui miei occhi egli alzò lo sguardo. Con mille giuramenti mi promise lealtà eterna ed ebbi pietà per la sua pena. Ma ben altro sfoggio fece Tristano di ciò che in me celavo. Colei che tacendo gli ridava la vita, colei che tacendo lo salvava dall’odio, tutto egli ha messo in mostra! Borioso del successo, mi ha additata quale preda di conquista. Sii maledetto, infame!…”
Reprimendo l’amore che li unisce, Isotta vorrebbe uccidersi con lui per cancellare l’affronto.
Scena 3ª
Tristano arriva e, in un impeto di rabbia, accetta di sacrificarsi con onore.
“La signora del silenzio, silenzio a me impone. Se comprendo ciò che ha taciuto, taccio ciò che non comprende.”
Entrambi credono di bere un potente veleno ma Brangania ha sostituito il veleno con un filtro d’amore. Nell’orchestra, ricompaiono i temi del Desiderio e dello Sguardo, che erano già apparsi nel preludio strumentale. Il loro sentimento si rivela con forza alla realtà, ogni incomprensione svanisce e il mondo circostante non ha più alcun significato. Quando lo scudiero di Tristano, Kurwenald, giunge ad avvertire dell’imminente incontro col Re, Tristano risponde: “Quale re?” ormai del tutto ignaro di ciò che sta avvenendo. Nel momento in cui la nave approda nel porto, Tristano e Isotta si gettano l’uno nelle braccia dell’altro.
Atto II
Scena 1ª
Nel giardino del castello di re Marke, durante la notte, Isotta attende l’arrivo di Tristano. Brangania la avverte del pericolo che stanno correndo, sapendo che Melot, amico di Tristano, ma innamorato segretamente di Isotta, potrebbe rivelare al Re l’amore clandestino della coppia. Isotta non le crede. Tristano si precipita in scena con un abbraccio travolgente.
Scena 2ª
Incomincia la lunga notte dei due innamorati che è la vera protagonista del dramma, è l’oscurità che circonda i due amanti e li riassorbe in un’originaria, individuale armonia. Dice Isotta:
“Chi là segretamente celai, come mi parve malvagio quando, nello splendore del giorno, l’unico fedelmente amato sparve agli sguardi d’amore, e quale nemico s’erse dinnanzi a me! Trascinarti voglio laggiù, con me nella notte, dove il mio cuore mi promette la fine dell’errore, dove svanisce la follia del presentito inganno.”
Dice Tristano:
“Su noi discendi, notte arcana! Spargi l’oblio della vita!… Quel che là nella notte vegliava cupamente richiuso, quel che, senza sapere e pensarci, oscuramente concepii – l’immagine che i miei occhi non osavano osservare, ferita dalla luce del giorno – mi si rivelò scintillante.”
”Gloria al filtro e alla sua forza! Mi dischiuse le vaste porte dove solo in sogno ho soggiornato. Dalla visione celata nel segreto scrigno del cuore, esso cacciò lo splendore ingannevole del giorno, sì che il mio orecchio, penetrando la notte, potesse vederla davvero.
“Chi amoroso osserva la notte della morte, a chi essa confida il suo profondo mistero: la menzogna del giorno, fama e onore, forza e ricchezza, come vana polvere di stelleinnanzi a lui svanisce!…Fuor dal mondo, fuor del giorno, senza angosce, dolce ebbrezza, senza assenza, mai divisi, soli, avvinti, sempre sempre, nell’immenso spazio!..”
Ma nel momento più impetuoso della passione, quando le voci e la musica vengono sospinte dal motivo della Felicità, improvvisamente l’incanto si spezza. Arrivano il Re, Melot e i cortigiani del castello, che circondano inorriditi la coppia degli amanti. Il tema musicale del Giorno avverso invade la scena. Sorge l’alba.
Scena 3ª
Melot, tradendo Tristano, presenta al Re la sua vittima. Il magnanimo re Marke si perde allora in un lungo monologo cantato sul tema del Cordoglio, addolorato per il comportamento di Tristano e rievocando le vicende che li unirono in passato.
“A me, questo? Perché? Chi mi è fedele, se il mio Tristano mi tradì?… Se non c’è redenzione, chi può spiegare al mondo tale cupo immenso abisso?…”
Ma Tristano, come trasognato, non può fornire alcuna spiegazione. “Ciò che tu domandi non potrai mai comprendere”, e si volge quindi verso l’amata:
“Dove ora Tristano s’avvia, vuoi tu seguirlo, Isotta? È terra buia, muta, da cui mia madre m’inviò, quando mi partorì dal regno della morte…”
Mentre Isotta lo bacia, Melot incita il Re a reagire. Tristano sfida l’amico a duello e si lascia cadere sulla sua spada. Cade ferito tra le braccia di Kurwenald.
Atto III
Scena 1ª
Il castello di Tristano nel terzo atto.
Tra le rovine del suo castello, accudito dal fedele Kurwenald, Tristano riprende lentamente conoscenza. Ferito nel corpo e nell’anima, egli ha delle allucinazioni. Ciò che desidera gli è negato e il pensiero di Isotta, simbolo di quel desiderio, lo travolge. Immobile sul letto la cerca, in preda al delirio la invoca:
“Kurwenald, non la vedi?!”
Ma l’orizzonte del mare è completamente vuoto. Tristano, allora, maledice il filtro magico che gli rivelò l’amore e la verità:
“Il terribile filtro, che m’ha votato al tormento, io stesso l’ho distillato! Nell’affanno del padre, nel dolore della madre, nel riso e nel pianto, ho trovato i veleni del filtro!”…
Sono pagine molto drammatiche, dove la musica rompe definitivamente con la tonalità tradizionale anticipando per la prima volta il sistema dodecafonico. Ma intanto la nave di Isotta è apparsa davvero all’orizzonte, salutata da un’allegra cantilena del corno inglese. Tristano è fuori di sé dalla gioia. Egli segue l’arrivo del veliero e manda Kurwenald a ricevere l’amata. Rimasto solo, si strappa le bende della ferita e si alza in piedi sanguinante:
“O sangue mio, scorri giulivo!… Lei, che un dì mi guarì le ferite, a me s’avvicina per salvarmi!… Possa il mondo perir, dinnanzi alla mia esultante fretta!”…
Isotta entra in scena. Sulle grandi note del tema del Giorno avverso, i due amanti si abbracciano. Sul tema dello Sguardo, Tristano esala l’ultimo respiro.
Scena 2ª
Mentre Isotta piange la morte di Tristano, un’altra nave approda al castello. Si tratta di re Marke che, venuto a conoscenza del filtro magico e dell’inevitabile verità, è accorso con Melot a chiedere perdono. Ma Kurwenald, furibondo per la morte del suo padrone, si scaglia contro di lui. Appena Melot arriva lo uccide in un colpo; resta ferito a sua volta e muore egli stesso accanto al corpo di Tristano. Il Re, addolorato, cerca di spiegarsi con Isotta ma lei, ormai, non lo ascolta più. Nel suo canto supremo, Isotta invoca la celebre Liebestod, la “morte d’amore” che riunirà i due amanti:
“Son forse onde di teneri zeffiri? Son forse onde di voluttuosi vapori? Nel flusso ondeggiante, nell’armonia risonante, nello spirante universo del respiro del mondo, annegare, inabissarmi, senza coscienza, suprema voluttà!”
Sulle note della Felicità, Isotta cade trasfigurata sul corpo di Tristano. Il Re benedice i cadaveri. Si chiude lentamente il sipario.
