PIAF di Federico Malvaldi in scena domenica 23 marzo all’Altrove Teatro Studio-Roma-
Veronica Rivolta-Attrice
Roma-Domenica 23 marzo l’Altrove Teatro Studio accoglie PIAF di Federico Malvaldi, un viaggio nella vita della cantante de’ La Vie En Rose, con Veronica Rivolta. Una storia tormentata che inizia su un marciapiede di Parigi, davanti al numero 72 di rue Belville: meno di due chilometri dalla tomba del Père Lachaise dove adesso riposa in un trionfo di fiori.
Una donna troppo piccola, per una voce così grande. Questo dicevano di lei. E da questo aneddoto si sviluppa un racconto fatto di musica, amore, autodistruzione, disperazione e momenti di intensissima felicità.
Al centro di tutto, oltre alla vita, ci sono le sue canzoni più celebri – Je Ne Regrette Rien, Padam Padam, Hymne A L’Amour – e soprattutto la sua voce vibrante e potente, capace di raggiungere picchi di intensità così alti da dimenticare che il corpo che la contiene sta lentamente morendo a causa di un’esistenza sregolata. Un’esistenza che solo i più grandi e i più disperati si possono permettere di vivere.
PIAF non vuole essere uno spettacolo autobiografico, ma il tentativo di far continuare a vivere la grandezza di una donna e della sua voce, icona di Francia e del mondo intero: perché ancora oggi, in qualunque angolo del mondo ti trovi, quando senti gracchiare da un vecchio disco La Vie En Rose ti vedi apparire davanti le strade, i quartieri, le luci, i caffè di Parigi, e pensi che non si possa vivere altrove.
PIAF
di Federico Malvaldi
con Veronica Rivolta
regia Rivolta/Malvaldi
Domenica 23 marzo ore 17
Altrove Teatro Studio – Via Giorgio Scalia, 53 Roma
Biglietti: Intero 15€_ Ridotto 10€
Altrove Teatro Studio – Via Giorgio Scalia 53, Roma
Per informazioni e prenotazioni: telefono 3518700413, email ipensieridellaltrove@gmail.com
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L’inventore di libri Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo-Articolo di Alessandro Marzo Magno
L’inventore di libri Aldo Manuzio-Forse non lo sapete, ma il piccolo oggetto che avete in mano – così maneggevole, chiaramente stampato, dai caratteri eleganti, corredato da un frontespizio e da un indice – deve quasi tutto al genio di Aldo Manuzio, che cinque secoli fa ha rivoluzionato il modo di realizzare i libri e ha reso possibile il piacere di leggere. Benvenuti nel mondo del primo editore della storia.
Il libro – così come lo conosciamo ancora oggi – nasce a Venezia tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. Padre di questa invenzione è Aldo Manuzio. Nato a nel Lazio, transitato per Ferrara e per Carpi, dov’era docente dei principi Pio, approda ormai quarantenne a Venezia. La città in quegli anni è l’indiscussa capitale europea della stampa e così il precettore si trasforma in editore. Pubblica inizialmente grammatiche e testi in greco necessari per apprendere la lingua classica. Poi i suoi orizzonti si allargano: nel 1501 dà vita a una vera e propria rivoluzione, quella del libro tascabile. Se prima si leggeva per necessità (e lo si faceva a voce alta), da quel momento leggere diventa un piacere a cui dedicarsi nel silenzio dell’intimità. E non finisce qui. Manuzio, con il suo amico Pietro Bembo, importa nel volgare italiano i segni di interpunzione che erano utilizzati soltanto nel greco antico: accenti, apostrofi, virgole uncinate e punto e virgola. Quando muore, nel 1515, il mondo del libro è definitivamente cambiato. Alessandro Marzo Magno ricostruisce le tappe di una straordinaria carriera, nell’unico posto al mondo dove sarebbe stata possibile: Venezia.
L’autore è Alessandro Marzo Magno,veneziano per nascita e milanese per lavoro, si è laureato in Storia all’Università di Venezia Ca’ Foscari. Giornalista, dopo essere stato per quasi dieci anni responsabile degli esteri del settimanale “Diario”, dirige il semestrale “Ligabue Magazine” e scrive nella pagina culturale del “Gazzettino”. Ha pubblicato libri di argomento storico, tra i quali L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo (Garzanti 2012, più volte ristampato e tradotto in inglese, spagnolo, giapponese, coreano e cinese) e Missione grande bellezza. Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler (Garzanti 2017). Per Laterza è autore di L’inventore di libri. Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo (2020).
Edizione: 2020, III rist. 2021 Pagine: 224, ril. Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858141601 ISBN digitale: 9788858143636
L’inventore di libri Aldo Manuzio
Erasmo su Aldo-A chi con i libri lavora, di libri vive, i libri ama.
«È un’impresa erculea, per Ercole!»
Arthur Schopenhauer:”I libri sono compagni, insegnanti, maghi, banchieri dei tesori del mondo,i libri sono l’umanità stampata”.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
1.
Aldo è tra noi
Considerate quello che state facendo in questo preciso momento: avete in mano un libro e lo leggete. Con ogni probabilità siete seduti o distesi, e certamente in silenzio, ovvero non state compitando le parole a voce alta, come quando la maestra a scuola vi chiedeva di leggere per il resto della classe. State svolgendo quest’attività (leggere) perché vi dà piacere, oltre che accrescere il vostro patrimonio di conoscenze; anzi, è molto probabile che se non vi appagasse, trascurereste anche l’incremento del sapere.
L’oggetto che sta occupando la vostra attenzione è un parallelepipedo di carta del peso di qualche ettogrammo, maneggevole, dalle pagine stampate in un carattere elegante e chiaro, dove ogni tanto compare qua e là qualche parola in corsivo (per esempio i titoli dei libri, o le parole straniere). Il testo è reso più comprensibile da una serie di segni che chiamiamo di interpunzione: punti e virgola, virgole uncinate, apostrofi, accenti. Tali segni ci guidano nella lettura, ci indicano le pause nonché la loro gerarchia (il punto e virgola «vale» più della virgola), fondono tra loro due parole in modo da semplificarne la lettura, o indicano dove accentare la pronuncia, ancora una volta per facilitarci il compito.
È molto probabile che, una volta notato questo volume nello scaffale o sul bancone di una libreria, lo abbiate preso in mano sollevandone la copertina al fine di poterne guardare il frontespizio, leggerne titolo e sottotitolo e capire chi siano autore ed editore. Poi, se il titolo vi ha solleticato, avete girato qualche pagina per scorrerne l’indice e coglierne meglio il contenuto. Al che avete preso la decisione se riporlo o comprarlo, ma, visto che lo state leggendo, il libro deve aver superato l’esame e vi siete quindi avviati alla cassa.
Benvenuti nel mondo di Aldo, il primo editore della storia. Tutto quello che avete letto nelle righe appena scorse lo dovete a lui. In precedenza chi imprimeva libri era un semplice tipografo: sceglieva le opere da stampare sulla base del loro potenziale di vendita, ma senza un preciso progetto editoriale. L’attenzione alla qualità era minima, il numero dei refusi negli incunaboli – i «libri in culla», cioè stampati entro la fine del 1499 – ci parla ancor oggi di scarsa accuratezza, di composizioni tirate via, di bozze riviste senza troppo impegno. Con Manuzio cambia tutto: Aldo è davvero «l’inventore della professione dell’editore moderno, colui cioè che si avvicina ai libri avendo in mente un preciso e coerente programma culturale», come osserva Mario Infelise, storico dell’editoria e del libro all’università di Venezia, Ca’ Foscari. Manuzio ha fatto del libro «il più efficiente strumento per l’accumulo e la trasmissione delle conoscenze umane degli ultimi cinque secoli».
Lodovico Guicciardini è un nobile fiorentino che vive ad Anversa, discendente del più noto Francesco. Nel 1567 pubblica la Descrittione di tutti i Paesi Bassi, nella quale, nonostante fosse scomparso ormai da un cinquantennio, si ritrova a parlare di Aldo Manuzio, «il quale a giudizio d’ognuno […] ridusse veramente la stampa a perfettione, talché non si diceva, ne cercava altro, che la stampa d’Aldo perché era tanto pura e netta. Innanzi a Aldo […] non si trovava che grosse, goffe e scorrette impressioni senza vista e senza grazia, ma egli non perdonando nulla con ingegno, e con giuditio la polì, facilitò e ridusse (come io dico) a ordine e regola perfetta».
Aldo è un uomo colto, coltissimo: conversa fluentemente in greco antico, traduce a vista dal greco al latino e viceversa, ha studiato l’ebraico. Ha in mente un ben preciso progetto editoriale: stampare i classici greci in greco. Successivamente estenderà il suo programma ai classici in latino e ai testi in volgare. La più efficace enunciazione del programma aldino è quella di un umanesimo senza confini che, anni più tardi, farà dire ad Erasmo: «Anche se la sua biblioteca è chiusa dalle anguste pareti della casa, Aldo ha intenzione di costituire una biblioteca la quale non abbia altro confine che il mondo stesso».
Aldo si era dato un piano che definire ambizioso è riduttivo: «Verrà pubblicato tutto ciò che merita d’esser letto». Non si esaurisce qui, però: Manuzio è anche un attento, attentissimo, imprenditore. Sarebbe esagerato dire che si metta a stampare per i soldi, ma di sicuro con la stampa guadagna denaro: riesce a garantire una discreta agiatezza a sé e ai suoi eredi. È il primo a unire i due aspetti che dovrebbero caratterizzare un editore anche ai giorni nostri: la conoscenza culturale e la capacità imprenditoriale. Prima dell’inizio della sua attività non ci sono notizie di rapporti tra eruditi e stampatori che fossero diversi da quelli commerciali.
Manuzio, in quanto studioso che già godeva di solida fama tra i dotti, ha fatto sì che si superassero pregiudizi e incomprensioni tra gli uomini di lettere e quelli d’affari: questo ha reso possibile la rivoluzione che ha investito il mondo della tipografia e quello della cultura.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
La nascita del libro
Ora facciamo un viaggio nel tempo e immaginiamo di essere in una bottega libraria del 1493, ovvero l’anno prima che Manuzio cominci a stampare: vedremmo libri privi di quasi tutte le caratteristiche che ci sono tanto familiari – le abbiamo elencate all’inizio – se non quella di essere costituiti da carta stampata con l’inchiostro. Se invece entrassimo in quella medesima bottega una ventina di anni più tardi, ad esempio nel 1515, ovvero quando Aldo Manuzio muore, ci ritroveremmo ad avere a che fare con un oggetto riconoscibile: un libro maneggevole e stampato in modo da essere leggibile ed elegante.
Al di là di carta e inchiostro, tutto quello che caratterizza un libro come lo conosciamo noi oggi lo dobbiamo ad Aldo Manuzio. Questo signore colto e raffinato ha messo in mano ai suoi contemporanei di mezzo millennio fa un oggetto che usiamo sostanzialmente immutato ancora ai nostri giorni. E la locuzione «mettere in mano», come vedremo nel capitolo sui libri tascabili, va intesa in senso letterale.
Con Manuzio nasce un libro nuovo e diverso in tutto; la sua pagina a stampa appare ai contemporanei talmente perfetta da non far più rimpiangere gli antichi codici manoscritti. I «buoni libri» di Aldo Manuzio decretano la fine dei codici: erano trascorsi oltre mille anni dal IV secolo d.C., da quando cioè i fogli rettangolari di pergamena legati fra loro avevano preso il posto dapprima appartenuto ai rotoli di papiro.
Vedremo più avanti come Aldo introduca il bisogno di leggere e la lettura per passatempo, ma diciamo subito che a tutto questo si accompagna pure l’idea dell’interpretazione del testo, del libero arbitrio, della libertà di opinione. Elementi che oggi ci appaiono scontati: si legge un libro e lo si giudica, si decreta se sia piaciuto o meno, se sia scorrevole, noioso, piacevole, avvincente e via così. Nel XV secolo, invece, le cose stavano assai diversamente. Gli scritti erano pubblicati assieme a tutto l’apparato dei commenti, dagli antichi ai moderni, gli stampatori si sforzavano di dare sempre almeno tre-quattro commenti, intrecciati tra loro a mosaico nei margini di grandi libri in formato in folio (ovvero i volumi nei quali i fogli di carta venivano piegati solo una volta, le cui dimensioni si aggiravano almeno sui 40×26 centimetri).
Si trattava quindi di una sorta di testo accompagnato da ipertesto che di fatto impediva di elaborare un giudizio: tutto quello che ci sarebbe stato da dire era già stato detto in precedenza dagli antichi sapienti; e chi mai avrebbe osato contraddirli. Aldo fa una scelta radicale: spoglia il testo, lo pubblica integrale, nudo, senza commenti che lo circondino e lo soffochino. Ognuno sarà libero di interpretarlo come preferisce. Manuzio mette definitivamente fine alla moda del testo incorniciato dalle spiegazioni.
La novità dev’essere prorompente agli occhi dei contemporanei, un po’ come – spostandoci nell’architettura – succederà una quarantina d’anni più tardi, quando Andrea Palladio al posto di edifici di mattoni rossi, pieni di pinnacoli e arzigogoli, comincerà a costruire fabbricati di pietra bianca, lisci e squadrati. La nudità dei testi imposta da Aldo doveva provocare un effetto simile a quello ispirato dall’essenzialità degli edifici voluta da Palladio. Già fermandosi qua sarebbe evidente la portata della rivoluzione aldina. Eppure c’è dell’altro. E che altro.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il marketing
Aldo Manuzio ha avuto l’accortezza di intuire il potere della promozione commerciale e, se non si temesse di esagerare nel dipingerlo a colori troppo brillanti, si potrebbe anche dire che è stato un autentico genio della vendita di se stesso e dei propri prodotti. Ha utilizzato i mezzi che aveva a disposizione, in particolare le dediche e le prefazioni. Ai nostri occhi la dedica di un libro può apparire superflua perché alla fin fine il libro di per sé – al di là del contenuto – oggi è un prodotto comune; entriamo in una libreria e vediamo volumi a migliaia, a decine di migliaia qualora la libreria sia grande; in una biblioteca ce ne possono addirittura essere milioni, svariati milioni in alcuni casi: la biblioteca del Congresso, a Washington DC, la maggiore del mondo, possiede 28 milioni di volumi. In tante case almeno una parete è ricoperta di libri e il costo di ogni singolo testo è, nella media, abbastanza contenuto e affrontabile dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Alla fine del Quattrocento, però, non era così: il libro a stampa era stato inventato una quarantina di anni prima, si trattava di una novità preziosa e ricercata, gli esemplari in circolazione erano pochi e costosi, se non costosissimi. Le dediche, quindi, servono ad Aldo per stabilire una relazione con i potenti ed è bravissimo a ottenere il risultato: nessun altro editore riuscirà a tessere una tela di rapporti a livello tanto alto: l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo arriva a definire l’editore «familiare nostro»; Lucrezia Borgia sarà nominata sua esecutrice testamentaria e lo accoglierà a Ferrara durante la guerra di Cambrai; Isabella d’Aragona, moglie di Gian Galeazzo Sforza, riceve un salterio greco con dedica. Il record delle dediche spetta ad Alberto Pio, principe di Carpi: Manuzio gli destina ben dodici edizioni (avremo modo di approfondire nelle pagine che seguono la lunga relazione tra i due).
