Sintesi del libro ” i poeti che fecero la Rivoluzione-” di Davide Brullo -Pietroburgo, novembre 1917. I bolscevichi guidati da Lenin prendono il Palazzo d’Inverno. La Rivoluzione russa è una rivoluzione politica, ma anche “estetica”. La Rivoluzione politica è anticipata da una rivoluzione delle arti e dei generi letterari che comincia nel 1905 e si accende, con forza definitiva, dagli anni Dieci. Intorno agli accadimenti della Rivoluzione converge un numero eccezionale di poeti e scrittori, unico nella storia della letteratura occidentale. In forme diverse, tutti, da Aleksandr Blok – che nel 1917 è segretario del Comitato che deve giudicare i funzionari zaristi – a Vladimir Majakovskij, il “megafono” della nuova Russia – e il più estremo avanguardista – da Boris Pasternak a Valerij Brjusov, che con nonchalance passa dalle convinzioni ‘di destra’ alla fede comunista – con tanto di onorificenze di Stato – da Sergej Esenin, antesignano delle rockstar, a Vladislav Chodasevic, Andrej Belyj, Velemir Chlebnikov e Nikolaj Tichonov, si appassionano alla Rivoluzione. Queste personalità eccezionali, a cui dobbiamo aggiungere, tra i tanti, i nomi di Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Nikolaj Gumilëv, Osip Mandel’stam, pubblicano tra il 1915 e il 1922 alcune delle opere letterarie più importanti del secolo. Questa è la loro storia. Questa è l’antologia dei poeti e degli scrittori che fecero la rivoluzione.
Descrizione
Pietroburgo, novembre 1917. I bolscevichi guidati da Lenin prendono il Palazzo d’Inverno. La Rivoluzione russa è una rivoluzione politica, ma anche “estetica”. La Rivoluzione politica è anticipata da una rivoluzione delle arti e dei generi letterari che comincia nel 1905 e si accende, con forza definitiva, dagli anni Dieci. Intorno agli accadimenti della Rivoluzione converge un numero eccezionale di poeti e scrittori, unico nella storia della letteratura occidentale. In forme diverse, tutti, da Aleksandr Blok – che nel 1917 è segretario del Comitato che deve giudicare i funzionari zaristi – a Vladimir Majakovskij, il “megafono” della nuova Russia – e il più estremo avanguardista – da Boris Pasternak a Valerij Brjusov, che con nonchalance passa dalle convinzioni ‘di destra’ alla fede comunista – con tanto di onorificenze di Stato – da Sergej Esenin, antesignano delle rockstar, a Vladislav Chodasevic, Andrej Belyj, Velemir Chlebnikov e Nikolaj Tichonov, si appassionano alla Rivoluzione. Queste personalità eccezionali, a cui dobbiamo aggiungere, tra i tanti, i nomi di Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Nikolaj Gumilëv, Osip Mandel’stam, pubblicano tra il 1915 e il 1922 alcune delle opere letterarie più importanti del secolo. Questa è la loro storia. Questa è l’antologia dei poeti e degli scrittori che fecero la rivoluzione.
I Vangeli di Ostromir -custoditi a San Pietroburgo
I Vangeli di Ostromir sono stati inclusi nel Registro internazionale dell’Unesco custoditi a San Pietroburgo . I Vangeli di Ostromir sono uno dei piu’ antichi documenti scritti nella versione russa dell’antico slavo. L’opera risale al 1057 e fu commissionata dal podesta’ di Novgorod, Ostromir, per la Cattedrale di Santa Sofia. Viene considerato il primo libro russo benche’ “I salmi di Novgorod”, scoperti nel 2000 su quattro tavolette cerate, abbiano probabilmente una eta’ superiore, forse di alcuni decenni.
Dal XI secolo e’ pervenuto fino a noi in 294 fogli di pergamena scritti in carattere onciale, con miniature e inserti decorativi. Attualmente i Vangeli vengono custoditi nella Biblioteca nazionale di San Pietroburgo.
Materiale fornito da Olga V. Petukhova.
I Vangeli di Ostromir in russo Остромирово Евангелие?, Ostromirovo Evangelie sono una delle opere più antiche scritte in lingua slava orientale. Furono composti dal diacono Gregorio per il PosadnikOstromir di Novgorod, nel 1056 o 1057, forse come dono per un monastero. Un gran numero di manoscritti russi si sono conservati a Novgorod poiché, a differenza degli altri centri, quest’ultima non fu mai occupata dai Mongoli[1].
Il libro è un manoscritto miniato, lezionario dei Vangeli, contenente unicamente letture per i giorni festivi e le domeniche. È scritto in una larga grafia onciale, in due colonne, su 294 fogli di pergamena della dimensione di 20 x 24 cm. Ogni pagina contiene 18 linee. L’opera è conclusa da una nota del redattore riguardante le circostanze della sua creazione. Al proprio interno si possono rinvenire i ritratti di tre evangelisti, dipinti da due differenti artisti, nonché numerosi elementi decorativi. La stretta rassomiglianza tra tale libro e il Lezionario di Mstislav ha suggerito agli storici la circostanza che entrambe le opere furono create seguendo il medesimo prototipo, ora perduto. I due artisti che hanno creato i ritratti degli evangelisti furono profondamente influenzati dagli analoghi modelli bizantini, ma le pagine raffiguranti Marco e Luca sembrerebbero derivare da piastre smaltate bizantine piuttosto che da manoscritti.
Storia recente
Si pensa che il libro sia stato trasferito da uno dei monasteri di Novgorod al Cremlino moscovita, dove è registrato per la prima volta nel 1701. Pietro il Grande diede ordine fosse trasportato a San Pietroburgo dove non fu fatta più menzione dello stesso fino al 1805, quando lo si rinvenne in una stanza di Caterina II.
I Vangeli furono quindi conservati alla Biblioteca Imperiale della capitale, dove sono ad oggi presenti. Aleksandr Vostokov fu il primo a studiarli a fondo, dimostrando che lo slavo ecclesiastico del manoscritto rifletteva il retroterra linguistico, l’antico slavo orientale, del suo compositore. La prima copia fu pubblicata sotto la supervisione del medesimo Vostokov nel 1843.
Nel 1932 la copertina tempestata di gemme, indusse un ladro a rompere la custodia ove era contenuta l’opera e a rimuoverne la copertina danneggiando la rilegatura delle pergamene.
Descrizione -Prima, donna. Margaret Bourke-White, il volume che ripercorre le vicende e il lavoro di una delle figure più rappresentative ed emblematiche del fotogiornalismo internazionale. Una donna che, con le sue immagini, le sue parole e tutta la sua vita, è stata in grado di creare un personaggio forte e invidiabile costruendo il mito attraente di se stessa.
Pioniera dell’informazione e dell’immagine, Margaret Bourke-White ha esplorato ogni aspetto della fotografia: dalle prime immagini dedicate al mondo dell’industria e ai progetti corporate, fino ai grandi reportage per le testate più importanti come Fortune e Life; dalle cronache visive del secondo conflitto mondiale, ai celebri ritratti di Stalin prima e poi di Gandhi (conosciuto durante il reportage sulla nascita della nuova India e ritratto poco prima della sua morte); dal Sud Africa dell’apartheid, all’America dei conflitti razziali fino al brivido delle visioni aeree del continente americano. E a un certo punto sarà Margaret Bourke-White stessa che accetta di porsi davanti e non dietro all’obiettivo, diventando a sua volta il soggetto di un reportage in cui il collega Alfred Eisenstadt documenta la lotta della fotografa contro il morbo di Parkinson, malattia che la porterà alla morte. Una battaglia in cui non avrà paura di mostrarsi debole e invecchiata, nonostante un’eleganza e un buon gusto a cui non rinuncerà mai, confermandosi ancora una volta la prima in tutto.
“Se ti trovi a trecento metri di altezza, fingi che siano solo tre, rilassati e lavora con calma”, era il motto di Margaret Bourke-White. Il libro pubblicato da Contrasto ne ripercorre i molti primati, raccontati lungo un doppio binario. Attraverso undici capitoli, che corrispondono ad altrettante fasi della vita della fotografa, la potenza delle immagini si accosta a quella della forte voce di Margaret Bourke-White. È infatti lei che, in prima persona, scrive e racconta il suo lavoro, le avventure vissute, le sfide vinte. Una scrittura visiva, che completa e arricchisce la storia di ogni sua memorabile fotografia.
Ecco gli 11 capitoli tematici:
– L’incanto delle acciaierie mostra i primi lavori industriali di Margaret, da quando nel 1928 apre un suo studio fotografico a Cleveland;
– La sezione Conca di polvere documenta invece il lavoro sociale realizzato dalla fotografa negli anni della Grande Depressione nel Sud degli USA;
– LIFE si concentra invece sulla lunga collaborazione di Bourke-White con la leggendaria rivista americana. Per LIFE Bourke-White realizzerà la copertina e i reportage del primo numero e tanti altri ancora lungo tutta la sua vita;
– Sguardi sulla Russia inquadra il periodo in cui Margaret Bourke-White documentò le fasi del piano quinquennale in Unione Sovetica fino ad arrivare a realizzare anni dopo – quando già era scoppiata la Seconda guerra mondiale – il ritratto di Stalin in esclusiva per LIFE;
– La sezione Sul fronte dimenticato documenta gli anni della guerra, quando per lei fu disegnata la prima divisa militare per una donna corrispondente di guerra. Sono gli anni in cui Bourke-White, al seguito dell’esercito USA sarà in Nord Africa, Italia e Germania;
– La sezione Nei Campi testimonia l’orrore al momento della liberazione del Campo di concentramento di Buchenwald( 1945) quando, come ha dichiarato la fotografa, “per lavorare dovevo coprire la mia anima con un velo”;
–L’India raccoglie il lungo reportage compiuto dalla fotografa al momento dell’indipendenza dell’India e della sua separazione con il Pakistan. Tra le altre immagini, in mostra anche il celebre ritratto del Mahatma intento a filare all’arcolaio;
– Sud Africa è la documentazione del grande paese africano durante l’Apartheid;
– Voci del Sud bianco è il lavoro a colori del 1956 dedicato al tema del segregazionismo del Sud degli USA in un paese in trasformazione;
– In alto e a casa raccoglie alcune tra le più significative immagini aeree realizzate dalla fotografa nel corso della sua vita;
– Il percorso termina con La mia misteriosa malattia, una serie di immagini che documentano la sua ultima, strenua lotta, quello contro il morbo di Parkinson di cui manifesta i primi sintomi nel 1952 e contro cui combatterà con determinazione. In questo caso, è lei il soggetto del reportage, realizzato dal collega Alfred Eisenstaedt che ne testimonia la forza, la determinazione ma anche la fragilità.
A conclusione di questo percorso biografico, accanto al testo della curatrice del volume Alessandra Mauro, chiude il libro un monologo di Concita De Gregorio. Attraverso esso, come in un lungo flusso di coscienza, è sempre la voce di Margaret Bourke-White che mette il punto sulla propria storia per raccontare la sua ricerca della “misura del fuoco”, mostrando quella capacità visionaria e insieme narrativa in grado di comporre le “storie” fotografiche dense e folgoranti che sono arrivate fino a noi.
I fotografi vivono tutto molto velocemente; l’esperienza ci insegna ad affinare il più possibile la nostra abilità, ad afferrare al volo i tratti salienti, i punti forti di una situazione. Quel momento perfetto e denso di significato, essenziale da catturare, spesso è il più effimero e le possibilità di approfondimento sono rare. Scrivere un libro è il mio modo di digerire le esperienze che vivo.
Margaret Bourke-White
Kit di 8 cartoline di Margaret Bourke-White Dimensioni: 12x17cm-
Soggetti: Ritratto Margaret Bourke-White Montana 1936 Diga Fort Peck Gandhi con l’arcolaio In volo su Manhattan La fila per il pane Il funerale di Gandhi New York
Soggetti: Ritratto Margaret Bourke-White Montana 1936 Diga Fort Peck Gandhi con l’arcolaio In volo su Manhattan La fila per il pane Il funerale di Gandhi New York
Articolo di Hilda Girardet -Cinquanta anni fa “Com – Nuovi Tempi”
Articolo di Hilda Girardet-4 ottobre 2024-Confronti celebra in questi giorni i cinquant’anni della fusione dei due settimanali Nuovi Tempi e Com. Il 6 ottobre 1974 il pastore valdese Giorgio Girardet, fondatore nel 1967 e direttore di Nuovi Tempi, e dom Giovanni Franzoni, direttore del cattolico Com – ex abate benedettino della Basilica di San Paolo Fuori Le Mura e sospeso a divinis per le sue posizioni a favore dell’obiezione di coscienza e poi del divorzio – misero a segno una operazione che ha dell’incredibile, rinunciando entrambi al proprio giornale per costituirne uno comune. Una operazione che tra l’altro intercettò un bisogno reale, visto che si passò in breve dai 5/6000 ai 30.000 abbonati!
La decisione della fusione venne presa in pochi mesi, anche se secondo le prassi dell’epoca ebbe diversi passaggi: decine e decine di assemblee dei lettori, consultazioni pubbliche e degli organi proprietari, dibattiti e discussioni anche accese. Lo scopo dichiarato era di far confluire e dare voce al “movimento” che aveva visto la partecipazione di gruppi di protestanti “marginali”, redattori e lettori di Nuovi Tempi, e cattolici di base o “del dissenso” come erano chiamati allora.
Un’operazione ecumenica? In parte lo fu, ma secondo modalità e intenti peculiari. Certo non fu un ecumenismo “istituzionale”: non si trattò di far dialogare due realtà ecclesiali mettendo a confronto questioni dogmatiche e pratiche di fede alla ricerca di un terreno comune. Neppure si trattò da parte evangelica della volontà di far conoscere il protestantesimo a un Paese cattolico, ancora fortemente integrista e confessionale. Se fu ecumenismo lo fu in un senso diverso. Così lo spiegava Nuovi Tempi (19/5/1974): «… il dato confessionale (…) viene fortemente relativizzato perché ciascuno è posto dall’evangelo di fronte alla necessità di superare la propria storia e riconoscere le cose nuove che il Signore prepara per il suo popolo. Non era del resto questo lo spirito originario dell’ecumenismo? … un movimento in cui tutte le chiese riconoscevano di doversi convertire e non le une alle altre ma tutte al Signore».
La creazione di un unico settimanale fu una conseguenza, lo “sbocco naturale” si disse allora, delle esperienze in cui cattolici e evangelici si erano trovati come credenti fianco a fianco a percorrere un cammino comune all’interno delle lotte e in solidarietà con gli oppressi. Ribadendo che lo scopo del giornale è «riconoscere i segni del Signore che viene in mezzo agli eventi contraddittori del presente», Girardet scriveva il 6 ottobre: «Il giornale nasce dunque come un segno di speranza. Quella salvezza o “liberazione” che Gesù ha compiuto nella sua morte e risurrezione e che l’evangelo annuncia, noi la viviamo già oggi, mentre si realizza nella storia (parzialmente, ma in modo reale) nelle lotte che in tutto il mondo i popoli oppressi e le classi sfruttate combattono per costruire una società più umana»”
Il linguaggio, forse desueto, esprimeva la volontà di essere presenti all’interno della società, inseriti nelle sue lotte per la giustizia e i diritti civili e sociali. È difficile per chi non l’ha vissuto rendersi conto di quegli anni, spesso schiacciati nel ricordo dal peso dei successivi anni di piombo… difficile immaginare la tensione ma anche le speranze che mossero alla partecipazione migliaia e migliaia di studenti, operai, insegnanti, donne, intellettuali, artisti, ecc.
Furono anni tumultuosi, ricchi di creatività e novità radicali, immaginazione, discussioni, battaglie ideologiche, scontri ideali, a volte materiali; anni conflittuali che generarono reazioni e controreazioni anche cruente: solo nel 1974 ci furono due tentativi di colpo di stato e due attentati fascisti: a maggio quello di piazza della Loggia e ad agosto l’Italicus. Un decennio, a dalla fine degli anni ’60, che trasformò in profondità la società italiana in tutti i suoi ambiti inclusi quelli ecclesiastici.
Mentre i protestanti, dopo anni di dibattiti sul nodo fede e politica, stavano lavorando alla costituzione della Federazione delle chiese evangeliche (la prima fu quella giovanile, la Fgei), in ambito cattolico la Chiesa di Roma uscita dal Vaticano II registrò sommovimenti profondi e mobilitazioni di grandi entità: già nel ’69-70 con l’Isolotto prendevano vita le prime Comunità di base. Nel ’72, dalla crisi de Il Regno, nasceva il settimanale Com; mentre circa duemila preti davano vita al Movimento del 7 novembre (che terrà la sua prima assemblea nell’Aula Magna della Facoltà valdese di Teologia a Roma). Il 1973 sarà l’anno di una ulteriore diffusione del “dissenso” cattolico, delle sue comunità che si diedero una struttura di collegamento e del coordinamento delle riviste cattoliche e protestanti (Idoc, Testimonianze,Nuovi Tempi,Com, Gioventù Evangelica, ecc.) (https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL5000085090/2/la-diffusione-comunita-evangeliche-movimento-7-novembre-3.html&).
Su un versante più “politico” il 1973 segnò l’infrangersi dell’unità del mondo cattolico incarnato dalla Democrazia cristiana: un colpo decisivo venne dalla vittoria del “no” del referendum sul divorzio del maggio ’74 (vero terreno di esperienze condivise tra protestanti e cattolici), seguito il 21 settembre dalla nascita dei Cristiani per il Socialismo. Quattro mesi dopo nascerà COM Nuovi Tempi!
Certo 50 anni sono tanti, troppe le cose cambiate per rintracciare parallelismi, analogie o somiglianze. Non esiste più il “movimento”, finita la lotta di classe, chiusi gli orizzonti, negata qualsiasi possibilità di alternativa al quadro economico e politico attuale: difficilissimo coltivare la speranza in un mondo più giusto, tanto che perfino riconoscere i “segni dei tempi” appare utopistico. Eppure, anche oggi come allora le vittime delle guerre e delle tante ingiustizie richiedono ascolto, solidarietà, vicinanza e un annuncio che – come recita la Confessione di fedediAccra pronunciata tutti insieme nel culto di apertura del sinodo valdese-metodista di quest’anno – sappia porsi con coraggio a fianco degli oppressi nella prospettiva della giustizia e della pace.
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
nelle incisioni , affreschi , dipinti e foto dal 1500 sino al 1900-
Ricerca e pubblicazione a cura Franco Leggeri per l’Associazione DEA SABINA
Ratto delle Sabine-Autore: Poussin Nicolas (1594-1665)
Descrizione: La stampa rappresenta il momento più drammatico del Ratto delle Sabine. La scena si svolge in un contesto urbano dove, sullo sfondo, fanno da quinta un tempio e diversi edifici cittadini ripresi nella classica prospettiva centrale. A sinistra, su di un piedistallo, davanti a due uomini togati, si trova Romolo, ripreso in una teatrale posa plastica, con la corona che gli cinge il capo e la mano sinistra elevata chiusa a pugno intorno a un lembo del suo mantello. È intento a impartire ordini mentre intorno a lui si concretizza la violenza, con uomini e donne che lottano e fuggono. Nella parte inferiore, al di sotto dell’immagine, si trova un’iscrizione in caratteri capitali e corsivi che funge da didascalia all’immagine stessa.
Notizie storico-critiche: La stampa di traduzione fa parte di una serie di incisioni che illustrano la storia delle origini di Roma sulla base delle fonti storiche di Plutarco (Vite Parallele, Vita di Romolo) e di Tito Livio (Storia di Roma dalla fondazione). In particolare lo storico latino Tito Livio, nato nel 59 a. C. e morto nel 17 d. C. a Padova, dedica tutta la sua vita alla stesura di un’unica colossale opera storiografica “Ab Urbe condita libri”, che inizia dopo il 27 a. C. e viene pubblicata in successione per gruppi di libri; l’ultimo volume esce dopo la morte di Augusto, avvenuta il 14 d.C. L’intenzione dell’autore era quella di coprire l’intera storia di Roma dalle origini fino all’età contemporanea, ma la narrazione si ferma con il libro CXLII, che giunge fino alla morte di Druso (9 a.C.). La data della fondazione di Roma è stata fissata dallo Storico Latino Varrone sulla base dei calcoli effettuati dall’astrologo Lucio Taruzio. Il soggetto della presente stampa è preso da un famoso dipinto di Poussin del 1637/ 1638, oggi conservato al Louvre, che il veneto Angelo Biasioli incide utilizzando la raffinata tecnica dell’acquatinta per restituire i passaggi tonali e chiaroscurali dell’animata scena mitica, nella quale la classicità è esaltata sia nelle architetture che nei costumi. Biasioli lavora soprattutto a Milano per diversi editori; questa tiratura, eseguita proprio a Milano dall’editore Luigi Valeriano Pozzi, è presumibilmente eseguita tra il 1820, quando i rami di buona parte della serie sono già stati tirati dall’editore romano Scudellari (1819), ed il 1824, quando la serie compare sul Giornale di Letteratura, Scienze ed Arti (tomo XXXIV, aprile maggio giugno 1824) come edite dal milanese Pozzi.