Descrizione del libro di Giuseppe Berto- Il brigante -Nel 1951, l’anno in cui pubblica Il brigante, Berto è già uno scrittore affermato. I due libri precedenti, Il cielo è rosso e Le opere di Dio, composti nell’isolamento del campo di prigionia di Hereford e apparsi tra il 1947 e il 1948, erano stati accolti favorevolmente in Italia e all’estero, dove la stampa non aveva mancato di accostare lo scrittore ai maestri del neorealismo cinematografico italiano. Con Il brigante, Berto decide dunque di rendere aperto omaggio al romanzo al cui centro vi siano scottanti problemi sociali – dirà successivamente di aver scritto un libro «marxista» –, alla maniera dei narratori che, come mostra Gabriele Pedullà nello scritto che accompagna questa edizione, orbitano, in quella stagione letteraria, «attorno a Elio Vittorini e si riconoscono genericamente in un movimento neorealista dalle molte facce diverse». Traendo ispirazione da un fatto di cronaca, Berto narra la vicenda di Michele Renda, giovane reduce di guerra che, tornato nel villaggio natio tra i monti della Calabria, ingiustamente accusato di omicidio, si dà alla macchia e diventa un brigante. Una storia che consente all’autore del Cielo è rosso di porre in risalto «il conflitto assoluto di Bene e di Male, lo scandalo della virtú perseguitata, la riscossa delle vittime innocenti» (Gabriele Pedullà), e di comporre pagine particolarmente felici sulla vita delle campagne calabresi in un momento di radicale trasformazione. Come, tuttavia, Berto farà notare nella prefazione all’edizione del 1974, Il brigante non è un romanzo interamente ascrivibile al neorealismo, al movimento culturale, cioè, che mirava alla «rigenerazione morale del paese» e al «raggiungimento d’una decente giustizia sociale». Michele Renda, il suo protagonista, è un «sorpassato», un uomo «indissolubilmente legato al mondo arcaico dell’odio, del tradimento, della vendetta» e la comunità in cui si muove, animata da dicerie, è quanto di piú lontano dal grande mito della «comunità organica». In realtà, gli elementi psicologici propri della scrittura di Berto, quelli che troveranno la loro massima espressione nel Male oscuro, sono già presenti in questo romanzo in cui un eroe, estraneo e irriducibile al suo mondo, è mosso da un universo interiore nel quale bene e male sono divisi soltanto da un esile filo. Nel 1961, Renato Castellani trasse dal Brigante un film giudicato da Berto il migliore di tutti i film tratti dai suoi romanzi, e dalla critica odierna un capolavoro della cinematografia italiana.
Giuseppe Berto
RECENSIONI
«Uno dei piú belli e tragici romanzi che siano apparsi da anni, veramente un piccolo capolavoro». Time Magazine
«Volgendosi “in presa diretta” alla Calabria piú povera e afflitta, Il brigante ripete il gesto compiuto da Berto nei primi due romanzi, dove campeggiano le distruzioni della guerra, ma il senso dell’operazione è diverso perché questa volta Berto ambisce consapevolmente a iscriversi nella letteratura impegnata del periodo». Gabriele Pedullà
Giuseppe Berto
Breve biografia di Giuseppe Berto nasce a Mogliano Veneto il 27 dicembre 1914. Nel 1947 pubblica presso Longanesi Il cielo è rosso, su segnalazione di Giovanni Comisso. Tra il 1955 e il 1978, anno in cui si spegne a Roma, dà alle stampe, oltre al Male oscuro (Neri Pozza, 2016), Guerra in camicia nera e Oh Serafina!. Con Neri Pozza sono stati ripubblicati La gloria (2017) e Anonimo veneziano (2018), per restituire all’apprezzamento dei lettori e della critica odierna l’opera di uno dei grandi autori del nostro Novecento.
Torri in Sabina (Rieti)- Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio : Studio del sistema idraulico sotterraneo –
Torri in Sabina (Rieti)– Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio, Avvio delle nuove indagini “Studio del sistema idraulico sotterraneo dell’antico municipio romano”. Il Gruppo ha ripreso le attività di ricerca nell’area archeologica di Vescovio, nel territorio del Comune di Torri in Sabina.
Il progetto, condotto sotto la direzione della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e la provincia di Rieti, è finalizzato allo studio del sistema di adduzione e deflusso delle acque dell’antico municipio romano di Forum Novum.
Le ricerche, in corso da diversi anni, hanno già portato alla scoperta di un cunicolo idraulico di epoca romana, attribuito all’acquedotto fatto realizzare da Publio Faiano.
L’obiettivo attuale è approfondire lo studio delle strutture ipogee ancora inesplorate, concentrandosi su pozzi, cunicoli e ambienti sotterranei collegati all’assetto idraulico del sito.
Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio-Foto di Cristiano Ranieri
Indagini in un’area finora inesplorata
Gli speleologi stanno operando in una zona del foro mai indagata dal punto di vista speleo-archeologico. La dott.ssa Nadia Fagiani, della Soprintendenza, sottolinea l’importanza di queste ricerche per comprendere le diverse fasi di sviluppo del municipio romano.
La presenza di numerosi elementi idraulici suggerisce un sistema complesso di gestione delle acque, che potrebbe fornire nuove informazioni sull’urbanistica e sull’organizzazione funzionale del sito.
L’uso della tecnologia Lidar permetterà di ottenere una mappatura tridimensionale dettagliata delle strutture sotterranee, mettendole in relazione con le evidenze murarie e gli ambienti di superficie.
Questo approccio consentirà di ricostruire il funzionamento del sistema idrico e di identificare eventuali ulteriori strutture non ancora documentate.
Partecipanti alla prima fase delle ricerche
Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio-Foto di Cristiano Ranieri
Alla prima fase della nuova campagna di studio hanno preso parte Giorgio Filippi, Arianna Armeni, Giorgio Pintus, Giovanna Politi, Alessandro Cardinale, Fabrizio Marincola, Michele Marinelli, Giulia Petroni, Giacomo Frongia, Maria Fierli, Maria Piro, Simone Del Cavallo e Cristiano Ranieri. Il gruppo proseguirà nei prossimi mesi con ulteriori esplorazioni e rilievi, al fine di acquisire dati utili alla ricostruzione del sistema idraulico di Forum Novum.
Foto di Cristiano Ranieri
Logo-Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio-Foto di Cristiano Ranieri
l Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio nasce a Salisano, un piccolo paese della provincia reatina, nel dicembre del 1993. Tra il 1994 ed 1997 il Gruppo ha svolto ricerche paletnologiche nel territorio sabino scoprendo e valorizzando numerosi siti preistorici sia in grotta che lungo i crinali dei Monti Sabini. Alcuni dei reperti paletnologici rinvenuti sono oggi conservati ed esposti al Museo Protostorico di Magliano Sabina. Dal 1997 proseguono senza sosta le esplorazioni e le ricerche di testimonianze preistoriche nelle grotte del territorio sabino tra cui Grotta Scura nel comune di Castelnuovo di Farfa e la Grotta Pila nel comune di Poggio Moiano oggetto quest’ultima di indagini negli anni ’50 da parte del Prof. Aldo Segre. Lungo il costone di Battifratta a Poggio Nativo, il Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio ha scoperto nuove cavità naturali al cui interno sono stati rinvenuti reperti ceramica di epoca protostorica. Dal 1997 il Gruppo ha avviato un’intensa collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio per la tutela e salvaguardia delle cavità naturali e degli ipogei antichi di origine antropica esplorando e scoprendo nuove cavità naturali al cui interno vengono rinvenuti reperti di epoca romana riferibile al culto della dea Vacuna. Resti ceramici di epoca romana vengono individuati e recuperati per la prima volta dal Gruppo anche nella Grotta Formicara a Scandriglia e nella Grotta Grande di Muro Pizzo a Monteleone Sabino. Inoltre il Gruppo scopre nuove cavità naturali tra cui la Risorgenza delle Venelle sempre a Monteleone Sabino e la Grotta Arocaro a Salisano al cui interno sono stati recuperati reperti archeologici di epoca romana. I risultati delle ricerche vengono pubblicati su riviste e bollettini del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Le indagini sono ancora in corso sotto la direzione scientifica della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio. Dal 1999 il gruppo si sta occupando della revisione dei dati catastali delle cavità naturali presenti in Sabina con aggiornamenti topografici del territorio. Nel 1997 il Gruppo avvia le prime ricerche di speleologia urbana in Sabina che si rivela essere un territorio ricco di cavità artificiali, in particolare cunicoli e acquedotti di epoca preromana. Le esplorazioni e le scoperte di nuovi ipogei artificiali sono ancora in corso. Dal 2002 il Gruppo inizia a collaborare con la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Roma con ricerche speleologiche negli ipogei di Roma e nel territorio circostante. Nel 2003 viene portato a termine l’esplorazione completa del Colosseo e l’anno seguente iniziano le prime ricerche speleologiche lungo le pendici nord-orientali del Palatino. Dal 2005 il Gruppo inizia lo studio sistematico di tutto il sistema idraulico sotterraneo del Foro Romano. Le ricerche sono ancora in corso. Il Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio organizza annualmente campi speleo e corsi di speleoarcheologia. Collabora con la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, con il Dipartimento di Archeologia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e con numerosi enti ed università straniere. Ha preso parte inoltre alla realizzazione di documentari e programmi tv partecipando a convegni sia in Italia che all’estero.