Alla vigilia dell’erompere della guerra di Cambrai, che contrappone a Venezia una coalizione di potenze europee, quando ormai già si udivano tintinnare le spade, Manuzio intitola edizioni a importanti esponenti di entrambe le parti che si stavano per affrontare. Nel marzo 1509, due mesi prima della fatale – per i veneziani – battaglia di Agnadello, dedica un Plutarco a Jacopo Antiquari, già uomo di fiducia degli Sforza, e un Orazio a Jeffroy Charles, nobile francese originario di Saluzzo nonché presidente del senato milanese (salvo un’eccezione nel 1503, queste sono le uniche dediche aldine che riguardino Milano). Un mese dopo, nell’aprile 1509, a guerra ormai dichiarata, destina Sallustio a Bartolomeo d’Alviano, vicecomandante generale delle truppe veneziane: la sola volta, questa, che indirizza un’opera a un uomo d’arme. È evidente il desiderio di costruirsi benemerenze sui due fronti; utilizzando un linguaggio odierno le si potrebbe definire dediche bipartisan, senza pensare a termini più grevi.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il ruolo delle prefazioni
Le prefazioni costituiscono il testo più importante che Aldo ci abbia lasciato; quello dove, come qualcuno ha scritto, «alterna toni gravi ad altri ironici, sfodera qualche aneddoto e battuta, lancia strali ed elogi, riflette su di sé e sul mondo, e in tal modo ci cattura». Gli esordi diventano il mezzo per comunicare con i lettori, per ingraziarseli: «Sii clemente quando trovi qualche sbaglio», oppure «Per ora, mancando vasi d’oro e d’argento, accontentiamoci, come suol dirsi, di quelli di coccio». Le prefazioni costituiscono il manifesto ideologico aldino, il luogo dove Manuzio proclama la propria idea di conoscenza come bene comune: «Si impicchino» quelli che tengono i libri nascosti a casa, «d’animo così basso da affliggersi per un bene fornito a tutti». Aldo è un precursore: il concetto che la cultura debba essere a disposizione di chiunque si farà strada soltanto ai tempi della rivoluzione francese.
L’editore usa le prefazioni anche per creare l’effetto attesa: «Pubblicheremo altresì tutti i matematici» (1497), «Aspettatevi in breve un Dante» (1501). Inventa un modello di prologo affettuoso e diretto, dove affiora il valore dell’amicizia umana: «Il grande affetto che ti porto», scrive a Girolamo Aleandro (1504), cardinale e umanista originario di Motta di Livenza, nel Trevigiano. «Io vorrei poter sempre stare con te, vivere con te», dice a Marin Sanudo (1502), patrizio e autore dei Diarii. Si tratta di una cronaca giornaliera di Venezia cominciata nel 1496 e terminata nel 1533, tre anni prima della morte: 58 volumi in 37 anni, la più importante fonte storica della Venezia di fine XV e inizio XVI secolo. Lo incontreremo ancora, Sanudo, perché amico di Aldo e anche in quanto proprietario di una delle più importanti biblioteche cittadine dell’epoca.
La fama delle raccolte librarie veneziane del tempo è tale da richiamare visitatori di grande prestigio: nel 1490 arriva a Venezia Giano Lascaris, a caccia di codici greci per conto di Lorenzo de’ Medici. Lascaris visita le biblioteche di Ermolao Barbaro, erede dell’umanesimo avviato dal Petrarca e maestro della generazione di Erasmo; di Alessandro Benedetti, professore a Padova, che aveva trascorso quindici anni in Grecia, acquistandovi manoscritti di pregio; e pure quella di Gioachino Torriano, priore del convento domenicano dei santi Giovanni e Paolo (lo stesso dove vive Francesco Colonna, il frate ritenuto autore dell’Hypnerotomachia Poliphili, di cui diremo ampiamente), che aveva acquistato manoscritti provenienti dalla biblioteca di Mattia Corvino, il sovrano ungherese morto nel 1490. Anche i codici di Bessarione vengono dal 1494 provvisoriamente depositati a San Zanipòlo, come i veneziani chiamano i santi Giovanni e Paolo, e Torriano sarebbe stato molto contento di trasformare da temporaneo a definitivo il deposito del fondo nella propria biblioteca. Il cardinale Bessarione è il dotto umanista greco che nel 1468, quattro anni prima della morte, dona alla repubblica di Venezia i manoscritti bizantini che costituiscono il nucleo fondativo dell’attuale Biblioteca nazionale Marciana.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il catalogo
Oggi ci appare tutto sommato ovvio consultare il catalogo di una casa editrice, ma anche di questo dobbiamo essere grati a Manuzio. Aldo pubblica il primo elenco di edizioni nel 1498 e vi enumera soltanto le opere greche – in quel momento evidentemente costituivano quel che davvero gli interessasse – salvo sporadiche eccezioni, tra le quali il De Aetna che con ogni probabilità aveva stampato per amicizia e gratitudine verso l’autore, Pietro Bembo, o le composizioni latine di un altro amico, Angelo Poliziano, impresse in un massiccio in folio che riunisce gli scritti inediti dell’umanista fiorentino. Sono presenti quindici titoli ripartiti in otto sezioni tematiche; la più affollata è quella delle grammatiche, con cinque opere.
Il secondo catalogo, del giugno 1503, distingue tra libri greci, latini e «portatili in forma di enchiridio», ossia i tascabili (che vedremo più avanti); il terzo e ultimo risale al novembre 1513 e non contiene, come invece i precedenti, l’annuncio di futuri libri. I primi due cataloghi riportano anche i prezzi minimi: non sappiamo se i cartolai – i rivenditori di libri – li rispettassero o se invece vendessero i volumi più cari. Un indizio tuttavia ci arriva da Siviglia, grazie alla biblioteca di Fernando Colombo, figlio di Cristoforo, diventata una delle più importanti della prima metà del XVI secolo in virtù dei 15 mila libri che conteneva.
Colombo junior doveva essere pignolo, infatti per la maggior parte delle opere ha annotato data, luogo e prezzo dell’acquisto, con il costo sempre convertito in moneta spagnola, cosa che ci rende possibili i raffronti. Delle ventisei aldine comperate in luoghi diversi, quattordici registrano il medesimo costo annotato nei cataloghi manuziani, di dieci conosciamo soltanto il prezzo pagato da Colombo, di due non abbiamo informazioni.
Un’ulteriore idea ce la possiamo fare anche utilizzando il Zornale di Francesco de Madiis, ovvero il resoconto quotidiano della vendita in una bottega veneziana di 25 mila libri tra il maggio 1484 e il gennaio 1488, ognuno registrato con titolo e prezzo. Il manoscritto, un documento di eccezionale valore, è conservato nella biblioteca Marciana. L’elenco termina sei anni prima che Manuzio cominci a stampare e si riferisce a volumi molto diversi fra loro, ma gli studiosi di storia del libro hanno calcolato il costo per singolo foglio stampato in modo da ottenere un valore coerente.
Visto che in quei tempi i prezzi avevano andamenti piuttosto stabili, è possibile effettuare un comparazione tra il costo per foglio delle aldine e delle edizioni del Zornale. Quest’ultimo oscilla tra i 5 e i 10 denari, con punte più alte in caso di formati che utilizzano carta più pregiata. Il costo per foglio delle aldine di grande formato è simile; aumenta invece vertiginosamente nel caso dei tascabili: quelli stampati in greco sono ovviamente più cari e vanno dai 20 agli oltre 30 denari a foglio, mentre nel caso del latino e del volgare italiano si va dagli 11 agli oltre 13 denari a foglio. Questo smentisce una volta per tutte il mito – più volte ripetuto in vari studi del passato – che i tascabili di Aldo fossero a buon mercato, anche se, ovviamente, un volumetto di qualche decina di fogli aveva un costo unitario di molto inferiore rispetto a un volumone composto da centinaia di carte. In ogni caso possiamo concludere che Manuzio sapeva fare assai bene i conti e che le sue edizioni mantenevano una buona valutazione, anche a distanza di anni dall’uscita, cosa non sempre riscontrabile con le opere stampate da altri editori.
L’indice
Ora veniamo a un’ulteriore eredità aldina, a un altro elemento che ai nostri giorni appare connaturato al libro stesso, ma che nei tempi in cui stava nascendo l’editoria moderna non lo era affatto: l’indice. Gli incunaboli non l’avevano e neppure avevano le pagine numerate; al massimo, ma non sempre, erano numerate le carte, o fogli, tanto che oggi per orizzontarci siamo costretti a distinguerle in r (recto) e v (verso). Ci si arrangiava con il fai da te: ognuno, qualora ne sentisse il bisogno, apponeva a mano i numeri ai fogli e si autocompilava un indice di ciò che lo interessava. Poliziano, tanto per fare un nome significativo, era uno di quelli che si facevano gli indici da soli.
Manuzio – mai dimenticarlo – era un maestro e per chi insegna è importante poter individuare un punto preciso all’interno della massa del testo. La stampa, poi, introduce nuove e sconosciute problematiche: gli errori di stampa, tanto per dirne una. Lo sbaglio nella trascrizione commesso da un copista veniva perpetuato nei manoscritti successivi, spesso senza possibilità di riscontro. Un refuso, invece, si moltiplica subito per le centinaia di copie della tiratura. Gli stampatori del rinascimento, quando scoprivano errori in fase di stampa, invece di correggere i fogli difettosi – la carta era costosa – si accontentavano di ritoccare gli esemplari successivi, con il risultato che le copie differiscono in numerosi particolari. In qualche caso l’omissione di parole poteva essere sanata con una correzione a mano in ciascuna copia: alcuni volumi dei Salmi, editi attorno al 1498 sono stati corretti così, probabilmente dallo stesso Aldo. Più in generale interviene una nuova esigenza: fornire una lista di errata con le relative correzioni, nonché con l’esatto punto del libro in cui inserirle; e l’indice, ovviamente, aiuta.
Comprensibile, quindi, quale importanza avessero le errata, e Aldo già nel primo volume che stampa, una grammatica greca (Erotemata, 1495), aggiunge alla fine un foglio di errata. Si capisce subito dove voglia andare a parare: inizia ora una serie di tentativi, di esperimenti di indicizzazione che proseguiranno per tutto il ventennio di attività.
L’indicazione di Manuzio contiene una novità rispetto alle errata che l’avevano preceduta: rinvia alla riga precisa dove apporre la correzione. Il sistema di rimandi risulta in ogni caso complicato perché le pagine sono prive di numero. Ed ecco che nel 1499 Aldo, per la prima volta, inserisce una rivoluzionaria numerazione per pagina. Per pagina, non per carte: in questo modo ogni singola facciata del foglio porta il numero che la contraddistingue. L’innovazione riguarda un enorme in folio di 642 pagine, non a caso un repertorio della lingua latina (Cornucopiae, di Niccolò Perotti). Manuzio aggiunge anche una numerazione riga per riga, cosicché nell’indice riporta due numeri: il primo rimanda alla pagina, il secondo alla riga. Un sistema molto più efficace e preciso rispetto a quello che utilizziamo noi oggi, anche se ovviamente più macchinoso (e costoso).
Aldo si rende ben conto dell’enorme portata del mutamento e infatti lo annuncia orgogliosamente nel frontespizio, chiamandolo «indice abbondantissimo». Grazie a tale sistema si riesce a individuare con un semplice sguardo il punto cercato, non occorre contare una per una né le pagine né le righe. L’editore fornisce anche le istruzioni: «Abbiamo fatto allestire l’indice unendo insieme il greco e il latino. Ma non ti sfugga, lettore carissimo, che puoi separare del tutto agevolmente il latino dal greco a tuo piacimento».
La novità, tuttavia, non viene usata in maniera continuativa, per esempio le prime edizioni tascabili non presentano le pagine numerate, tanto che parecchie copie giunte fino a noi riportano i numeri aggiunti a mano dai rispettivi proprietari. Aldo numera più spesso le edizioni greche rispetto a quelle latine o volgari, talvolta usa cifre arabe, talaltra romane; in alcuni casi elabora indici assai macchinosi, come quello degli Adagia di Erasmo che l’autore ritiene necessario riformulare e semplificare nelle edizioni successive, stampate a Basilea. Soltanto dal 1509 la numerazione per pagina viene inserita con regolarità, anche nei tascabili, sebbene alcune edizioni continuino a essere numerate soltanto per carta. Quello che per Aldo resta un continuo sperimentare, per i successori diventa una regola da seguire fedelmente: in tal modo è stato compiuto un ulteriore, decisivo, passo verso il libro moderno. Anche il frontespizio, sperimentato a Venezia dal tipografo tedesco Erhard Ratdolt, diventa una presenza regolare nei libri impressi nell’officina aldina.
A questo punto dovrebbe essere chiara la portata della rivoluzione manuziana e quale sia stata la sua impronta in grado di segnare per sempre il mondo del libro. In qualche modo siamo tutti figli di Aldo, anche se spesso a nostra insaputa. Nei prossimi capitoli entreremo maggiormente nei dettagli di questa rivoluzione, ma prima dobbiamo renderci conto che un cambiamento di tale portata sarebbe potuto avvenire nell’Europa del rinascimento soltanto in un luogo: Venezia.
La capitale del libro
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia e a Venezia comincia a stampare. Non conosciamo le ragioni che lo abbiano spinto né all’una né all’altra scelta, ma sappiamo benissimo che soltanto lì sarebbe potuto diventare il primo editore della storia. La Serenissima signoria è una repubblica e quindi Venezia è l’unica capitale europea priva di una corte, con tutte le sue limitazioni; inoltre è la città che trasforma il sapere in un prodotto commerciale non diverso da un sacco di pepe, come rileva acidamente un umanista che certo non la amava.
Prima della fine del XV secolo nella Dominante – così veniva chiamata la capitale dello stato veneziano – sono attivi dai 150 ai 200 torchi che stampano in quel periodo il 15 per cento dei titoli impressi nell’intera Europa (4500 su 30 mila), con tirature che variano da un centinaio alle duemila copie. La percentuale sarà destinata a salire fino ad arrivare a quasi la metà dei titoli europei. Nel sessantennio che trascorre dal 1465, anno dell’introduzione in Italia della stampa a caratteri mobili, al 1525, a Venezia si stampa la metà dei libri italiani; dal 1525 al 1550 si arriva ai tre quarti, dal 1550 al 1575 a due terzi. La crescita è talmente impetuosa da far dire a Erasmo che è più facile diventare stampatore che fornaio, ma non può mancare pure il solito lamentoso, un tipografo che se la prende per «la perfida rabia de la concorrentia consueta fra questa miserabil arte».
Vittore Branca, filologo e per tanti anni docente di letteratura italiana a Padova, scriveva che «le tipografie rendono Venezia il carrefour della cultura umanistica europea e le fanno aprire la prodigiosa “via del libro”, quasi a sostituire – almeno in parte – la ormai disastrata “via delle spezie” (fra il 1469 e il 1501 vengono impressi circa due milioni di volumi, soprattutto riguardanti le umanità)». Le quattromila edizioni di incunaboli che vedono la luce a Venezia entro la fine del XV secolo sono il doppio di quelle parigine; nel biennio 1495-1497 – ovvero quando Aldo aveva già aperto la propria tipografia – si stampano in Europa 1821 opere: 447 provengono da Venezia, mentre solo 181 da Parigi, che si colloca in questa classifica al secondo posto.
A permettere l’esplosione dell’attività editoriale è paradossalmente proprio la morte di chi ha introdotto nel 1469 la stampa a Venezia, ovvero il tedesco Giovanni da Spira (o meglio, se vogliamo rendere onore ai suoi natali, Johannes von Speyer). Un anno dopo aver stampato il secondo libro, Plinio, e mentre sta preparando il terzo, sant’Agostino, muore. Il lavoro viene terminato dal fratello Vindelino, ma scomparso Giovanni non è più valido il privilegio che gli accordava il monopolio dell’esercizio della tipografia: da quel momento in poi chiunque lo voglia può mettersi a stampare. Così accade.