Collocazione
Provincia di Cremona
Ente sanitario proprietario: A.S.S.T. di Crema
Compilazione: Casarin, Renata (2009)
Aggiornamento: Uva, Cristina (2012)-
Descrizione
Autore: Poussin Nicolas (1594-1665), inventore; Sala Vitale (1803-1835), disegnatore; Biasioli Angelo (1790-1830), incisore; Pozzi Luigi Valeriano (notizie 1800 ca.-1808), editore
Cronologia: post 1820 – ante 1824
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ acquaforte; carta/ acquatinta
Misure: 565 mm x 480 mm (parte incisa); 66 cm x 58 cm (cornice)
Ratto delle Sabine-Autore: Conti Primo (1900-1988)-Studio per il ratto delle sabine
Descrizione
Identificazione: Studio per il ratto delle sabine
Autore: Conti, Primo (1900-1988)
Cronologia: 1924
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ grafite
Misure: 279 mm x 212 mm
Descrizione: matita di grafite su carta
Notizie storico-critiche:A cavallo tra la fine degli anni Dieci e gli inizi del decennio successivo, nell’opera di Primo Conti si osserva una svolta poetica che condurrà la pittura dell’artista fiorentino lontano dall’aggressione futurista, per assorbire gradualmente, invece, un sintetismo formale di carattere purista, tipico della corrente novecentista, ma scevro da quella retorica compositiva per cui quest’ultima si contraddistingue. Tra le più grandi e articolate composizioni di figure del pittore, il “Ratto delle sabine”, presentato alla “III Esposizione Internazionale di Roma”, si concretizza per una fortissima novità espressiva lontana dagli archetipi novecenteschi. Il dipinto infatti è definito da Enrico Crispolti come un’opera “furiana”, nel quale “la “sospensione” malinconica, la sottile insinuazione di malaise psichico avviene smussando cromaticamente la nettezza del plasticismo purista, introducendo spiazzamenti asimmetrici, e ritmi di profili continuamente ondulati e curvilinei, ma mai in senso d’ispirazione geometrica” (E. Crispoldi, Primo Conti: catalogo retrospettivo per le mostre tenute in occasione dei sessanta anni di lavoro dell’artista, Firenze 1971). In alcune lettera indirizzate all’amico Pavolini, Conti racconta le vicende che hanno contrassegnato la realizzazione dell’opera. Il 29 ottobre 1924, fa sapere, “esporrò a Roma insieme al Trittico e a qualche ritratto, un Ratto delle Sabine del quale non possiedo altro che qualche disegno” e nuovamente allo stesso il 13 novembre scrive “stò ultimando i disegni per il Ratto delle Sabine”, e ancora annuncia la fine del lavoro con una lettera del 14 gennaio 1925 “fra qualche ora, forse, metterò l’ultima pennellata e la firma alle Sabine”, e la stessa sera conclude con una cartolina dicendo “Le Sabine vivono ormai di luce propria” (Calvesi, in Primo Conti 1911-1980, Firenze 1980). Tra i numerosi bozzetti preparatori di cui l’artista parla nelle lettere a Pavolini, due disegni firmati e datati “P. Conti / 1924” sono conservati presso la Fondazione dedicata al pittore a Fiesole, mentre un altro bozzetto, firmato e datato come i precedenti, è custodito presso le Raccolte Civiche del Gabinetto di Disegni del Castello Sforzesco dal 1932, dopo essere stato donato dall’autore stesso alle raccolte pubbliche milanesi. Il disegno raffigurante la parte sinistra del dipinto, così come l’opera a olio o i disegni della fondazione (i quali descrivono invece la parte destra e la parte centrale del quadro, attraverso linee più abbozzate e veloci e senza rifinitura o forti contrasti chiaroscurali) è contraddistinto da una composizione ottenuta mediante il serrato incastro volumetrico dei corpi che si affollano, contorcendosi attraverso un energico dinamismo, inedito fino a questo momento nelle opere del pittore. Confrontando il dipinto con il disegno in questione, si osservano piccole differenze nella raffigurazione dei personaggi e di alcuni particolari. Nel disegno è infatti assente la donna in secondo piano sulla destra tra le quatto figure o i due lembi di panneggio accanto alla donna accovacciato a terra. Ancora, nel disegno il piccolo omino in basso che sembra scappare in primo piano, nel dipinto diventa un carnefice ed è posto stavolta sullo sfondo. Il disegno milanese, probabilmente uno degli ultimi realizzati dall’artista, è caratterizzato da un fitto chiaroscuro eseguito con matita dura tramite linee oblique parallele, le quali invadono tutta la composizione risultando più marcate e fitte tra le giunture dei vari corpi che si accostano tra di loro.
Ratto delle Sabine-l’Affresco raffigura un episodio mitico delle origini di Roma
Descrizione
Ambito culturale: Ambito comasco
Cronologia: post 1615 – ante 1630
Tipologia: pertinenze decorative
Materia e tecnica: affresco finito a secco
Misure: 170 cm x 13 cm x 120 cm
Descrizione: L’affresco, realizzato sulla parete destra del salone, è presentato illusionisticamente come un quadro racchiuso in una cornice di legno e fissato alla parete. Raffigura un episodio mitico delle origini di Roma, il cosiddetto Ratto delle Sabine, ordinato da Romolo per supplire alla carenza di donne dei romani. L’anonimo pittore raffigura il rapimento delle mogli e delle figlie dei Sabini, un’antica popolazione del Lazio, messo in atto dai soldati romani che le avevano attirate con l’inganno nella loro città. Una particolarità dell’affresco è costituita dall’ambientazione della scena, che si svolge in una città di Roma trasfigurata dalla fantasia, dove il richiamo all’architettura antica, rappresentata dal tempio circolare a sinistra, più vicino alle architetture rinascimentali di Bramante che agli edifici classici, si affianca a una sfilata di edifici moderni, molto simili a quelli che si potevano vedere nella Como di primo Seicento. Anche il paesaggio d’acque,con barche cariche di merci, più che al fiume Tevere sembra ispirarsi a una veduta marina o, addirittura, al lago di Como su cui si affaccia la villa dei Gallio.
Notizie storico-critiche:L’affresco con il Ratto delle Sabine fa parte della decorazione del salone centrale di villa Gallia, edificata a partire dal 1614. Non conosciamo il nome dell’artista che eseguì questo affresco e la datazione esatta del suo intervento, che molto verosimilmente fu commissionato dall’abate Marco Gallio, cui si deve la costruzione dell’edificio. Come altre scene del salone, anche questa è un omaggio diretto alla storia di Roma, città in cui Marco Gallio aveva vissuto a lungo a fianco del potente zio cardinale Tolomeo, artefice della fortuna della famiglia.
Ratto delle Sabine-disegno probabilmente preparatorio per una scena teatrale-
seconda metà del XVII secolo
Descrizione
Ambito culturale: ambito veneto
Cronologia: ca. 1750 – ca. 1799
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ matita/ penna/ inchiostro/ acquerellatura
Misure: 495 mm. x 397 mm.
Descrizione: Matita, penna, inchiostro nero, acquerello grigio, acquerelli colorati su carta bianca. Filigrana intera: forma di aquila stilizzata che regge due lance e, sotto, in lettere capitali, “LAF”.
Notizie storico-critiche:Il disegno, probabilmente preparatorio per una scena teatrale, non reca alcuna attribuzione: per il tratto leggero, frammentato e luminoso, per l’acquerellatura di delicata policromia, è probabilmente da assegnare ad un artista veneto, attivo nella seconda metà del XVII secolo.
Collezione: Collezione di disegni di Riccardo Lampugnani del Museo Poldi Pezzoli
Ratto delle Sabine-Autore: Ricchi Pietro detto Lucchese (attr.) (1606/ 1675)
Descrizione
Autore: Ricchi Pietro detto Lucchese (attr.) (1606/ 1675)
Cronologia: post 1600 – ante 1699
Tipologia: pittura
Materia e tecnica: olio su tela
Misure: 90,5 cm x 66,8 cm
Descrizione: In primo piano a destra un soldato afferra una giovane donna, mentre dietro di lui un altro sta già sollevando la preda; in secondo piano la scena è stipata di donne e soldati con insegne militari, picche, vessilli.
Collezione: Collezione dei dipinti dal XII al XVI secolo dei Civici Musei d’Arte e Storia di Brescia
Collocazione-Brescia (BS), Musei Civici di Arte e Storia. Pinacoteca Tosio Martinengo
Compilazione: Basta, C. (1991)
Aggiornamento: Giuffredi, L. (2003)
Ratto delle Sabine-Milano- Museo Martinitt e Stelline
Descrizione
Cronologia: post 1725 – ante 1775
Tipologia: pittura
Materia e tecnica: tela/ pittura a olio
Misure: 228 cm x 177 cm
Collocazione
Milano (MI), Museo Martinitt e Stelline
Compilazione: Amaglio, Silvia (2013)
Ratto delle Sabine-Cremona (CR), Museo Civico Ala Ponzone
Ratto delle Sabine
Descrizione
Ambito culturale: ambito neoclassico
Cronologia: ca. 1800 – ca. 1815
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: matita nera su carta bianca
Misure: 288 mm x 204 mm
Collocazione
Cremona (CR), Museo Civico Ala Ponzone
Compilazione: Iato, V. (2001)
Aggiornamento: Bora, G. ()
Ratto delle Sabine-Autore: Pistrucci Filippo (sec. XIX), inventore / incisore-
Misure: 185 mm x 115 mm (parte incisa); 181 mm x 125 mm (parte figurata); 191 mm x 140 mm (Impronta)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Marchesi, Ilaria (2010)
Ratto delle Sabine-Autore: Aquila Pietro (1640/ 1692), incisore
Ratto delle Sabine
Descrizione
Autore: Aquila Pietro (1640/ 1692), incisore / disegnatore; Berrettini Pietro detto Pietro da Cortona (1596/ 1669), inventore
Cronologia: ca. 1670 – ante 1692
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquaforte
Misure: 613 mm x 418 mm (parte incisa)
Collezione: Fondo Calcografico Antico e Moderno della Fondazione Biblioteca Morcelli-Pinacoteca Repossi
Collocazione
Chiari (BS), Pinacoteca Repossi
Compilazione: Brambilla, Lia (2003); Scorsetti, Monica (2003)-
Ratto delle Sabine Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830)
Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830), incisore
Cronologia: post 1790 – ante 1830
Oggetto: stampa
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquatinta
Misure: 181 mm. x 114 mm. (Parte figurata); 195 mm. x 135 mm. (Parte incisa)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Fumagalli, Monica (2005)
Ratto delle Sabine-Bartoli Pietro Santi; Caldara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio
Descrizione
Autore: Bartoli Pietro Santi (1635/ 1700), incisore; Caldara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio (1499-1500/ 1543), inventore
Ambito culturale: Scuola romana
Cronologia: post 1650 – ante 1699
Oggetto: stampa
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquaforte
Misure: 386 mm x 122 mm (inciso); 392 mm x 158 mm (foglio)
Collocazione
Brescia (BS), Musei Civici di Arte e Storia. Pinacoteca Tosio Martinengo
Compilazione: Menta, L. (1999)
Aggiornamento: D’Adda, R. (2002)
Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Firenze – Loggia dei Lanzi
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1890 – 1899
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: 30 x 40
Collocazione: Milano (MI), Regione Lombardia, fondo Scrocchi, SCR_4_STABC_TQ
Classificazione
Genere: foto d’arte
Soggetto: arte
Compilazione: Truzzi, Stefania (2005)
Aggiornamento: Casone, Laura (2006)
Pietro da Cortona – Ratto delle Sabine – Dipinto – Olio su tela – Roma – Palazzo del Campidoglio – Galleria Capitolina – Sala Pietro da Cortona
Pietro da Cortona – Ratto delle Sabine – Dipinto – Olio su tela – Roma – Palazzo del Campidoglio – Galleria Capitolina – Sala Pietro da Cortona
Anderson Domenico
Descrizione
Autore: Anderson Domenico (1854/ 1938), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Roma (RM), 1855-1919
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte storiche dell’Accademia di Brera, fondo Fondo Frizzoni, Fototeca storica – Armadio Frizzoni – FF 302
Classificazione
Compilazione: Lapesa, C. (2008)-
Dipinto – “Ratto delle Sabine”
Fotografia dello Studio Calzolari (studio) (1882/1996)
Dipinto – “Ratto delle Sabine” (?)
Foto Studio Calzolari (studio)
Descrizione
Autore: Studio Calzolari (studio) (1882/1996), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Mantova (MN), Italia, XX
Materia/tecnica: gelatina bromuro d’argento/vetro
Misure: n.d.
Note: Dipinto, olio su tela, raffigurante ratto delle Sabine (?).
Collocazione: Mantova (MN), Archivio di Stato di Mantova, fondo Archivio fotografico Calzolari, ASMn, Archivio Calzolari
Classificazione
Genere: da attribuire
Compilazione: Previti, Serena (2008)
Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Paoletti, Antonio
Descrizione
Autore: Paoletti, Antonio (1881/ 1943)
Luogo e data della ripresa: Milano (MI), Italia
Materia/tecnica: gelatina a sviluppo
Misure: n.d.
Note: Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Collocazione: Milano (MI), Raccolte Grafiche e Fotografiche del Castello Sforzesco. Civico Archivio Fotografico, fondo Foto Milano, FM APL 22
Classificazione
Compilazione: Paoli, Silvia (2013)
Firenze – Piazza della Signoria – Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Loggia dei Lanzi
Firenze – Piazza della Signoria – Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Loggia dei Lanzi
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1920 – 1930
Materia/tecnica: gelatina bromuro d’argento/carta
Misure: 18 x 24
Collocazione: Milano (MI), Regione Lombardia, fondo Scrocchi, SCR_82_ST_DV
Classificazione
Genere: architettura
Soggetto: città
Compilazione: Tonti, Stella (2007)
Leggende di Roma – Ratto delle Sabine (in alto) – Caio Muzio pone la mano destra sul braciere davanti a Porsenna (in Basso) – Disegno
Leggende di Roma – Ratto delle Sabine (in alto) – Caio Muzio pone la mano destra sul braciere davanti a Porsenna (in Basso) – Disegno
Fotografo non identificato
Descrizione
Autore: Fotografo non identificato (notizie), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: 1855-1919
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Note: La fotografia riprende il foglio sul quale sono riportati i due disegni.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte storiche dell’Accademia di Brera, fondo Fondo Frizzoni, Fototeca storica – Armadio Frizzoni – FF 1513
Classificazione
Compilazione: Lapesa, C. (2009)
Gruppo scultoreo – Marmo – Ratto delle Sabine – 1574-1580 – Giambologna – Firenze – Piazza della Signoria – Loggia della Signoria o dei Lanzi
Gruppo scultoreo – Marmo – Ratto delle Sabine – 1574-1580 – Giambologna – Firenze – Piazza della Signoria – Loggia della Signoria o dei Lanzi
Fotografo-Non identificato
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1860 – 1880
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte Grafiche e Fotografiche del Castello Sforzesco. Civico Archivio Fotografico, fondo Vedute Italia, VI H 218
Classificazione
Genere: foto d’arte
Soggetto: arte
Compilazione: Ossola, Margherita (2016)
Il ratto delle Sabine-Biasioli Angelo
Il ratto delle Sabine- Biasioli Angelo-Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830), incisore
Cronologia: post 1790 – ante 1830
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquatinta
Misure: 180 mm. x 113 mm. (Parte figurata); 186 mm. x 127 mm. (Parte incisa)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Fumagalli, Monica (2005)
Ratto delle Sabine-Autore: Caraglio Giacomo (1500/ 1570), incisore
Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Caraglio Giacomo (1500/ 1570), incisore
Cronologia: ca. 1527
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 508 mm x 360 mm (parte incisa)
Notizie storico-critiche:Malgrado questa stampa sia tradizionalmente intitolata “Il ratto delle Sabine”, Archer sottolinea che quello che è stato rappresentato non è il ratto vero e proprio, bensì un episodio successivo raccontato da Livio e da Plutarco, ovvero il tentativo di riscatto dei Sabini che raggiunsero Roma e combatterono nel Foro, mentre le donne Sabine intervennero per chiedere il mantenimento della pace. La figura femminile raffigurata seduta su un asino sarebbe la dea Vesta, presso il cui tempio avvenne la lotta. Questa incisione fu l’ultimo lavoro del Caraglio, che la lasciò incompiuta. Essa venne completata da un incisore anonimo, dallo stile più duro e più largo rispetto al Caraglio. Bartsch testimonia che l’invenzione è da attribuire a Baccio Bandinelli; Vasari invece l’attribuiva a Rosso Fiorentino. Il timbro al verso dell’esemplare qui catalogato indica che questo foglio fece parte della collezione di Heinrich Buttstaedt, pittore, fotografo collezionista e mercante d’arte nato a Gouda e morto a Berlino nel 1876. Entrò a far parte del Fondo Calcografico della Pinacoteca Repossi tramite il legato Cavalli.
Collezione:Fondo Calcografico Antico e Moderno della Fondazione Biblioteca Morcelli-Pinacoteca Repossi
Ratto delle sabine
Caladara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio; Alberti Cherubino
Descrizione
Autore: Caladara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio (1499-1500/ 1543), inventore; Alberti Cherubino (1553/ 1615), incisore
Cronologia: post 1553 – ante 1615
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: mitologia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 200 mm. x 103 mm. (Parte figurata)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Ruiu, Daniela (2004)
Ratto delle Sabine-Polidoro da Caravaggio; Le Blon, Jakob Christof (attribuito)
Descrizione
Autore: Polidoro da Caravaggio (1500 ca.-1543), inventore; Le Blon, Jakob Christof (attribuito) (1667/1670-1741), incisore
Cronologia: post 1667 – ante 1741
Oggetto: stampa tagliata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 449 mm x 167 mm (Parte figurata); 449 mm x 167 mm (Parte incisa)
Sinossi del libro di Emilio Gentile-Roma e il fascismo: l’evidenza del loro connubio nasconde molti interrogativi. Bisogna domandarsi innanzi tutto: quale Roma? È necessario distinguere fra la Roma reale, la Roma antica e la Roma fascista. Alla Roma reale che disprezzava, il fascismo opponeva il proprio mito di Roma, che coincideva, fin dalle sue prime formulazioni, con l’odio per la democrazia e con il mito dell’impero: “La Roma che noi onoriamo, non è la Roma dei monumenti e dei ruderi, la Roma delle gloriose rovine. La Roma che noi vagheggiamo e prepariamo è un’altra: non si tratta di pietre insigni, ma di anime vive; non è contemplazione nostalgica del passato, ma dura preparazione dell’avvenire. Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento; è il nostro simbolo o, se si vuole, il nostro mito. Noi sogniamo l’Italia romana, cioè saggia, forte, disciplinata e imperiale.”. Il mito della Roma fascista, anche se ammantato di richiami alla Roma antica, era un mito moderno. La romanità del fascismo fu essenzialmente una proiezione del suo totalitarismo, col quale il mito fascista di Roma si identificò per tutto il percorso della parabola del regime, dall’ascesa faticosa, ma decisa, verso la potenza e la gloria del trionfo, alla discesa inconsapevole, ma sempre più precipitosa, verso una fine ingloriosa. Intrecciando documenti e immagini, Emilio Gentile propone un’originale interpretazione del connubio fra Roma e fascismo, rivelando aspetti inediti del totalitarismo fascista.