Il Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico (CNSAS) è una struttura operativa del Club Alpino Italiano, dotata di un proprio atto costitutivo, uno statuto e un regolamento generale, approvati dall’assemblea nazionale che è l’organo sovrano di autogoverno. L’organizzazione è articolata in Servizi Regionali, coordinati da una direzione nazionale, alla quale fanno capo anche le scuole nazionali. Ogni servizio regionale si articola in Delegazioni (alpine) e Zone (speleologiche) che a loro volta sono costituite da più stazioni (alpine o speleologiche). Gli oltre 7000 operatori del CNSAS sono tutti alpinisti o speleologi di provata esperienza e capacità, in possesso delle nozioni di base di soccorso sanitario. La specifica preparazione e il costante aggiornamento sono la garanzia di un’elevata professionalità, che si esplica in caso di soccorso in ambiente disagiato, impervio od ostile. Il CNSAS interviene per tutti gli incidenti che possono verificarsi nel corso di attività escursionistiche o alpinistiche (sentiero, parete, cascata di ghiaccio, crepaccio ecc.), speleologiche (grotta), speleosubacquee (grotte allagate, laghi di montagna), torrentistiche (forra e canyon), in caso di calamità naturali (valanghe, alluvioni, terremoti ecc.), per arresto di impianti a fune (seggiovie, funivie ecc.), ma anche per eventi ordinari che si verificano in luoghi difficilmente raggiungibili dalle normali èquipes sanitarie. La regione Lazio ricade interamente nella V Zona di Soccorso Speleologico, all’interno della quale il CNSAS opera tramite il Soccorso Alpino e Speleologico del Lazio (SASL).
Il Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio ha sede a Salisano, un piccolo paese della Sabina in provincia di Rieti e a pochi chilometri da Roma. Passando al di sotto della Porta Calvina si accede all’antico borgo medievale di Salisano. Dalla piazza principale su cui si affaccia il municipio e la chiesa parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo, tre strade parallele ed unite tra di loro da vicoli traversi immettono alle antiche contrade comunali.
Percorrendo Via Umberto I°, la strada centrale, si giunge al “Perticolle”, ove un tempo sorgeva la Porta del Colle. Questa via era chiamata “Strada Dritta” ed indicava appunto la Contrada della Strada Diritta. Le altre due vie principali del paese sono Via degli Archi (Contrada dei Ponti) caratteristica per la presenza di ponti e case torri del 1300 e Via Regina Elena (Contrada dell’Olmo). Proprio a via degli Archi, nell’antica spezieria medievale del castello di Salisano, ha sede e si riunisce il nostro gruppo
Logo-Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio-Foto di Cristiano Ranieri
Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI” -copia anastatica della Rivista PAN n°3 -1934
Il Pittore Arturo TOSI
Arturo Tosi (Busto Arsizio, 25 luglio 1871 – Milano, gennaio 1956). Studia alla Scuola Libera di Nudo a Brera e poi, per due anni, con Adolfo Ferraguti-Visconti, formandosi nel clima della Scapigliatura sulle opere di Ottavio Ranzoni e Tranquillo Cremona. Nel 1891 esordisce alla Permanente di Milano. Nel 1909 partecipa, per la prima volta, alla Biennale di Venezia nella quale sarà presente fino al 1954; nel 1911, espone a Monaco di Baviera ed è presente all’Esposizione Internazionale di Roma. La conoscenza dell’opera di Cézanne, del 1920, lo indirizza verso la pittura del paesaggio en plein air. Nel 1924 partecipa a Bruxelles alla mostra L’Art ltalien au Cercle Artistique, nel 1925 è tra i fondatori della corrente artistica “Novecento”, partecipando alle mostre della Permanente a Milano nel 1926 e nel 1929. Nel 1926 espone a Brighton, nel 1927 a Zurigo, Lipsia, Amsterdam e Ginevra, nel 1929 a Berlino e a Parigi, nel 1930 a Basilea, Buenos Aires e Berna, nel 1931 a Stoccolma, Baltimora e Monaco, nel 1933 a Stoccarda, Kassel, Colonia, Berlino, Dresda e Vienna. Dal 1928, alla Permanente di Milano, è membro del comitato d’onore. Nel 1931 ottiene il premio della fondazione Crespi alla I Quadriennale di Roma e, a Parigi, il Grand Prix della pittura dove torna nel 1937, per partecipare all’Esposizione mondiale. Nel 1951 il Comune di Milano gli dedica una mostra antologica premiandolo con una medaglia d’oro. Alla sua morte, la Biennale di Venezia gli dedica una mostra commemorativa, esponendo sessanta opere.
Arturo TOSI, Pittore-Rivista PAN -1934Arturo TOSI, Pittore-Rivista PAN -1934 Articolo di Ugo OJETTI- Arturo TOSI Pittore-
Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI”Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI”Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI”Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI”Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI”Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI”Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI”Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI”Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI”Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI”Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI”
Biografia di
Ugo Ojetti
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Ugo Ojetti,Figlio della spoletina Veronica Carosi e del noto architetto Raffaello Ojetti, personalità di vastissima cultura, consegue la laurea in giurisprudenza e, insieme, esordisce come poeta (Paesaggi, 1892). È attratto dalla carriera diplomatica, ma si realizza professionalmente nel giornalismo politico. Nel 1894 stringe rapporti con il quotidiano nazionalista La Tribuna, per il quale scrive i suoi primi servizi da inviato estero, dall’Egitto.
Nel 1895 diventa immediatamente famoso con il suo primo libro, Alla scoperta dei letterati, serie di ritratti di scrittori celebri dell’epoca[1] redatti in forma di interviste, genere all’epoca ancora in stato embrionale. Scritto con uno stile che si pone fra la critica ed il reportage, il testo viene considerato, e come tale fa discutere, un momento di analisi profonda del movimento letterario dell’epoca. L’anno seguente Ojetti tiene a Venezia la conferenza “L’avvenire della letteratura in Italia”, che suscita un vasto numero di commenti in tutto il Paese.
I suoi articoli diventano molto richiesti: scrive per Il Marzocco (1896-1899), Il Giornale di Roma, Fanfulla della domenica e La Stampa. La critica d’arte occupa la maggior parte della sua produzione. Nel 1898 inizia la collaborazione con il Corriere della Sera, che si protrae fino alla morte.[2]
Tra il 1901 e il 1902 è inviato a Parigi per il Giornale d’Italia; dal 1904 al 1909 collabora a L’Illustrazione Italiana: tiene una rubrica intitolata “Accanto alla vita”, che poi rinomina “I capricci del conte Ottavio” (“conte Ottavio” è lo pseudonimo con cui firma i suoi pezzi sul settimanale). Nel 1905 si sposa con Fernanda Gobba e prende domicilio a Firenze; dal matrimonio tre anni dopo nasce la figlia Paola. Dal 1914 abiterà stabilmente nella vicina Fiesole. Invece trova nella villa paterna di Santa Marinella (Roma), soprannominata “Il Dado”, il luogo ideale in cui riposarsi, trascorrere le sue vacanze e scrivere le sue opere.
Partecipa come volontario alla prima guerra mondiale. All’inizio della guerra riceve l’incarico specifico di proteggere dai bombardamenti aerei le opere d’arte di Venezia. Nel marzo 1918 fu nominato “Regio Commissario per la propaganda sul nemico”. Fu incaricato di scrivere il testo del volantino, stampato in 350 000 copie in italiano e in tedesco, che fu lanciato il 9 agosto, dai cieli di Vienna dalla squadriglia comandata da Gabriele D’Annunzio.[3]
Nel 1920 fonda la sua rivista d’arte, Dedalo (Milano, 1920-1933), dove si occupa di storia dell’arte antica e moderna. Dall’impostazione della rivista dimostra una sensibilità e un modo di accostarsi all’arte e di divulgarla diversi dai canoni del tempo. La rivista diventa subito occasione d’incontro tra critici, intellettuali, artisti come Bernard Berenson, Matteo Marangoni, Piero Jahier, Antonio Maraini, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Pietro Toesca, Lionello Venturi e Roberto Longhi. L’idea di base della rivista è che l’opera d’arte abbia valore di testimonianza visibile della storia e delle civiltà più di ogni altra fonte. Nel 1921 avvia una rubrica sul Corriere utilizzando lo pseudonimo “Tantalo”. Tiene la rubrica ininterrottamente fino al 1939.