Nella prima metà del Cinquecento la Dominante è sì l’indiscussa capitale europea della produzione editoriale, ma contemporaneamente anche un primario centro di consumo: possiedono libri il 15 per cento dei nuclei familiari, i due terzi del clero, il 40 per cento dei borghesi, il 23 per cento dei nobili, il 5 per cento dei popolani; vi si ritrovano alcune delle biblioteche più importanti dell’epoca: il cardinale Domenico Grimani possiede 15 mila volumi, Marin Sanudo 6500; Ermolao Barbaro, bandito da Venezia nel 1491 dopo aver accettato il patriarcato di Aquileia e morto nel 1493, aveva radunato la più ricca tra le numerose biblioteche greche. Non basta: nel 1537 Jacopo Sansovino comincia i lavori per realizzare la Pubblica libreria, ovvero la prima biblioteca statale pubblica (nel senso che viene concepita non come raccolta riservata, ma per essere usufruita dal pubblico), destinata a diventare l’attuale Marciana.
Questa esplosione dell’editoria avviene per un insieme di motivi che vanno dall’ampia liquidità finanziaria a coraggiose scelte commerciali, dalla libertà di stampa a quello che oggi chiameremmo «risorse umane». Nella seconda metà del XV secolo si liberano capitali: i patrizi smettono di investire nel commercio internazionale e si rivolgono altrove, in primo luogo all’acquisto di appezzamenti agricoli nella neoacquisita terraferma veneta, ma non disdegnano di finanziare attività produttive, e fra queste si ritrova anche l’editoria.
Stampare libri è un’impresa ad alta intensità di capitale, soprattutto a causa del notevole costo dei metalli necessari a realizzare i punzoni (acciaio) e i caratteri (lega di piombo, stagno e antimonio). I libri sono beni che viaggiano assieme agli altri lungo le direttrici commerciali che la repubblica aveva già da tempo stabilito e quei traffici sono molto intensi poiché a Venezia si stampa in una molteplicità di lingue.
Approfittando del contrasto tra la Serenissima e il pontefice, e dell’assenza per alcuni decenni dell’Inquisizione romana, le tipografie della Dominante imprimono anche libri – in anni successivi al capostipite dei Manuzio – invisi alle gerarchie ecclesiastiche: testi dei riformati tedeschi e boemi, il primo libro pornografico della storia (Pietro Aretino, Sonetti lussuriosi, 1527), il Talmud che, non a caso, sarà protagonista del primo grande rogo di libri in piazza San Marco, nell’ottobre 1553, comunicato in tempo reale a papa Giulio III dal nunzio apostolico, Lodovico Beccadelli: «Questa mattina s’è fatto un buon fuoco su la piazza di San Marco». A Venezia, infine, si ritrova al completo tutta quella che oggi si definirebbe «filiera del libro»: incisori, rilegatori, inchiostratori, torcolieri, studenti dell’università di Padova disponibili a correggere bozze e, soprattutto, si ha grande disponibilità di carta.
Per produrre carta c’è bisogno di tanta acqua dolce, corrente e pulita (altrimenti la carta vien fuori giallastra), e ovviamente non la si poteva fabbricare in città, ma lo si faceva nello stato da tera: lungo i fiumi Brenta e Piave, nonché sul lago di Garda, e quegli stessi fiumi venivano anche utilizzati come arterie di trasporto per trasferire la medesima carta che avevano contribuito a generare.
A determinare l’alta domanda di libri contribuiscono in maniera decisiva il vicino ateneo di Padova, dove i sudditi della Serenissima sono obbligati a studiare qualora vogliano laurearsi, e le due scuole pubbliche veneziane, dove si formano i giovani destinati all’amministrazione dello Stato, siano patrizi oppure appartenenti all’ordine intermedio dei cittadini, che forniva la burocrazia statale. Si tratta della scuola di San Marco, dove si approfondiscono gli studi umanistici e morali, e della scuola di Rialto, di indirizzo filosofico, naturalistico e matematico.
Gli stranieri
Nel Quattrocento il centro della vendita dei manoscritti era stato Firenze. La città toscana era anche il cuore finanziario dell’Italia rinascimentale, quindi, in teoria, ci sarebbe dovuta essere più disponibilità di capitali in riva all’Arno che sulle sponde del Canal Grande. Ma Firenze era sempre rimasta una città di fiorentini, al massimo di toscani. Venezia invece era da tempo diventata una città di stranieri. A parte i patrizi, che per forza di cose erano locali, la Dominante ospitava un gran numero di immigrati. Non a caso Girolamo Priuli, cronista dei primi anni del Cinquecento, scriveva che in piazza San Marco si vedevano i nobili incaricati del governo, mentre «tuto il resto herano forestieri et pochissimi venetiani». Persino in un mestiere tradizionale come quello del gondoliere, i veneziani assommavano appena alla metà dei nomi presenti in un elenco di fine XV secolo: gli altri barcaioli provenivano dalla terraferma (molti dalla sponda bresciana del lago di Garda) o dalla Dalmazia.
Il settore editoriale non fa eccezione: quasi tutti gli stampatori, in questo periodo, sono immigrati, sia dall’Italia – Aldo Manuzio tra loro – sia dall’estero, come il già nominato tedesco Giovanni da Spira o il francese Nicolas Jenson, che gli succede. Tra l’altro, a conferma del prestigio e dell’agiatezza che dà la professione di stampatore, Giovanni da Spira sposa madonna Paola, figlia di Antonello da Messina, che era uno dei pittori più affermati e famosi dell’epoca.
In città sono presenti comunità strutturate, alcune di queste lo sono ancora ai nostri giorni, con propri luoghi di culto e confraternite: greci, armeni, ebrei, tedeschi, dalmati. Questo significa che nella Venezia quattro-cinquecentesca si possono trovare colti madrelingua in grado di comporre e correggere testi in quasi tutti gli idiomi all’epoca più diffusi, e questo spiega perché qui si stampi il primo libro in greco (1486), in armeno (1512), in cirillico bosniaco (1512), il secondo in glagolitico, l’antico alfabeto croato (1491), il terzo libro in ceco (1506). Dai torchi veneziani escono inoltre la prima Bibbia in volgare italiano (1471), la prima Bibbia rabbinica (1517), il primo Corano in arabo (1538), la prima traduzione del Corano in italiano (1547). La città rimane per secoli il centro mondiale della stampa greca, ebraica, serba, caramanlidica (lingua turca scritta con caratteri greci, oggi scomparsa), nonché armena, in quest’ultimo caso addirittura fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e all’indipendenza della repubblica d’Armenia, nel 1990.
Questa è la Venezia dove approda Aldo Manuzio prima di iniziare la sua avventura di stampatore. Ha scritto Cesare De Michelis, editore veneziano scomparso nel 2018: «Accadde come nei grandi romanzi d’amore: erano fatti l’uno per l’altra e si incontrarono, anche se la storia del loro rapporto è tutt’altro che idillica, anzi appassionante e ricca di colpi di scena, esaltata e disperante, in perenne tensione».
Ora facciamo gli indiscreti, e andiamo a scoprirla, quella storia d’amore.
2.
La formazione di un umanista
Bassiano è uno splendido borgo medievale del Lazio, sui monti Lepini, a un’ottantina di chilometri a sud di Roma. In quella zona transita la via Appia e oggi Bassiano si trova in provincia di Latina. Nel passato faceva però parte del ducato di Sermoneta, retto dai Caetani; Roffredo, l’ultimo discendente di quel ramo della nobile famiglia, è morto nel 1961. Bonifacio VIII, il papa scaraventato all’inferno da Dante Alighieri, era un Caetani.
Il castello dei duchi è a Sermoneta, ma d’estate i Caetani, che di loro sarebbero stati principi, se ne andavano in quel di Bassiano, e il perché è presto detto: il paese si trova a 560 metri di altitudine, tutto circondato da alture; la sera si gode un bel fresco, ma, soprattutto, sta fuori dal raggio di azione delle pericolose zanzare anofeli, portatrici di malaria. I principi non vivevano proprio in un castello, ma in un massiccio palazzone, che faceva comunque una gran figura, e oggi è sede del municipio. Proprio negli anni in cui il suo figlio più illustre, Aldo Manuzio, faceva l’editore a Venezia, Bassiano passa sotto il controllo dei Borgia per un quinquennio, dal 1499 al 1504, ma poi tornano i Caetani, che lo governano ininterrottamente fino a inizio Ottocento.
Sermoneta è pure un bel posto, la sua cattedrale romanica costituisce un autentico gioiello, ma si trova più in basso rispetto a Bassiano, 230 metri sul livello del mare, e si affaccia direttamente sulla pianura pontina. Oggi lo sguardo arriva ad abbracciare il mare, giù fino ad Anzio e Nettuno, e qualche anziano si ricorda ancora la luminosa e tersa giornata del 22 gennaio 1944, quando la superficie marina spumeggiava per le scie dei mezzi da sbarco alleati. Per secoli, però, quella piana era stata tutta palude, e d’estate le anofeli potevano raggiungere anche la coreografica Sermoneta, mentre Bassiano ne rimaneva esente.
Un tempo il portone di Palazzo Caetani costituiva l’unico accesso all’abitato di Bassiano, interamente circondato da mura trecentesche sorvegliate da dieci torrioni. Mura che sono state forate in tempi più recenti per fare spazio a tre porte cittadine. Le strade, selciate in porfido, hanno un andamento a spirale, gli edifici, oggi purtroppo in gran parte abbandonati, conservano quasi tutti l’originario aspetto medievale; alcuni stretti vicoli – il più angusto di tutti si chiama Baciadonne, un nome un programma – tagliano longitudinalmente l’abitato congiungendone i vari livelli. Da Bassiano non si scorge la pianura, mentre un fianco dell’abitato è dominato dal monte Semprevisa che, con i suoi 1536 metri, è il più alto dei Lepini.
Qui, attorno al 1450, nasce Aldo Manuzio. Una lapide indica oggi la sua casa. Peccato che sia un «tarocco»: l’edificio risale al Sei-Settecento e quindi di sicuro il futuro editore non può essere nato lì. La casa dei Manuzio quasi certamente esiste ancora, poiché il borgo è sopravvissuto intatto, ma non abbiamo idea di quale possa essere.
Sappiamo pochissimo della famiglia di Aldo e niente della sua infanzia. Un atto rogato dal notaio Antonio Tuzi il 30 dicembre 1449 ci dice che tal Paolo di Manduzio di Bassiano vende un appezzamento di terra all’ebreo Abramo di Mosè. Nel più antico manoscritto aldino che ci sia pervenuto, un documento redatto tra il 1480 e il 1486, conservato nella biblioteca Querini Stampalia di Venezia, compare la firma Aldus Manducius (nella forma al genitivo Alti Manducii). Nessun dubbio, quindi, che proprio quello fosse il cognome originario dell’umanista, che in seguito si firmerà Mannuccius, quindi Manucius (dal 1493) e infine Manutius (dal 1497). Il padre di Aldo si chiamava Antonio e aveva alcune sorelle, ma altro non ci è dato conoscere.
A Roma
Si può presumere che la famiglia fosse relativamente benestante, se aveva terreni da vendere, ma non possiamo sapere se potesse anche permettersi di mantenere agli studi un figlio a Roma, o se invece siano stati i Caetani a prendersi cura del giovane Manuzio. Il nipote Aldo junior, un secolo più tardi, ricorderà i rapporti di deferenza che legavano il nonno alla famiglia principesca e d’altra parte non era poi inusuale che i signori di un determinato luogo facessero studiare a proprie spese i ragazzini più svegli.
Sicuro, invece, che Aldo studiasse a Roma all’inizio degli anni Settanta del Quattrocento, poiché il suo insegnante Gaspare da Verona, docente di retorica alla Sapienza, si trasferisce a Viterbo nel 1474. Un altro suo maestro – è Aldo a rivelarlo in una delle prefazioni – è l’umanista Domizio Calderini, nativo di Torri del Benaco, segretario di papa Sisto IV. Curioso che entrambi i maestri romani di Aldo fossero originari del Veronese.
Calderini fa parte della cerchia del già citato cardinale Bessarione e lo accompagna in un viaggio in Francia, proprio mentre il prelato sta lavorando a un’edizione che sarà pubblicata postuma da Arnold Pannartz e Conrad Sweinheim. Due nomi celebri, questi, poiché appartengono ai chierici tedeschi – Pannartz era un praghese di lingua tedesca, Sweinheim proveniva dall’Assia – che nel 1465 avevano importato la stampa a caratteri mobili in Italia, impiantando una tipografia nel monastero benedettino di Santa Scolastica, a Subiaco, vicino a Roma. Anche Gaspare da Verona conosce l’attività dei due tipografi, visto che li nomina già nel 1467, ovvero quando erano arrivati a Subiaco da due anni soltanto.
L’introduzione della stampa in Italia faceva parlare di sé ed è probabile che a Roma la nuova attività costituisse oggetto d’attenzione e di meraviglia, ma non si sa se già in questi anni Manuzio fosse entrato in contatto con il mondo della tipografia, se avesse avuto modo di osservare le neonate edizioni a stampa, o se il suo sia stato invece un innamoramento tardivo. Aldo per molti anni rimane prima di tutto un maestro e solo in un secondo tempo diventa uno stampatore, quando, ormai quarantenne, concepisce l’attività di tipografo come mezzo per darsi i migliori strumenti di insegnamento del greco: grammatiche e testi di lettura. Non possiamo davvero capire se già una ventina di anni prima avesse intuito le potenzialità della stampa.
Non è certo nemmeno se, dopo aver appreso il latino, a Roma cominci da subito a studiare anche il greco antico, lingua che in seguito apprenderà benissimo, tanto da poterla parlare e tradurre a vista, come abbiamo già ricordato. Certamente nella città papale Manuzio stringe amicizia con l’umanista pistoiese Scipione Forteguerri, detto il Carteromaco, che diventerà un suo stretto collaboratore e al quale dedicherà un’edizione nel 1501. Lo ritroveremo, anche perché sarà uno dei fondatori dell’Accademia aldina.
Il periodo romano di Manuzio rimane molto oscuro, così come quello della sua infanzia e adolescenza. L’unica cosa certa è che dopo pochi anni se ne va. Non conosciamo esattamente né quando né perché, qualcuno ipotizza che possa aver abbandonato Roma a causa della peste del 1478, ma non c’è alcun indizio in grado di trasformare l’illazione in affermazione.
A Ferrara
In realtà Aldo si trova a Ferrara già dal 1475, ma non è possibile stabilire se si fosse trasferito o se si trattasse di una pausa temporanea dal soggiorno romano. Nella città di Ercole I d’Este, umanista e munifico mecenate del rinascimento, Manuzio apprende, o approfondisce, il greco antico con Battista Guarino, figlio di quel Guarino Veronese (ecco che torna ancora una volta Verona) che aveva imparato il greco a Costantinopoli prima della conquista ottomana del 1453 ed era stato precettore alla corte estense. L’incontro con Battista Guarino è senz’altro importante, visto che Aldo nel 1495 dedicherà l’edizione di Teocrito al suo maestro di una ventina d’anni prima. Se Manuzio fosse arrivato a Ferrara conoscendo o meno il greco rimane oggetto di disputa tra gli studiosi, mentre è sicuro che quando se ne va lo parla e lo legge fluentemente.