L’Autore
Emilio Gentile, storico di fama internazionale, nel 2003 ha ricevuto dall’Università di Berna il Premio Hans Sigrist per i suoi studi sulle religioni della politica. Tra le sue più recenti opere per Laterza, tradotte nelle principali lingue: Fascismo. Storia e interpretazione; La Grande Italia; La democrazia di Dio (Premio Burzio); Fascismo di pietra; E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma (Premio Città delle Rose; finalista e vincitore del Premio del Presidente al Premio Viareggio); Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo. Storia illustrata della Grande Guerra; Il capo e la folla; “In democrazia il popolo è sempre sovrano”. Falso!; Mussolini contro Lenin; 25 luglio 1943 (Premio Acqui Storia 2018); Chi è fascista; Caporali tanti, uomini pochissimi. La Storia secondo Totò; Storia del Partito fascista. Movimento e milizia. 1919-1922.
Rassegna stampa
Dino Messina, “Corriere della Sera”- Il regime fascista, ci racconta Emilio Gentile in questo nuovo e avvincente saggio, non era soltanto retorica, ma anche pittura, scultura, architettura, urbanistica. Gentile si conferma il vero erede italiano di Gorge Mosse, attento, come lo fu lo storico tedesco, agli aspetti dell’estetica del potere.
Filippo Ceccarelli, “la Repubblica”- Si aprì l’era del ‘piccone risanatore’. Per Mussolini attrezzo-simbolo di un attivismo frenetico che finiva per considerare Roma e la sua architettura passata e futura – come spiega molto bene Emilio Gentile – come arsenale di miti, deposito di destini imperiali, ma anche bersaglio di risentimenti che il duce nutriva fin dalla giovinezza nei confronti
Cleonice Tomassetti-Capradosso di Petrella Salto (Rieti)
massacrata dai nazifascisti nell’eccidio di Fondotoce (oggi Verbania Cusio Ossola), il 20 giugno 1944.
Pubblicazione parziale dalla Ricerca storica di Franco Leggeri per ANPI Comitato antifascista della Sabina
Fonte- DONNE E UOMINI DELLA RESISTENZA-
Cleonice Tomassetti, detta Nice, donna di straordinarie scelte, che da un paesino del Lazio
la portano a Roma e poi a Milano, fino a quella ultima scelta che la condurrà alla morte: unirsi ai combattenti per la libertà.
Tra di loro, lei appare, sotto un cartello, tenuto da due giovani: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”.
Sembra essere lei a guidarli, nel viaggio da Intra a Fondotoce, dove verrà fucilata a soli 33 anni il 20 giugno 1944 con altri 42 giovani partigiani.
Donne e Uomini della Resistenza in Sabina.
Ricerca storica a cura di Franco Leggeri per ANPI Comitato antifascista della Sabina.
Capradosso di Petrella Salto -La storia di Nice, Cleonice Tomassetti, staffetta partigiana di Capradosso fucilata a Fondotoce di Verbania Cusio Ossola il 20 giugno 1944.Cleonice Tomassetti non era una maestra di scuola, non era una staffetta, non aveva un marito tra i partigiani. Non fece neppure in tempo a combattere la guerra di liberazione. Era una donna che aveva fatto la propria scelta spontaneamente. Non amo la parola “martire”, ma se c’è una martire – cioè una testimone – della Resistenza italiana, è Cleonice Tomassetti.
LA STORIA-
Era il 20 giugno del 1944 quando la giovane staffetta reatina, incinta di quattro mesi, venne massacrata nell’eccidio di Fondotoce (oggi Verbania Cusio Ossola). Unica donna del gruppo di 43 partigiani catturati dai nazifascisti nel corso dei rastrellamenti effettuati nei giorni precedenti. Era una maestra che aveva lasciato la sua terra per insegnare a Milano, quando nell’aprile del ’44 decide di seguire il suo compagno nella resistenza in Val d’Ossola, per compiere le missioni assegnatole.
Era la sola donna del gruppo di 43 partigiani fucilati dai nazifascisti a Fondotoce. Nella foto allegata, è presente in prima fila, proprio sotto il cartello sul quale gli aguzzini, in modo provocatorio hanno messo la scritta “Sono questi i liberatori/ d’Italia/ oppure sono i banditi?”, visibilmente rassegnata al suo destino. Le donne di Novrego, provincia di Milano, vedendo Cleonice con le vesti strappate dalle botte e sevizie subite, le avevano offerto un abito nuovo, un omaggio alla salvaguardia della dignità anche se destinata a compiere l’ultimo viaggio. Dal racconto di un sopravvissuto, l’avvocato e magistrato Emilio Liguori pare che ai propri aguzzini, poco prima di essere condotta alla fucilazione, la Tomassetti abbia detto loro: “Se volete mortificare il mio corpo è superfluo il farlo, esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, quello non lo domerete mai”.
La fotografia del corteo la ritrae in prima fila. Sono 42 uomini e una donna che vanno a morire. I nazifascisti li fanno sfilare sul lungolago di Intra. Davanti hanno messo i due prigionieri più alti, che reggono un cartello: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”. Lei è in mezzo, sotto la scritta. È vestita con cura, quasi con eleganza: scarpe nere con il tacco, maglia chiara, gonna scura, un cappello bianco, una borsa stretta al grembo. Ma non sono i suoi vestiti. Fino a poche ore prima indossava stracci coperti di sangue. Le mogli di altri prigionieri le hanno portato qualcosa da mettersi, per andare incontro alla fine con dignità.
Fuori dal paese li fanno salire su un camion per il trasporto del bestiame. Ma li fanno scendere al paese successivo, Pallanza, per mostrarli agli abitanti. Poi di nuovo un tratto in camion, e un’altra sfilata, a Suna. Infine l’ultima tappa, Fondotoce, dove vengono fucilati al crocevia subito fuori il paese.
Nel loro libro di memorie, Il Monterosa è sceso a Milano, Pietro Secchia e Cino Moscatelli la chiamano Cleonice Tommasetti e scrivono che è una maestra di scuola, staffetta partigiana, incinta di quattro mesi del marito, anche lui salito in montagna. È la versione che si ritrova in tutte le opere in cui la donna di Fondotoce viene citata. Fino a quando nel 1981 un altro partigiano, Nino Chiovini, pubblicherà una sua inchiesta (ora ristampata da una piccola casa editrice di Verbania, la Tararà), che restituisce alla vittima la sua storia e la sua identità, a cominciare dal nome.
Penultima di sei fratelli, Cleonice nasce il 4 novembre 1911 a Petrella Salto, nella frazione di Capradosso. Il suo nome significa “gloriosa nella vittoria”. Petrella è un villaggio sulle montagne tra il Lazio e l’Abruzzo, passato alla storia perché lassù visse segregata Beatrice Cenci (1577-1599), la ragazza che con i fratelli uccise il padre che la violentava e fu per questo decapitata a Castel Sant’Angelo, davanti a una folla in tumulto. Anche Cleonice ha un padre che la tormenta. Famiglia contadina, un piccolo podere, più pietra che terra. La madre muore, il fratello Aldovino e la sorella Pierina vanno a Roma a cercare lavoro. Lei è una ragazza molto intelligente, ma deve abbandonare la scuola per lavorare a casa e nei campi. A 16 anni resta incinta. Cleonice fugge dalla violenza paterna e si rifugia a Roma dalla sorella, ma il bambino nasce morto. Trova lavoro come cameriera.
A 22 anni lascia anche Roma e arriva a Milano, dove lavora come commessa e cameriera. Conosce un assicuratore, Mario Nobili, che ha lasciato la moglie dopo aver scoperto che lei lo tradiva con un sacerdote. Nobili è antifascista. Si incontra con un gruppo di amici che condividono le sue idee: si vedono a Milano in Galleria. Ci sono Melina Mistretta, proprietaria di una pensione in via Santa Radegonda, dove Cleonice è stata a lavorare, Piero Paci, violinista, e un sarto, Eugenio Dalle Crode. La sua testimonianza è importante, perché è nella sua bottega che matura il destino di Cleonice Tomassetti, che a Milano chiamano la Nice.
(1vedi nota a fondo pagina)-
Eugenio è zoppo, detesta i fascisti e nel ’24 brucia in pubblico una copia del loro giornale, “L’eco del Piave”; le camicie nere lo costringono a marciare per il paese, saltellando sulla sua unica gamba, con il gagliardetto nero in mano. A Milano diventa amico di Mario Nobili e poi di Cleonice Tomassetti.
“Ai primi del ’44 il mio amico Mario Nobili fu ricoverato all’ospedale con la meningite: dopo pochi giorni morì. Aveva 36 anni. Dopo la morte di Mario, Nice veniva quasi tutti i giorni nella mia sartoria a lavorare qualche ora. Un giorno del mese di giugno del ’44 passò da me a provare un vestito Sergio Ciribi, il figlio maggiore di una famiglia di miei vecchi clienti. Era presente la Nice. A un certo punto Sergio mi disse: “Sa, signor Eugenio, che hanno chiamato la mia classe, il primo semestre del ’26? È sul giornale di oggi. Ma io non mi presento – continuò, conoscendo le mie idee antifasciste -, vado in montagna con i partigiani”. Sergio non aveva ancora finito di parlare, che la Nice disse: “Allora ci vengo anch’io”. Lei, le decisioni le prendeva così, all’improvviso. Sergio in principio disse che non era possibile, che dove sarebbe andato non era posto per donne, ma lei insistette […].Partirono qualche giorno più tardi”.
Sergio Ciribi e Giorgio Guerreschi decidono di unirsi alla formazione Valdossola. Con loro c’è Cleonice Tomassetti. E c’è Edvige Ciribi, la madre di Sergio, che non vuole lasciarlo viaggiare da solo e ha portato anche l’altro figlio quindicenne, Giancarlo.
Il rischio è pazzesco, perché anche i tedeschi stanno andando a cercare i partigiani. L’11 giugno è cominciato un grande rastrellamento; ma la Nice e gli altri non lo sanno. Arrivano in treno a Laveno, prendono il battello per Intra, poi si incamminano a piedi. Sergio e Giorgio credono di riconoscere il sentiero che sale in Val Grande, Nice li segue, la madre di Sergio torna indietro. Non lo rivedrà più. “Non seppi nulla fino alla fine della guerra – ha raccontato Edvige Ciribi -.
Sergio, Giorgio e Nice risalgono la valle a piedi. Camminano per tutto il giorno, fino a quando non arrivano in una baita isolata, dove accendono il fuoco e passano la notte, mentre fuori infuria un temporale. Al mattino Nice si accorge di avere una zecca conficcata in una gamba, i ragazzi gliela tolgono. Appoggiato a una parete c’è un fucile, collegato con un filo a una bomba, che per un soffio non esplode. Si sente sparare in lontananza, poi si vedono i primi tedeschi: è il rastrellamento che avanza.
I tre fanno appena in tempo a nascondere il fucile e a concordare una versione comune: scartata l’idea di inventare storie improbabili, decidono di confessare; sono in montagna a cercare i partigiani per unirsi a loro, ma non li hanno ancora trovati. I tedeschi e le SS italiane li prendono subito a calci e pugni; poi cominciano gli interrogatori. Ha raccontato Giorgio Guerreschi: “Noi dicemmo, come d’accordo, la verità, ma capimmo subito che non eravamo creduti. Allora la donna, che ci vedeva come ragazzini, disse che noi non avevamo colpa, che era stata lei a convincerci a salire in montagna. “Sono ancora ragazzi, la colpa è soltanto mia” aggiunse. (…) a un certo punto cominciò a inveire in romanesco contro di lui, mandandolo a quel paese. Era una donna decisa. Ci misero tutti e tre contro un muro della baita e piazzarono un mitragliatore che lasciò partire una lunga raffica sopra le nostre teste; era chiaro che volevano terrorizzarci con una finta fucilazione”.
Si scende a piedi verso il lago, poi la notte ci si stende per terra su teli mimetici. Prosegue la testimonianza di Guerreschi: “La Nice fu assegnata a un giaciglio, con un ufficiale. Durante la notte, da quella parte, vennero rumori come di colluttazione; immaginai che qualcuno stava tentando di farle violenza. Sia per la distanza dal punto in cui si trovava, sia per il mio stato di prostrazione, non posso affermare niente di preciso, ma quell’impressione mi è rimasta in mente. Il mattino successivo intercettai alcune occhiate allusive tra i soldati”.
Lungo la strada il reparto incontra un partigiano ferito, con un proiettile nella coscia: lo finiscono con una raffica di mitra. I prigionieri subiscono altre torture: le SS vogliono sapere dove sono i compagni. Assicurano una corda a un albero, la avvolgono attorno al collo di Nice, che viene sollevata da terra, più volte; quando sta per svenire, le gettano addosso un secchio d’acqua; poi ricominciano. Ma lei non può raccontare cose che non sa. Allora la colpiscono sulla schiena con un bastone. Alla fine Cleonice Tomassetti e Sergio Ciribi vengono chiusi nelle cantine di Villa Caramora, una casa ottocentesca sul lungolago di Intra, insieme con decine di partigiani e di sospetti catturati nel rastrellamento. Tra loro c’è un medico antifascista. Il suo nome è Emilio Liguori. Dopo un mese di carcere a Torino sarà liberato e scriverà di getto un memoriale, Quando la morte non ti vuole, che è anche l’unica testimonianza della breve e dolorosa prigionia di Cleonice.
“La scena che si presentò al mio sguardo, dopo l’ingresso in cantina di tanti disgraziati, fu delle più penose alle quali io abbia mai assistito. Penso che un branco di lupi famelici, quando capita in mezzo a un gregge di pecore, usi verso le proprie vittime una ferocia meno accesa, meno sadica di quella dei soldati tedeschi verso i poveri partigiani rastrellati in Val Grande. I pugni, le pedate, i colpi di calcio di moschetto, le nerbate non si contavano più. Era una vera gragnuola che si abbatteva inesorabile su dei miseri corpi già grondanti sangue, su dei visi già tumefatti. Gli aguzzini sembravano presi nel turbine di un sadico furore. Notai che tra i partigiani vi era una donna, di statura media, di colorito bruno, sui venticinque anni. Anche a costei non furono risparmiati i maltrattamenti, anzi, starei per dire che la dose delle angherie sia stata nei suoi confronti maggiore. Mi parve che, quando arrivava il suo turno, il nerbo si abbassasse sulle sue spalle con maggior furore e più violenti fossero i calci che la raggiungevano da ogni parte. Eppure la coraggiosa donna non solo incassò ogni colpo senza emettere un grido ma, calma e serena, faceva coraggio agli altri giovani, malconci da quella furia bestiale”.
Verso le cinque del pomeriggio si sentono arrivare soldati e automezzi. I guardiani si preparano. Alcuni si sistemano la divisa, altri si tolgono la mimetica e restano in camicia e pantaloncini marroni. Qualcuno verifica il funzionamento dell’arma. Tutti si pettinano, poi controllano nello specchietto che hanno con sé che la riga dei capelli sia in ordine: saranno scattate delle fotografie. Annota il medico prigioniero: “Mi pareva di essere stato portato nei camerini degli artisti, prima che essi diano inizio alla rappresentazione”. La donna fu colpita atrocemente da più di uno schiaffo e da uno sputo sul viso. Non si scompose; incassò impassibile, e poi fiera, con aria ispirata, quasi trasumanata, disse parole che per mio conto la rendono degna di essere paragonata a una donna spartana, o meglio ancora a un’eroina del nostro Risorgimento: “Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che la vostra è opera vana; quello non lo domerete mai”. Poi, rivolta ai compagni: “Ragazzi, viva l’Italia, viva la libertà per tutti!” gridò con voce squillante. Anima grande! So (per avermelo confidato un poliziotto, un bolzanese che accompagnò il triste corteo fino al luogo dove avvenne l’esecuzione e vi assistette) che, durante tutto il tragitto di circa cinque chilometri da Intra a Fondotoce, essa continuò a conservare una calma e una serenità incredibile in una donna: e tale calma e tale serenità seppe, per virtù dell’esempio, comunicare agli altri suoi compagni di sventura. Avanzò per prima verso i carnefici, guardandoli fieramente negli occhi. Le sue ultime parole furono: “Viva l’Italia!”. Come lei morirono sotto le raffiche delle mitragliatrici i suoi quarantadue compagni. Ignoro il nome di questa donna, ma farò di tutto, quando tempi migliori e maggior libertà me lo consentiranno, per conoscerlo e additarlo alla pubblica ammirazione”.
Il racconto del dottor Liguori è un documento eccezionale, ma contiene due errori.
Non ci si deve stupire che sia stata una donna a trasmettere calma e serenità a 42 uomini destinati alla morte; e non tutti i compagni di Cleonice Tomassetti spirarono sotto i colpi del plotone d’esecuzione. Uno di loro, Carlo Suzzi, ferito, sopravvisse per miracolo, tornò a unirsi ai partigiani della divisione “Valdossola”, scelse il nome di battaglia “Quarantatré”; e poté testimoniare come la Nice si comportò.
Prima i tedeschi mettono i condannati in fila con la faccia verso il lago, armeggiano alle loro spalle, sparano in aria per simulare l’esecuzione. Poi li caricano sui camion, ma a ogni raggruppamento di case li fanno sfilare col cartello. Si arriva così a Fondotoce. Neppure il prete può avvicinarsi. Tutti devono sdraiarsi per terra, e tre alla volta passano sotto le raffiche del plotone. Nice è la prima a morire. Ha raccontato Carlo Suzzi, il superstite: “Bisognava vedere il coraggio di questa ragazza, che durante il percorso ripeteva a tutti: “Mostriamo a questi signori come noi sappiamo morire”. E lei per prima è caduta da eroe”.
“Ero in contatto con il Cln di Milano – scrive ancora Edvige Ciribi -. Quando c’era un’esumazione venivo avvertita; fui presente al disseppellimento dei fucilati di Baveno, poi in un altro luogo. Quando esumarono quelli di Fondotoce, ero là: riconobbi subito mio figlio dai capelli cortissimi, perché in prigione a Como era stato rasato a zero. Aveva la fronte squarciata. Conservo ancora alcuni ritagli dei vestiti che indossava. Avevo saputo che tra i fucilati c’era una donna. Quando vidi il cadavere, non feci fatica a riconoscerlo per quello della signorina Nice. Decidemmo di portare a Milano la salma di nostro figlio e quella della signorina. Erano morti nello stesso luogo; che riposassero insieme. Furono sepolti nel cimitero di Greco, poi furono trasferiti al cimitero Monumentale, nel campo della gloria”.
Cleonice Tomassetti non era una maestra di scuola, non era una staffetta, non aveva un marito tra i partigiani. Non fece neppure in tempo a combattere la guerra di liberazione. Era una donna che aveva fatto la propria scelta spontaneamente. Non amo la parola “martire”, ma se c’è una martire – cioè una testimone – della Resistenza italiana, è Cleonice Tomassetti.
Nota 1. “Sono nato a Susegana, in provincia di Treviso – ha raccontato Eugenio Dalle Crode -. Nell’autunno del 1917 abitavo a Nervesa, sulla riva destra del Piave. Gli austriaci avevano sfondato a Caporetto e si avvicinavano al fiume. La gente fuggiva; un giorno partì anche la mia famiglia; tutto il paese, anzi. Eravamo sulla strada per Montebelluna; nel cielo passò un aereo, che si abbassò e sganciò alcune bombe su di noi: una scheggia mi colpì alla gamba destra, che mi dovettero amputare sopra il ginocchio. Avevo soltanto otto anni. Quando fui in età di lavoro imparai il mestiere del sarto: è un lavoro che si può fare anche con una gamba sola”.
La foto a colori allegata al post è stata elaborata da Julius Backman Jääskeläinen giovane Architetto svedese che fra l’altro è abilissimo nel trasformare a colori le immagini storiche, generalmente in bianco e nero.
La Casa della Resistenza di Fondotoce ha scritto a Julius Backman Jääskeläinen chiedendogli di sottoporre alla colorazione l’immagine dei nostri martiri, ritratti il 20 giugno 1944 prima della loro barbara fucilazione.
Ecco il sorprendente risultato!
Vedere i loro volti, i loro abiti, le divise militari e l’ambiente circostante a colori crea una emozione unica, ci fa avvicinare a quel terribile istante, ci rende vivida e tragica la loro sorte.