Sul finire del decennio inaugura una nuova rivista, Pegaso (Firenze, 1929-1933). Infine, lancia la rivista letteraria Pan, fondata sulle ceneri della precedente esperienza fiorentina. Tra il 1925 e il 1926 collabora anche a La Fiera Letteraria. Tra il 1926 ed il 1927 è direttore del Corriere della Sera.
È tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925 ed è nominato Accademico d’Italia nel 1930. Fa parte fino al 1933 del consiglio d’amministrazione dell’Enciclopedia Italiana. Ojetti organizza numerose mostre d’arte e dà vita ad importanti iniziative editoriali, come Le più belle pagine degli scrittori italiani scelte da scrittori viventi per l’editrice Treves e I Classici italiani per la Rizzoli. Sul significato dell’architettura nelle arti ebbe a dire:
«l’architettura è nata per essere fondamento, guida, giustificazione e controllo, ideale e pratico, d’ogni altra arte figurativa»
La finestra di Ojetti a villa Il Salviatino con una targa che lo ricorda
Collaborò anche con il cinema: nel 1939 firmò l’adattamento per la prima edizione sonora de I promessi sposi, che costituì la base della sceneggiatura per il film del 1941 di Mario Camerini.
Aderì alla Repubblica Sociale Italiana[4]; dopo la liberazione di Roma, nel 1944, fu radiato dall’Ordine dei giornalisti. Passò gli ultimi anni nella sua villa Il Salviatino, a Fiesole, dove morì nel 1946.
Antonio Gramsci scrisse che « la codardia intellettuale dell’uomo supera ogni misura normale ». Indro Montanelli lo ricordò sul: « È un dimenticato, Ojetti, come in questo Paese lo sono quasi tutti coloro che valgono. Se io dirigessi una scuola di giornalismo, renderei obbligatori per i miei allievi i testi di tre Maestri: Barzini, per il grande reportage; Mussolini (non trasalire!), quello dell’Avanti! e del primo Popolo d’Italia, per l’editoriale politico; e Ojetti, per il ritratto e l’articolo di arte e di cultura ».
Opere
Letteratura
Paesaggi (1892)
Alla scoperta dei letterati: colloquii con Carducci, Panzacchi, Fogazzaro, Lioy, Verga (Milano, 1895); ristampa xerografica, a cura di Pietro Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1967.
Scrittori che si confessano (1926),
Ad Atene per Ugo Foscolo. Discorso pronunciato ad Atene per il centenario della morte, Milano, Fratelli Treves Editori, 1928.
Profondo conoscitore ed appassionato studioso d’arte, Ugo Ojetti ha pubblicato sull’argomento diversi importanti libri:
L’esposizione di Milano (1906),
Ritratti d’artisti italiani (in due volumi, 1911 e 1923),
Il martirio dei monumenti, 1918
I nani tra le colonne, Milano, Fratelli Treves Editori, 1920
Raffaello e altre leggi (1921),
La pittura italiana del Seicento e del Settecento (1924),
Il ritratto italiano dal 1500 al 1800 (1927),
Tintoretto, Canova, Fattori (1928),
Atlante di storia dell’arte italiana, con Luigi Dami (due volumi, 1925 e 1934),
Paolo Veronese, Milano, Fratelli Treves Editori, 1928,
La pittura italiana dell’Ottocento (1929),
Bello e brutto, Milano, Treves, 1930
Ottocento, Novecento e via dicendo (Mondadori, 1936),
Più vivi dei vivi (Mondadori, 1938).
In Italia, l’arte ha da essere italiana?, Milano, Mondadori, 1942.
Romanzi
L’onesta viltà (Roma, 1897),
Il vecchio, Milano, 1898
Il gioco dell’amore, Milano, 1899
Le vie del peccato (Baldini e Castoldi, Milano, 1902),
Il cavallo di Troia, 1904
Mimì e la gloria (Treves, 1908),
Mio figlio ferroviere (Treves, 1922).
Racconti
Senza Dio, 1894
Mimì e la gloria, 1908
Donne, uomini e burattini, Milano, Treves, 1912
L’amore e suo figlio, Milano, Treves, 1913
Teatro
Un Garofano (1902)
U. Ojetti-Renato Simoni, Il matrimonio di Casanova: commedia in quattro atti (1910)
Reportages
L’America vittoriosa (Treves, 1899),
L’Albania (Treves, 1902); nuova edizione, con cartina originale “La Grande Albania”, in Ugo Ojetti, Olimpia Gargano (a cura di), L’Albania, Milano, Ledizioni, 2017.
L’America e l’avvenire (1905).
Raccolte di articoli
Articoli scritti fra il 1904 e il 1908 per L’Illustrazione Italiana: I capricci del conte Ottavio (due voll., usciti rispettivamente nel 1908 e nel 1910)
Articoli per il Corriere della Sera: Cose viste (7 voll.: I. 1921-1927; II. 1928-1943). L’opera è stata anche tradotta in lingua inglese.
Memorie e taccuini
Confidenze di pazzi e savi sui tempi che corrono, Milano, Treves, 1921.
Vita vissuta, a cura di Arturo Stanghellini, Milano, Mondadori, 1942.
I Taccuini 1914-1943, a cura di Fernanda e Paola Ojetti, Firenze, Sansoni, 1954. [edizione censurata, con molti passi espunti]
Ricordi di un ragazzo romano. Note di un viaggio fra la vita e la morte, Milano, 1958.
I taccuini (1914-1943), a cura di Luigi Mascheroni, prefazione di Bruno Pischedda, Torino, Aragno, 2019, ISBN 978-88-841-9989-8.
Aforismi
Ojetti è celebre anche per i suoi aforismi, massime e pensieri, molti dei quali sono raccolti nei 352 paragrafi di Sessanta, volumetto scritto dall’autore nel 1931 per i suoi sessant’anni e pubblicato nel 1937 da Mondadori.
Lettere
Venti lettere, Milano, Treves, 1931.
Lettere alla moglie (1915-1919), a cura di Fernanda Ojetti, Firenze, Sansoni, 1964.
Intitolazioni
Presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi si è tenuta una mostra dedicata alle fotografia scattate per la rivista e che costituiscono il Fondo Ojetti.[7]
Lorenzo Benadusi, Il «Corriere della Sera» di Luigi Albertini, Roma, Aracne, 2012. Pag. 180.
Vittorio Martinelli, La guerra di d’Annunzio. Da porta e dandy a eroe di guerra e “comandante”, Gasparri, Udine, 2001, p. 98 e 265.
Renzo De Felice, Mussolini l’alleato, vol. II “La guerra civile (1943-1945)”, Einaudi, Torino, 1997, p. 112n
A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, p. 158.
Indro Montanelli, Il vero Ojetti da prendere a modello, Il Corriere della Sera del 13 novembre 2000
M. Tamassia (a cura di), Spigolature dal fondo Ojetti. Immagini dalla rivista “Dedalo”, Livorno, Sillabe, 2008.
Bibliografia
Ugo Ojetti, Una settimana in Abruzzo nell’anno 1907, a cura di Antonio Carrannante, Cerchio, Polla, 1999
Bruno Pischedda (a cura di), La critica letteraria e il «Corriere della Sera», Fondazione Corriere della Sera, 2011, Vol. I,
Laura Cerasi, Ugo Ojetti, « Dizionario Biografico degli Italiani », vol. 79, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2013
Angelo Gatti, “Caporetto”, Il Mulino, Bologna 1964.