C’è dell’altro, in ogni caso: a Ferrara incontra un compagno di studi che gli cambierà la vita: Giovanni Pico della Mirandola. Il nobiluomo umanista, evidentemente aiutato dalla sua proverbiale memoria, padroneggia sei lingue, tra antiche e moderne, e ora si sta dedicando a perfezionare il greco. Sua sorella Caterina è moglie – e dal 1477 vedova – del signore di Carpi; nel 1484 sposerà Rodolfo Gonzaga, signore di Luzzara e figlio del marchese di Mantova (i Gonzaga diventeranno duchi soltanto nel 1530).
Ora una piccola digressione: in quest’area tra Emilia e Lombardia e nel periodo a cavallo tra XV e XVI secolo si ritrovano alcune corti medie o piccole che intrattengono relazioni strette l’una con l’altra. I Gonzaga di Mantova, i Pio di Carpi, i Pico di Mirandola, gli Este di Ferrara si imparentano fra loro e sfruttano quelle che oggi si chiamerebbero economie di scala, facendo arrivare artisti, musicisti, precettori che si spostano da una città all’altra. Aggiungiamo che Carpi e Mirandola sono signorie troppo piccole per potersi considerare del tutto sicure dalle mire dei vicini e quindi cercano di appoggiarsi agli stati più potenti e influenti.
Negli anni di cui ci stiamo occupando la potenza che stende sull’area l’ombra della propria egemonia, quella che suscita timori e apprensioni, e di conseguenza la potenza da battere, è senza dubbio la repubblica di Venezia. Non a caso, quando sarà sconfitta, il principe Alberto Pio si rivolgerà sia all’impero, sia alla Francia, sia al papato, finendo per rimetterci il trono in un gioco triangolare più grande di lui. Aldo Manuzio – lo vedremo – si muove all’interno di quest’ambito, concedendosi tutt’al più un paio di digressioni verso Milano. Di certo sviluppa una sorta di rapporto d’affetto con Ferrara (trasporto che invece mai proverà per Venezia), visto che nel suo primo testamento consiglia la giovane moglie, sposata appena un anno prima, di trovarsi un nuovo marito nella città degli Este, qualora non dovesse tornare dal viaggio. Tutto questo ci racconta tra l’altro quanto al tempo fossero considerati pericolosi i viaggi: così tanto da indurre a far testamento prima di partire.
Aggiungiamo un ulteriore elemento per comprendere meglio gli intrecci di questa zona dell’Italia rinascimentale: Alberto Pio sposa prima una Gonzaga e poi una Orsini; dalla seconda moglie ha due figlie, una delle quali, di nome Caterina come la nonna, si coniuga con un Caetani. Questo indizio ci permette di ipotizzare che sussistesse un qualche nesso tra i duchi di Sermoneta e i signori di Carpi e che, quindi, il legame di Aldo Manuzio con la piccola corte emiliana possa essere passato anche attraverso i Caetani. Non lo sappiamo, ma le relazioni tra le famiglie esistevano e quindi l’eventualità è quantomeno verosimile.
A Carpi
Caterina Pico è una donna di notevole cultura: nel corredo per le nozze con Lionello I Pio di Savoia sono presenti, oltre ai consueti gioielli, argenti e biancheria, anche codici manoscritti e testi di autori classici, come Virgilio e le epistole di Cicerone (queste ultime sono pure il primo testo stampato a Venezia, nel 1469, da Giovanni da Spira: tutto si tiene in questo scorcio del rinascimento).
Quando il principe di Carpi muore, lascia alla vedova una notevole somma affinché realizzi una biblioteca. È proprio Caterina, con ogni probabilità su consiglio del fratello Giovanni, a chiamare Aldo Manuzio perché faccia da precettore ai due figli, Alberto e Lionello, di cinque e tre anni. Un atto notarile conservato negli archivi carpigiani ci dice che l’8 marzo 1480 Aldo ottiene l’incarico di insegnamento a corte, nonché la cittadinanza con esenzione fiscale. Pochi mesi dopo, il 5 agosto, il «magistro Aldo Manutio de Bassiano» risulta proprietario di «unum caxamentum» che affaccia sull’attuale corso Cabassi (identificato nell’unico edificio gotico ancora esistente nella via, ma non si sa se in effetti sia proprio quello). In quanto precettore dei principini Aldo abita a palazzo, quindi è possibile che questa casa e un altro paio che gli sono intestate costituiscano un emolumento, sotto forma di riscossione degli affitti. Vengono assegnati a Manuzio anche alcuni campi coltivabili che andranno in eredità al figlio Paolo e saranno amministrati da Lionello Pio.
Tra Aldo e Alberto si instaura una relazione ben più solida di quella tra maestro e allievo che, lo vedremo, perdurerà fino alla scomparsa dell’editore, nel 1515. Nel primo dei cinque volumi di Aristotele che l’editore bassianese dedica al principe di Carpi (1495) fornisce al «dotto giovinetto» una sorta di vademecum: «A te infatti non manca nulla: non il talento, che possiedi in abbondanza; non l’eloquenza, di cui sei ben dotato; non i libri, né di cultura latina, né greca, né ebraica, di cui vai in cerca con una solerzia senza pari; non gli insegnanti più preparati, che tu hai assoldato senza badare a spese. Continua dunque a dedicarti, come stai facendo, alle nobili discipline: io certo, per quel che posso, non ti farò mai mancare la mia presenza».
Tali righe ci restituiscono un Manuzio attento, paterno, benevolo. È solo da dettagli come questi che possiamo cercare di ricostruire e immaginare il carattere di quest’uomo straordinario. Infatti, la rielaborazione della sua biografia, lacunosa per alcune parti della sua vita e della sua attività, è addirittura oscura per quanto riguarda gli aspetti personali. Vedremo che Erasmo ci descrive paturnie e spilorcerie del suocero, Andrea Torresani (o Torresano), ma di lui, a parte che era maniaco delle grammatiche, non ci dice nulla.
I tanti studiosi che si sono dedicati al primo editore della storia hanno provato ad azzardare qualche ipotesi, sulla base degli elementi conosciuti. Per esempio si sa dei molti amici, ai diversi livelli della scala sociale, mentre non si conoscono nemici, se non rivali editoriali, quindi si può pensare che fosse cordiale, una persona con la quale passare un po’ di tempo in piacevole compagnia. Era capace di lavorare per molte ore di seguito, applicandosi con attenzione a quel che stava facendo, probabilmente era pignolo, attento, e abile. Amava il lavoro di squadra e cercava di sollecitare in tutti i modi la collaborazione tra gli studiosi; quel che chiedeva in cambio erano manoscritti da poter stampare.
Non c’è dubbio che avesse il bernoccolo degli affari e che utilizzasse tribunali e amicizie per far valere i propri diritti, ma mai in modo violento e prevaricatore, in un’epoca che violenta e prevaricatrice lo era parecchio. Non manifesta mai l’aggressività tipica dei suoi contemporanei, anzi appare schivo e talvolta imbarazzato per la celebrità. Ci sono tuttavia da registrare alcuni litigi per questioni di denaro con collaboratori che a causa di tali liti lo abbandoneranno. Viene quindi da domandarsi se Aldo condividesse almeno in parte l’estrema taccagneria del suocero.
Andare oltre queste deduzioni, però, appare difficile. Com’era il suo rapporto con la moglie, così tanto più giovane di lui? E con i figli? Nell’ultimo testamento lascerà alle due figlie la facoltà di scegliere se maritarsi o monacarsi, ed era una concessione molto avanzata in quei tempi, ma, al di là di questo, altro non sappiamo.
Durante gli anni di Carpi Aldo Manuzio con ogni probabilità ancora non pensa alla stampa e si dedica al mestiere di precettore, che si presume gli riesca piuttosto bene: Alberto e Lionello Pio non saranno gli unici allievi con cui conserverà rapporti di affetto. Dev’essere comunque un’attività molto impegnativa, infatti si lamenta che, oppresso da incombenze di ogni genere, gli restano soltanto quattro ore al giorno per scrivere un trattato grammaticale a beneficio dei suoi allievi. Non specifica però quali siano gli altri suoi compiti, oltre all’insegnamento vero e proprio.
Uno dei pochi punti certi del soggiorno di Aldo a Carpi è che trascorre il suo tempo quasi sempre assieme ai principini e li accompagna prima a Ferrara (1481) e poi a Mirandola dallo zio Pico (1482), dopo che Venezia dichiara guerra agli Este. Conosciamo questo soggiorno, durato qualche mese, grazie a una lettera del Poliziano: Angelo Ambrogini – questo il suo nome – era il più importante grecista dell’epoca e diventerà molto amico di Manuzio; i due si scambiano una fitta corrispondenza, ma si incontreranno di persona soltanto una volta, a Venezia. È a Mirandola che Aldo rimane colpito dal greco raffinatissimo del fiorentino Poliziano, in una sua lettera che legge in compagnia dell’umanista cretese Manuel Adramitteno.
Giovanni Pico in quegli anni sta cercando di trasformare Mirandola in un centro culturale di prima grandezza e potrebbe essere che Aldo si imbatta proprio qui nell’idea di un’accademia che possa diventare luogo di scambio e discussione tra dotti conoscitori della cultura greca.
Si può presumere che Aldo abbia approfondito la propria abilità a esprimersi in greco antico nei ritrovi che i grecisti tenevano nella villa di Pico. Il tono delle sue lettere del periodo è tuttavia quello di un giovane che si sforza di ben figurare nel mondo intellettuale che lo circonda. È sopravvissuta un’unica lettera di Pico ad Aldo, in cui il signore di Mirandola esorta l’umanista a proseguire nell’indagine filosofica. Evidentemente Manuzio era anche un suo compagno di studi, oltre che un protetto.
Incerto, invece, è un possibile viaggio a Venezia di Aldo assieme ai giovani Pio (nel 1487), che potrebbe essere stato il primo contatto del futuro editore con la Serenissima. Tre anni prima Caterina si era risposata con Rodolfo Gonzaga e si ritiene che il ruolo di Aldo a corte fosse diventato con il tempo più influente rispetto a quello di semplice maestro e precettore dei figli di primo letto. Caterina avrà altri sei figli da Rodolfo. Questi rimarrà ucciso nel luglio 1495 nella battaglia di Fornovo, mentre la donna morirà nel dicembre 1501, avvelenata da una damigella che sembra si fosse innamorata di lei senza esserne corrisposta. Amore e morte in una corte del rinascimento.
Il soggiorno di Manuzio a Carpi termina tra l’autunno e l’inverno del 1489: un rogito notarile di ottobre dove Aldo di Sermoneta è indicato come precettore del principe Alberto costituisce l’ultimo atto ufficiale che ne registri la presenza.
Il rapporto con i Pio, come detto, continuerà: Aldo entra a far parte della famiglia, dal 1503 adotta il cognome Pio e dal 1506 lo userà per firmarsi. Delle dodici dediche ad Alberto abbiamo già detto, e si presume che da Carpi gli siano anche regolarmente arrivati finanziamenti. Atti ufficiali e lettere registrano le relazioni tra l’editore e Alberto III fino al 1509, ovvero fino a quando il principe si schiera con i nemici di Venezia, mentre i legami con Lionello II proseguono fino alla morte di Aldo.
Il tenore della corrispondenza dei fratelli Pio con Manuzio diverge già dal 1498: Alberto gli scrive in tono affettuoso e intimo riguardo a libri, a comuni frequentazioni culturali, a questioni che Aldo intrattiene a Carpi. Lionello, che talvolta si firma filius, si occupa invece del lato pratico dei rapporti, e risponde alle richieste di Aldo di gestire gli interessi nelle terre emiliane, come, per esempio, nel luglio 1508, quando informa l’editore di «aver avuto cura del raccolto delle sue terre e di averglielo fatto accreditare». D’altra parte Lionello ha sposato una nobile veneziana, Maria Martinengo, e quindi le connessioni tra il castello di Novi, dove la coppia risiede, e la Dominante rimangono intense. Un atto notarile del marzo 1508 registra il mandato di Lionello Pio a Manuzio per ottenere una condotta militare dalla Serenissima (condotta che però non verrà concessa).
Aldo è legalmente un membro a tutti gli effetti della famiglia Pio e ha intestate a sé numerose terre che, almeno in parte, risulteranno proprietà degli eredi ancora nel 1556. Lionello nel settembre 1498 scrive a Manuzio affermando che manterrà fede alla promessa del fratello Alberto di donargli altre terre e un castello dove installare una stamperia e l’accademia. Non è quindi casuale che Aldo scriva che userà il «bel castello» per «insediarvi un’accademia nella quale, posta fine alla barbarie, si coltivino con impegno le belle lettere e le belle arti».
La donazione del castello, tuttavia, non diventerà mai effettiva, mentre Aldo nei momenti di difficoltà, nel 1506 e nel 1510, lo reclama per potersi trasferire con famiglia e stamperia. Sono entrambi anni nei quali Manuzio è assente da Venezia; i motivi li vedremo meglio più avanti.
Il castello è stato identificato con quello di Novi dove, come detto, risiedono Lionello e la moglie e dove effettivamente viene installata una tipografia che stampa una sola edizione. Secondo una fonte settecentesca e non verificabile, Alberto III avrebbe invitato Manuzio ad allestire una tipografia, ma questi ormai si era trasferito a Venezia e avrebbe quindi declinato la richiesta del principe. Quel che è certo, invece, è che il carpigiano Benedetto Dolcibelli (o Dolcibello) del Manzo – il soprannome viene dal fatto che proveniva da una famiglia di macellai – impianta una stamperia a Carpi prima in città (1506) e poi nel castello di Novi (1508), dove stampa la suddetta unica edizione, e quindi si trasferisce a Ferrara.
Dolcibelli aveva lavorato – assieme a Giovanni Bissolo, pure lui di Carpi, e a Gabriele Braccio, di Brisighella – a Venezia nell’officina di Aldo, dove aveva imparato il mestiere. Si era però ritrovato coinvolto in una brutta storia di contraffazione dei caratteri greci aldini, che vedremo meglio nel capitolo sui falsi, e se n’era andato da Venezia assieme ai due complici continuando a stampare, dapprima a Milano e poi altrove. I documenti sopravvissuti riguardo a questa vicenda sono molto pochi e quindi la conosciamo solo a tratti. Di conseguenza non possiamo neanche sapere se nel 1506, quando Aldo va a Milano e a Mantova, ci siano stati o meno contatti tra lui e il suo ex lavorante, che in quel momento faceva il tipografo nella città dei Pio. Questo fatto comunque dimostra che Aldo si avvale della collaborazione di alcuni carpigiani al momento di aprire la sua tipografia a Venezia.
La presenza di Aldo a Carpi è eternata da un affresco nella cappella di Palazzo Pio. Molto ben conservato, opera del pittore Bernardino Loschi, sulla parete di destra raffigura una specie di gruppo di famiglia dei Pio: in primo piano il trentenne Alberto III, dalle fluenti chiome bionde, con un copricapo nero; alle spalle il padre Lionello I, che quando l’affresco viene dipinto (inizio Cinquecento) è ormai defunto da una ventina d’anni. In secondo piano il fratello più giovane, Lionello II. Davanti al principe Alberto stanno due figure vestite con un lungo abito nero e berretto dello stesso colore. Una delle due, quella più arretrata, è identificata con Aldo Manuzio, poiché si tratta di un uomo di una cinquantina d’anni, che era proprio l’età di Aldo quando l’opera è stata eseguita.