“La storia è accaduta a colori”, così come a colori furono visti i nostri poveri martiri da pochi testimoni e che oggi grazie a Julius, anche a noi è data la possibilità, attraverso un ipotetico viaggio nel tempo, di avvicinarci così tanto a loro e alla loro sofferenza.
La Casa della Resistenza di Fondotoce sorge entro un parco di 16.000 mq. adiacente al luogo in cui il 20 giugno 1944 furono fucilati dai nazifascisti 43 partigiani e copre una superficie di circa 1.600 mq.
-Ricerca storica ia cura di Franco Leggeri-
Poesia di Franco Leggeri.
Pensiero per Nice –Cleonice Tomassetti-
Petrella Salto (Rieti) 1911 – Uccisa dai nazifascisti-Fondotoce (Verbania) 1944
NICE/ROSSO SABINA e L’età nuda dell’anima.
Nice, tu ,come Gramsci , hai odiato gli indifferenti.
Nice differente dall’indifferenza
Hai respirato Gramsci
Nice hai inciso le note libere della tua voce
Tra la Rocca di Petrella
Dove indugia la dolcezza della nebbia.
Nice aspettavi la luna rossa,
tu che conoscevi solo quella nera.
Nice hai contato, con rabbia, pazientemente,
mille lune per un’alba di libertà
Nice hai spaccato il gelo della fonte
Dove hai bagnato il pane
E bevuto l’acqua ,
Nice hai corso a perdifiato tra i castagni
e i chiaroscuri paralleli all’alba.
Nice hai quasi, finalmente, raggiunto le braccia della libertà
Mentre il tuo sogno metteva radici
in una terra lontana,
dove la luna brucia le onde del lago,
ma uno sguardo freddo ha ucciso
le trame dolci dei tuoi capelli.
Nice ora sei libera dalle maglie della catena,
vola Nice, vola in alto , lontano dalla terra brulla,
terra rossa del tuo sangue .
Nice, ti prego, corrodi la notte con i tuoi occhi e libera il tuo grido di libertà.
Nice ho raccolto, una ad una, le tue lacrime per dissetare il seme di una Italia libera.
-Ricerca storica ia cura di Franco Leggeri-
Cleonice Tomassetti-Nata a Capradosso di Petrella Salto (Rieti) il 4 novembre 1911-Era la sola donna del gruppo di 43 partigiani, fucilati dai nazifascisti (soltanto uno di loro, Carlo Suzzi, si salvò), a Fondotoce.
La Tomassetti è stata solennemente ricordata nel 2010 a Capradosso, nella ricorrenza della strage, dai suoi compaesani, che si sono ripromessi di celebrarne ancora il sacrificio, in occasione del centenario della nascita.
Cleonice durante gli anni della Seconda guerra mondiale abitava a Milano, dove si era trasferita dal Reatino per fare la maestra.
Quando il suo compagno era passato nella Resistenza aveva deciso di raggiungerlo e, nell’aprile del 1944 la giovane donna era entrata come staffetta nella stessa formazione partigiana.
Pochi mesi di impegno contro i nazifasciti, poi a Novegro (MI), dove la ragazza era in missione, la cattura da parte dei tedeschi e il suo trasferimento, prima nell’asilo infantile di Malesco e poi a Intra, a Villa Calamora.
Ore di maltrattamenti e di pestaggi per tutti coloro che i tedeschi hanno rastrellato e, con l’aiuto dei repubblichini, ristretto negli scantinati di Malesco e Intra.
Anche su “Nice”, che è incinta di quattro mesi, si accaniscono (come testimonierà poi l’avvocato e magistrato Emilio Liguori), i suoi aguzzini.
Sarà lei che, al fianco del tenente Ezio Rizzato, aprirà la colonna che, a piedi (fiancheggiata dai nazisti), si fermerà soltanto a Fondotoce, dove i tedeschi hanno deciso di dare una lezione ai “banditi” e alla popolazione che li aiuta (e che continuerà ad aiutarli), anche se sono arrivati da Intra a Fondotoce portando un grande cartello dove era scritto “Sono questi i liberatori/ D’ITALIA/ oppure sono i banditi?”
Cleonice sarà con Rizzato tra i primi che, a gruppi di tre, saranno fucilati dai tedeschi.
La donna fu colpita atrocemente da più di uno schiaffo e da uno sputo sul viso. Non si scompose; incassò impassibile, e poi fiera, con aria ispirata, quasi trasumanata, disse parole che per mio conto la rendono degna di essere paragonata a una donna spartana, o meglio ancora a un’eroina del nostro Risorgimento:
“Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che la vostra è opera vana; quello non lo domerete mai”. Poi, rivolta ai compagni: “Ragazzi, viva l’Italia, viva la libertà per tutti!” gridò con voce squillante. Anima grande!
Al grido si uniranno i suoi compagni Giovanni Alberti, Carlo Antonio Beretta, Angelo Bizzozero, Emillio Bonalumi, Luigi Brioschi, Luigi Brown, Dante Capuzzo, Sergio Ciribì, Giuseppe Cocco, Adriano Marco Corna, Achille Fabbro, Olivo Favaron, Angelo Freguglia, Franco Ghiringhelli, Cosimo Guarnieri, Franco Marchetti, Arturo Merzagora, Rodolfo Pellicella, Giuseppe Perraro, Marino Rosa, Aldo Cesare Rossi, Carlo Sacchi, Renzo Villa, Giovanni Volpati e altri quattordici che all’esumazione non poterono essere identificati.
Carlo Suzzi, Da alcuni decenni si era trasferito a vivere in Thailandia. Fu l’unico sopravvissuto dell’eccidio nazifascista del 20 giugno 1944 a Fondotoce, noto come la strage dei 42 Martiri. L’essere sopravvissuto alla fucilazione gli valse il soprannome di “43”, nome di battaglia che portò combattendo nella divisione partigiana Valdossola
Sul sacrificio di Cleonice e dei suoi compagni a Fondotoce, Nino Chiovini ha scritto un libro; i martiri sono ricordati anche con un “sentiero Chiovini”.
Fonte-da DONNE E UOMINI DELLA RESISTENZA-immagini Cleonice Tomassetti- il macabrio corteo con Cleonice unica donna – e in primo piano – lapide in memoria dell eccidio-
Pubblicazioni: numerose pubblicazioni di lezioni e temi riguardanti la pace editi dall’associazione Primalpe
La Scuola di pace di Boves è un’istituzione senza fini di lucro, voluta, deliberata dall’amministrazione comunale di Boves ed è un luogo dove si insegna la pace
Il Teatrino al forno del pane “Giorgio Buridan” (UILT, Unione Italiana Libero Teatro) che presenta
lo spettacolo CLEONICE di Maria Silvia Caffari, venerdì 9 febbraio ore 21 all’Auditorium Borelli.
Cleonice Tomassetti, detta Nice, donna di straordinarie scelte, che da un paesino del Lazio
la portano a Roma e poi a Milano, fino a quella ultima scelta che la condurrà alla morte: unirsi ai combattenti per la libertà.
Tra di loro, lei appare, sotto un cartello, tenuto da due giovani: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”.
Sembra essere lei a guidarli, nel viaggio da Intra a Fondotoce, dove verrà fucilata a soli 33 anni il 20 giugno 1944 con altri 42 giovani partigiani.
Descrizione del libro di Roberto Bizzocchi.Per obbligo e per piacere, quasi tutti abbiamo letto i Promessi sposi. Una diffusione enorme che ha reso i personaggi, tanti episodi, tante espressioni tipiche familiari, anzi proverbiali della nostra cultura. Un romanzo che ha davvero fatto l’Italia, almeno nei suoi aspetti migliori, grazie a un messaggio politico e pedagogico che è tempo di riscoprire.
Forse perché lo leggiamo troppo presto o forse perché siamo costretti a farlo a scuola, sta di fatto che, in generale, abbiamo una opinione abbastanza grigia e sfocata dei Promessi sposi. Spesso ci rimanda un’immagine di compunzione religiosa e di moderatismo accomodante simile a certe vecchie fotografie che troviamo nelle case dei nostri nonni e che faticano a parlarci ancora. Ecco, vi invitiamo a (ri)leggere i Promessi sposi in modo un po’ diverso dal solito, cioè in compagnia non di un letterato, ma di uno studioso di storia d’Italia. Scopriremo così che i Promessi sposi hanno un carattere fortemente politico e ci dicono moltissimo sulla nostra storia, non solo quella del Seicento, sul nostro carattere nazionale, sull’impronta che il cattolicesimo ha lasciato, nel bene e nel male, nella nostra coscienza morale. Torneranno alla luce l’importanza e il valore del messaggio ideologico al cuore di questo romanzo: una morale privata basata su libertà di scelta e responsabilità individuale, per uomini e donne; un illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una consapevolezza acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli.
Introduzione
Tutti abbiamo in mente almeno un personaggio, un episodio, una battuta dei Promessi sposi: il romanzo è nella coscienza degli Italiani.
È stato anche molto, e molto bene, studiato, insieme con le altre opere di Manzoni, dagli specialisti di letteratura, che tuttora vi scoprono e ce ne spiegano nuovi pregi e ricchezze; ci dimostrano sempre di più che è davvero una miniera inesauribile. Da parte mia, su Manzoni e sui Promessi sposi assumo in questo libro un punto di vista particolare, quello di un lettore appassionato che di mestiere non fa l’italianista ma lo storico. Mi sono convinto sempre più nel corso degli anni, non solo leggendo e rileggendo ma anche riflettendo su quanto succede nel nostro paese, che il romanzo contenga un programma etico-politico per lo Stato e la nazione italiani molto importante e tuttora vivo e valido. I Promessi sposi ci dicono moltissimo sulla nostra storia, non solo quella del Seicento, sul nostro carattere nazionale, sull’impronta che il Cattolicesimo ha lasciato, nel bene e nel male, nella nostra morale, e lo fanno in un’attitudine non descrittiva ma propositiva, suggerendo, appunto, delle linee di comportamento su questioni cruciali.
La patina di compunzione religiosa e moderatismo accomodante di cui a volte – forse meno oggi che in un passato di forti contrapposizioni ideologiche – si è voluto rivestire il romanzo, così facendogli torto e invecchiandolo, va rimossa anche alla luce di un confronto serrato con la cultura letteraria e politica dell’Italia e dell’Europa del Settecento e dell’Ottocento. Ritengo che tale confronto aiuti a mettere in evidenza alcuni aspetti decisivi sia di modernità che di radicalismo propri di Manzoni: perciò gli ho dedicato molta parte del libro. Tratto i Promessi sposi e le altre principali opere di Manzoni in costante riferimento a quelle dei suoi contemporanei italiani ed europei ed è su questa base che sostengo la positività e l’attualità del messaggio ideologico manzoniano, in quelle che mi paiono le sue componenti essenziali, oltre all’ispirazione cristiana: identità pubblica nazionale in chiave europea e non nazionalista; morale privata basata sulla libertà di scelta e sulla responsabilità individuale, e ciò sia per gli uomini che per le donne; illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una percezione acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli che vi operano.
Ho scritto un libro spero non privo di quella che si chiama in linguaggio accademico serietà scientifica, anche se non ho potuto farlo da specialista della materia. L’ho comunque scritto cercando di evitare pesantezze erudite e pensando a un pubblico che comprenda chi voglia rinfrescare una lettura giovanile di Manzoni e del suo romanzo, e anche chi ogni giorno ha il dovere professionale di renderli attrattivi per una classe di adolescenti. Quest’ultimo dev’essere – lo immagino – un compito impegnativo. Ma per le ragioni che ho esposto sopra, e che mi auguro verranno via via illustrate e approfondite nel corso del libro, sono convinto che sia addirittura fondamentale: Manzoni ha parlato agli Italiani della loro storia e della loro identità, ponendo problemi che restano centrali e indicando soluzioni che ancora ci riguardano, noi tutti e non meno degli altri i più giovani fra di noi.
Anche perciò dedico il libro a due Italiani giovanissimi: Samuele e Matilde.
1. Latinorum
Siccome non ha il coraggio di respingere le minacce dei bravi di don Rodrigo, don Abbondio deve tener buono Renzo, accampando pretesti per non celebrare il matrimonio. Quando comincia a snocciolargli gli ostacoli alle nozze, gli «impedimenti dirimenti», che sono poi una sfilza di parole latine, il ragazzo ha un brusco moto d’impazienza: «Si piglia gioco di me? Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?».
Qui latinorum è una parola nuova. Prima esisteva solo in latino, come genitivo plurale maschile dell’aggettivo latinus (e dunque da tradurre: dei latini); ma in un discorso in italiano, e in questa accezione polemica, l’ha utilizzata per primo, come reinventandola, proprio Manzoni. Il suffisso -orum si prestava bene a quanto c’era anche di scherzoso nell’invenzione. Clausole quali -orum, -um, -bus evocano spiccatamente, in una percezione popolare, la natura complicata ed esotica del latino; e il gioco non è finito coi Promessi sposi. Ce lo ricorda, nel film del 1961 di Sergio Corbucci I due marescialli, il comico Totò, impersonando un ladruncolo travestito da prete che recita ad alta voce orazioni pseudolatine per evitare l’arresto da parte del maresciallo dei carabinieri Vittorio De Sica: «Dominus […] in autobus, et linoleum mea in Colosseum. Mortis tua e tu’ patri et tu’ nonni in cariolam mea. Omnibus […] Linoleum, linoleum, linoleum […]. Ora pro nobis, ora pro nobis. Autobus, autobus».
I contesti delle due scene sono molto diversi, ma non incomunicabili, e il loro confronto, a prescindere dallo squilibrio dell’impegno e della resa artistica, è molto istruttivo. In quel film Totò impersona un latitante alle prese con l’autorità, il quale per altro cerca di proteggersi proprio sotto il manto di un’altra autorità, la tonaca di un membro della Chiesa, la sacra istituzione che nell’anno di ambientazione del film, il 1943, e anche in quello della sua realizzazione, il 1961, ancora adottava come lingua ufficiale il latino, che avrebbe abbandonato nella liturgia appena poco dopo, col Concilio Vaticano II (1962-1965). Come accade spesso nei film di Totò, la contrapposizione fra l’uomo del popolo e il rappresentante dell’autorità è sfumata, fin quasi all’accostamento fraterno nel caso in cui il secondo sia incarnato da un attore meno elegante e più bonaccione di De Sica: esemplare il brigadiere Aldo Fabrizi in Guardie e ladri (1951) di Mario Monicelli e Steno. Manzoni invece è radicale, perché la sua visione è dicotomica: Renzo è un giovane onesto il quale non fa che reclamare il rispetto dei suoi diritti, mentre il parroco si sta di fatto rendendo complice di una violenza. L’episodio del romanzo propone uno scontro netto, dove la distinzione fra ragione e torto risalta bruciante e il danno subito dalla vittima grida all’ingiustizia e spinge all’insubordinazione. Il potere si è fatto prepotenza e il latino si manifesta come la lingua del sopruso.
C’erano delle ottime ragioni per presentare le cose in questo modo. Per molti secoli – che comprendevano sia il periodo in cui Manzoni scriveva, il primo Ottocento, sia quello di cui scriveva, il primo Seicento – il latino fu in Europa anche il mezzo e il simbolo della discriminazione fra potenti e umili, ricchi e poveri. Era la lingua della Chiesa cattolica (ma non era del tutto sparito neppure dalle confessioni protestanti, benché esse promuovessero la Bibbia in volgare); era la lingua del diritto e della diplomazia; deteneva un ruolo ora rilevante ora addirittura dominante nelle scuole; e veniva anche visto come un vero e proprio status symbol. Insomma era la lingua di chi sa, può, possiede, si mostra e comanda. L’attitudine che si assumeva nei suoi confronti era perciò un affare denso di significato politico.
Ricordiamo alcuni fatti e alcune opinioni – queste ultime sicuramente note a Manzoni – che servono a comprendere in un contesto più ampio la sua posizione. Il grande pensatore John Locke, un padre del liberalismo moderno, scrisse in inglese i suoi Pensieri sull’educazione (1693), ma vi sostenne che la conoscenza del latino era «assolutamente necessaria per un gentiluomo». Appunto, per un gentiluomo. I sovrani riformatori del Settecento illuminato favorirono l’istruzione elementare dei loro popoli e nella Lombardia di Maria Teresa d’Asburgo le scuole primarie, siccome dovevano preparare alle superiori, comprendevano qualche elemento di latino. Quelle scuole erano gratuite, ma per partecipare alle lezioni di latino bisognava pagare una tassa di 20 soldi al mese, dunque i poveri vi rinunciavano. Non sorprende che i legislatori della Rivoluzione francese, per quanto ammiratori – come vedremo – dell’Antichità classica, cercassero di ridurre l’invadenza del latino come lingua (il provvedimento relativo è del 25 ottobre 1795) e che il loro orientamento fosse condiviso dai patrioti italiani del triennio giacobino 1796-1799. Uno di questi, che si chiamava Domenico Sgargi, il 16 piovoso dell’anno VI repubblicano, cioè il 4 febbraio 1798, pronunciò nel primo Circolo costituzionale del Genio democratico di Bologna un infiammato Discorso risguardante li ostacoli, che nel governo dispotico si oppongono al progresso dell’arti, e delle scienze. Imputato principale, il latino: «una lingua da pochi studiata, da pochi intesa, da pochissimi con qualche eleganza parlata», e perciò denunciato come il più subdolo fra i mezzi usati dai tiranni per perpetuare «l’ignoranza del Popolo». Tuttavia appena pochi anni più tardi, sotto il regime progressista ma autoritario di Napoleone, il clima era già cambiato. Durante il Consolato, nel 1802, l’insegnamento nei licei francesi fu riorganizzato intorno alla matematica e al latino, e sotto l’Impero un decreto del 17 marzo 1808 decise che per laurearsi era necessario saper «comporre in latino e in francese su un soggetto ed entro un tempo dati», mentre un altro del 13 agosto 1810 stabilì una regola che ricorda da vicino quella della Lombardia asburgica: «Tutti gli allievi di una scuola dove s’insegni il latino saranno tenuti al pagamento di una tassa».
Leggiamo cosa pensavano del latino due celebri scrittori francesi contemporanei di Manzoni. Il primo, François-René de Chateaubriand, è stato un grande romantico, tradizionalista e spiritualista. Nel suo Genio del Cristianesimo (1802), nello sciogliere un inno poetico all’uso del latino nella liturgia, ha introdotto delle considerazioni liricheggianti e irrazionalistiche che vanno molto al di là dell’accettazione di una pratica ortodossa: «una lingua antica e misteriosa, una lingua che non varia nel tempo, si adatta bene a venerare l’Essere eterno, incomprensibile, immutabile […]. Le orazioni in latino sembrano raddoppiare il sentimento religioso della folla. Come spiegarlo, se non quale effetto naturale della nostra propensione al segreto?». Il secondo, Joseph de Maistre, è stato invece un razionalista lucido e mordace, apertamente reazionario e forcaiolo (è lo stesso dell’elogio del boia e della divinità della guerra), una specie di Voltaire a rovescio. Il suo trattato Sul Papa, concluso nel 1817 e pubblicato nel 1819, comprende una digressione in lode del latino: «Nata per comandare, questa lingua comanda ancora dai libri di coloro che la parlarono. È la lingua dei Romani conquistatori, è la lingua dei missionari della Chiesa romana […]. Quanto al popolo, se non ne comprende le parole, tanto meglio. Il rispetto ci guadagna, e l’intelligenza non ci perde […]. Comunque sia, la lingua della religione deve stare fuori dalla portata dell’uomo».
Manzoni si colloca evidentemente proprio dalla parte opposta: non era meno cattolico né meno latinista di Chateaubriand e de Maistre, ma non condivideva né il latinorum misticheggiante del primo né quello più esplicitamente prevaricatore del secondo.
Ciò detto, si capisce che il latino in sé non si esauriva certo nel latinorum. Benché lingua del comando, dell’imperialismo e – lo abbiamo appena intuito – del colonialismo che si profilava dietro l’evangelizzazione, il latino era stato però fino a tutta l’epoca moderna anche la lingua della cultura e della scienza. Allora l’inglese dell’odierna globalizzazione era ben di là da venire, mentre il francese dei Lumi cominciò a farsi largo solo nel corso del Settecento. Intanto serviva una lingua per capirsi fra intellettuali e studiosi dei vari paesi d’Europa, e questa fu il latino.