Breve biografia dell’Artista TOSI Arturo
Arturo Tosi (Busto Arsizio, 25 luglio 1871 – Milano, gennaio 1956). Studia alla Scuola Libera di Nudo a Brera e poi, per due anni, con Adolfo Ferraguti-Visconti, formandosi nel clima della Scapigliatura sulle opere di Ottavio Ranzoni e Tranquillo Cremona. Nel 1891 esordisce alla Permanente di Milano. Nel 1909 partecipa, per la prima volta, alla Biennale di Venezia nella quale sarà presente fino al 1954; nel 1911, espone a Monaco di Baviera ed è presente all’Esposizione Internazionale di Roma. La conoscenza dell’opera di Cézanne, del 1920, lo indirizza verso la pittura del paesaggio en plein air. Nel 1924 partecipa a Bruxelles alla mostra L’Art ltalien au Cercle Artistique, nel 1925 è tra i fondatori della corrente artistica “Novecento”, partecipando alle mostre della Permanente a Milano nel 1926 e nel 1929. Nel 1926 espone a Brighton, nel 1927 a Zurigo, Lipsia, Amsterdam e Ginevra, nel 1929 a Berlino e a Parigi, nel 1930 a Basilea, Buenos Aires e Berna, nel 1931 a Stoccolma, Baltimora e Monaco, nel 1933 a Stoccarda, Kassel, Colonia, Berlino, Dresda e Vienna. Dal 1928, alla Permanente di Milano, è membro del comitato d’onore. Nel 1931 ottiene il premio della fondazione Crespi alla I Quadriennale di Roma e, a Parigi, il Grand Prix della pittura dove torna nel 1937, per partecipare all’Esposizione mondiale. Nel 1951 il Comune di Milano gli dedica una mostra antologica premiandolo con una medaglia d’oro. Alla sua morte, la Biennale di Venezia gli dedica una mostra commemorativa, esponendo sessanta opere.
Biblioteca DEA SABINA- Arturo TOSI, Pittore-Rivista PAN n°3 -1934
Roma – La mostra di Paolo Terdich – “Esodo, per non dimenticare”-
Paolo Terdich “Esodo, per non dimenticare”
Roma – La mostra dell’artista piacentino Paolo Terdich “Esodo, per non dimenticare”.si inaugura oggi 11 febbraio 2025 alle ore 16:00 nella Sala del Cenacolo del Complesso di Palazzo Valdina, Camera dei deputati a Piazza in Campo Marzio 42 a Roma-L’esposizione è stata organizzata in coincidenza con il Giorno del Ricordo (10 febbraio 1947), in memoria dell’Esodo giuliano-dalmata e delle tragiche foibe, per voler rappresentare un esempio di come l’arte e la cultura possano fungere da ponte tra passato e presente, invitando a riflettere su eventi storici dolorosi ma fondamentali, per meglio comprendere, pienamente, la complessità del nostro tempo. Un evento promosso dal Presidente della Camera dei deputati, Lorenzo Fontana, a cura dell’Archivio Paolo Salvati. Così si è espresso il Lorenzo Fontana Presidente della Camera dei deputati: “Sono lieto di accogliere nel complesso di Vicolo Valdina della Camera dei deputati la mostra “Esodo – Per non dimenticare” dell’artista Paolo Terdich. Questo evento si inserisce nel quadro delle celebrazioni per il Giorno del ricordo, istituito per onorare la memoria delle vittime delle foibe e degli esuli giuliano-dalmati, un dramma rimasto ai margini della Storia e della coscienza collettiva del nostro Paese per tanto, troppo tempo.
Paolo Terdich “Esodo, per non dimenticare”-Locandina Evento
Con la sua maestria pittorica, l’artista guida lo spettatore in un viaggio che, intrecciando passato e presente, lo coinvolge sul piano emotivo e intellettuale. Particolarmente emblematiche sono le rappresentazioni delle mani: mani che parlano senza bisogno di parole, tese verso la speranza; mani che si aggrappano alla vita, che raccontano la fatica e il dolore dell’esilio. Un simbolo universale, che riesce a catturare, con straordinaria forza espressiva, l’essenza stessa della condizione umana. Quello delle Foibe e dell’esodo giuliano-dalmata rappresenta, infatti, un capitolo doloroso e complesso, che non possiamo e non dobbiamo dimenticare. Narrare quegli eventi significa dare voce a chi ha sofferto, a chi ha perso la propria casa, la propria terra, i propri affetti. E rendere giustizia a una verità storica che è rimasta nell’ombra, sepolta dal silenzio. Il presente catalogo è anche un dono prezioso, un invito a riflettere, comprendere e non dimenticare. Perché solo attraverso la conoscenza e il dialogo possiamo sperare di costruire un mondo in cui simili tragedie non avvengano mai più. Esso rappresenta un tributo a chi non è sopravvissuto, un omaggio a chi ha vissuto e sofferto per quei fatti e un monito per le generazioni future. Le testimonianze raccolte in queste pagine non sono soltanto cronache del passato, ma un invito a riflettere sul valore della pace e del rispetto reciproco, sul dovere della verità e della restituzione della dignità a chi la dignità è stata negata e, con essa, l’identità.
Paolo Terdich “Esodo, per non dimenticare”-Alt
Desidero, dunque, esprimere un sentito ringraziamento a Paolo Terdich, per il suo impegno e le sue opere d’arte, e a tutti coloro che hanno reso possibile questa mostra, contribuendo a creare un momento di grande valore culturale e umano. Il ricordo è un ponte tra passato e futuro. Coltivarlo significa nutrire il rispetto per la dignità umana, un valore imprescindibile su cui si fondano la nostra Repubblica e la convivenza civile.” In esposizione 23 opere di vari formati, che come lo stesso Terdich afferma: “Con le mie opere ho voluto fornire il mio piccolo contributo, viste le mie origini, al ricordo di tale triste vicenda, che ritengo non abbia avuto in passato il dovuto risalto. Nelle composizioni – ha aggiunto Terdich – riferite all’esodo, in cui sono rappresentati nuclei familiari e vari esuli che lasciano con vari mezzi la propria terra, ho lasciato le figure e le masserizie, appena abbozzate, vagamente distorte, cercando di rendere l’atmosfera di dolore, di ansia e di rassegnazione della scena nel suo insieme. Per cercare di creare un’atmosfera surreale, quasi metafisica, ho lavorato sul contrasto fra lo sfondo, piatto, vago, che suscita una sensazione di vuoto, e le figure in primo piano. In alcuni casi, richiamo i temi del romanticismo, del viandante, del senza patria; un eroe che è arreso al mondo e al suo destino e si avventura verso il suo futuro drammatico.”
Paolo Terdich “Esodo, per non dimenticare” Profugo
Un contrasto che è ben visibile ne “Il ritratto del profugo”, nel quale l’artista ha voluto esaltare il contrasto fra il dettaglio del volto riprodotto, che esprime, anche attraverso le profonde rughe, un sentimento di sofferenza passata, ma parzialmente mascherata, con la drammaticità dello sfondo, giocato su toni scuri, cupi, realizzato a spatola.
Paolo Terdich “Esodo, per non dimenticare”-RIFIUTO
Breve Biografia di Paolo Terdich Paolo Terdich nasce a Piacenza, il 28 gennaio del 1960. Pittore fortemente espressivo, catturato da una ricerca intima e sentimentale e naturalistica. La sua carriera artistica lo porta ad esporre in numerose mostre personali, a partire dagli anni duemila fino ai nostri giorni. Ha esposto con Appunti di viaggio presso l’Istituto Italiano di Cultura al Cairo in Egitto, nel 2002; con la mostra Stati d’animo al Palazzo Municipale del Comune di Sauze d’Oulx di Torino e nel 2004 all’American Women Cultural Association The Hague in Olanda. Dal 2008 al 2009 a Piacenza, prima con la mostra Le Forme e i Colori dell’Anima presso l’Atelier d’Arte e poi con Trasparenti Emozioni, allo Spazio Rosso Tiziano. Nel 2010 espone in Nigeria all’Ambasciata d’Italia a Contemporary Italian Painter con Cultural Evening with Paolo Terdich. Torna ad esporre con tre mostre personali a Piacenza nel 2015 con Luci e contrasti, a Spazio Rosso Tiziano, nel 2017 a Transparency, La pittura di Paolo Terdich in Biffi Arte, nel 2018 ancora allo Spazio Rosso Tiziano con la mostra Due mondi a confronto, un percorso espositivo che verrà ripetuto a Berlino nel 2019 alla Von Zeidler Art Gallery. Nel 2021 espone a Parigi presso la Galerie Sonia Monti con la mostra dal titolo Paolo Terdich. Nel 2022 con le mostre Acqua e Dal materico all’etereo, a New York presso la Saphira & Ventura Gallery e nella sua amata Piacenza presso Palazzo Ghizzoni, Nasalli Rossa. Si segnala la partecipazione su invito alla 59ma Biennale di Venezia 2022, all’interno del Padiglione Nazionale Grenada. Dal 2023 si dedica al progetto artistico Ricordo delle foibe, esodo giuliano-dalmata, concepito con l’unico obiettivo di una divulgazione del ricordo di queste tragiche vicende storiche, in una forma artistica inedita. Il progetto rappresenta un suo tributo alla memoria di un dramma che non ha avuto in passato il dovuto risalto e che esige di essere ricordato nella sua corretta prospettiva storica. Pur rimanendo in un ambito figurativo realistico, in queste opere Terdich sperimenta un approccio diverso rispetto al suo stile abituale, utilizzando una pittura materica e con cromie neutre. Qui egli rappresenta atmosfere che esprimono il senso di terrore delle vittime italiane innocenti delle foibe e di incertezza, ansia, smarrimento degli esuli, cimentandosi in un territorio, già sperimentato in passato, di realismo surreale e talvolta metafisico. Numerose le mostre contemporanee di carattere collettivo dal 2000 al 2025, in Italia tra Milano, Torino, Venezia e Roma, all’estero tra Miami, Londra, New York e Zurigo. Nel 2024 viene inserito su ULAN (Union List of Artist Names) da Getty Union Research per Getty Vocabulary, con ID 500780730. Membro dal 2023 di Professional Artist Association, dal 2022 Mastering the Business of Art, Professional Art Institute, dal 2008 di Master in Business Administration Degree, the Edinburgh Business School/Heriot, Watt University. Fra i critici e storici d’arte che hanno scritto di Paolo Terdich si citano: Paolo Levi, Alfredo Pasolino, Elisa Manzoni, Fabio Bianchi, Stefania Pieralice, Daniele Radini Tedeschi e Alberto Moioli.