Il personaggio che è ritratto davanti, più giovane, potrebbe essere o il filosofo mantovano Pietro Pomponazzi o l’umanista cretese Marco Musuro; entrambi si trovavano a Carpi assieme a Manuzio ed erano più giovani di lui, il primo di una decina d’anni, il secondo di una ventina. Musuro, colto filologo, lo ritroveremo perché diventerà uno dei più stretti collaboratori di Aldo. L’affresco si è conservato perché dopo l’esautorazione dei Pio e il passaggio di Carpi agli Este è stato semplicemente coperto con una tenda e non distrutto, come spesso accadeva quando si voleva rimuovere la memoria dei signori spodestati.
Adesso lasciamo l’emiliana Carpi e seguiamo finalmente Aldo nella città dove cambierà la storia del libro: Venezia.
3.
Come si diventa editore
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia tra il 1489 e il 1490. Con ogni probabilità la sua intenzione era di continuare a insegnare, e nulla di quel che sappiamo (poco) del suo primissimo periodo nella Dominante lascia presagire che stesse già pensando di mettersi a stampare. Di conseguenza non abbiamo idea se e quanto abbia contato sulla sua scelta di spostarsi il fatto che la città all’epoca fosse l’indiscussa capitale dell’editoria. Forse quel che davvero lo attirava di Venezia era la presenza di tanti dotti umanisti, in particolar modo greci: «Venezia, città che possiamo definire la nuova Atene del nostro tempo per la presenza di moltissimi uomini dotati di eccezionale cultura», scriverà Aldo anni più tardi.
Comunque non amerà mai a fondo la città che lo ospitava, non si sentirà mai veneziano, non sarà mai animato da particolare trasporto per il luogo dove era forse arrivato perché non poteva farne a meno, e dove si è fermato perché soltanto lì poteva mettere in pratica il suo progetto editoriale. I suoi primi tempi veneziani sono contrassegnati dalla continuità dei legami con Carpi, sia per quel che fa, sia per i collaboratori che si sceglie (abbiamo già detto, e vedremo ancora, che nell’appena aperta tipografia lavorano alcuni carpigiani).
Poco dopo l’arrivo nella Serenissima signoria Aldo pubblica la sua prima opera, il Panegirico delle muse (Musarum Panegyris), un lavoro in latino che costituisce un po’ il manifesto del suo metodo di insegnamento. Per farlo si rivolge allo stampatore Battista Torti, un calabrese di Nicastro, che nel 1489 imprime il testo – più un opuscolo che un libro – formato da due componimenti in rima dedicati ad Alberto Pio nonché da una parte centrale costituita da una lettera a sua madre Caterina. Ce ne sono giunte soltanto sette copie, in Italia se ne trovano due: a Bologna e a Napoli.
Aldo osserva che latino e greco vanno insegnati assieme e non separatamente, prima il latino e poi il greco, come si usava al tempo, e insiste nel sottolineare il valore educativo della lettura dei classici in originale. Fino a quel momento era stato possibile conoscere l’antichità ellenica soltanto attraverso le traduzioni latine. Certamente si era in tal modo potuto entrare in contatto con un mondo che sarebbe stato altrimenti destinato a rimanere sconosciuto, ma nel contempo le traduzioni lo avevano alterato, distorcendolo attraverso le lenti del latino. Aldo quindi ritiene che sia necessario tornare alla fonte e leggere le opere greche direttamente in greco (pure questa una concezione sorprendentemente moderna, come si vede).
Manuzio porta con sé a Venezia il manoscritto del Panegirico: con ogni probabilità gli serviva per promuoversi e farsi conoscere come insegnante. Se era stato precettore dei principini di Carpi poteva ben diventarlo dei figli di qualche patrizio della città di San Marco. E infatti viene assunto da Pierfrancesco Barbarigo con il compito di far da maestro a Santo, suo figlio naturale. Difficilmente sarebbe potuta andargli meglio: il doge in carica, Agostino Barbarigo, è zio di Pierfrancesco, il precedente, Marco, era suo padre, e per di più il patrizio entrerà in società con Manuzio quando deciderà di aprire la stamperia.
Non dobbiamo commettere l’errore di ritenere che Aldo, maestro prima ed editore poi, pensasse a un’istruzione allargata al popolo, che immaginasse i suoi libri in mano a schiere di giovani animati dalla voglia d’imparare. Proprio no: si rivolge ai figli dei ricchi e dei molto ricchi – cioè a una fascia di popolazione che al massimo arriva al 5 per cento – e la sua idea è quella di istruire la futura classe dirigente attraverso lo studio di una lingua morta: il greco antico. Una lingua che non è possibile imparare da soli per la semplice ragione che nessuno la parla, quindi la si può apprendere soltanto a scuola. Il tutto ha poco a che fare con il valore intrinseco della letteratura classica, quanto piuttosto con un metodo: i ragazzini che crescono studiando sui medesimi libri, da adulti si capiranno meglio. Ai nostri giorni si direbbe networking, assomiglia un po’ alla «rete dei vecchi compagni di scuola» che ancora oggi unisce in Gran Bretagna la classe dirigente che ha frequentato Eton e poche altre public schools.
Patrizia Rosini -Giulia Farnese. Storia di una vita- Edizioni Archeoares-
Giulia Farnese. Storia di una vita ripercorre la storia di Giulia Farnese, icona del Rinascimento e figura complessa e intrigante. L’autrice, Patrizia Rosini, basandosi sullo studio e l’analisi delle fonti, ci restituisce una lettura realistica di questa grande donna che da secoli continua ad affascinare l’immaginario collettivo.
Giulia Farnese. Storia di una vita – Edizioni Archeoares
Patrizia Rosini, nata a Roma il 2 agosto 1965, dal 2004 si occupa di ricerca archivistica delle famiglie nobiliari italiane del Cinquecento. Particolarmente legata alla dinastia Farnese, nel corso dei suoi studi ha indagato la figura di Clelia, della quale ha curato la prima biografia.
Si è interessata, inoltre, della famiglia Caetani, Cesarini e Franciotti Della Rovere. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “La duchessa Cornelia Caetani Cesarini con il carteggio inedito presso l’Archivio Storico della Fondazione Camillo Caetani di Roma” (2009); “Clelia Farnese, la figlia del Gran Cardinale” (2010); “Regesto dei documenti di Giulia Farnese” (2012); “Regesto dei documenti della famiglia Franciotti Della Rovere” (2015); “Casa Cesarini. Ricerche e documenti” (2016); “Lettere di Clelia Farnese o a lei pertinenti nel Fondo Della Valle – Del Bufalo dell’Archivio Segreto Vaticano”(2016).
L’autrice Francesca Giurleo ci scrive in merito a “La famiglia Farnese” (Edizioni Archeoares 2012).
IL DUCATO DI CASTRO
Il testo espone con fervore e vivacità gli intrighi ed i complotti ideati, con disegni spesso subdoli, dai duchi Farnese che hanno governato il Feudo di Castro per poco più di 100 anni. In questo periodo il Ducato ha brillato come una stella, lasciando tracce di tale intensità che i secoli non sono riusciti a cancellare.
Nato per volontà del papa Paolo III nel 1537, il Ducato di Castro, che prendeva nome dalla sua capitale, è stato distrutto brutalmente nel 1649 per ordine di un altro papa, Innocenzo X, succube della cognata Olimpia Maidalchini, detta dai romani in modo dispregiativo “Pimpaccia” o “la Papessa”, una donna perfida, vera ispiratrice della terribile decisione dello stesso pontefice.
I PROTAGONISTI
La galleria di personaggi viene esposta cronologicamente tenendo conto del profilo psicologico di ognuno; da papa Paolo III, descritto sin dalla giovinezza come una figura turbolenta, divenuta poi irriverente al punto da negare l’esistenza di Cristo che eguagliava al dio Sole, al nipote cardinale Alessandro, figura affascinante di grande mecenate e nello stesso tempo personaggio enigmatico e misterioso, capace di nascondere grandi segreti, come quello di non aver mai voluto rivelare nemmeno alla figlia Clelia il nome della propria madre.
Ancora da Pierluigi Farnese, sodomita incallito noto per “lo stupro di Fano” ad Ottavio, secondo duca di Castro, tanto disprezzato dalla moglie Margherita d’Austria, che lo accusava di disturbi fisici, quali l’enuresi.
Anche le figure femminili vengono analizzate in tutta la loro profondità; fra le tante, tutte affascinanti e con proprie peculiarità, Margherita d’Austria era detta la Madama, (da cui a Roma “palazzo Madama” da lei abitato) una dama dal carattere forte e capace di far fronte allo stesso pontefice Paolo III. Diana di Francia, divenuta anche lei per poco tempo terza duchessa di Castro, nata forse per errore, aveva nelle sue vene sangue italiano. Ma ancora Margherita Farnese, poi Suor Lucenia, fanciulla timida ed inibita, considerata la vergogna della famiglia e pertanto vittima del fratello Ranuccio, uomo violento e frustrato.
Il lettore deciso ad avventurarsi fra le pagine del libro, scorrerà velocemente le righe, attratto dal fascino di un mondo apparentemente splendido, di cui ci è rimasta una flebile traccia nei libri di storia.
Franco Leggeri Fotoreportage–ROMA-chiesa di Santa Passera, la chiesa che ispirò “Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini-Santa Passera, chiesetta graziosa ma in cattivo stato – fra il Tevere e via della Magliana. Costruita nel V secolo nel luogo in cui le spoglie i santi alessandrini Giovanni e Ciro, in basso a destra, approdarono a Roma, la chiesa fu in seguito intitolata a Santa Passera, santa che non è mai esistita.
– ROMA-Santa Passera
La chiesa di Santa Passera è una chiesa romana risalente agli inizi del V secolo, ristrutturata e ampliata nel XIV secolo, edificata sui resti di un mausoleo romano e di una cripta risalenti alla seconda metà del II secolo.
L’origine del nome della chiesa, ubicata nel quartiere Portuense di Roma, è incerta poiché non è mai esistita una santa di nome “Passera”.
Storia
Secondo la tradizione, essa fu costruita sulle rive del Tevere nel luogo in cui, agli inizi del V secolo, i resti di due santi alessandrini, Ciro e Giovanni, furono sbarcati, provenienti dall’Egitto, per essere trasferiti nella città di Roma. Dal secolo XI in poi appartenne al monastero di Santa Maria in Via Lata, e, nei documenti dell’XI–XIII secolo è chiamata Sancti Abbacyri oppure Sancti Cyri et Iohannis, in ricordo dei due santi per i quali fu costruita la chiesa. Nel XIV secolo al nome di Abbaciro si sostituì quello di Santa Pacera o Passera: così in un documento del 1317 si parla di un appezzamento posita extra portam Portuensem in loco qui dicitur S. Pacera.[1] Questo appellativo sarà poi prevalente nei secoli successivi.[2]
Sull’origine del nome “Passera”, santa che non è mai esistita nella storia del cristianesimo, l’ipotesi è che esso derivi dal titolo Abbàs Cyrus (“padre Ciro”), da cui il nome Abbaciro: dalla storpiatura popolare di questo termine sarebbero derivati Appaciro, Appàcero, Pàcero, Pàcera e infine Passera.[3]
A confondere ulteriormente l’onomastica della chiesa si aggiunge inoltre l’errore popolare che volle arbitrariamente assimilare la fantomatica “santa Passera” con santa Prassede e festeggiarne in tal luogo la ricorrenza il 21 di luglio[3] in concomitanza con le celebrazioni di quest’ultima martire.[4][5]
Nel XIV secolo l’antica chiesa fu completamente ristrutturata e sopraelevata.
Descrizione
Esterno dell’abside
Il complesso di Santa Passera è composto di tre piani sovrapposti.
La chiesa
La chiesa superiore del XIV secolo è a pianta rettangolare ad un’unica navata, con abside e soffitto ligneo, edificata su di un edificio preesistente, un mausoleo romano, le cui caratteristiche architettoniche ancora si distinguono esternamente sul lato sinistro della chiesa; l’edificio presenta tratti molto simili al cenotafio di Annia Regilla, quest’ultimo risalente alla seconda metà del II secolo d.C..[2] La facciata della chiesa si trova in una posizione elevata, preceduta da una terrazza a cui si accede tramite una doppia rampa di scale. All’interno un presbiterio semicircolare che custodisce l’immagine del Cristo in compagnia di uno stuolo di santi. Un’altra pittura raffigura sempre il Cristo con i santi Ciro e Giovanni.[6]
L’oratorio
Al piano inferiore i resti sotterranei dell’oratorio medievale del V secolo cui si accede da una porta esterna sotto elevata rispetto al terreno. L’oratorio si compone di quattro locali costruiti con mattoni e intercomunicanti. Sulla porta campeggia l’iscrizione che testimonia l’antico utilizzo della struttura quale sepolcro dei santi Ciro e Giovanni:[2]
(LA)«CORPORA SANCTI CYRI RENITENT HIC ATQVEE IOANNIS
QVOÆ QUONDAM ROMÆ DEDIT ALEXANDRIA MAGNA.»
(IT)«Qui risplendono i santi corpi di Ciro e Giovanni
che un giorno la grande Alessandria dette a Roma.»
(Iscrizione sulla porta d’ingresso della cripta[5])
La cripta
Dall’oratorio una scaletta consente di scendere nella stretta criptaipogea a pianta rettangolare che originariamente custodiva i resti dei due santi martirizzati. L’ambiente, interrato dopo il 1706, riscoperto nel 1904, è databile tra la fine del II secolo e l’inizio del III secolo. La poca illuminazione proviene da un’apertura nella volta e dalle scale. Difficilmente visibili sulle pareti tracce di decorazioni pittoriche, in parte ammalorate dalle innumerevoli piene del vicino Tevere, e in parte vandalizzate. Si intravedono ancora tracce di decorazioni a carattere funerario: sulla volta alcuni glifi e stelle. Sulla parete nord era rappresentata, con in mano la bilancia, la dea Dike, quindi un uccello e un pugile. Sulla parete sud si intravede una pecora e alcuni tratti in pigmento rosso. Verso la fine XIII secolo fu dipinta una Madonna col Bambino, asportata e trafugata nel 1968.[2]
Nella cultura di massa
La corrispondenza del nome dell’ipotetica santa con quello dell’organo sessuale femminile, così come noto nel dialetto romanesco e citato dal poeta Giuseppe Gioachino Belli, ha spesso dato origine a doppi sensi e giochi di parole diffusi popolarmente.[6][7][8]
^Santa Prassede di Roma, in Santi, beati e testimoni – Enciclopedia dei santi, santiebeati.it.
Antonio Bosio, Roma sotterranea opera postuma di Antonio Bosio romano antiquario ecclesiastico singolare de’ suoi tempi, a cura di Giovanni Severani da S. Severino, Roma, Lodovico Grignani, 1650.
Lilia Berruti, Santa Passera: una chiesa per una Santa che non c’è, in Capitolium. Rassegna di attività municipali, anno XL, n. 5, Roma, Arti Grafiche Vecchioni & Guadagno, 1965.
Claudio Rendina, Le Chiese di Roma, Roma, Newton & Compton, 2007, p. 290, ISBN978-88-541-0931-5.