Il più rappresentativo intellettuale del Rinascimento, Erasmo da Rotterdam, scrisse in latino le sue opere, fra cui la più famosa, Laus stultitiae, l’elogio della follia (1511). L’esposizione della teoria eliocentrica in un trattato sulle rivoluzioni delle sfere celesti fu fatta dall’astronomo polacco Niccolò Copernico nel De revolutionibus orbium coelestium (1543). Per restare in materia, Galileo Galilei scrisse in italiano il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), ma la fortuna europea dell’opera dipese dalla sua traduzione latina del 1635. Un altro libro che ebbe un decisivo impatto innovatore, perché distingueva la conoscenza matematica dalle altre come l’unica certa, fu il Discorso sul metodo (1637). L’autore, René Descartes, più universalmente noto come Cartesius, lo pubblicò in francese, ma poi rivide personalmente il testo della traduzione latina. La dimostrazione del carattere storico e relativo della Bibbia e la prima grande affermazione, su questa base, dello spirito critico e della libertà di pensiero furono attuate dal filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza, nel 1670, nel Tractatus theologico-politicus. Anche la teoria della gravitazione universale fu poi esposta da Isaac Newton in latino nei Principia Mathematica (1687), e pure in latino da Linneo la classificazione del mondo naturale nel Systema Naturae (1735). Ancora nel 1791, cioè due anni dopo la presa della Bastiglia, lo scopritore del rapporto tra forza elettrica e moto animale, Luigi Galvani, espose le sue ricerche nel De viribus electricitatis in motu muscolari.
Ma non contava solo l’aspetto della comunicazione europea dei contenuti del pensiero di questo o quell’autore che lavorava nel suo rispettivo paese di appartenenza. Infatti qualcuno di loro, prima ancora di porsi problemi di comunicazione, mostrava di apprezzare le spiccate qualità del latino nell’espressione stessa di quei contenuti. Uno fu Blaise Pascal, uno scrittore e spirito religioso molto ammirato da Manzoni e molto influente su di lui, e sul quale torneremo. Pascal era anche un matematico. In una lettera del 29 luglio 1654 a un collega, dopo aver cominciato a esporgli le sue scoperte sul calcolo delle probabilità nella loro comune lingua francese, si arrestò di colpo: «Par exemple, et je vous le dirai en latin, car le français n’y vaut rien: Si quotlibet litterarum, verbi gratia octo», eccetera. Proprio così: per spiegarsi meglio Pascal abbandona il francese, che non funziona più, e passa al latino.
Fermiamoci qui. Dobbiamo riavvicinarci alla letteratura e a Manzoni. Lo faremo osservando che nel corso del Settecento l’onnipotenza del latino fu messa in discussione da parte di coloro che sottoponevano a critica ogni aspetto dell’eredità del passato, gli Illuministi. Il confronto fra le posizioni di due di loro ci avvierà a capire in quale più precisa direzione si sarebbe ormai trovato incanalato, negli anni di formazione di Manzoni, il precedente universalismo latino. I due sono lo scienziato Jean Baptiste d’Alembert e il filosofo Denis Diderot, i due direttori dell’Encyclopédie, il monumentale manifesto dell’Illuminismo francese. Proprio nel suo Discorso preliminare all’Enciclopedia, risalente al 1751, d’Alembert prendeva già atto, non senza qualche sfumatura di rammarico, che il latino era in crisi e destinato in futuro a un uso residuale. Invece Diderot nel Progetto di una università per il governo di Russia, steso fra il 1775 e il 1776 per la zarina di Russia Caterina II, negò al latino qualsiasi rimpianto: non serve a nessuno, scrisse, «tranne che ai poeti, agli oratori, agli eruditi, e a simili tipi di letterati di professione, il che vuol dire a tutta gente che è la meno necessaria alla società».
Insomma, siamo arrivati al punto: il latino e noi, letterati di ieri e di oggi, cultori, autori, lettori di opere di umane lettere. Nei paesi di lingua neolatina e in primo luogo in Italia, latino e letteratura hanno avuto storicamente un rapporto strettissimo, quasi una vera e propria identificazione. È un’eredità dell’Umanesimo, con la sua riscoperta e promozione, anzi esaltazione, degli autori classici, e dopo circa sette secoli questa eredità mantiene una sua forza. Attenzione, però: fra i letterati di ieri e quelli di oggi, per quanto tuttora affratellati da vincoli non facili da spiegare ma profondissimi, da una sorta di ineffabile omertà di fondo, c’è una differenza decisiva. Se si escludono gli specialisti e gli insegnanti di lingue classiche e qualche altro personaggio di eccezionale competenza (diciamolo col poeta latino Giovenale: «rara avis», uccello raro), i letterati di oggi sono per lo più dei latinisti magari volonterosi, ma un po’ impacciati, e comunque limitati. Per esempio: quanti di loro sono davvero in grado di tradurre all’impronta un capitolo delle storie di Tito Livio? E un’ode di Orazio? E quanti versi di poesia latina ricordano e possono recitare a memoria?
A me, che ho studiato lettere tutta la vita, risuona ancora in mente, circa mezzo secolo dopo averlo imparato, un verso delle Georgiche di Virgilio. Lo ricordo, come mi fu insegnato, proprio in metrica, cioè cogli accenti tutti spostati, ma corrispondenti al ritmo della lettura poetica: «Sèd fugit ìntereà fugit ìrreparàbile tèmpus»: ma fugge intanto, fugge irreparabilmente il tempo. Facciamoci un’idea di confronto. Nella sua autobiografia Vittorio Alfieri, vissuto fra 1749 e 1803, racconta le sue prodezze di collegiale: nei suoi momenti migliori sfiorava i 400 versi delle Georgiche declamati a memoria senza interruzione. Non mi vorrò mica paragonare con Alfieri? Certo che no, ma il problema non è lui, è il suo anonimo compagno di classe con cui Vittorio era sempre in gara: «L’emulazione – scrive il poeta – mi si accrebbe, per l’incontro di un giovine che competeva con me nel fare il Tema, ed alcuna volta mi superava; ma vieppiù poi mi vinceva sempre negli esercizj della memoria, recitando egli sino a 600 versi delle Georgiche di Virgilio d’un fiato, senza sbagliare una sillaba».
Bisogna riflettere su una testimonianza come questa per capire cosa fossero il latino, la poesia latina per i letterati grandi e piccoli di un tempo, anche per i loro più oscuri colleghi o condiscepoli. Ce l’avevano non solo in testa, ma nel sangue, come un modo di pensare e di essere. Manzoni non fa eccezione. Senza diventare un grande filologo, anche grecista, come Leopardi, divorato dall’ardore solitario di uno studio matto e disperatissimo nella biblioteca familiare di Recanati, Alessandro ha però fatto i suoi bei studi classici seguendo il normale percorso di un giovane nobile educato nei collegi religiosi: mentre nutriva una fiera avversione per gli insegnanti, a suo parere ipocriti e mediocri, e scriveva contro di loro qualche intemperante ragazzata di cui si sarebbe poi pentito dopo il ritorno alla fede cattolica, s’impadroniva dei poeti latini e della loro lingua con una passione e una competenza che non lo avrebbero più abbandonato.
Tutti i suoi scritti lungo tutta la sua vita testimoniano una familiarità confidente coi classici, sempre citati con sicurezza e disinvoltura, e c’è un episodio che spiega a meraviglia la sua appartenenza a quella illustre tradizione. Molto dopo gli anni di collegio, nel 1868 – aveva ormai 83 anni –, durante una passeggiata nei giardini pubblici di Milano, vide degli uccelli chiusi in gabbia, e il suo amore per la libertà gli ispirò l’idea che quelli si rivolgessero con un moto d’invidia alle anatre che scorrazzavano sullo stagno. Da questa ispirazione è nata una poesia, una specie di scherzo garbato e serio sulle diverse condizioni dei viventi. Noi, che siamo letterati diversamente, oltre che inferiormente, rispetto a lui, ai volatili prigionieri faremmo dire: «Anatre fortunate cui sorride l’aria aperta, e cui si offre libero nella sua ampiezza lo spazio dello stagno!». Ma l’inventore del latinorum non aveva perso la pratica dell’antico collegiale coi distici elegiaci latini: «Fortunatae anates quibus aether ridet apertus, / Liberaque in lato margine stagna patent!». Sì, Manzoni ha composto la sua ultima poesia in latino: Volucres, uccelli.
Questa familiarità si era già palesata nel modo più intimo e toccante che si possa immaginare. Fra i poeti latini amati da Manzoni il prediletto fu Virgilio, il poeta della natura e dell’amore, della tragedia della guerra e dell’umanità dolorosa. Studiato e tradotto in collegio, gli è rimasto sempre nella mente e nel cuore. Sotto l’ala di Virgilio era avvenuto l’esordio di Alessandro in poesia, a dodici anni, nel 1797, con un’esercitazione sul secondo libro dell’Eneide di cui ci è rimasto un piccolo frammento sul cavallo di Troia. Leggiamolo con la tenerezza che merita il primo balbettamento di un futuro grande poeta: «Destrier si formi, e sia ben vuoto in mezzo, / dentro poniamvi quanti mai vi possano / soldati star». Virgilio fu poi sempre un riferimento dominante per lo scrittore maturo, che fra l’altro gli dedicò una entusiastica analisi in quella mirabile summa di storia della letteratura universale che è il trattato Del romanzo storico, concepito nel 1827 e pubblicato nel 1850. Siccome non è possibile citare tutta quell’analisi, accontentiamoci di farlo con la frase che ne costituisce il succo: «Avere accennato ciò che la poesia vuole, è avere accennato ciò che Virgilio fece, in un grado eccellente».
Il rapporto è ancora più intrinseco, proprio perché la memoria virgiliana di Manzoni toccava davvero le corde più delicate del suo sentimento. Nel sesto libro dell’Eneide, prima di far scendere il protagonista nell’Ade, l’Aldilà pagano, e lì fargli avere la rivelazione della futura grandezza politica di Roma, Virgilio descrive il tempio di Apollo a Cuma e spiega perché Dedalo non è riuscito a raffigurarvi, fra le altre scene, quella della morte del figlio Icaro. Ci si è provato due volte, ma due volte il cuore non gli ha retto e due volte gli sono cadute le mani di padre addolorato: «Bis patriae cecidre manus». Questa espressione virgiliana, che è anche volgarizzata nell’uso quotidiano – mi cadono le mani, mi fai cadere le braccia –, Manzoni l’ha ripresa già nel Cinque maggio, raccontando come Napoleone abbia tentato più volte invano di lasciare ai posteri la sua autobiografia: «E sull’eterne pagine / Cadde la stanca man!». Ma l’ha nuovamente ripresa, a distanza di tredici anni, per un’occasione molto più personale: il giorno di Natale del 1834, primo anniversario della morte prematura della sua amatissima moglie, ha cominciato a comporre un’ode religiosa sul tema (che vedremo per altri versi cruciale) dell’onnipotenza di Dio e dello smarrimento umano di fronte alla morte dei giusti e degli innocenti, Il Natale del 1833. Ne restano una trentina di versi, sofferti, interrotti, incompiuti. Arrendendosi di fronte alla piena del proprio dolore, Manzoni ha siglato la rinuncia con le due parole che gli risalivano dal fondo del cuore: cecidre manus.
Insomma, Manzoni aveva tutte le carte in regola per appartenere alla gloriosa tradizione classica della letteratura italiana, quella cui fra Sette e Ottocento erano appartenuti e appartenevano – ben inteso, ognuno con la sua specifica personalità – Parini, Alfieri, Monti, Foscolo, autori tutti importanti nella sua formazione giovanile. Una tale appartenenza comportava non solo venerazione e dimestichezza rispetto ai poeti classici, specie quelli latini, ma anche volontà di imitarli e proseguirli in uno stile alto e raffinato di scrittura, comprensivo dell’uso della mitologia pagana come fonte d’ispirazione tuttora valida per la poesia moderna.
Su questa linea Manzoni compose fra l’altro, nel 1809, un poema mitologico dedicato a Urania, che sta, per così dire, a mezza via tra la Musogonia di Monti e LeGrazie di Foscolo. Eccone il contenuto. Dopo una tenzone fra poeti greci che aveva visto vincitrice Corinna, aiutata dalle Grazie, lo sconfitto Pindaro viene confortato nel Parnaso, il monte del dio Apollo e delle Muse, da una di loro, Urania appunto, che gli spiega che Giove ha inviato Muse e Grazie sulla terra per ispirare i poeti nella loro funzione civilizzatrice. Il giovane Alessandro si augura di essere annoverato fra questi: «Mi sollecita amor che Italia un giorno / Me de’ suoi vati al drappel sacro aggiunga, / Italia, ospizio de le Muse antico». Come si vede, il poemetto è naturalmente scritto in endecasillabi sciolti, cioè non rimati, il metro regale della storia della poesia classica italiana, usato in una vastissima produzione che si attesta sui livelli qualitativi più diversi, ma che comunque comprende anche i Sepolcri di Foscolo e l’Infinito di Leopardi. Il dato più interessante è però che Manzoni aveva già allora qualche dubbio su quanto stava facendo.
Lo impariamo da due sue lettere all’amico francese Claude Fauriel. Nella seconda, del 6 settembre 1809, forse riferendosi proprio a Urania o forse a un’altra composizione neoclassica cui sta lavorando, Manzoni esprime un giudizio seccamente negativo. Traduco: «Sono molto scontento di questi versi, soprattutto perché non presentano nessun motivo d’interesse; non bisogna farne così; magari in futuro ne farò di peggiori, ma non così». La prima, scritta il 9 febbraio 1806 in italiano, è anche più importante, perché consiste in un esplicito e ampio confronto con la tradizione classica. Il giovane poeta se ne sente e vuole esserne parte, ma sa già sottoporla a uno sguardo critico. Ha ricevuto da Fauriel degli elogi per i suoi versi In morte di Carlo Imbonati, gli stessi che saranno elogiati poco dopo anche in una nota dei Sepolcri. Imbonati era stato il compagno di sua madre a Parigi e Alessandro lo celebra, senza averlo conosciuto, come un «giusto solitario», un modello di rigore morale e dedizione al generoso e disinteressato studio degli antichi. Rispetto all’Urania, qui siamo in un’altra stanza dell’illustre palazzo del Neoclassicismo: intemerata onestà e fierezza, solitudine dell’intellettuale, disprezzo verso il presente «secol sozzo» e dunque esaltazione dei predecessori più indignati, il tragico Alfieri, «che ne le reggie primo / L’orma stampò dell’Italo coturno» (il coturno era lo stivaletto calzato dagli attori delle tragedie greche e romane), e il satirico Parini, «scola e palestra di virtù».
I versi per Imbonati restano fedeli alla linea. Ma la risposta agli elogi di Fauriel è straordinariamente problematica e acuta. L’interlocutore doveva aver scritto qualcosa in favore dell’endecasillabo sciolto, il metro usato anche qui da Manzoni, il quale proprio da questo parte per proporre una concentrata sintesi di critica letteraria fra antichi e moderni: «Lo Sciolto parmi veramente il più bello dei nostri metri, quando è ben maneggiato. Parmi ch’esso abbia, come l’esametro latino, il pregio di prendere ogni colorito». Al solito, i classici incombono, e infatti seguono riferimenti ammirati a Virgilio e Orazio. Poi, tornando alla poesia italiana, un’osservazione non scontata: la rima non è una difficoltà in più, al contrario, coi suoi vincoli essa ispira di per sé nuovi pensieri allo scrittore, sicché sono invece proprio gli endecasillabi non rimati il vero banco di prova delle «virtù poetiche», e «il Parini è sommo scrittore di versi sciolti perché le aveva tutte». Su questa conclusione la partita sembra chiusa nella scia della fedeltà alla linea, sotto il segno di un suo esimio rappresentante, e invece, con uno scarto netto, il discorso si riapre, in un modo, appunto, acutamente problematico.
Manzoni ragiona sul poemetto Il Giorno, l’incompiuto capolavoro di Parini. Si tratta della severa e polemica descrizione di come sciupasse la sua giornata un giovane nobile del tempo. Il nobile milanese Manzoni conosceva benissimo il contesto e le ragioni della satira, perché essa era maturata nella Milano degli anni Sessanta del Settecento, sullo sfondo delle discussioni illuministiche del giornale «Il Caffè», con la presenza dei fratelli Pietro e Alessandro Verri e di Cesare Beccaria, che fra l’altro era stato suo nonno materno. Conosceva di sicuro anche un aspetto particolarmente delicato dei costumi di quell’epoca, che costituisce, per così dire, il quadro della rappresentazione del Giorno, e cioè il fatto che il «giovin signore» protagonista dell’opera fosse un cavalier servente, ovvero un cicisbeo, accompagnatore ufficiale di una dama maritata a un altro uomo, «la pudica d’altrui sposa a te cara», come Parini la definisce mordacemente, rivolgendosi al suo eroe negativo in un verso che torna più volte quasi invariato nel poema. Manzoni ha sempre glissato sul cicisbeismo, che aveva inciso in modo determinante sulla vita di sua madre, e noi ci torneremo, per lo stretto necessario, solo quando più avanti occorrerà parlare delle figure femminili da lui create.
In questa lettera IlGiorno viene esaltato come esemplare nelle intenzioni rispetto allo scopo più alto dell’arte, «d’erudire cioè la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell’utile», ma viene anche fatto oggetto, quanto ai risultati, di un giudizio, a ben vedere, molto negativo: semplicemente, è troppo difficile, quindi alla fin fine poco utile. Parini, «quel sommo uomo», «non ha fatto che perfezionare di più l’intelletto e il gusto di quei pochi che lo leggono e l’intendono; fra i quali non v’è alcuno di quelli ch’egli s’è proposto di correggere». Questo giudizio merita un commento: i corrigendi sono i nobili dal Settecento in poi, a cominciare da quelli dell’illuminata Milano. Davvero gli esponenti del ceto dirigente della Parigi d’Italia non capiscono IlGiorno? Non è che Manzoni sta un po’ esagerando? Facciamo comunque un sondaggio su di noi.
In una delle sezioni del poema, intitolata Il Vespro, s’immagina che sul far della sera il cavalier servente conduca in carrozza la sua bella, pudica sposa d’altrui, ad incontrare altre dame e altri accompagnatori con cui scambiare – diremmo noi – quattro chiacchiere in amicizia sulle ultime novità. Niente di astruso, anzi. Ma il poeta trova ineluttabile che ciò sarà l’occasione per spettegolare malignamente sulle assenti, il cui arrivo per altro è prossimo, e rivolgendosi all’Amicizia, intesa come dea, la invita a moderare le linguacce delle presenti e ad ispirare al «giovin signore» un atteggiamento parimenti discreto e generoso, appunto da vero amico e non da sparlatore. L’ho riportata, riassumendo e parafrasando, a modo mio. Ecco Parini: «Tu fra le dame / sul mobil arco delle argute lingue / i già pronti a scoccar dardi trattieni, / s’altra giugne improvviso a cui rivolti / pendean di già: tu fai che a lei presente / non osin dispiacer le fide amiche: / tu le carche faretre a miglior tempo / di serbar le consigli. Or meco scendi; / e i generosi ufici e i cari sensi / meco detta al mio eroe; tal che, famoso / per entro al suon delle future etadi, / e a Pilade s’eguagli e a quel che trasse / il buon Tesèo da le tenarie foci».
Bello ed elegante, in una felice chiave ironica, ma in effetti non proprio facilissimo. Non saprei dire se davvero nessuno dei destinatari corrigendi poteva capire; quanto a me, mi sono districato da solo fra i versi che giocano sulla repressione della maldicenza nei confronti della dama non ancora arrivata, ma per gli ultimi due ho avuto bisogno di un supporto proprio per apprezzare la felice ironia. Il galante cicisbeo si mostrerà un vero amico se si comporterà come due eroi della mitologia classica: il primo è citato, Pilade, sempre fedele compagno delle peripezie del cugino Oreste; il secondo è Ercole. La definizione di quest’ultimo richiede un’ulteriore spiegazione: fra le sue varie magnanime prodezze c’è quella di aver liberato dall’Oltretomba Teseo, a sua volta definito buono perché vi aveva accompagnato Piritoo (che neppure Ercole riuscì a liberare); le tenarie foci, che traducono le tenarias fauces delle Georgiche di Virgilio, sono appunto il luogo d’entrata (o meglio: uno dei possibili luoghi d’entrata) nell’Oltretomba secondo gli antichi, il capo Tenaro, l’odierno Matapàn, sulla punta della penisola del Mani nel Peloponneso.