A corollario della mostra sarà pubblicato un saggio a cura di Alberto Moioli, saggista e critico d’arte, Direttore dell’Enciclopedia d’Arte Italiana, Catalogo Generale Artisti dal Novecento ad oggi. La pubblicazione sarà curata da Editions of Italian Modern and Contemporary Art Archives, grazie alla concessione gratuita dell’Archivio Paolo Salvati. Copia saggio-omaggio non commerciale. Documento di interesse culturale destinato all’uso pubblico. Proprietà letteraria riservata.
INFORMAZIONI
Esodo per non dimenticare la personale di Paolo Terdich
11-21 febbraio 2025
Sala del Cenacolo Palazzo Valdina, Camera dei deputati, Piazza Campo Marzio 42 – Roma
Vernissage l’11 febbraio alle ore 16, obbligo di giacca per i signori, ingresso consentito entro le 15.45, fino a capienza della sala.
L’esposizione sarà visitabile, con ingresso libero, dal lunedì al venerdì dalle ore 11.00 alle ore 19.30 (ultimo ingresso alle ore 19.00).
Castelnuovo di Farfa- Il Murales della Memoria- di Franco Leggeri
Castelnuovo di Farfa
Castelnuovo di Farfa- 6 dicembre 2021-Il Murales della Memoria di Franco Leggeri-Biblioteca DEA SABINA-Un vecchio proverbio castelnuovese dice testualmente: “’U giornale (ora anche il web) è come u somaru, quillu che jhi carichi porta…”. Assistiamo , leggiamo, a Castelnuovo di Farfa a “Lezioni di Memoria e Appartenenza”. Grande lezione impartita a noi “vecchi ignoranti castelnuovesi” che, appunto, di Storia castelnuovese , non avendola vissuta, abbiamo un “disperato” bisogno di abbeverarci alla fonte “Ornischi” o “Bollica”. Noi vecchi castelnuovesi stiamo apprendendo cosa significa essere ignoranti. Se ben ricordo , in teoria, l’ignorante è chi dice <non so>, ma in realtà , a mio avviso, dopo aver letto vari articoli relativi alla “Memoria e Appartenenza” credo che, in verità oggi, a Castelnuovo è colui che <non sa e non conosce la Storia castelnuovese > ma la vuole spiegare ed illustrare ai protagonisti cioè a noi VERI CASTELNUOVESI. Il proverbio castelnuovese citato all’inizio è vero:” L’ignoranza della Storia castelnuovese? Grazie al web è diventata “saccenza”.A Castelnuovo assistiamo, in fatto di Storia ,a una sorta di: “liberi tutti”… di sparare idiozie storiche che sono così eclatanti nella “semplicistica e ingenua” ricostruzione nella fase cronologica, date, e nei personaggi . Mnemosune (memoria) ) la madre di tutte le Muse, i greci la identificavano con la capacità di tenere a mente, rammentare, quindi con un’abilità della ragione, della testa, in prima istanza. Il “potere” castelnuovese è complice di questo “ANNO ZERO” della “nuova storia castelnuovese”.Noi castelnuovesi quello che abbiamo vissuto, è entrato in circolo nel nostro sangue, è parte di noi.Noi vecchi castelnuovesi , allontanati e isolati dal “potere arrogante dell’ignoranza” che nome dobbiamo dare a chi offende la nostra intelligenza? Qual è il nome corrispondente? Rabbia? O piuttosto delusione, sconforto, fastidio? A Castelnuovo l’ignoranza della vera storia castelnuovese è alla base della situazione attuale. L’inflazione d’informazione, in continua crescita ed evoluzione, fa perdere il senso di continuità del tempo, il valore della memoria, in un perpetuo “attimo presente” che cancella percorsi storici lenti, difficili, conquistati a fatica, tra passi in avanti e dolorosi ritorni al passato.Questa “ dittatura dell’informazione castelnuovese” è la causa dell’indifferenza con cui si accettano decisioni che hanno e avranno conseguenze pesanti per la società e la democrazia del nostro amato Castelnuovo.È pericoloso per il “potere castelnuove”che la gente abbia conoscenza, anzi coscienza, dei fatti storici che, in bene e in male, sono all’origine della situazione attuale. Noi castelnuovesi, quelli dell’Orgoglio castelnuovese, dobbiamo aver presente che la memoria storica non è “automatica”, deve essere tenuta viva, non “mummificata” e resa “sterile” , attualizzata , cosa ben diversa “dal racconto diverso”. La Storia , la nostra storia castelnuovese, viene “messa a tacere” per, a mio avviso, non dare ai giovani la capacità di analisi, critica, denuncia , discussione del presente alla luce del passato al fine di non far conoscere i “percorsi” in cui si sono perse conquiste e spesso anche i valori. La VERA storia di Castelnuovo ci permette, a noi tutti , di crearci una coscienza critica indispensabile per comprendere il tempo di oggi e per intervenire nella società castelnuovese con libertà, obiettività, apertura, forza intellettuale e morale. Ripeto da anni che sono pronto per un pubblico dibattito con le autorità e gli “storici castelnuovesi”.
Castelnuovo e i colori della rabbia.
Noi che abbiamo la parola interdetta
aspettiamo le stelle del cielo
per vedere ,da questo ponte della Storia,
l’ultima acqua silenziosa del nostro passato.
In questo spazio infinito dei ricordi
possiamo solo gettare i nostri sassi della rabbia.
Noi non abbiamo voce
perché oscurati e dimenticati
e il nostro respiro è nascosto al sole.
Ora l’ombra del silenzio scivola
e trascina a valle la voce dell’oblio.
A noi Castelnuovesi non resta che imparare
la trama dei racconti
nasconderli nel libro dell’anima
e custodirli nei cassetti della memoria.
Scriveremo e racconteremo
lo “schiaffo della resa”
che le sirene del potere ,
beffandosi del nostro dolore
e il non essere capaci di rifiutare le “monetine“ dell’umiliazione,
ogni giorno, ogni ora ci porgono
sul piatto della negazione.
Franco Leggeri, Castelnuovese.
Castelnuovo di Farfa descrizione
Castelnuovo di Farfa risulta frequentato già a partire dal Neolitico. In epoca protostorica il sito più importante è sicuramente la Grotta Scura, al termine di Via Cornazzano, a poca distanza dal fiume Farfa. I primi ritrovamenti risalgono agli anni 1987-88, quando il Gruppo Speleologico “F. Orofino” rinvenne alcuni frammenti ceramici protostorici, risalenti all’età del Bronzo medio (XV-XIV secolo a.C.). La grotta è costituita da un’ampia sala in roccia calcarea, a cui si accede attraverso una stretta apertura, dove venne recuperato il materiale. Secondo la descrizione del Guidi “dalla sala un lungo corridoio porta ad una serie di piccoli ambienti dove sono stati individuati resti di focolari, ossa animali e vasi integri, gli unici materiali in giacitura sicuramente primaria”[4]. Alcuni frammenti con decorazione “appenninica” hanno permesso una datazione per tutta la durata della media età del Bronzo (XV-XIV secolo a.C.). La grotta presenta un ramo, lungo più di 200 metri, periodicamente occupato dalle acque, dove sono stati rinvenuti insieme oggetti ceramici sia di epoca protostorica che di epoca romana (lucerne in terracotta e monete). La presenza di vasi integri in ambienti difficilmente accessibili della grotta dimostra che una parte della cavità fosse riservata alla deposizione di offerte. Inoltre le tracce di focolari, riferibili a cerimonie rituali, sembrano attestare un utilizzo della grotta sia a fini abitativi che cultuali. La grotta è costituita da un ramo attivo e da due rami fossili, posti a livelli diversi e raggiungibili tramite cunicoli. La presenza di acque sorgive deve aver comportato la destinazione cultuale della grotta. Questo luogo di culto in grotta, tra i più antichi di tutta la Sabina, è stato identificato recentemente nel “santuario di Marte”[5], riportato da Dionigi di Alicarnasso presso Suna (oggi Toffia), antica città degli Aborigeni (mitologia)[6].