-La tirannia della bellezza nella Roma dei Borgia-
Casa Editrice Bompiani
Una biografia di Giulia Farnese storica sorprendente come un romanzo: la vita piena di intrighi e colpi di scena della nobildonna che al pari di Lucrezia Borgia segnò un’epoca. Una biografia storica sorprendente come un romanzo: la vita piena di intrighi e colpi di scena della nobildonna che al pari di Lucrezia Borgia segnò un’epoca. I libri di storia riservano uno spazio residuale alle figure femminili soprattutto dell’antichità e dell’epoca moderna. Giulia Farnese, nata a Capodimonte nel 1475 e morta nel 1524 a Roma, meglio nota come Giulia la Bella, è una delle rare eccezioni. E a buon diritto: non solo la sua avvenenza catturò l’attenzione di papa Alessandro VI ma grazie allo stretto rapporto con la curia papale si spalancarono davanti alla famiglia Farnese le strade del potere. In meno di cinquant’anni con una serie di coraggiose scelte di vita, fortunati incontri e giochi di palazzo rese il nome dei Farnese un riferimento imprescindibile per i secoli successivi in una Roma dominata dai Borgia e da numerose casate in lotta per ricchezza e onore.
Casa Editrice Bompiani
La casa editrice Bompiani, fondata da Valentino Bompiani nel 1929, si è presentata fin da subito al pubblico con un forte progetto di apertura alle esperienze narrative non solo italiane.Ne è testimone l’antologia Americana curata nel 1941 da Elio Vittorini, che ha rappresentato uno spartiacque per la nostra cultura e un modello di esplorazione delle ricerche espressive d’oltreoceano. Questo progetto ha continuato a caratterizzare l’evoluzione della casa editrice nei decenni a venire. L’attenzione, a tutt’oggi, si concentra sulla narrativa e saggistica, sia italiana che straniera, in particolare con le collane: “Letteraria italiana” e “Letteraria straniera” per la narrativa; e “Saggi Bompiani”, “Bompiani Overlook”, “PasSaggi”, per la saggistica. Le collane “Classici Bompiani”, “Classici della Letteratura europea” e “Il pensiero occidentale” sono volti alla valorizzazione di autori e opere imprescindibili del nostro patrimonio letterario. I “Tascabili Bompiani” custodiscono il patrimonio letterario della casa editrice, patrimonio che viene arricchito e rinnovato continuamente. Bompiani pubblica anche la rivista letteraria Panta (il cui nome è stato scelto da Alberto Moravia) – fondata da Pier Vittorio Tondelli, Alain Elkann, Elisabetta Rasy ed Elisabetta Sgarbi – che costituisce un’officina narrativa in cui sono cresciute e crescono alcune tra le nuove voci del panorama letterario. Fra gli autori del catalogo ricordiamo, tra gli altri, Umberto Eco (che con Bompiani ha pubblicato anche il notissimo Il nome della Rosa), Paulo Coelho, John R. R. Tolkien, Susanna Tamaro, Andrea De Carlo.
Copia anastatica dell’Articolo scritto da MARIA BELLONCI
per la Rivista PAN diretta da Ugo Ojetti- n°3 del 1935
MARIA BELLONCI-Scrittrice
Biografia di Maria BELLONCI-Nacque a Roma il 30 novembre 1902, primogenita di Gerolamo Vittorio Villavecchia, discendente da una famiglia aristocratica piemontese, e di Felicita Bellucci, di origine umbra. Il padre, professore di chimica, fondatore della chimica merceologica in Italia, dal 1896 al 1934 tenne la direzione del Laboratorio chimico centrale delle gabelle.
MARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro Bembo
Breve biografia di Lucrezia Borgianasce a Subiaco il 18 aprile 1480, figlia di Vannozza Cattanei (la donna che rimase al fianco di Alessandro VI per un quindicennio, devota come una moglie morganatica e madre di quattro dei suoi figli: Juan, Cesare, Jofrè e Lucrezia) e di Rodrigo Borgia, poi papa con il nome di Alessandro VI. Si sposa a 13 anni con Giovanni Sforza di Pesaro (il suo abito nuziale vale ben 15.000 ducati) e successivamente a 18 anni, dopo il decreto di annullamento del primo matrimonio, con Alfonso d’Aragona, duca di Bisceglie, fatto uccidere due anni dopo dal fratello di lei, Cesare Borgia, il celebre Valentino. Fra i due matrimoni intesse inoltre una relazione con Pedro Calderon, uomo di fiducia del padre. Anche questo rapporto viene troncato drammaticamente dalla famiglia: prima ferito di spada, Pedro viene poi ritrovato cadavere nel Tevere, mani e piedi legati. In seguito ai nuovi progetti matrimoniali della famiglia Borgia, Lucrezia si sposa con Alfonso d’Este, primogenito del duca Ercole I. Accompagnata da un grande corteo, il 2 febbraio 1502 entra a Ferrara, portando con sé la terribile fama di essere al tempo stesso “figlia, moglie e nuora” del papa Alessandro VI.
Biografia di Maria BELLONCI
di Luisa Avellini – Dizionario Biografico degli Italiani
MARIA BELLONCI
Biografia di Maria BELLONCI-Nacque a Roma il 30 novembre 1902, primogenita di Gerolamo Vittorio Villavecchia, discendente da una famiglia aristocratica piemontese, e di Felicita Bellucci, di origine umbra. Il padre, professore di chimica, fondatore della chimica merceologica in Italia, dal 1896 al 1934 tenne la direzione del Laboratorio chimico centrale delle gabelle.
Gli studi e il matrimonio, 1909-1928
Iscritta nel 1909 alla scuola delle monache del Sacro Cuore, presso Trinità dei Monti – un collegio che le sarebbe rimasto nel cuore come una seconda casa piena di affabili, profonde liturgie – fra il 1913 e il 1921 frequentò il ginnasio-liceo Umberto I. Di questi anni intellettualmente attivi e illuminati dai primi amori adolescenziali rievocò, in una pagina giornalistica datata 3 gennaio 1959, «il senso di vita traboccante dei miei sedici anni per il quale mi pareva d’essere chiusa in una mandorla d’immortalità» (Pubblici segreti, Milano 1965, pp. 110 s.1). Ma una formazione interiore importante è attribuita nei suoi ricordi anche ad alcune frequentazioni ambientali, come S. Maria Maggiore: la basilica a pochi passi dall’abitazione familiare, in via Farini, le offriva «il linguaggio narrativo dei mosaici» e la contemplazione di «cadenze espressive» che suggerivano un «neorealismo storico» (ibid., 30 agosto 1959, p. 173).
Nel corso degli anni Venti si presentarono due eventi biograficamente decisivi: la stesura di una prima prova narrativa – il romanzo Clio o le amazzoni (1922) – e l’occasione di sottoporre quella prova d’apprendistato al giudizio di Goffredo Bellonci, illustre critico militante d’origine bolognese, nonché in quegli anni redattore del Giornale d’Italia. Il lavoro, giudicato promettente ma acerbo, non vide mai la luce; ma la relazione allieva-maestro che s’instaurò con Bellonci, più anziano di vent’anni, generoso di consigli di lettura e di presentazioni ai letterati romani, sfociò nel fidanzamento (1925-27) e quindi nel matrimonio, celebrato l’11 agosto 1928. «Quando ci sposammo, lui mi fece lezione sui classici per anni […]. Sono stata cresciuta da lui per scrivere», confessò anni dopo (intervista a Giorgio Torelli, in Epoca, 4 marzo 1973).
La biografia di Lucrezia Borgia, 1929-1939
Il 7 luglio 1929 uscì, sulle colonne del Popolo di Roma, l’articolo Letture di fanciulle: primo di una serie di interventi pubblicati due volte al mese nella rubrica «L’altra metà», dedicati al tema della donna nella vita sociale e nella storia, un dato della biografia intellettuale che situò precocemente la questione critica dello specifico e personale femminismo di Maria. Qualche mese dopo (marzo 1930) l’illustre filologo e accademico d’Italia Giulio Bertoni, imbattutosi in un elenco di gioielli di Lucrezia Borgia, affidò alla già appassionata indagatrice di fonti il compito di studiare il documento per darne conto all’associazione di Studi romani. La descrizione delle gioie borgiane – in particolare quella dell’armilla recante inciso un distico di Pietro Bembo – aprì all’aspirante scrittrice nuovi orizzonti: i tempi inquieti e il profilo chiaroscurale della figlia di papa Alessandro VI, tramite il medium degli oggetti che la ornarono, si imposero come esigenza di studio storico approfondito e di racconto biografico, in un percorso di letture e di ricerche archivistiche svolte fra Roma, Mantova e Modena, che si protrasse dall’inverno del 1930 fino al 1937.
Nel frattempo Goffredo Bellonci aveva informato Arnoldo Mondadori dell’attività in corso e si avviò così la trattativa per la pubblicazione del lavoro. Alla curiosità dell’editore, fece riscontro la lettera di Maria: «Si tratta di un’opera alla quale lavoro da due anni assiduamente: ho voluto seguire la vita veramente straordinaria di questa donna sui documenti del tempo, numerosissimi, sparsi in tutti gli archivi di’Italia. Ho avuto la fortuna di trovare molte cose inedite che mi permettono di ricostruire questa vita con una novità di prospettiva che, credo, stupirà tanto quelli che sono avvezzi a vedere nella Borgia il simbolico fiore del male, quanto quelli che addirittura vorrebbero fare di lei un innocente fiorellino sbattuto dalla tempesta» (Milano, Fondazione Mondadori, Arch. storico Arnoldo Mondadori editore, Carteggio Maria Bellonci 1932-1968: 5 novembre 1932).
Nel marzo 1933 l’autrice firmò il contratto per la pubblicazione e nel 1935 si apprestava alla consegna, ma una serie di difficoltà editoriali rinviò la programmazione fino alla primavera del 1938 quando finalmente, dopo aver accettato a malincuore la richiesta di alcuni tagli, congedò il suo lavoro per la stampa.
Nel Piccolo libro delle consolazioni segrete (Fondazione Bellonci), un diario tenuto fra 1936 e 1937, si trova conferma di un dato importante, documentato dagli studi di Ilaria Calisti (2008, Appendice) e di Luisa Avellini (2011): la nascita di un’amicizia profonda, corroborata dall’interesse comune per i destini femminili, e in particolare per il diritto delle donne all’affermazione intellettuale, e sfociata in un insistito scambio intellettuale, con Anna Banti (Lucia Lopresti, moglie di Roberto Longhi). Dalle lettere di quest’ultima (della corrispondenza fra le due scrittrici restano solo le sue lettere, poiché Banti distrusse quelle di Bellonci con molti altri documenti verso la fine della vita), come anche dal Diario breve 1938-1943 (conservato anch’esso presso la Fondazione Bellonci) si evince che, ricevute dall’editore le bozze della biografia borgiana nel luglio 1938, lo scrittoio di Bellonci vide spesso la vicinanza informata e partecipe dell’amica.
Lucrezia Borgia e il suo tempo uscì nella primavera del 1939, con successo di pubblico e traduzioni in tedesco, ungherese e spagnolo. In luglio vinse il premio Viareggio ex aequo con Arnaldo Frateili (per Clara fra i lupi, Bompiani) e Orio Vergani (per Basso profondo, Garzanti). Il cammino dell’opera prima continuò sul binario delle ristampe e delle nuove edizioni con revisione dell’autrice, come quella del 1960, rivista e arricchita di numerose illustrazioni, ma soprattutto quella del 1974 nella collana «Scrittori italiani e stranieri» (SIS) sotto gli auspici di Vittorio Sereni, che avendo già accolto nella stessa collana una seconda edizione de I Segreti dei Gonzaga, sollecitava l’autrice a sottrarre anche il primo libro dal genere storiografico per sottolinearne la valenza narrativa.
Il secondo romanzo storico, 1941-1947
La rinnovata spinta creatrice che portò all’uscita nell’immediato dopoguerra de I Segreti dei Gonzaga (Milano 1947 e 1971) si muoveva in parallelo con le revisioni di Lucrezia. In questa fase, nello sguardo di Bellonci ormai sistematico sul Rinascimento e via via più solido e acuto, il profilo di Isabella d’Este – già vivido e plasticamente antagonista della Lucrezia Borgia del 1939 – ascese, nella sezione dei Segreti a lei riservata (Isabella fra i Gonzaga), al ruolo di comprimaria, per assurgere a quello di ‘fantasma’ di primo piano nel successivo impegno narrativo.
Anche per il trittico sui Gonzaga, come era accaduto con i gioielli di Lucrezia, lo spunto narrativo nacque da situazioni visuali, in particolare nella sezione Ritratto di famiglia condotta sulla contemplazione degli affreschi della Camera degli Sposi di Andrea Mantegna, ma anche per Isabella fra i Gonzaga con le visite pressoché medianiche all’appartamento della marchesa nel castello di Mantova. Si trattava di interrogare oggetti, profili pittorici, ambienti per trarne quasi il calco che l’intelligenza, la sensibilità, il più intimo carattere di una figura del passato vi avevano impresso.
Nella corrispondenza con Mondadori del 1941 Bellonci, segnalando l’uscita del Ritratto di famiglia nel numero di febbraio de La Lettura, dava notizia di una proposta di Bompiani, per aderire alla quale chiedeva l’autorizzazione al suo editore. Bompiani si diceva disposto a raccogliere il Ritratto in un volumetto illustrato, aggiungendovi anche lo scritto in corso di stesura dedicato all’appartamento di Isabella d’Este nel castello di Mantova, proposta forse sostitutiva dell’epistolario di Isabella che Bellonci avrebbe dovuto curare e che veniva rinviato per la chiusura dell’Archivio Gonzaga. Lo studio dell’appartamento e la lettura già avviata delle lettere della marchesa portavano dunque in primo piano negli interessi dell’autrice l’antagonista di Lucrezia, tanto che l’anno successivo trattò con Mondadori la stampa del libro organico cresciuto intorno al Ritratto con la gran parte delle tre sezioni (la terza era Il duca nel labirinto dedicata a Vincenzo Gonzaga) già pronte.
Tramite la preziosa documentazione epistolare dell’Archivio mondadoriano emerge, pur nel difficile passaggio della guerra e del primo dopoguerra vissuto dai Bellonci a Roma e nelle oscillazioni di umore di Maria connesse a una depressione strisciante, l’affollarsi di progetti nella mente della scrittrice, come il più volte preannunciato lavoro sulla Fine degli Este studiato per anni e poi abbandonato o come il progetto di un libro su Vespasiano Gonzaga di Sabbioneta accarezzato fino alla morte e mai realizzato.
Nel frattempo però un’altra brillante idea le aprì un nuovo fronte di attività e di notorietà: le riunioni di letterati che dal giugno 1944 erano divenute un’abitudine domenicale (gli ‘Amici della domenica’) di casa Bellonci si trasformarono nel 1946, con la partecipazione economica di Guido Alberti produttore del liquore Strega, nella struttura del premio letterario italiano più celebrato, dotato di un inusuale sistema di valutazione affidato a una votazione pubblica a due turni spettante all’intero gruppo di ‘Amici’.
La prima sessione del premio Strega, nell’estate del 1947, cui Bellonci per correttezza non presentò I segreti dei Gonzaga, vide vincitore Tempo di uccidere di Ennio Flaiano su una rosa di partecipanti di altissimo livello, fra i quali Alberto Moravia con La romana, Vasco Pratolini con Cronache di poveri amanti, Cesare Pavese con Il compagno, Anna Banti con Artemisia. Nella stessa estate, con i Segreti, Bellonci sfiorò la seconda affermazione al premio Viareggio, andato infine alle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci.