È estremamente interessante il modo in cui, nella sua lettera a Fauriel, Manzoni motiva la difficoltà di capire Parini e nell’insieme la poesia classica italiana; la presenta in effetti come un problema di lingua: «Per nostra sventura, lo stato dell’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l’ignoranza quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi lingua morta». Cioè, sullo sfondo della storica disunione politica, non esiste una lingua condivisa da tutti gli Italiani e naturalmente usata sia nel parlato che nello scritto. A vent’anni Manzoni aveva già ben chiaro un rovello su cui avrebbe riflettuto e lavorato durante tutta la sua lunga vita (anche su questo torneremo), e ciò già nell’ottica, che qui si delinea nelle frasi successive e che egli avrebbe poi sempre mantenuto, del confronto con la Francia, una nazione più fortunata perché da secoli unita e libera. Ma in questo testo rivelatore c’è dell’altro: si legge fra le righe, ma c’è di sicuro. Perché in fin dei conti Parini è comprensibile da qualsiasi italiano che possieda una buona cultura classica, dunque qui non c’è solo la presa d’atto della mancanza di una lingua nazionale, ma anche – inseparabile da questo rilievo – l’insoddisfazione per una letteratura accessibile solo ai pratici sia di «carche faretre» che di «tenarie foci», per una letteratura, insomma, privilegio di pochi intellettuali raffinati, patrimonio – per dirla con polemica impazienza – dei soli esperti di latinorum.
Queste considerazioni ammirate ma critiche sul Giorno contengono la promessa degli Inni sacri, le prime poesie religiose di Manzoni dopo la sua cosiddetta conversione, cioè il suo sofferto processo di riavvicinamento alla fede cattolica che una pittoresca leggenda vorrebbe frutto di una sorta di folgorazione avvenuta il 2 aprile 1810 nella chiesa parigina di San Rocco, la quale, peraltro, commemora in una lapide il presunto miracolo. Tranne la Pentecoste, lungamente elaborata fra 1817 e 1822, gli Inni sacri, composti fra 1812 e 1815, non si possono forse definire dei capolavori, ma la loro prima edizione nel 1815 segna comunque una svolta nella storia della letteratura italiana. Ancora alla vigilia dell’inizio in Italia della polemica fra Classicismo e Romanticismo, Manzoni taglia già i ponti col primo e lo fa in una sua maniera molto peculiare, destinata a segnare la propria adesione al secondo e a condizionare il profilo che esso avrebbe preso nella letteratura italiana. Si tratta di una scelta che ha la forza della coerenza e della semplicità: la letteratura ha senso solo se non è un gioco di corte o d’accademia, ma una pratica morale in rapporto con l’umanità vivente, l’umanità nuova del Cristianesimo; e ha valore solo se può arrivare a tutti gli esseri umani.
Non deve stupire il fatto che Manzoni realizzi il distacco dalla scuola classica che era stata anche la sua, e dunque una innovativa cesura nella cultura letteraria italiana, con delle poesie che celebrano argomenti quali la Resurrezione, il Nome di Maria, il Natale, la Passione, la Pentecoste. La novità stava nella combinazione di due elementi: quelle poesie trattavano di argomenti familiari a tutti e – non meno importante – lo facevano in versi non sciolti ma rimati, come nelle canzonette da imparare a memoria, e in una lingua e in uno stile ‘facili’. Ecco per esempio nel primo degli Inni, La Risurrezione, il tema, così squisitamente cattolico, della carità: «Sia frugal del ricco il pasto; / ogni mensa abbia i suoi doni; / e il tesor negato al fasto / di superbe imbandigioni, / scorra amico all’umil tetto, / faccia il desco poveretto / più ridente oggi apparir».
Ho dovuto prudentemente racchiudere fra virgolette l’aggettivo ‘facili’, perché stiamo pur sempre parlando di poesie del primo Ottocento. Per intenderci: non sono facili, nel senso di facilmente comprensibili a tutti, come i testi di qualche successo popolare di Gianni Morandi o Vasco Rossi, ma facili come i meno astrusi (ce ne sono di più e di meno) fra i libretti dell’opera lirica italiana dell’età di Manzoni. E non per nulla un collaboratore del giornale liberale «Il Conciliatore», Giovanni Battista De Cristoforis, che in materia la pensava diversamente da Chateaubriand e de Maistre, lodò più tardi gli Inni sacri perché gli ricordavano gli antichi canti d’Israele compresi da ogni fedele: «Così dalla sacra poesia intesa e sentita profondamente da tutti, perché dettata nel linguaggio che tutti parlavano, sommo veniva l’interesse al rito; e la preghiera non pronunziavasi da fredde labbra d’idioti che non l’intendessero, ma partiva caldissima dai cuori compunti».
Era una novità che non fu apprezzata da tutti. Lo scarto rispetto a secoli di poesia classicheggiante risultava sovversivo, e – questo non va dimenticato – una sovversione letteraria può adombrarne una anche più pericolosa. Nella cultura della Restaurazione pesava ancora molto un atteggiamento per il quale la definizione più esatta è dopo tutto quella un po’ più generica e onnicomprensiva: tradizionalismo conservatore. C’era, e si esprimeva nelle sedi adeguate delle accademie e delle composizioni auliche, una tradizione letteraria classica da omaggiare e perpetuare, corrispondente a un ordine delle cose che era insieme sociale e culturale, ordine che si stava ricomponendo dopo la bufera rivoluzionaria e napoleonica e che anche in campo ecclesiastico vedeva il ripristino delle antiche gerarchie e la riscossa delle componenti meno aperte e illuminate. Insomma, tutto doveva tornare al suo posto, e tutti al loro; il che poi voleva dire, nell’ambito del sapere, stare da una parte o dall’altra del discrimine segnato dall’appartenenza o meno a un’élite in grado di comprendere, per esempio, IlGiorno di Parini, o almeno di provarcisi.
Senza bisogno di essere de Maistre o Chateaubriand, un cattolico benpensante italiano poteva così reagire a una raccolta di ‘facili’ inni sacri con una ostilità feroce, che per noi risulta molto istruttiva circa la natura dell’opera aggredita. Leggiamo qualcosa dai Dubbi intorno gl’Inni Sacri pubblicati nel 1829, l’anno stesso della sua prematura morte, da un giovane abate empolese, Giuseppe Salvagnoli Marchetti: «Manzoni avea regalato all’Italia molte cose non italiane […]. Non invidio il Manzoni; perché non ho mai invidiato chi segue false immagini di bene e di vero». «Non ho letto i Promessi sposi»: questa ha tutta l’aria di una bugia, dato che nello stesso 1829 Salvagnoli Marchetti scrisse in una rivista romana un articolo contenente un riassunto del romanzo a dir poco offensivo. E quanto propriamente agli Inni, poiché era troppo per un abate criticarne il contenuto, ecco cento e passa pagine di puntigliose e sprezzanti critiche sulla metrica, la lingua, lo stile, tutti contrari a «quell’aurea sentenza del Parini», che in poesia bisogna essere chiari e immediatamente intellegibili.
Gli Inni sacri incomprensibili, all’opposto del Giorno? Non sto forzando il testo. I Dubbi di Salvagnoli Marchetti sono in effetti costruiti interamente su questo assunto che, se proposto in buona fede, costituirebbe un gigantesco paradosso. Sarebbe la dimostrazione di un attaccamento a suo modo commovente a una forma espressiva inseparabile dalle «carche faretre» e dalle «tenarie foci». Ma forse la buona fede dell’abate non era a prova di bomba. C’è un punto della sua argomentazione da cui sembra emergere l’involontaria ammissione di un fastidio poco limpido. Nel suo attacco contro la Pentecoste egli cita i versi sull’elemosina che il ricco deve fare al povero con discrezione, il tema socialmente sensibile che abbiamo appena incontrato nella Risurrezione: «Cui fu donato in copia, / doni con volto amico, / con quel tacer pudico, / che accetto il don ti fa». Ecco il commento: «Confesso la mia ignoranza; ma senza che l’autore mi spieghi con altre parole il suo pensiero, io non so giungere a intendere i quattro ultimi versi di questa strofe, per quanto mi vi affatichi, e mi lambicchi il cervello».
Siamo onesti: le uniche difficoltà di questi versi stanno – ed è, se mai, un piccolo appunto che potremmo muovere noi a Manzoni, ma in senso opposto alle critiche dell’abate – nella contrazione «cui», che vale latinamente «colui al quale», e nella parola «copia». Quest’ultima non significa, ovviamente, «riproduzione identica», bensì, come in latino, «abbondanza», perché «cui fu donato in copia» è una maniera per indicare poeticamente il ricco, colui al quale fu dato in abbondanza. Dunque Manzoni chiede per una volta al lettore uno sforzo di comprensione verso un uso un po’ letterario di una costruzione e di una parola, riavvicinate alla matrice latina. Figuriamoci se Salvagnoli Marchetti ignorava questa matrice! E comunque l’abate non ha giustificazione nella sua pretesa ignoranza di un concetto che ha una fonte famosa, e, soprattutto, evangelica: «Quando fai elemosina non sappia la tua mano sinistra cosa fa la destra, perché la tua elemosina resti segreta».
Ma è proprio qui il problema: questo lettore di gusto classico e di cultura conservatrice non accetta il respiro sinceramente evangelico, e dunque propriamente egualitario, che Manzoni è riuscito a dare alla sua stupenda rappresentazione della manifestazione dello Spirito Santo. In questo rifiuto non c’è distinzione fra contenuto e linguaggio poetico e le critiche al linguaggio hanno un nocciolo ideologico durissimo, perché rifiutare la poesia degli Inni sacri era il modo di restare legati a un classicismo socialmente connotato, in quanto riservato a pochi. Quando ostentava di non capire – e senza spiegarne, come correttezza avrebbe imposto, il motivo – l’abate stava comunque dalla parte del latinorum di don Abbondio: ciò che davvero lo disturbava era un inquietante sentore di insubordinazione.
2. La gran madre de’ Fabj e de’ Scipioni
Il latinorum non era però solo letteratura, ma anche storia – e che storia! Il titolo di questo capitolo è un endecasillabo scritto dal giovane Manzoni nel 1801 e si riferisce ad alcuni dei più gloriosi protagonisti della storia dell’antica Roma.
I Fabi erano i membri della gens Fabia, un clan patrizio che si era assunto il compito di combattere, come singola famiglia ma nell’interesse della Repubblica, dei nemici insidiosi, gli abitanti di Veio, che oggi sarebbe Isola Farnese, un borgo situato una quindicina di chilometri a nord di Roma (le prime imprese dell’Urbe caput mundi avevano una scala un po’ ridotta). Purtroppo, però, il 13 febbraio del 477 a.C. i Fabi, resi imprudenti da qualche precedente successo, si fecero cogliere alla sprovvista presso il fiume Cremera dai Veienti, che li sconfissero e li massacrarono tutti: per la precisione 306, come ci informa Tito Livio, lo storico principale cantore della grandezza romana, il quale per altro non manca di aggiungere che il Fabio n. 307 era stato lasciato a casa perché ancora bambino e che così questa eroica gens poté continuare a produrre alla patria uomini illustri, preziosi per i momenti difficili.
Difficilissimo fu, due secoli e mezzo più tardi, il momento della minaccia portata a Roma da Annibale. Per fortuna c’era, appunto, a disposizione un discendente del n. 307, Quinto Fabio Massimo, detto Cunctator, cioè il Temporeggiatore, colui che evitando una battaglia campale logorò le forze del condottiero cartaginese, salvando così la Repubblica. E con questo (e ormai in una dimensione molto maggiore) siamo arrivati ai più importanti fra gli Scipioni, che erano un ramo di un’altra gens patrizia, la gens Cornelia: Publio Cornelio Scipione, detto Africano perché vincitore contro Annibale della battaglia di Zama e della seconda guerra punica, e il suo nipote adottivo Publio Cornelio Scipione Emiliano, trionfatore della terza guerra punica e distruttore delle città di Cartagine e di Numanzia.
Noi oggi abbiamo bisogno di rinfrescarci la memoria, ma quando scriveva questo verso il sedicenne Alessandro aveva ben presenti quei fatti esemplari (tale, nella sua risonanza mitica, anche la battaglia del fiume Cremera). Aveva soprattutto le idee chiare: la «gran madre» dei Fabi e degli Scipioni è Roma antica come patria eletta della Libertà. Infatti, nei versi fra cui si trova quello citato, la Libertà in persona appare al giovane poeta tenendo in mano lo spadone, «il brando scotitor de’ troni», col quale gli antichi Romani hanno vinto e soggiogato i nemici oppressori, costringendoli ad abbassare le loro già tracotanti fronti, a «curvar l’alte cervici umili e proni». Non si tratta dunque di una Libertà qualsiasi, indifferenziata e per tutti gli usi, ma della libertà di una patria repubblicana, generatrice di valorosi combattenti, indomita contro i tiranni; insomma, una libertà rivoluzionaria.
In effetti, il poemetto comprendente tutto ciò, intitolato appunto Del Trionfo della Libertà, riguarda la Rivoluzione francese. L’adolescente Manzoni ne celebra i contenuti a suo parere più autentici: il radicalismo giacobino, l’intransigenza anticlericale, l’integerrimo distacco dal denaro, il generoso spirito di sacrificio per il bene pubblico; tutti valori che però gli sembrano ora traditi nella realtà del dominio francese in Italia, sicché non spende una sola parola d’elogio per il Primo Console Napoleone (potrà legittimamente ricordarlo nel Cinque maggio definendovi se stesso «vergin di servo encomio»), mentre celebra la morte eroica del giovane generale Desaix, il quale con la sua intrepida carica contro gli Austriaci ha propiziato la vittoria della Rivoluzione a Marengo.
D’accordo: chi da ragazzo non è rivoluzionario – diceva Winston Churchill – è senza cuore (non commentiamo il seguito: chi lo rimane da vecchio, è senza cervello). Ma cosa c’entrano i Fabi e gli Scipioni? E non basta, perché nel poemetto dedicato alla rivoluzione contemporanea questi antichi Romani sono in prestigiosa e numerosa compagnia di concittadini non preoccupati dei propri rischi, ma solo del trionfo della Libertà: «Un bel drappello eletto / Di lor che sordi furo al proprio danno, / Caldi d’amor di Libertade il petto». Il secondo dei quattro canti dell’opera elenca questi eroi ed eroine della tradizione, che forse molti di noi hanno già incontrato sui banchi di qualche classe scolastica: Collatino che si è vendicato dello stupro commesso dal figlio del tiranno Tarquinio il Superbo, sua moglie Lucrezia che ha preferito il suicidio all’infamia, Lucio Giunio Bruto che ha avuto la fermezza di mandare a morte i figli complici di Tarquinio (sì, viene ammirato anche lui), Muzio Scevola che non ha temuto di porre sul braciere la sua imprecisa mano destra, Clelia che è scappata dal nemico attraversando a nuoto il Tevere, Orazio Coclite che ha retto l’assalto di un intero esercito sul ponte Sublicio; e altri ancora, fino a culminare nell’eroe per eccellenza della Libertà, il tirannicida per antonomasia, il secondo Bruto, Marco Giunio Bruto, quello che con Cassio ordì la congiura delle Idi di Marzo contro Giulio Cesare (e cui Manzoni qui fa pronunciare, con un bel colpo di divinazione, una dura invettiva contro il Papato: «Ahi cara patria! Ahi Roma! ah! non più Roma…»).
Insomma, la Rivoluzione evoca l’antica Roma: e questa non s’identifica certo tutta col latinorum reazionario! Anzi, qui latinità si accoppia con libertà (potenzialmente o attualmente rivoluzionaria): un binomio da fare inorridire l’abate Salvagnoli Marchetti, per non dire de Maistre, ma sicuramente non meno valido né meno importante dei loro: latinorum e conservazione, o latinorum e sopraffazione. Nella storia della cultura politica italiana ed europea il modello di Roma antica, spesso insieme con quello delle città greche, Atene e soprattutto Sparta, aveva ispirato – per dirla in termini un po’ semplificati – non il regresso ma il progresso, non l’obbedienza ma la ribellione.
Certo, non fu sempre così: Roma era anche un modello imperiale, anzi il modello imperiale per eccellenza. Qui non c’entra l’uso fatto di quell’imperialismo in epoca fascista (con tanto di effetti tuttora vistosi nel profilo urbanistico e monumentale della nostra capitale); ben prima era stato il nostro poeta sommo, Dante, a pensare a Roma proprio in quel senso, tanto da condannare i cesaricidi Bruto e Cassio nel fondo dell’Inferno, mostrandoli addirittura maciullati insieme con Giuda, il traditore per antonomasia, dalle tre bocche di Lucifero, «sì che tre ne facea così dolenti». Tuttavia, in tanti non sono poi stati per nulla d’accordo con Dante; il ripensamento che hanno fatto della storia dell’antica Roma si è manifestato come elogio della libertà e teorizzazione della democrazia. Durante l’età moderna quasi tutti veneravano l’Antichità in quanto tale, come maestra di pensiero e di vita, sicché dominava comunque il Classicismo; ma per molti, e molto importanti autori di quell’età, fino a comprendere il giovane Manzoni, ciò significò più in particolare esaltazione della virtù repubblicana, con buona pace del latinorum dei letterati cortigiani e reazionari.
Bisognerebbe partire dai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, dove a inizio Cinquecento Machiavelli propone a modello gli atti eroici dei primi tempi di Roma narrati da Livio sotto Augusto, primo imperatore, il quale però si presentava come il restauratore dei più autentici e originari valori romani. Ma è più stringente, oltre che più rapido, concentrarsi sulla cultura del Settecento, toccandone due aspetti: la riflessione sulla grandezza degli Antichi (in generale, perché ci sono anche i Greci, ma soprattutto antichi Romani) svolta dai pensatori della Francia dei Lumi (che naturalmente avevano letto anche Machiavelli); la celebrazione degli Antichi da parte dei letterati italiani (occorre appena aggiungere che anche loro avevano letto Machiavelli). Per Alessandro in collegio valeva ovviamente questa seconda celebrazione; ma per Manzoni maturo, profondo conoscitore della cultura francese, sarebbe poi stata anche più importante la prima riflessione.
Montesquieu ha dato un contributo essenziale alla nascita del pensiero politico liberale, con la teoria della divisione dei poteri e della necessità di limitare l’esercizio della sovranità. Nella parte iniziale del suo capolavoro, Lo spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, c’è una elaborata distinzione fra i vari sistemi di governo, comprendente una famosa equazione fra quello repubblicano e la pratica della virtù. Leggiamo un breve passo (IV.4) che ci farà capire come lo spirito di questo maestro di liberalismo, razionalità e moderazione si scaldasse al ricordo delle imprese degli eroi antichi. Montesquieu non riporta l’elenco che Livio ha diffuso fino a Manzoni e oltre, ma noi intendiamo comunque bene cosa ha in mente: «La maggior parte dei popoli antichi vivevano sotto governi che avevano la virtù per principio; e quando questa vi era in pieno vigore, vi si facevano cose che oggi non vediamo più, e che sbigottiscono le nostre piccole anime».