Medioevo
Nel VI secolo è riferito in zona l’arrivo di San Lorenzo di Siria, fondatore dell’Abbazia di Farfa, il quale avrebbe svolto opera di evangelizzazione cristiana anche nei territori limitrofi. Una chiesa dedicata a San Donato è riportata già in un documento dell’877, per cui si può tranquillamente fissare la nascita del primitivo insediamento rurale all’Alto Medioevo. In questo documento la chiesa viene ceduta dal vescovo di Arezzo, Giovanni, al monastero di Farfa, in cambio di altri beni, tra cui San Donato ed annesse “terre, case, chiese, selve, molini” ecc…, una elencazione che spiega il livello di organizzazione che si era formato attorno alla prima chiesa[7]. Questa chiesa divenne anche il centro catalizzatore del territorio, elemento di aggregazione sociale, antesignano del castrum. Il primo insediamento fortificato e protetto da mura, il Castellum Sancti Donati, è citato in un documento del 1046, che ne attesta la cessione al vicino monastero di Farfa, e risulta decaduto già nel 1104.
Il Castrum Novum risale al Duecento. A partire dal 1288 nacque una disputa a riguardo di chi appartenesse il colle in cui sorgeva questo castrum medievale: secondo i castellani apparteneva alla comunità, secondo i monaci all’Abbazia di Farfa. La lunga contesa fu lontana dall’essere risolta. Nel 1477 i cippi confinari, rimossi dagli abitanti, vennero riportati al loro posto dall’abate commendatario[8]. Il castello medievale è difeso da una cinta muraria con ben nove torri, presidiate nel Rinascimento da “guardie civiche” e comandate da un “capitano”. Nel 1592 una delibera del Consiglio ordinò l’acquisto di 50 “archibusci” (fucili) e 4 “archibuscioni” (cannoncini). Lungo le mura si aprono due porte, Porta Castello e Porta Cisterna. Il borgo è caratterizzato da strette vie lastricate e da edifici civili, tra cui quelli appartenuti, ad esempio, alle famiglie Cherubini e Simonetti. Nel nucleo del paese sorge la chiesa di San Nicola di Bari ed una bella fontana seicentesca “a parete”, con arco centrale.
Castelnuovo di FarfaCastelnuovo di FarfaCastelnuovo di FarfaCastelnuovo di FarfaCastelnuovo di FarfaCastelnuovo di FarfaCastelnuovo di FarfaCASTELNUOVO DI FARFA La FONTANELLA della PIAZZETTACASTELNUOVO DI FARFA La bottega del Fabbro GIUVANNINU U FERRARUCASTELNUOVO di FARFA DEGRADO E ABBANDONO AFFRESCHI EX-CHIESA DI SANTA MARIA Foto di Franco LeggeriCastelnuovo di Farfa -40simoPremio letterario “LA TORRE D’ARGENTO”-1982-2022Castelnuovo di Farfa (Rieti)Castelnuovo di Farfa -40simoPremio letterario “LA TORRE D’ARGENTO”-1982-2022Castelnuovo di Farfa la notte e i Bar di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte e i Bar di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte di via Roma.Castelnuovo di Farfa (Rieti)Castelnuovo di Farfa (Rieti)Castelnuovo di Farfa (Rieti)Castelnuovo di Farfa (Rieti) Monumento ai Caduti delle due guerre mondialiCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via Roma Est- foto inizio ‘900Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Programma festa Madonna del Rosario anno 10 ottobre 1933Castelnuovo di Farfa (Rieti) la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) Foto del 1889Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma EstCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazza ComunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Il GonfaloneCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazza ComunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Campo Profughi FARFA SABINA- Loc. Granica-foto anni 1950Castelnuovo di Farfa (Rieti) –Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Municipio-Aula ConsiliareCastelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma Ovest-Bar StellaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Castello, Torre dell’OrologioCASTELNUOVO DI FARFA – PALAZZO SIMONETTI-ora EREDI SALUSTRI GALLI-
CASTELNUOVO DI FARFA – PALAZZO SIMONETTI-ora EREDI SALUSTRI GALLI-CASTELNUOVO DI FARFA – PALAZZO SIMONETTI-ora EREDI SALUSTRI GALLI-CASTELNUOVO DI FARFA – PALAZZO SIMONETTI-ora EREDI SALUSTRI GALLI-Antonio GramsciCASTELNUOVO DI FARFA – PALAZZO SIMONETTI-ora EREDI SALUSTRI GALLI-
Descrizione del libro di Ranuccio Bianchi Bandinelli -L’arte etrusca– Editori Riuniti-Biblioteca DEA SABINA-Gli scritti etruscologici di Ranuccio Bianchi Bandinelli coprono l’intero arco dei cinquant’anni della sua attività di studioso: dal 1925, quando venne pubblicata la sua tesi di laurea su Chiusi, fino al 1973, quando apparve l’ultima sua monumentale opera “Etruschi e Italici prima del dominio di Roma”. I saggi raccolti in questo volume sono disposti cronologicamente e servono a documentare il percorso critico e intellettuale di Bianchi Bandinelli, caratterizzato da un lato da una costante continuità di interesse per il fenomeno artistico etrusco-italico, dall’altro da un fondamentale e profondo rinnovamento delle sue posizioni negli anni successivi al 1960.
Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) è stato uno dei maggiori archeologi e intellettuali italiani del Novecento. Alla attività di studio, come autore di ricerche specialistiche e come docente universitario, ha sempre associato un diretto impegno civile e militante, nell’Amministrazione dei beni culturali e nella diretta partecipazione politica come esponente di spicco del partito comunista. Ha svolto opera di informazione presso il largo pubblico attraverso la direzione di enciclopedie e volumi a grande diffusione.
Ranuccio Bianchi Bandinelli
INDICE
Premessa
Nota del curatore
Parte prima. Storia e problemi dell’arte etrusca
Arte etrusca
La città etrusca
La casa etrusca
La posizione dell’Etruria nell’arte dell’Italia antica
“Illusionismo” nel bassorilievo italico
Datazione e motivi dell’arte tardoetrusca
Parte seconda. Topografia
Questioni generali di topografia etrusca
Riassunto storico e delimitazione del territorio chiusino
Roselle
L’esplorazione di Roselle
Parte terza. Pittura
Necropoli di Vulci
Un “pocolom” anepigrafie del museo di Tarquinia
Le tombe tarquiniesi delle Leonesse e dei Vasi dipinti
Le pitture delle tombe arcaiche
La mostra di pittura etrusca a Firenze
Parte quarta. Scultura
I caratteri della scultura etrusca a Chiusi
Il “Bruto” capitolino scultura etrusca
Il putto cortonese del museo di Leida
Marmora Etruriae
La kourotrophos Maffei del museo di Volterra
Qualche osservazione sulle statue acroteriali di Poggio Civitate (Murlo)
Ranuccio Bianchi Bandinelli
Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) è stato uno dei maggiori archeologi e intellettuali italiani del Novecento. Alla attività di studio, come autore di ricerche specialistiche e come docente universitario, ha sempre associato un diretto impegno civile e militante, nell’Amministrazione dei beni culturali e nella diretta partecipazione politica come esponente di spicco del partito comunista. Ha svolto opera di informazione presso il largo pubblico attraverso la direzione di enciclopedie e volumi a grande diffusione.