Narratrice senza limitazione di genere, 1951-1972
Nella seconda metà degli anni Quaranta le condizioni economiche precarie indussero Bellonci, come molti intellettuali del tempo, a impegnarsi in traduzioni di romanzi stranieri e in attività giornalistiche, proseguite peraltro per tutta la vita (da menzionare, per qualità e successo, le versioni dal francese dei Racconti di Stendhal, 1961; della Signora delle camelie di Dumas figlio, 1970; dei Tre moschettieri di Dumas padre, 1978; del Viaggio al centro della terra di Verne, 1983). Ma dal 1951, con la rubrica radiofonica Scrittori al microfono, iniziò anche una proficua collaborazione con la Rai, che dalla radio approdò poi nei decenni successivi alla televisione, passando per l’impegno nel Terzo Programma con l’appuntamento mensile delle ore 21 La donna e il secolo nel 1952, il ciclo di trasmissioni, sempre del Terzo Programma, intitolato Milano viscontea (1953) di cui pubblicò per la ERI i testi nel 1954, il programma Racconti di viaggio del 1955-57, fino alla rubrica «Taccuino» consistente nella lettura di un testo nell’intervallo di un concerto, che proseguì continuativamente sul Terzo Programma dal 1959 al 1974. Senza dimenticare la partecipazione, con l’Intervista impossibile a Lucrezia Borgia interpretata da Anna Maria Guarnieri, alla serie radiofonica delle «Interviste immaginarie» del 1974.
A fronte di un successo professionale costante, gli anni Cinquanta riservarono a Bellonci inquietudini private. Nel 1952 il marito venne licenziato dal Giornale d’Italia: la solidarietà del mondo della cultura e l’intervento di Alcide De Gasperi, cui Bellonci si era rivolta, procurarono all’anziano critico bolognese un nuovo impiego sulle pagine del Messaggero, ma la sua salute risentì del trauma con il primo manifestarsi dei disturbi cardiaci che lo avrebbero condotto alla morte nell’agosto 1964.
Al principio degli anni Sessanta, l’aspirazione a essere riconosciuta come narratrice senza limitazione di genere letterario aveva incontrato la chiaroveggenza critica di Giacomo Debenedetti, allora docente incaricato di letteratura moderna e contemporanea all’Università di Messina. In un intervento tenuto in un convegno a Positano nel 1961 Debenedetti – che frequentava con la moglie Renata il salotto degli Amici della domenica dal 1946 – si assunse l’impegno di parlare dell’opera di Bellonci mentre era in gestazione il terzo libro: un nuovo trittico di racconti, che sarebbe stato edito nel 1972 sotto il titolo di Tu, vipera gentile.
Secondo l’attitudine di intuizione prospettica propria delle letture critiche di Debenedetti fin dal 1961, il dato emergente fu che, in controtendenza rispetto a quanto il pubblico continuava ad attendersi da lei, «Maria Bellonci è intenta a un lavoro segreto» (cfr. Debenedetti, [1961], p. 9). Sembrava che la grande «trasparenza pubblica» dell’autrice, che in questa fase si confessava a diari e taccuini e diffondeva opinioni, interviste e polemiche, fosse un modo per «difendere il segreto dell’altro lavoro». «Ci si domanda» – concludeva Debenedetti – «se Maria Bellonci […] non abbia ora, nella sua più intensa maturità di scrittrice, il dubbio di avere solo giocato alla libertà». Ha ricevuto finora ordini dalla storia, e la tentazione ora può essere quella di «lavorare senz’ordini […] d’essere lei insomma a crearsi la trama delle sue storie con la stessa disponibilità con cui finora ne ha foggiato la forma vitale». Forse è giunto il momento per lei di sostituire ai romanzi ottenuti resuscitando la storia altri romanzi che «raccontino il possibile anziché riavverare il già accaduto» (ibid., pp. 10 s.). Debenedetti, scomparso prematuramente nel 1967, non ebbe la possibilità di verificare che il segreto del «romanzo romanzo» avrebbe dato il suo frutto migliore nell’ultimo lavoro di Bellonci: il racconto di se stessa narrato in prima persona da Isabella d’Este.
Lo ‘schianto’ della morte di Goffredo, vittima di un infarto fulminante il 31 agosto 1964, mentre era ospite nella villa dei Mondadori in occasione del premio Viareggio, costituì uno spartiacque nella vita e nella scrittura.
Il trauma venne lentamente riassorbito. Bellonci prese a occuparsi dell’Istituto internazionale per la storia del teatro fondato da Goffredo a Venezia nel 1963, accettò di condurre per Il Messaggero la rubrica «Pubblici segreti» che mantenne fino al 1970 (tali interventi sono apparsi postumi col titolo Pubblici segreti 2, Milano 1989, per cura di Anna Maria Rimoaldi, che aveva curato anche Segni sul muro: racconti, articoli ed elzeviri 1944-70, ibid. 1988), dette alle stampe sotto il titolo di Pubblici segreti alcuni scritti usciti su Il Punto fra 1958 e 1964 (ibid. 1965), e costituì infine nel 1966 l’Associazione Goffredo Bellonci. Nella citata intervista a Giorgio Torelli per Epoca del 1973, a quasi dieci anni dalla scomparsa del marito, del superamento della crisi diede lei stessa la valutazione più consona: «Ho portato con me questa privazione di Goffredo in quello che faccio. E credo si avverta, nei miei scritti, tanta disperazione umana».
La frequentazione assidua della Rai e l’attenzione per le possibilità dello strumento televisivo furono in questo periodo all’origine di un incontro che si rivelò determinante per il futuro della vita e dell’opera della scrittrice: la conoscenza nel 1965 – in occasione della proiezione dello sceneggiato televisivo di tre racconti di Grazia Deledda, George Sand e George Eliot – con Anna Maria Rimoaldi che ne aveva curato la regia. Di formazione scientifica – era laureata in matematica e statistica – la nuova amica, appassionata di teatro ed esperta dell’ambiente della produzione televisiva, divenne collaboratrice di fiducia di Bellonci che la nominò poi anche sua erede ed esecutrice testamentaria.
Nello stesso tempo, sembra fra il 1969 e il 1970, s’interrompeva il lungo e duraturo sodalizio con Anna Banti: probabilmente per dissensi innescati da valutazioni opposte su lavori letterari, per reciproche delusioni o, complessivamente, per il logorarsi inevitabile di un legame intenso e prolungato proveniente però da stagioni tramontate.
Dalla Rai giunse intanto (1969) la proposta di una sceneggiatura televisiva dedicata a Isabella d’Este: un lavoro che, con la collaborazione costante della Rimoaldi, occupò quasi sette anni e migliaia di pagine, senza mai pervenire alla messa in onda. Nel frattempo Bellonci pubblicò sempre con Mondadori Come un racconto gli anni del Premio Strega (Milano 1971: già apparso nel 1968 nella collana del Club degli editori dedicata alle opere vincitrici del premio e diretta da lei stessa) e, poco dopo, Tu, vipera gentile.
Gli archivi mondadoriani permettono una precisa ricostruzione della vicenda ideativa del nuovo trittico nel quale emerge, a fianco del racconto eponimo che rielaborava Milano viscontea uscito nel 1954 presso la ERI e di Soccorso a Dorotea aggiunto nel 1971, il taglio innovativo di Delitto di Stato, la cui stesura era stata avviata nel 1955, ma protratta per problemi esterni (come la sospensione da parte di Mondadori di un assegno mensile concordato in precedenza) e interni: di carattere esistenziale (i tentativi di curare una depressione ricorrente; la mancanza dell’incoraggiamento di Goffredo a proseguire il lavoro), ma anche legati alle esigenze narrative (secondo la testimonianza postuma di Rimoaldi, soprattutto la difficoltà di «proseguire il racconto con il linguaggio cancellieresco dello Striggi […] quasi raffreddato dal calcolo politico»: cfr. E. Ferrero, Note ai testi, in Opere, II, 1997, p. 1513).
Nel febbraio 1962 Delitto di Stato era uscito in una prima stesura sulla rivista Pirelli diretta da Vittorio Sereni. Circa dieci anni dopo, durante l’inaugurazione a Mantova del Teatro scientifico del Bibbiena, un incontro occasionale con un lettore appassionato alla vicenda riaccese la facoltà creativa di Bellonci, decisa alla fine a superare ogni difficoltà stilistica facendo narrare la storia dal giovane Paride. Tu, vipera gentile giunse in libreria nell’ottobre 1972, nella collana mondadoriana SIS.
La soddisfazione per il successo fu oscurata fra 1973 e 1974 dalla grave malattia e poi dalla morte della madre, cui nel decennio successivo si aggiunsero i lutti per il fratello Leo, deceduto nel marzo 1979, e per la sorella Gianna, morta dopo una prolungata malattia nel marzo 1983.
Il romanzo capolavoro, 1976-1986
Mentre, nel corso del 1976, si palesava il fallimento per problemi economici del monumentale sceneggiato su Isabella d’Este – un’amarezza cocente per la scrittrice – giunse però dalla Rai la proposta di sceneggiare in due puntate Delitto di Stato, per la regia di Gianfranco De Bosio. Con l’appoggio di Anna Maria Rimoaldi e in un’amichevole sintonia con il regista, Bellonci consegnò nella primavera del 1977 il copione, partecipò con grande interesse alle riprese svolte a Mantova nell’estate del 1980, con un cast eccellente (Sergio Fantoni, Remo Girone, Eleonora Brigliadori); non mancò infine nel gennaio 1982 alla presentazione a Londra del film televisivo in occasione della mostra sui Gonzaga allestita al Victoria and Albert Museum.
Già da due anni era peraltro immersa in un arduo lavoro commissionato dalla ERI per la ricostruzione del testo originale del Milione di Marco Polo da codici antichi francesi, italiani e latini. L’impresa doveva fiancheggiare l’uscita dello sceneggiato diretto da Giuliano Montaldo prevista per il novembre 1982: il testo vide infatti la luce in giugno. Si era aggiunta poi nel 1981 l’ulteriore richiesta della Rai di trarre un video novel dalla sceneggiatura di Montaldo, ritrascrivere cioè in forma romanzata un film televisivo secondo un’abitudine angloamericana inusuale in Italia. Non occorre sottolineare come tutte queste attività di scrittura di fatto sperimentali, del resto praticate in prospettiva drammaturgica anche nella sceneggiatura abbandonata del film televisivo progettato per Isabella d’Este, offrissero a Maria motivi tecnico-stilistici di riflessione, l’aprirsi di nuove ‘zone poetiche’ che sollecitavano risposte nuove, pur nel quadro costante della sua raffinata attenzione per lo strumento linguistico del narratore, quella lingua italiana la cui «fluidità senza bastioni di regole fisse rende possibili tutti gli ardimenti, tutti gli scorci, tutti i moti» (Pubblici segreti, 1965, p. 136). Cosicché, quando Montaldo (1983) la invitò a rileggere i sette copioni della sceneggiatura isabelliana, riprese vigore l’ipotesi, già presente nelle sue agende del 1976, di far confluire il lungo e inutilizzato lavoro in un romanzo, che tuttavia sembrò in competizione, nella progettazione creativa di Bellonci ormai ultraottantenne, con il fantasma di Vespasiano Gonzaga, anch’esso presente a intermittenza nella ricerca documentaria e nelle prove di scrittura dell’autrice.
Fu Isabella d’Este ad avere la meglio, e nell’accanito lavoro del 1984-85 prese forma il capolavoro di Bellonci, Rinascimento privato (Milano 1985), il racconto di Isabella che, in prima persona, mette in scena se stessa e la propria vita con il controcanto delle dodici lettere (senza risposta ma mai distrutte e spesso rilette) di Robert de la Pole.
L’invenzione dell’ecclesiastico inglese, ammiratore segreto della marchesa, fu un’intuizione del febbraio 1981, a seguito di una lettera del giovane prete canadese André Desjardins studioso del Rinascimento, ammiratore e corrispondente di Bellonci: dalla missiva, in cui il giovane si scusava per aver tenuto nascosto senza una precisa ragione il sacerdozio nell’incontro romano di anni prima, la scrittrice prelevò direttamente l’inizio della prima lettera di Robert a Isabella.
Il romanzo apparve sulla metà di aprile 1985. Un coro di amici l’anno dopo convinse Maria a presentare finalmente un ‘suo’ romanzo al ‘suo’ premio Strega. Ma era destino che, il 4 luglio, la sua Isabella dovesse vincere sola.
Maria Bellonci, cedendo a un male incurabile, era morta infatti a Roma, poche settimane prima, il 13 maggio 1986.
I suoi scritti sono stati riuniti nei due «Meridiani» Mondadori delle Opere, I-II, a cura di E. Ferrero, Milano 1994-97.
Fonti e Bibliografia
Milano, Fondazione Mondadori, Arch. storico Arnoldo Mondadori editore, Carteggio M. B. 1932-1968; Roma, Fondazione Bellonci: M. Bellonci, Piccolo libro delle consolazioni segrete 1936; Diario breve 1938-1943.
Debenedetti, M. B., presentazione di M. Forti, Milano s.d. [ma 1961]; A. Banti, I pubblici segreti. Appunti, in Paragone, XVI (1965), ottobre, pp. 137-139; M. Grillandi, Invito alla lettura di M. B., Milano 1983; V. Branca, B., M., in Diz. critico della letteratura italiana (UTET), a cura di V. Branca, Torino 1986, ad vocem; E. Ferrero, Introduzione, in M. Bellonci, Opere, I, cit., pp. XI-XXXVI; G. Leto, Cronologia, ibid., pp. XXXIX-LXXII; L. Serianni, La prosa di M. B., ovvero la ricerca dell’acronia, in Studi linguistici italiani, XXII (1996), pp. 50-64; M. Onofri, Introduzione, in M. Bellonci, Opere, II, cit., pp. XI-XLIV; V. Della Valle, L’italiano «d’autrice» di M. B., ibid., pp. XLVII-LXXII; M. Simonetta, M. B., Manzoni e l’eredità impossibile del romanzo storico, in Lettere italiane, L (1998), pp. 248-263; S. Roush, Isabella inventrix. History and creativity in M. B.’s «Rinascimento privato», in Italica, LXXIX (2002), pp. 189-203; G. Antonelli, La voce dei documenti nella scrittura di M. B., in Narrare la storia: dal documento al racconto, a cura di T. De Mauro – N. Fusini, Milano 2006, pp. 95-112; I. Calisti, Per il romanzo storico di mano femminile nel Novecento: lo sguardo sul Rinascimento di Anna Banti e M. B., tesi di dottorato, Università degli studi di Bologna, 2008; Id., «La maestosa armonia di un tempo senza tramonti»: la ‘plenitudo temporis’ romana in «Rinascimento privato» di M. B., in Fra Olimpo e Parnaso. Società gerarchica e artificio letterario, a cura di F. Pezzarossa, Bologna 2008, pp. 193-224; L. Avellini, Gli orologi di Isabella. Il Rinascimento di M. B., Bologna 2011
Fonte Enciclopedia TRECCANI online. di Luisa Avellini – Dizionario Biografico degli Italiani
-Articolo scritto da Eugenio Montale per la Rivista PAN n° 9 – 1934-
Attilio Bertolucci-Poeta italiano (San Lazzaro, Parma, 1911 – Roma 2000). Allievo di R. Longhi, le sue opere poetiche (Sirio, 1929; Capanna indiana, 1951; Viaggio d’inverno, 1971) sono il risultato di una felice contaminazione tra eredità ermetica e capacità di tradurre ogni astratta eleganza in un discorso poetico naturale. Tra le sue opere principali occorre segnalare anche il romanzo in versi La camera da letto (I, 1984; II, 1988).