Rousseau si spinge anche oltre. La sua presenza è cruciale, perché di lui Manzoni scrisse una volta che le sue idee sono all’origine di tutti i più decisivi cambiamenti avvenuti poi nella società europea; e lo scrisse a ragione. Qui concentriamoci sul trattato Il contratto sociale (1762), che ha definito i termini della democrazia e della sovranità popolare. In questo capolavoro Rousseau analizza sistematicamente le istituzioni dell’antica Roma, ritenendole evidentemente un punto di riferimento per il moderno governo democratico, e a questa analisi dedica quasi per intero il libro quarto dell’opera (quarto su quattro, non su quaranta). In un altro suo scritto, sul governo della Polonia (1772), se n’è uscito in una battuta di ammirazione complessiva che ricalca quella che abbiamo letto qui sopra di Montesquieu: «Quando si legge la storia antica, si è come trasportati in un altro universo, e fra altri esseri […] Le anime forti degli antichi sembrano agli altri delle esagerazioni della storia». Torna di nuovo in mente la galleria eroica che già conosciamo e che Rousseau rielaborò in vari luoghi della sua produzione nell’ottica politicamente radicale che gli era propria: nell’interesse generale il popolo sovrano deve saper resistere anche ai ricatti dell’umanitarismo. Ciò, fino all’estremo: il secondo Bruto deve difendere la Repubblica uccidendo Cesare, e il primo deve farlo decretando addirittura la morte dei propri figli.
Nel corso del Settecento, soprattutto della seconda metà del secolo, simili fieri e talora spaventosi esempi di virtù favorirono una profonda trasformazione nella cultura artistica e letteraria, introducendovi una gravità morale e un impegno politico che potevano far presagire cambiamenti tempestosi. Nel caso delle opere figurative il proposito degli autori non è sempre facile da intendere univocamente. Per fare solo un esempio, il famoso dipinto di Jacques-Louis David rappresentante i littori (cioè gli ufficiali) che riportano a Bruto i corpi dei figli giustiziati, eseguito precisamente nel 1789, è ed era interpretabile, in chiave antirussoviana, anche come manifestazione di raccapriccio verso un rigore orrendamente eccessivo. Ma per la formazione del giovane Manzoni contavano i poeti, e le loro parole erano più esplicite. Ascoltiamo quelle del più significativo a questo riguardo, Vittorio Alfieri, di cui già sappiamo dai versi in morte di Imbonati che «nelle reggie primo / L’orma stampò dell’Italo coturno».
Negli anni immediatamente precedenti la Rivoluzione francese Alfieri compose le due tragedie Bruto primo e Bruto secondo, rispettivamente dedicate al punitore dei propri figli e al cesaricida. Lo fece anche in polemica con Voltaire, che oltre mezzo secolo prima aveva rappresentato un Brutus (è il primo Bruto) che irritava il tragediografo italiano perché la dura vicenda esemplare vi veniva annacquata da una complicazione amorosa e il rigore libertario vi appariva minacciato da qualche cedimento filomonarchico: «Che Bruti, che Bruti di un Voltaire? – scrisse in quella stessa autobiografia dove aveva riferito le gare di memoria sulle Georgiche di Virgilio – io ne farò dei Bruti, e li farò tutt’a due». Il contenuto ideologico della sua ispirazione lo si trova esplicitato in un suo scritto quasi contemporaneo, il trattato Della Tirannide (1777): «Nelle repubbliche vere, amavano i cittadini prima la patria, poi la famiglia, quindi sé stessi: nelle tirannidi all’incontro, sempre si ama la propria esistenza sopra ogni cosa». Ecco il succo – evidentemente – del Bruto primo, ma in realtà anche del Bruto secondo, perché Alfieri vi fa propria la tradizione secondo cui Cesare, amante della madre di Bruto, ne sarebbe stato il padre naturale. Dunque le due tragedie esibiscono lo stesso eroico patriottismo superiore a ogni affetto privato: come il primo Bruto manda a morte i figli, il secondo partecipa, consapevolmente, all’uccisione del padre.
Del resto, fra i due Bruti, somiglianza ed emulazione, in una gara di magniloquenza enfatica per la quale non è facile assegnare la palma della vittoria. Qui e là, senza neanche l’ombra di una donna, solo amanti della libertà, tiranni e popolo. È tutto uno snudare brandi, gonfiare petti e offrirsi in sacrificio. Smentendo il pensoso Virgilio, che nell’Eneide (VI.823) lo aveva definito infelice, e animato, oltre che dall’amor di patria, da un’infinita brama di gloria («laudum immensa cupido»), il primo Bruto di Alfieri chiarisce il punto ai suoi concittadini: «In me non entra / per ciò di stolta ambizione il tarlo: / d’onori, no, (benché sien veri i vostri) / ebro non son: di libertade io ’l sono; / di amor per Roma; e d’implacabil fero / abborrimento pe’ Tarquini eterno». Agli stessi cittadini poi, nel finale, mentre si concede la debolezza di non contemplare l’esecuzione dei figli che egli stesso ha imposto, raccomanda però di far tesoro dell’esempio: «Farmi del manto è forza / agli occhi un velo… Ah! Ciò si doni al padre… / Ma voi, fissate in lor lo sguardo: eterna, / libera or sorge da quel sangue Roma». Memore di tanta grandezza, il secondo Bruto, nel cercare di convincere Cesare a deporre il potere, gli spiega, citando il proprio antico omonimo, che un libero romano non potrà mai riconoscersi figlio di un tiranno: «Ho nome / Bruto; ed a me sublime madre è Roma. / Deh! Non sforzarmi a reputar mio vero / genitor solo quel romano Bruto, / che a Roma e vita e libertà, col sangue / de’ proprj suoi svenati figli, dava». Ma Cesare ormai è schiavo della sua corruzione politica, sicché in chiusura della tragedia non resta che il tirannicidio con le sue cruente ripercussioni. Bruto proclama: «A morte, / a morte andiamo, o a libertade.» Il popolo risponde: «A morte, / con Bruto a morte, o a libertà si vada».
Quando Alfieri scriveva questi versi altisonanti, la Rivoluzione francese non era ancora scoppiata, ma quella americana era già finita con successo; e non per nulla il Bruto primo è dedicato «al chiarissimo e libero uomo il generale Washington», con la motivazione che «il solo nome del liberator dell’America può stare in fronte della tragedia del liberatore di Roma» (il Bruto secondo è dedicato «al popolo italiano futuro»). Poco dopo sono comunque comparsi per davvero anche i rivoluzionari francesi, e fra di loro i più romanamente severi: i giacobini.
Abbiamo percorso un po’ in fretta un cammino molto importante e arduo, ma siamo abbastanza preparati a constatare come il progetto rivoluzionario si sia rispecchiato nel modello delle repubbliche antiche e a leggere, in proposito, le parole di Robespierre. Il suo celebre discorso del 18 piovoso dell’anno II (5 febbraio 1794) Suiprincipi di morale politica che devono guidare la Convenzione nazionale non è necessariamente solo un’esaltazione del Terrore, ma certo lo è della lezione degli Antichi, ripensata, in un momento cruciale dell’attualità politica, riprendendo in termini drastici le interpretazioni di Montesquieu e Rousseau: «Ora, qual è mai il principio fondamentale del governo democratico o popolare, cioè la forza essenziale che lo sostiene e che lo fa muovere? È la virtù. Parlo di quella virtù che operò tanti prodigi nella Grecia ed in Roma, e che ne dovrà produrre altri, molto più sbalorditivi, nella Francia repubblicana. Di quella virtù che è in sostanza l’amore della patria e delle sue leggi». Ma l’ora è drammatica, e per reagire ai pericoli incombenti non si può tacere quanti danni abbia prodotto l’azione della tirannide e del servilismo, allontanandoci da quelle condizioni ideali di virtù. Sparta è caduta; in Atene vi sono molti abitanti ma non più veri Ateniesi. «E che cosa importa mai che Bruto abbia ucciso il tiranno? La tirannia sopravvive ancora nei cuori, e Roma non esiste più se non in Bruto».
Quando, due anni più tardi, le armi di Napoleone portarono la Rivoluzione in Italia, Robespierre e i giacobini erano ormai stati rovesciati, ma l’entusiasmo rivoluzionario per l’antica virtù era ben vivo, e nella nostra letteratura trovò un terreno fertile: come abbiamo visto, la fecondazione era già precedente; e del resto, dove trovare maggior convinzione della grandezza di Roma che presso i poeti italiani? In questi suoi figli ed eredi diretti le idee politiche sovversive dei Francesi infusero una carica travolgente: rottura netta col degrado presente maturato sotto regnanti stranieri ed indegni (e, appaiati a questi, i sovrani pontefici); emulazione con la cultura francese, oggetto di ammirazione ma anche stimolo alla presa di coscienza della propria identità italiana, volontà appassionata di partecipare alla costruzione di qualcosa di glorioso e capitale. Una rivoluzione, appunto, ma che continuava a trarre energia dall’esempio degli Antichi. Quando si leggono le opere di quei letterati non bisogna sottovalutare l’effetto esplosivo di questa miscela: essi vivevano un dramma enorme, sproporzionato ai ritmi e agli eventi comuni, e un po’ di sovreccitazione è da mettere in conto e con essa la tendenza a evocare, in appoggio, la classicità come il modello inevitabile di ritmi ed eventi eccezionali. Del resto lo avevano già detto Montesquieu e Rousseau: quegli eventi erano così eccezionali da apparire addirittura «esagerazioni della storia che sbigottiscono le nostre piccole anime».
La tendenza fu diffusa; e, specie nei primi anni del dominio francese, precisamente un tono che non è irriguardoso definire di sovreccitazione fece da denominatore comune alle produzioni letterarie italiane, fossero esse ancora entusiaste o già più critiche – come nel caso di Manzoni – verso la figura individuale di Napoleone. Il fenomeno non riguardò solo gli scrittori più immaturi o più modesti: al contrario. Nell’imbarazzo della scelta in un materiale sovrabbondante conviene puntare su Vincenzo Monti: un uomo, è vero, sempre incline ad accendersi per l’una o l’altra corrente dominante, ma pur sempre il sovrano poeta di quell’età di passaggio e di repentini rivolgimenti.
Quando nel 1797 compose la sua canzone
L’autore-Roberto Bizzocchi
Roberto Bizzocchi, professore dell’Università di Pisa,si è occupato di vari temi di storia politico-culturale e sociale dell’età moderna. Ha pubblicato, tra l’altro, Chiesa e potere nella Toscana del Quattrocento (Bologna 1987), Genealogie incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna (Bologna 1995, traduzione francese Parigi 2010) e ha curato Il carattere degli Italianidi Simonde de Sismondi (Viella 2020). Per Laterza è autore di In famiglia. Storie di interessi e affetti nell’Italia moderna (2001), Guida allo studio della storia moderna (2002, traduzione rumena Bucarest 2007), Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia (2008, traduzione inglese Londra 2014 e francese Parigi 2016) e I cognomi degli Italiani. Una storia lunga 1000 anni (2014).
Edizione: 2022 Pagine: 200 Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858149171 ISBN digitale: 9788858150405 Argomenti: Letteratura: testi, storia e teoria, Storia moderna
I Promessi Sposi, un romanzo di lotta e un atto d’amore di Manzoni per l’Italia
Francesco Mannoni intervista Roberto Bizzocchi
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Roberto Bizzocchi, in un saggio a 150 anni dalla morte dello scrittore, analizza gli aspetti più profondi dell’opera: «Al centro ci sono i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti. Il lavoro sulla lingua unì la penisola»
Francesco Mannoni | L’Eco di Bergamo | 4 gennaio 2023
Oltre all’ispirazione cristiana, nei «Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni, c’è ben altro, e precisamente: «Identità pubblica nazionale in chiave europea e non nazionalista; morale privata basata sulla libertà di scelta e sulla responsabilità individuale, e ciò sia per gli uomini che per le donne; illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una percezione acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli che vi operano».
Questa particolarità critica, nel centocinquantenario della morte di Alessandro Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – 22 maggio 1873) la sostiene Roberto Bizzocchi, docente di storia moderna dell’Università di Pisa, in un saggio che analizza con il microscopio d’una critica attenta e sottile gli aspetti più autentici e profondi del grande «Romanzo popolare» (Laterza, 200 pagine, 20 euro, ebook 12,99 euro), spiegando, con un procedimento diagnostico, «Come i Promessi Sposi hanno fatto l’Italia».
Una rilettura appassionante dei «Promessi Sposi» la sua, professore, che ci fa vedere un mondo che forse ci era sfuggito. Alla luce del suo studio approfondito, i «Promessi Sposi» è un romanzo o più un trattato socio-politico?
«È un romanzo, e bellissimo, ma con una caratteristica forte, che lo distingue dagli altri bellissimi romanzi dell’Ottocento europeo: non racconta gli eventi e i personaggi e le loro azioni in modo oggettivistico, limitandosi a riprodurre la realtà, ma vi aggiunge sempre il suo giudizio morale. Gli uomini possono comportarsi bene o male, le cose che succedono possono essere giuste o ingiuste; e noi dobbiamo avere ben viva la coscienza di ciò, perché la Provvidenza non esime gli uomini dalle loro responsabilità individuali. In questo atteggiamento il cattolico Manzoni resta un uomo dell’Illuminismo, la cultura in cui si era formato, la quale insegna a non arrendersi mai di fronte alle storture del mondo, bensì a combatterle, per rendere meno brutta la nostra vita. Quindi, senza parlare di trattato, si può dire che il romanzo ha un deliberato intento programmatico e pedagogico».
Da quali elementi di rilievo inizia la sua radiografia dell’opera manzoniana?
«Sono partito dall’impressione di “romanzo di lotta” che i Promessi Sposi mi hanno sempre fatto, fin dalla mia prima lettura ginnasiale, e poi sempre di più nelle letture in età matura. Bisogna liberarsi dal pregiudizio su Manzoni moderato e accomodante, mettendo subito in chiaro che il rifiuto della violenza e l’obbligo del perdono – quelli che padre Cristoforo ricorda a Renzo – sono, semplicemente, coerenti con la fede di un vero cristiano, quale Manzoni fu. Per il resto, il quadro della società del Seicento è severo fino all’indignazione: governanti cialtroni (quasi tutti), signorotti prepotenti (don Rodrigo), funzionari e avvocati (Azzecca-garbugli) asserviti al malaffare, intellettuali condizionati da sciocche superstizioni (don Ferrante), per non dire del parroco don Abbondio inadempiente per vigliaccheria. Manzoni moderato? A me pare un radicale, perfino troppo duro nella rappresentazione di un secolo che – gli storici di oggi ce l’insegnano – non aveva solo brutture».
Quali fatti e azioni rendono l’epoca dei «Promessi Sposi» vicina in qualche modo ai nostri giorni? Possiamo dire che tante deficienze sono ancora presenti nel nostro super mondo in cui pandemie e guerre ancora imperversano e si ripetono le solite ingiustizie di sempre?
«In effetti proprio l’intransigenza di Manzoni ha fissato nel romanzo delle descrizioni che sembrano eterne. Impossibile non pensare ad alcune drammatiche vicende che abbiamo vissuto negli ultimi anni, quando rileggiamo le pagine grandiose sulla tragedia della peste, e anche sullo smarrimento umano di fronte a calamità che sembrano inarrestabili. Oggi abbiamo strumenti di difesa ben maggiori; ma i Promessi Sposi contengono un ammonimento doloroso sulla nostra fragilità, che non dovremmo dimenticare».
Manzoni, secondo lei, era cosciente del ritratto epocale che tracciava nel romanzo o agiva solo da romanziere ispirato?
«Coscientissimo. Il romanzo è frutto di un’ispirazione meravigliosa, ma ciò non toglie che Manzoni avesse un intento programmatico e pedagogico. Teniamo presente che negli anni Venti dell’Ottocento, quando concepì e scrisse il suo capolavoro, i patrioti come lui speravano in un’Italia unita e libera dal dominio straniero. Gli altri letterati del tempo ambientavano di preferenza i loro romanzi nel Medioevo, cioè prima della perdita della libertà italiana; invece Manzoni volle trattare proprio il periodo più buio della decadenza e della soggezione, perché era giustamente convinto che per costruire la cultura letteraria e politica della nuova Italia del Risorgimento bisognasse fare i conti con le epoche peggiori della nostra storia».
Come anticipano la Storia d’Italia le pagine dei «Promessi Sposi»? In che cosa individuano la storia del Paese?
«Pensiamo al tema cruciale del cattolicesimo della Controriforma. Molti intellettuali europei contemporanei di Manzoni, e liberali illuminati come lui, rimproveravano all’Italia e agli Italiani come una colpa irrimediabile il fatto che dal Cinquecento il Paese e il suo popolo si fossero piegati all’obbedienza alla Chiesa. Attenzione: Manzoni era italiano non meno che cattolico; pensava che il potere temporale del Papato dovesse cedere al diritto dell’unità d’Italia; sapeva peraltro che il cattolicesimo era, oltre che la sua personale fede, un carattere saliente dell’identità italiana. Nei Promessi Sposi ha avuto il coraggio di rappresentare la Chiesa cattolica nelle sue luci – il cardinale Federigo, padre Cristoforo – ma anche nelle sue ombre, perché oltre a don Abbondio c’è il Provinciale dei cappuccini che trama col Conte Zio rendendosi complice di un crimine».
Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio e tutti i deboli protagonisti, specchio d’un potere sempre più organizzato che ha in Don Rodrigo e in altri esponenti i maggiori rappresentanti dell’iniquità sociale?
«Come ho detto, ritengo i Promessi Sposi un romanzo di lotta; e la lotta per i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti è la sigla forse più tipica del libro. Manzoni è stato un denunciatore fervente dell’ingiustizia sociale. E non dimentichiamo che – più in esteso nella Storia della colonna infame, collegata al romanzo – ha attaccato anche l’ingiustizia delle istituzioni nel processo aberrante contro i pretesi untori. Aggiungo un altro aspetto importantissimo: ha denunciato anche l’ingiustizia di genere. Quella di don Rodrigo che pretenderebbe far suo il corpo di Lucia; ma anche quella del padre di Gertrude, che violenta la volontà della figlia imponendole il monastero. Manzoni tocca non a caso i vertici della sua arte nel ribellarsi contro il sacrificio di una giovane donna soggetta al sopruso di un maschio padrone».
Lei parla di messaggio ideologico al cuore del romanzo: come potremmo riassumerlo? Come un messaggio d’amore?
«Amore per l’Italia, e proprio perché chi la ama davvero esamina impietosamente le fasi e gli aspetti peggiori della sua storia per prepararne il riscatto. Anche la famosa risciacquatura dei panni in Arno, cioè la riscrittura fiorentineggiante dei Promessi Sposi per l’edizione definitiva del 1840 – quella che di solito leggiamo – è un atto d’amore: oltre che un po’ fiorentinizzata, la lingua del 1840 è molto più popolarizzata rispetto alla precedente stesura, enormemente di più rispetto ad altre opere letterarie del tempo. Manzoni ha fatto una rivoluzione culturale che è anche politica: ha scelto per primo due popolani come protagonisti del suo capolavoro, e lo ha scritto in un modo che anche gli uomini e le donne del popolo potessero, una volta alfabetizzati, leggerlo».
Visto nell’ottica di questa rilettura, chi era veramente Manzoni? Solo uno scrittore o anche un grande analista del tempo in cui viveva?
«Un analista geniale, che ha messo il suo sommo talento letterario al servizio del progetto più generoso: permettere a tutti gli uomini e le donne della nuova Italia di riflettere insieme con lui sulla nostra storia, la nostra identità, la nostra religione dominante; e anche, più in generale, sui temi fondamentali della vita: giustizia, ingiustizia, responsabilità individuale, libertà di coscienza. I Promessi Sposi contengono un messaggio alto, impegnativo e sempre valido e attuale».
Giornate del FAI Autunno 2024 a Casperia e Roccantica (Rieti)
Gruppo FAI Sabina-Autunno 2024-L’appuntamento è dunque per sabato 12 e domenica 13 ottobre, tra poco più di una settimana, con le Giornate Fai d’Autunno 2024. Come vi abbiamo detto ieri, noi vi aspettiamo a Roccantica e a Casperia. E, come promesso, in questo post vi diamo qualche informazione logistica per organizzare al meglio le vostre visite.
UBICAZIONE
Roccantica e Casperia si trovano entrambe lungo la Strada provinciale 48 Finocchieto. L’Oratorio di Santa Caterina e la chiesa di Pie’ di Rocca sono nella parte alta di Roccantica.
Alla chiesa della Madonna della Neve (che si trova si trova a Paranzano, frazione di Casperia a due chilometri dal paese) si arriva agevolmente anche da Cantalupo lungo la strada che, appunto, porta a Casperia.
ORARI E DURATA DELLE VISITE
Non sono previste prenotazioni in nessun sito. Arrivando, dovrete recarvi ai nostri desk dove si organizzeranno i gruppi.