Giulio Carlo Argan-Vi parlo di un nostro maestro. La milizia intellettuale di Ranuccio Bianchi Bandinelli [1]
in «Annali dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, fondata da Giulio Carlo Argan», n. 17, Graffiti editore, Roma 2005, pp. 121-124.
Intitolando la sua rivista «Dialoghi di Archeologia» Bianchi Bandinelli pensava sicuramente ai suoi allievi, perché nella sua scuola tutto era dialogo, nulla sapere impartito. Amava molto la scuola, la lasciò quando si persuase che, per salvare la scuola, bisognava lasciare l’università. La lasciò, anche, per dedicarsi interamente ad una grande impresa scientifica, l’Enciclopedia dell’Antichità. Il dialogo seguitava, un’enciclopedia è un lavoro di gruppo: convoca gli studiosi da ogni parte del mondo per fare il punto dello stato di avanzamento di una disciplina, ma anche per inquadrarla in una cultura generale. Aveva il senso profondo dell’etica del lavoro scientifico; amava la ricerca, ma non ricusava i doveri che ne discendevano. La prima forma dell’intelligenza, per lui, era la generosità e quindi l’impegno, anche politico. Subito dopo la guerra accettò di fare il Direttore generale delle Belle Arti: sapeva benissimo ch’era un arido lavoro burocratico in condizioni, poi, particolarmente difficili. Ma era un dovere, verso la cultura e verso il Paese. L’Italia era ancora in rovine, molte opere d’arte italiane rubate dai nazisti erano ancora in Germania (e molte ci sono ancora) dove Siviero si dava da fare a recuperarle. Io ero alle sue dipendenze dirette e quel lavoro comune per me fu una scuola.
Era già comunista, un’altra ragione per essere intransigente quando si tratta del pubblico interesse. Lasciò la direzione generale perché non poteva fare tutto ciò che la coscienza gli imponeva: magari denunciare per collaborazionismo e truffa qualche gran signore che vendeva quadri antichi a Goering ma, conoscendone i gusti più autentici, vi aggiungeva in regalo il vino e i salumi dei suoi poderi.
Ranuccio Bianchi Bandinelli- L’arte etrusca-
Lo ammirai soprattutto perché, davanti al disastro e senza soldi in cassa, riusciva a trovarne abbastanza per finanziare qualche scavo. Pensava che soprattutto era importante mantenere vivo lo spirito della ricerca: per conservare le cose bisogna conservare la mentalità che vuole conservate le cose. L’importante era non rompere l’unità teorico-pragmatica della scienza. Il teorico deve sapere discendere alle cose se vuole che poi dalle cose si possa risalire al grande disegno storico e alla teoresi, magari alla filosofia dell’arte. Mi sovvenni di Lui e del suo impegno pratico, e della serenità e dello spirito con cui lo adempiva, quando imprevedutamente fui fatto sindaco di Roma e mi trovai travolto in una valanga di cure che non avevano niente a che fare con i miei studi. Mi accorsi che non erano poi tanto estranee, forse niente è estraneo alla cultura: cercare di tenere pulita Roma (invano, purtroppo) è come nettare un’opera d’arte imbrattata.
Oggi rifletto a molte strane coincidenze del mio destino col suo e naturalmente anche alla comune scelta politica. Nulla di casuale: tutt’e due ci eravamo formati nella tradizione della scuola viennese di storia dell’arte, dove si partiva dalla scheda per arrivare al trattato, ma senza mai perdere di vista la cosa artistica, il suo essere un manufatto soggetto ai guasti del tempo. Studiare la storia dell’arte era lo stesso che prender cura delle cose, besorgen.
Fin da quando, giovanissimo ancora, esordì brillantemente con gli studi sulla cultura etrusca di Roselle e Sovana lo tormentava il dilemma che non l’abbandonò mai più: archeologia o storia dell’arte? È il nodo di tutto il suo lavoro. Come tutti gli studiosi della sua e poi della mia generazione è stato idealista e crociano: solo al tempo della guerra, credo, ebbe l’illuminazione di Gramsci. Il disgusto della rettorica, che per la verità il Croce ha sempre alimentato negli intellettuali, portava ad una critica radicale dell’archeologia italiana: per la ritardata mentalità antiquariale, anzitutto, ma anche per l’asservimento alla megalomania fascista, per gli scempi che autorizzava a cominciare da Roma, per lo scarso rigore nella ricerca e nel restauro dei monumenti, per l’abuso di falsi concetti come quello di «romanità». Indubbiamente l’idealismo lo avviò a scelte di gusto molto severe, ma del tutto spregiudicate.
Oggi è di moda dire che il criterio di qualità implica una valutazione soggettiva, che una scienza rigorosa non ammette; e in fondo è giusto che i mediocri difendano i mediocri. Eppure è proprio con le sue scelte qualitative che Bianchi Bandinelli ha rovesciato il quadro della storia dell’arte classica. Quando uscì laStoricità dell’arte classica fu come ci cadessero le bende dagli occhi. Non era una questione di arte o non- arte. La storia dell’arte classica che ci avevano insegnato gli archeologi era in realtà la storia di una cultura figurativa aulica o ufficiale e dunque non storia dell’arte, ma storia del potere vista attraverso l’arte. Benché assai più complesso, il punto di vista di Bianchi Bandinelli riportava ai primi storici romantici come il Fauriel, che preferiva la civiltà dei conquistati a quella dei conquistatori: Bianchi Bandinelli accantonava gli artisti di palazzo, parlava di provincia invece che di metropoli, di artigiani pieni di genio o di spirito invece che di artisti laureati. E non era una veduta populista: l’analisi, come nell’ammiratissimo Riegl, era sempre scrupolosamente condotta sulle forme.
Come sempre Bianchi Bandinelli, pur così bravo nel disegnare grandiose sintesi di epoche intere, ha dedotto dalla sua teoria tutte le conseguenze d’ordine pratico: al punto che proprio da quella generale premessa critica è disceso un nuovo modo di concepire e condurre lo scavo: non più per trovare tesori o documenti sensazionali, ma il modesto tessuto di una cultura, gli strumenti della vita quotidiana, le testimonianze delle attività quotidiane. In una parola, la trama di quella che oggi chiamiamo cultura materiale e che, in verità, ci porge una quantità d’informazioni infinitamente maggiore che quelle che può dare un imponente monumento, espressione delle grandi istituzioni del tempo.
Da questa prima formulazione, almeno in Italia, di una metodologia fondamentalmente marxista degli studi di archeologia uscì anche, e fu portata avanti dai discepoli, una nuova modalità della progettazione, dell’attuazione, dell’interpretazione dello scavo: non più concepito come caccia al tesoro, ma come ricostruzione organica del tessuto della cultura. Ciò che doveva, o almeno avrebbe dovuto, essere il principio di un mutamento radicale della politica della tutela del patrimonio culturale: ancora fatta di divieti e di limiti sempre meno rispettati invece che di interventi diretti, in positivo, nello sviluppo della politica della città e del territorio. Era una prospettiva culturale e politica estremamente promettente, quella ch’egli aprì in Italia dopo la Liberazione; ma fu precipitosamente richiusa da quel provincialismo culturale che Bianchi Bandinelli odiava e che ancora non soltanto prospera, ma viene coltivato con sollecito zelo nei patrii giardini.
Forse il dialogo che questa rivista, con il suo nuovo corso, dovrà coraggiosamente portare avanti non è precisamente un dialogo tra maestri ed allievi, ma un dialogo più aperto tra civiltà antiche e civiltà moderna. Bianchi Bandinelli volle chiarire, vivendolo in proprio in tutte le sue contraddizioni, anche drammatiche, che cosa sia la civiltà moderna, ardentemente desiderando che il suo confronto con l’antico fosse il confronto tra due momenti della storia e non tra una storia e una cronaca, talvolta nera. Nessuno può vedere realizzato tutto ciò che spera. Ma certo tutto ciò che poteva essere fatto, nella sua disciplina e nella sua pratica esistenza, affinché l’epoca moderna fosse un’epoca storica, Bianchi Bandinelli lo ha fatto con un’intelligenza, un coraggio, una fermezza e una serenità da rimanere, per gli intellettuali di tutto il mondo, esemplari.
[1] L’articolo, uscito su «L’Unità» del 1° novembre 1979, è il testo dell’intervento di Argan alla cerimonia dedicata a Bianchi Bandinelli tenutasi in Campidoglio il 31 ottobre 1979 in occasione della pubblicazione della nuova serie dei «Dialoghi di Archeologia».
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