Vita e opere
Ha insegnato storia dell’arte e poi ha svolto una intensa attività pubblicistica e di consulente editoriale. Ha diretto Nuovi argomenti. La sua produzione poetica è quasi tutta compresa nei due libri Capanna indiana e Viaggio d’inverno, pure preceduti da un esordio dall’accento inconfondibile come Sirio. L’elemento elegiaco ritorna nel già citato romanzo in versi La camera da letto: frutto di una lunga elaborazione, questo “romanzo famigliare” in versi è stato uno degli esiti più significativi della ricerca letteraria di Bertolucci. Il libro, svolgendo in forma poetica una materia squisitamente narrativa (la storia della famiglia B. e delle sue origini appenninico-padane), conferma non solo la sostanziale estraneità di B. alla tradizione della lirica pura, ma anche l’assoluta rilevanza del suo autonomo percorso nel panorama della poesia novecentesca. Dopo aver raccolto la sua produzione in un volume (Le poesie, 1990; 2ª ed. ampliata 1998), B. ha pubblicato, riunendo testi recenti e liriche di antica data, due nuovi libri di poesia, Verso le sorgenti del Cinghio (1993) e La lucertola di Casarola (1997), dai titoli suggestivamente evocativi di luoghi e paesaggi dell’infanzia. Non meno significativi, a illuminare la figura umana e intellettuale di B., altri volumi pubblicati nel corso degli anni Novanta: la raccolta di scritti saggistici Aritmie (1991); il carteggio con V. Sereni, Una lunga amicizia: lettere 1938-1982 (a cura di G. Palli Baroni, 1994); e All’improvviso ricordando (1997), un libro di “conversazioni” con P. Lagazzi. A cura dello stesso Lagazzi e di G. Palli Baroni è quindi apparso un volume di Opere (1997), comprendente poesie, traduzioni e saggi. La raccolta saggistica Ho rubato due versi a Baudelaire: prose e divagazioni (a cura di G. Palli Baroni, 2000), è apparsa poco prima della sua morte, mentre sono state pubblicate postume la raccolta di scritti La consolazione della pittura. Scritti sull’arte (a cura di S. Trasi, 2011), compiuta attestazione di un’apertura intellettuale scevra da ogni provincialismo, e l’antologia di testi e versi inediti Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto (2014). Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –
Attilio Bertolucci Poesie Fuochi in Novembre –Attilio Bertolucci Poesie Fuochi in Novembre –Attilio Bertolucci Poesie Fuochi in Novembre –Attilio Bertolucci Poesie Fuochi in Novembre –Attilio BERTOLUCCI
L’AQUILA – Lunedì 17 marzo 2025 si terrà la XXII edizione del Certamen Sallustianum, organizzato dal Centro Studi Sallustiani dell’Aquila, in collaborazione con il Convitto Nazionale “Domenico Cotugno” con i Licei annessi.
Una delle principali finalità del Certamen è quella di dare agli alunni meritevoli la possibilità di approfondire la conoscenza del mondo classico, anche attraverso le varie testimonianze che fanno parte integrante del tessuto storico del nostro territorio, che si colloca nel contesto di un percorso più ampio, quello delle grandi civiltà.
La XXII edizione del Certamen vedrà la partecipazione di 32 alunni, appartenenti a 12 licei italiani, e si svolgerà presso la sede del Liceo Classico “Domenico Cotugno”.
Al Certamen Sallustianum sono collegate le Giornate della Cultura Classica, che vogliono offrire l’opportunità di esplorare tra i percorsi del passato, a volte sconosciuti, le origini del nostro presente. Diventa necessario, in una società in cui tutto è messo in discussione, ritrovare le solide radici culturali della nostra civiltà e riscoprire i valori e le certezze che la stessa ci ha tramandato.
Nell’ambito delle Giornate della Cultura Classica sarà ospite del Centro Studi Sallustiani il prof. Andrea Angius, docente di Storia Romana ed Epigrafia Latina presso l’Università degli Studi “Roma Tre”, che martedì 18 marzo 2025, alle ore 11.00, in presenza presso il Liceo Classico “Domenico Cotugno” e su piattaforma digitale Zoom, terrà una conferenza dal titolo “Carceri, carcerieri e carcerati nella Roma antica”. Le credenziali per accedere all’incontro sono le seguenti: https://us06web.zoom.us/j/86542148242?pwd=E9KfdKutQ22PgrwFDb9yRlHyntR7Ri.1
Per ulteriori informazioni si rimanda alla pagina web del Centro Studi http://www.studisallustiani.com/
Pescara-Collezione Museo Paparella Treccia rinasce con nuova illuminazione, presentato catalogo –
PESCARA – “È come se la collezione del Museo Paparella Treccia fosse rinata, a Villa Urania”. Queste le parole del sindaco di Pescara Carlo Masci che stamani, insieme al vice sindaco Maria Rita Carota e al presidente della commissione Cultura, Mariarita Paoni Saccone, ha visitato la collezione dopo i lavori per realizzazione la nuova illuminazione.
Alla visita ha partecipato anche il presidente del Consiglio regionale dell’Abruzzo, Lorenzo Sospiri. Ad accoglierli è stato Augusto Di Luzio, presidente del Consiglio di amministrazione della Fondazione Museo Paparella Treccia Devlet, che ha parlato “di una vera e propria svolta visiva” della collezione, perché “con la nuova illuminazione sono tornati in evidenza i colori e i particolari delle ceramiche. Ora è come vedere questa esposizione per la prima volta. L’intervento è stato realizzato grazie alle indicazioni di due illuminotecnici di grande fama, e cioè Carlos Dodero e Sara Forlani. Dodero ha illuminato, tra l’altro, gli affreschi di Giotto alla Basilica di San Francesco di Assisi, e Forlani ha fatto parte del gruppo di illuminotecnici che hanno modernizzato l’illuminazione della Cappella Sistina. Oggi entrambi stanno lavorando alla nuova illuminazione del Quirinale, e insieme hanno creato l’effetto del sole al padiglione italiano all’Esposizione Universale di Dubai”, ha detto Di Luzio. Non è stato facile “rimuovere e poi riallestire la collezione, con i suoi 151 esemplari, e di questo ringrazio il personale”, ha aggiunto.
Oggi è stato presentato alla stampa anche il catalogo, curato “da due critiche romagnole ceramologhe di fama internazionale, Carola Fiocco e Gabriella Gherardi la cui notorietà è legata al fatto, clamoroso, che proprio loro hanno attribuito a Castelli la collezione delle ceramiche Orsini Colonna, per secoli attribuita a Faenza. Il catalogo (bilingue, italiano e inglese) ha una bella veste editoriale”, ha spiegato Di Luzio, “e si compone di un breve scritto di Paparella, della mia presentazione, di un saggio delle due critiche e di 146 schede tecniche, una per ogni esemplare: lo consegnerò al Museo del Louvre e al Museo Ermitage che posseggono le ceramiche di Castelli e l’ho già consegnato all’ambasciatore italiano in Spagna che conosce la collezione”.
Entusiasta il sindaco Masci che ha parlato del museo come di “un patrimonio della città e della nazione che vogliamo valorizzare sempre più. Abbiamo dei musei a Pescara di livello altissimo, visitati anche da molti stranieri, e mi auguro che siano conosciuti sempre più anche dai pescaresi, perché visitare un museo comporta una crescita culturale. E poi, grazie ai musei, il territorio cresce. Ringrazio Sospiri per la sua presenza perché mi fa piacere pensare che la Regione possa dare più forza al Museo e una maggiore capacità di espansione. Ma ringrazio soprattutto Di Luzio, che vive questa realtà con passione da 29 anni”.
Sospiri ha sottolineato che il suo “compito è di accelerare le ultime procedure che riguardano la Regione” con l’obiettivo, “come è accaduto per il Museo dell’Ottocento, di destinare una contribuzione a questo museo”, per consentirgli “di avere una maggiore tranquillità per la sua vita ordinaria” e di organizzare iniziative ed eventi. “L’intervento sull’illuminazione ha avuto un risultato meraviglioso”, ha commentato Carota, “e ha consentito di rivalorizzare questo enorme patrimonio che noi abruzzesi conosciamo troppo poco”. Paoni Saccone ha parlato del Museo come del “fiore all’occhiello della città” e il suo legame con questa collezione è datato, dal punto di vista affettivo, perché “mio padre rogitò l’atto costitutivo della Fondazione Paparella Treccia”, ha ricordato stamani.
-Il 4 FEBBRAIO 1966 VIENE SOPPRESSO L’INDICE DEI LIBRI PROIBITI-
-Index librorum prohibitorum-
Libri proibiti dall’Inquisizione (o Sant’Uffizio)L’ Indice dei libri proibiti (in latino Index librorum prohibitorum) fu un elenco di pubblicazioni proibite dalla Chiesa cattolica, creato nel 1558 per opera della Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione (o Sant’Uffizio), sotto Paolo IV. Ebbe diverse versioni e fu soppresso solo nel 1966 con la fine dell’inquisizione romana sostituita dalla congregazione per la dottrina della fede.
I precedenti:
Sin dalle sue origini le lotte della Chiesa contro le eresie comportarono la proibizione di leggere o conservare opere considerate eretiche: il primo concilio di Nicea (325) proibì le opere di Ario, papa Anastasio I (399-401) quelle di Origene e papa Leone I (440-461) quelle dei manichei. Il secondo concilio di Nicea (787) stabilì che i libri eretici dovessero essere consegnati al vescovo non tenuti di nascosto.
Il concilio di Tolosa del 1229 giunse a proibire ai laici il possesso di copie della Bibbia e nel 1234 quello di Tarragona ordinò il rogo delle traduzioni della Bibbia in volgare.
La diffusione di idee contrarie ai dogmi della Chiesa cattolica, e in particolare della Riforma protestante, fu grandemente favorita dall’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455): la Chiesa prese dunque provvedimenti nel tentativo di controllare quanto veniva stampato.
Alla metà del XVI secolo risalgono i primi cataloghi di libri proibiti: ne furono redatti dalle università della Sorbona a Parigi e di Lovanio, per ordine di Carlo V e di Filippo II.
Nel 1543 nella Repubblica di Venezia il Consiglio dei Dieci affidò agli Esecutori contro la Bestemmia il compito di sorvegliare l’editoria, con facoltà di multare chi stampava senza permesso: nel 1549, ad opera di monsignor Giovanni della Casa, fu pubblicato un Catalogo di diverse opere, compositioni et libri, li quali come eretici, sospetti, impii et scandalosi si dichiarano dannati et prohibiti in questa inclita città di Vinegia: l’elenco comprendeva 149 titoli e riguardava per lo più opere tacciate di eresia, ma la proibizione finì con il non essere applicata per l’opposizione dei librai e dei tipografi.
Nel 1559, ad opera del Sant’Uffizio, uscì a Roma un primo Cathalogus librorum Haereticorum, con intenti quasi esclusivamente anti-protestanti: vi comparivano anche le opere di Luciano di Samosata, il De monarchia di Dante Alighieri e perfino i commentari di papa Pio II sul Concilio di Basilea.
Indice dei libri proibiti
Il primo indice del 1558:
Tra i compiti del Sant’Uffizio, istituito da papa Paolo III nel 1542, era compresa la vigilanza sui libri. Sotto papa Paolo IV, venne pubblicato un indice dei libri e degli autori proibiti, detto “Indice Paolino”, redatto dall’Inquisizione e promulgato con un suo decreto, affisso a Roma il 30 dicembre 1558. L’elenco comprendeva l’intera opera degli scrittori non cattolici, compresi i testi non di carattere religioso, altri 126 titoli di 117 autori, di cui non veniva tuttavia condannata l’intera opera, e 332 opere anonime.
Vi erano inoltre elencate 45 edizioni proibite della Bibbia e veniva condannata l’intera produzione di 61 tipografi (prevalentemente svizzeri e tedeschi). Infine si proibivano intere categorie di libri, come quelli di astrologia o di magia, mentre le traduzioni della Bibbia in volgare potevano essere lette solo su specifica licenza, concessa solo a chi conoscesse il latino e non alle donne.
Tra i libri proibiti erano il “Decamerone” di Boccaccio, “Il Novellino” di Masuccio Salernitano e tutte le opere di Machiavelli, di Rabelais e di Erasmo da Rotterdam, il “Diálogo de doctrina christiana” dei Valdesiani.
Il papa, che da cardinale (Giampiero Carafa) era stato il primo direttore del Sant’Uffizio, attribuì a quest’ultimo e alla sua rete locale l’applicazione della proibizione, a scapito del potere dei vescovi.
Indice dei libri proibiti
La storia successiva:
Nuovi indici vennero redatti anche dal Santo Uffizio sotto i pontefici successivi e le due congregazioni furono spesso in conflitto in merito alla giurisdizione sulla censura dei libri. Anche i vescovi si opposero al potere dato all’Inquisizione in questo campo.
Nel 1596, sotto papa Clemente VIII venne redatta una nuova versione dell’indice (“Indice Clementino”), che aggiunse all’elenco precedente opere registrate in altri indici europei successivi al 1564. Ripeteva inoltre la proibizione di stampare opere in volgare, già promulgata da Pio V nel 1567.
La censura ecclesiastica ebbe pesanti conseguenze: le “espurgazioni”, a volte neppure dichiarate, potevano arrivare a stravolgere il pensiero dell’autore originario e i testi scientifici non conformi all’interpretazione aristotelico-scolastica erano considerati eretici. Nel 1616 furono bandite le opere di Copernico. Gli scrittori si autocensuravano e l’attività dei librai diventò difficile per le richieste di permesso e i pericoli di confisca.
Le “patenti di lettura”, tuttavia, che in teoria avrebbero dovuto essere rilasciate solo a studiosi di provata fiducia da parte del Santo Uffizio e durare solo per tre anni, si ottenevano invece in pratica abbastanza facilmente.
Nel 1758, sotto papa Benedetto XIV, le norme furono riviste e l’indice venne corretto e reso più comodo. Fu inoltre eliminato il divieto di lettura della Bibbia tradotta dal latino. Le competenze per la compilazione e l’aggiornamento dell’indice passarono a partire dal 1917 al Sant’Uffizio.
L’indice nei suoi quattro secoli di vita venne aggiornato almeno venti volte (l’ultima nel 1948) e fu definitivamente abolito solo dopo il Concilio Vaticano II nel 1966, sotto papa Paolo VI.
L’elenco comprendeva, fra gli altri, nomi della letteratura, della scienza e della filosofia come: Francesco Bacone (Francis Bacon), Honoré de Balzac, Henri Bergson, George Berkeley, Cartesio, D’Alembert, Daniel Defoe, Denis Diderot, Alexandre Dumas (padre) e Alexandre Dumas (figlio), Gustave Flaubert, Thomas Hobbes, Victor Hugo, David Hume, Immanuel Kant, Jean de La Fontaine, John Locke, Montaigne, Montesquieu, Blaise Pascal, Pierre-Joseph Proudhon, Jean-Jacques Rousseau, George Sand, Spinoza, Stendhal, Voltaire, Émile Zola.
Tra gli italiani finiti all’indice – scienziati, filosofi, pensatori, scrittori, economisti – vi sono stati Vittorio Alfieri, Pietro Aretino, Cesare Beccaria, Giordano Bruno, Benedetto Croce, Gabriele D’Annunzio, Antonio Fogazzaro, Ugo Foscolo, Galileo Galilei, Giovanni Gentile, Francesco Guicciardini, Giacomo Leopardi, Ada Negri, Adeodato Ressi, Girolamo Savonarola, Luigi Settembrini, Niccolò Tommaseo e Pietro Verri.
Tra gli ultimi ad entrare nella lista sono stati Simone de Beauvoir, André Gide, Jean-Paul Sartre e Alberto Moravia.
Indice dei libri proibiti-Giordano BrunoIndice dei libri proibiti-Paolo VIIndice dei libri proibiti
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