– Casperia
Le visite alla Madonna della Neve iniziano ogni mezz’ora, sia il sabato che la domenica, dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18. I gruppi saranno al massimo di 30 persone.
Per le visite guidate del Borgo di Casperia (durata circa un’ora) gli orari sono:
Sabato: 10; 11,30; 15; 16;17
Domenica: 10,15; 12,30; 15;16;17
Per il giro del Borgo sono consigliate calzature comode (dentro Casperia si sale e si scende)
– Roccantica
Le visite all’Oratorio di Santa Caterina e alla chiesa di Pie’ di Rocca iniziano ogni mezz’ora. Si inizia il sabato pomeriggio, dalle 14 fino alle 18. La domenica invece si va dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18. I gruppi saranno al massimo di 20 persone.
Anche a Roccantica sono vivamente consigliate calzature comode (per arrivare all’Oratorio ci sono un bel po’ di scale da fare, in salita, prima, e poi in discesa)
DOVE MANGIARE
A Casperia e a Roccantica non mancano bar e ristoranti. E così nei paesi vicini. Potrete chiedere comunque indicazioni e numeri telefonici ai nostri desk.
CONTRIBUTO
In ciascun sito il contributo libero suggerito è a partire da 3 euro. Sia a Casperia che a Roccantica ci si potrà iscrivere o rinnovare la tessera Fai, con le condizioni speciali previste per le Giornate.
RINGRAZIAMENTI
Ringraziamo dal profondo del cuore il Comune di Casperia e il Circolo cittadino casperiano Raffaello Masci; il Comune di Roccantica e la Pro loco di Roccantica
Luoghi da visitare
Casperia (Rieti)-La chiesa della Madonna della Neve a Paranzano
Roccantica (Rieti)-La chiesetta di Pie’ di Rocca
Casperia (Rieti)-L’altare maggiore della Madonna della Neve a Paranzano
Roccantica (Rieti)-Una scena delle Storie di Santa Caterina
Casperia (Rieti)-Muri romani sotto un casale a Paranzano
Roccantica (Rieti)-La parete principale dell’Oratorio di Santa Caterina a Roccantica
È IL 1944, NASCE LA SOCIETÀ SPORTIVA “ANGELO, MARIO E GINO SEBASTIANI”
Archivio di Stato di RIETI-È il 30 ottobre 1944 la data fondativa della società sportiva AMG #Sebastiani, dove l’acronimo indica i nomi di Angelo, Mario e Gino, i tre fratelli reatini, appassionati di sport, assassinati dai tedeschi in due episodi distinti, ma collegati, nel giugno di quell’anno.
A rivelare la data di ottanta anni fa è un documento rinvenuto nel fondo dell’Ufficio di gabinetto della Prefettura di Rieti (ASRi, Prefettura di Rieti, b. 36), conservato all’Archivio di Stato di Rieti, nel corso di ricerche portate avanti su alcune attività delle società sportive presenti sul territorio.
Si tratta di una lettera, datata 5 novembre 1944, a firma del presidente Vincenzo Ceci, imprenditore molto attivo in quegli anni e indirizzata al prefetto allora in carica, Michele Galatà. Il documento ci mostra come Ceci comunichi la costituzione della società sportiva che si “prefigge di dare ai giovani una sana educazione fisica e morale e di riportare lo sport cittadino alle sue antiche gloriose tradizioni” in vista di una “ricostruzione sportiva” a seguito dei tragici eventi bellici terminati con la liberazione di #Rieti nel giugno del ’44.
La missiva è accompagnata dallo statuto sociale, preziosa testimonianza di ulteriori informazioni non solo relative alla fondazione, la cui data del 30 ottobre è riportata alla fine del testo (sottolineata in rosso nella foto n. 4), ma anche per le cariche societarie presenti. Il presidente onorario è Giuseppe Sebastiani, mentre il primo presidente del sodalizio è appunto Vincenzo Ceci (presidente del Consiglio direttivo), il presidente del Comitato provvisorio è Franco Colarieti. Luigi Padronetti, celebre e competente dirigente sportivo, ricopre il ruolo di segretario del Consiglio direttivo. Non mancano altri nomi illustri come Alfredo Sebastiani, fratello di Angelo, Mario e Gino, nonché presidente della Provincia di Rieti tra gli anni ’60 e ’70 e il campione del mondo dilettanti di ciclismo Adolfo Leoni.
La società nasce come polisportiva, avendo l’obiettivo di sviluppare non solo il basket, già presente negli anni precedenti con la Pallacanestro Rieti, in particolare tra 1938 e il 1940. Lo si evince anche da ulteriore documentazione, questa volta del 1945, presente nell’archivio storico del Comune di Rieti, anch’esso conservato presso l’Archivio di Stato (ASRi, Comune di Rieti, b. 1405, fasc. “Area Sebastiani”). Il documento attesta la volontà della società di ottenere nuove strutture sul #Terminillo per ampliare la propria attività sportiva, ipotizzando l’uso di villa Pater, presente sulla strada tra Pian de’ Valli e Campoforogna, nonché la vendita di due appezzamenti di terreno. Dalla missiva emerge come fosse presente un trampolino per la scuola di salto con gli sci a Pian de’ Valli e che la gestione della capanna Trebbiani era in capo proprio alla società sportiva.
L’idea di una polisportiva aveva trovato una concretizzazione già nel 1942. Il #Coni provinciale, il 16 novembre di quell’anno, aveva infatti reso noto al Comune di Rieti (ASRi, Comune di Rieti, Registro delibere di giunta, deliberazione n. 117, 1943) l’autorizzazione alla fusione di tutte le società sportive esistenti a Rieti in un unico organismo denominato “Società polisportiva Rieti”, con l’intento di sviluppare non solo il calcio, lo sci e il ciclismo, ma anche il pugilato, la scherma, il tiro a volo e, appunto, la #pallacanestro. Il motivo della fusione era meramente economico a causa del clima di guerra che pesava sui bilanci già magri delle società.
Un ultimo cenno lo merita l’acronimo societario AMG, in quanto se la sede provvisoria è in via Marchetti 3 presso l’allora Ept, ovvero l’Ente provinciale per il turismo, nell’oggetto della lettera appare la dicitura “M.A.G. Sebastiani”, mentre la carta intestata, la comunicazione ufficiale del presidente e lo statuto sociale riportano la denominazione “Angelo, Mario e Gino Sebastiani”. La sigla “M.A.G.” apparirà anche nei timbri societari del 1945 e 1946, con in campo un Ercole che sconfigge l’idra e con motto in legenda riportante la frase “Hercules sabinus pater”.
Real Sebastiani Rieti
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La Real Sebastiani Rieti, comunemente chiamata Sebastiani Rieti, è una società di pallacanestro maschile italiana con sede nella città laziale di Rieti. Fondata da Luigi Padronetti nel 1946 con il nome di M.A.G. Sebastiani Basket Rieti, divenuto in seguito A.M.G. Sebastiani Basket Rieti, si sciolse una prima volta nel 1997, per poi venire rifondata dapprima nel 1998 come Virtus Rieti (cambiando denominazione in Nuova Sebastiani Basket Rieti nel 2003), una seconda volta nel 2010 come Sebastiani Basket Club Rieti (cambiando denominazione alla Spes Pallacanestro Rieti dopo il fallimento della NSB) e, infine, una terza volta nell’estate 2020 come Real Sebastiani Rieti.
Contraddistinta dai colori sociali amaranto e celeste, disputa i propri incontri nell’impianto del quartiere di Campoloniano chiamato PalaSojourner[1]. Il nome della società ricorda la memoria dei fratelli Angelo, Mario e Gino Sebastiani, grandi sportivi dell’epoca, barbaramente uccisi dai tedeschi nel 1944.
Dopo l’abbandono di Padronetti fu Italo di Fazi ad occuparsi di assemblare la squadra, e ingaggiò il primo vero tecnico, Mario Barilari. In questi anni a dare man forte ai reatini vennero chiamati diversi giocatori di Roma come Chiodetti, Marcone, Galliano e Paolo Roversi. In questo periodo la squadra vedeva crescere giovani promettenti come Cordoni e Simeoni e militava in Serie C, a parte un paio di apparizioni in Serie B.
La Serie A
Dopo l’abbinamento con la Snia, la squadra sale di livello e nel 1972 conquista la promozione in Serie B. Nella stagione successiva la presidenza viene affidata a Renato Milardi e con il marchio Brina la Sebastiani disputa un ottimo campionato, chiudendo al secondo posto la stagione regolare che le consente di accedere alla poule promozione con Siena, Vigevano e Gorizia. Siena vince il girone ed accede direttamente alla Serie A mentre per il secondo posto disponibile Rieti e Vigevano dovranno giocare uno spareggio a Pesaro. Sostenuta da diversi reatini giunti nelle Marche, la Brina si impone 55-44 e conquista la Serie A. Tra i protagonisti dell’impresa da ricordare Gianfranco Lombardi nel doppio ruolo di allenatore e giocatore.
Per la stagione seguente arriva Bob Lauriski, il primo giocatore straniero della Sebastiani. Lauriski è uno statunitense non molto spettacolare ma comunque efficace; allenatore è ancora Lombardi e la squadra chiude il suo primo campionato di Serie A al decimo posto.
Dalla stagione 1974-75 il campionato si divide in due leghe: A1 e A2. Rieti si mantiene in prima serie dopo la poule salvezza. Nel 1975-76 arriva invece la retrocessione in Serie A2.
Nel campionato 1976-77 il nuovo allenatore Elio Pentassuglia (arrivato alla fine della stagione precedente) può contare su un nuovo straniero: Willie Sojourner, pivot con un passato nella ABA, che diventerà l’idolo dei tifosi reatini.
Nel 1977-78, grazie alle nuove regole che permettono l’ingaggio di un secondo straniero, arriva a Rieti Cliff Meely. Sojourner e Meely formeranno così una delle migliori coppie di stranieri del campionato. La Sebastiani annoverava in squadra giovani campioni come Roberto Brunamonti e Domenico Zampolini. I reatini vincono il campionato di Serie A2 accedendo ai play-off scudetto, dove si classifica al terzo posto, miglior risultato di sempre.
Nella stagione 1978-79 la squadra resta molto competitiva e schiera anche Gianfranco Sanesi, guardia nativa di Rieti. I risultati sono ottimi: la Sebastiani raggiunge le semifinali play-off e la finale di Coppa Korac, dove si arrende in finale solo al Partizan Belgrado, che vince davanti al pubblico di casa.
Gianfranco Sanesi in canotta Sebastiani nel campionato 1979-80
Per il campionato 1979-80 l’esigenza di far cassa porta alla cessione di Domenico Zampolini (girato a Pesaro) e Cliff Meely. Al posto dell’americano arriva Lee Johnson, atleta meno tecnico ma dotato di un’impressionante elevazione. La corsa in campionato si ferma ai quarti dei Play off ma è nella Coppa Korac che arriva la più grande impresa dello sport reatino. La Sebastiani arriva nuovamente in finale e a Liegi la squadra piega il Cibona Zagabria per 76-71. Con la conquista della Coppa Korac e dopo quattro stagioni piene di soddisfazioni, si chiude il ciclo di Elio Pentassuglia, che approda alla panchina di Varese.
Nelle stagioni successive Rieti non riesce a confermarsi ai vertici, pur mantenendosi su buoni livelli e continuando a scegliere validissimi giocatori statunitensi, come Tony Zeno.
L’estate del 1982 vede la partenza di Willie Sojourner, nel febbraio 1983 lascia anche il presidente Renato Milardi segnando la fine di un’epoca. Al termine di quel campionato la Sebastiani è retrocessa in Serie A2.
Seguono cinque stagioni nella seconda serie, con la società che, tra alti e bassi, fa sempre più fatica a far quadrare i conti. Il giocatore più rappresentativo di questo periodo è Joe Bryant, padre della futura stella NBAKobe Bryant, che iniziò a tirare a canestro proprio nel capoluogo sabino.
Il declino
L’ultima partita della Sebastiani in Serie A2 fu disputata a Rimini il 2 aprile 1988, ultima di campionato; la squadra venne sconfitta per 84-83 dalla Biklim Rimini con un canestro allo scadere dell’ex Maurizio Ferro e retrocessa in Serie B.
L’avventura di Rieti in Serie B inizia nel tentativo di tornare nella lega superiore: viene richiamato in panchina Elio Pentassuglia, ma il tecnico pugliese muore in un incidente stradale. La stagione della squadra rimane definitivamente segnata e non vengono raggiunti nemmeno i play-off.
A causa delle difficoltà economiche, nel campionato 1989-90 si allestisce una squadra di giovani da valorizzare, senza successo, e la Sebastiani retrocede così in B2. Il capitano e bandiera della squadra, Gianfranco Sanesi, si trasferisce a Contigliano, in Serie C1.
Dopo vari tentativi, nel 1993-94 la AMG Sebastiani riesce a risalire in Serie B1, imponendosi 92-80 dopo lo spareggio contro Potenza sul neutro di Pozzuoli, ma la situazione economica rimane problematica e anche la nuova proprietà (subentrata dopo la promozione) non riesce a porre rimedio.
Al termine della stagione 1996-97 il deficit diventa insostenibile, si cercano invano nuovi acquirenti e sfuma anche uno scambio di titoli per acquisire quello A2 di Pistoia. Oberata dai debiti, la società AMG Sebastiani non riesce ad iscriversi al campionato e conclude la sua attività dopo 51 anni di storia.
Prima rinascita: la Nuova A.M.G. Sebastiani Basket
Nel 1998 con l’acquisizione dei diritti di Sant’Antimo B2 da parte dell’Ass. allo Sport Marzio Leoncini e dal DR. David Angeletti, nasce una nuova squadra alla quale il General Manager Attilio Pasquetti decide di dare il nome di Virtus Rieti, con nuove divise arancio-blu. Protagonisti della nascita della nuova società furono oltre al patron Davide Angeletti (già contattato per rilevare la AMG Sebastiani) e Pier Luigi Persio, con la collaborazione di Michele Martinelli, primo presidente venne eletto Pier Luigi Persio. La Virtus venne iscritta con riserva alla serie B1 dove giocò grazie alla rinuncia di Desio, la squadra allestita era buona e sotto la guida di Franco Gramenzi dominò la stagione regolare, ai play-off per la promozione però dovette arrendersi a Bergamo al primo turno.
Nella stagione seguente, la squadra sempre allenata da Franco Gramenzi arrivò seconda in stagione regolare. Questa volta ai play off raggiunse la finale dove incontrò Castelmaggiore, la serie si decise alla terza ed ultima partita che Rieti perdette in casa 59-67 per la delusione di un gremito Palaloniano (5.432 spettatori) che sognava il ritorno tra i professionisti.
Nelle due stagioni successive (2000-01 e 2001-02) la presidenza passò a Davide Angeletti, ma, nonostante l’obiettivo rimanesse quello di raggiungere la Legadue (che sostituì la serie A2 nel 2001-02), furono avare di soddisfazioni. L’anno successivo Davide Angeletti lasciò in favore di Michele Martinelli. La presidenza fu offerta a Gaetano Papalia e venne ingaggiato Antonello Riva, miglior marcatore di tutti i tempi della serie A. La squadra ebbe un inizio stentato, poi alcune correzioni in corsa e l’arrivo sulla panchina di Maurizio Lasi le permisero di raggiungere i play off. Nei quarti di finale contro Vigevano il fattore campo saltò in tutte e tre le partite e la Virtus fu eliminata.
L’arrivo di Papalia
L’anno seguente Gaetano Papalia rilevò la società da Michele Martinelli, fu recuperato il nome storico cambiando la denominazione della squadra in Nuova A.M.G. Sebastiani Basket e l’amaranto ed il celeste tornarono ad essere i colori ufficiali. Fu assemblato un ottimo gruppo che dopo aver vinto la stagione regolare conquistò la coppa Italia di categoria battendo in finale Castelletto Ticino per 85-79. Ai play off Rieti perse di nuovo in finale, questa volta contro Montegranaro, ma aveva ancora l’oppurtunità di giocare lo spareggio per la Legadue contro la sconfitta dell’altra finale: Trapani. Si arrivò a gara tre e la Nuova Sebastiani questa volta non si lasciò sfuggire la promozione davanti al proprio pubblico, vincendo per 75-66.
Il primo anno di Legadue complice un po’ di inesperienza iniziò con qualche difficoltà ed il roster fu cambiato più volte in corsa, strada facendo grazie anche all’innesto di ottimi americani come David Hawkins prima e Jimmie Hunter poi, le cose migliorarono e furono raggiunti i play off dove arrivò la sconfitta al primo turno contro Montegranaro.
Nell’estate del 2005 arriva in città Marcus Melvin, ala forte esordiente in Italia, che diventerà uno dei migliori giocatori del campionato. La squadra allestita con l’obiettivo di puntare alla promozione in serie A termina la stagione regolare al quinto posto, ai play off dopo aver eliminato Imola e Ferrara, in finale trova di nuovo Montegranaro. Come nelle due occasioni precedenti la Sebastiani si arrese ai marchigiani che chiusero la serie 3-1.
Il 2006-07 si apre con una campagna acquisti di prim’ordine che porta a Rieti Joe Smith, Davide Bonora, Michele Mian e Patricio Prato, in panchina Maurizio Lasi viene sostituito da Lino Lardo. La squadra disputa una buona prima parte di campionato ma è sempre costretta ad inseguire Caserta che vince quasi tutte le partite. Il roster viene ritoccato e vengono inseriti Wade Helliwell e Marko Verginella a rinnovare quasi completamente il reparto dei lunghi (escono Simone Bagnoli e Chris Pearson). Ad inizio marzo al PalaSojourner, la Sebastiani vince la Final Four di Legadue battendo in successione Rimini e Ferrara. In campionato, complice un calo di Caserta, la squadra riesce a recuperare lo svantaggio ed arriva ad un finale di stagione equilibratissimo. Il campionato finisce con Rieti, Rimini e Caserta a pari punti ma grazie alla differenza canestri la Sebastiani è prima e può festeggiare il ritorno della serie A a Rieti dopo più di vent’anni.
Il ritorno in Serie A
La stagione 2007-08, segna dunque il ritorno in Serie A. Rieti infatti dopo un’assenza dalla massima serie durata 24 anni, può tornare fra le prime formazioni d’Italia, posto che aveva occupato già in passato. L’estate che aveva preceduto l’inizio del campionato, non era stata delle più tranquille, tanto che per mesi si era palesata anche la possibilità di cedere il diritto conquistato sul campo, ad un’altra città per la difficoltà di reperire sostegno economico, in primis quello di un main sponsor. La vicenda si risolverà poi con l’accordo siglato fra il Club amaranto celeste e la Solsonica. Dunque, sbrogliati i più immediati problemi economici, può finalmente sbloccarsi la campagna acquisti, che fino a quel momento era rimasta sospesa. Tra i giocatori che sbarcano a Rieti si ricordano Pape Sow dai Toronto Raptors e Morris Finley dall’Euphony Basket Liège, che si rivelerà poi il miglior marcatore della Lega. Il ritorno della Sebastiani, va in scena con la partita che vede opposta alla formazione Sabina, l’Olimpia Milano, in un PalaSojourner gremito e leggermente rinnovato per l’occasione, che vedrà alla fine la Sebastiani prevalere sulla pluridecorata squadra lombarda. Il campionato procederà con relativa tranquillità e la Sebastiani sfiorerà sia le final eight di Coppa Italia, sia i play-off di fine campionato per la lotta per il Tricolore. Alla fine la formazione Reatina conquisterà il tredicesimo posto e una salvezza, già certa a cinque giornate dalla fine.
Secondo anno in massima serie
Nel suo secondo anno in serie A la Nuova Sebastiani otterrà la salvezza all’ultima giornata ai danni della Fortitudo Bologna. La stagione cominciata sotto buoni auspici con la costruzione di un roster di prim’ordine sarà invece caratterizzata durante il corso dell’anno da un’infinità di difficoltà impensabili. La squadra perderà man mano pezzi importanti come Tim Pickett, Donnell Harvey, Guillaume Yango, Patricio Prato e Pervis Pasco, per non parlare inoltre dei due punti di penalizzazione inflitti alla società per irregolarità amministrative. Nonostante ciò grazie alla straordinaria bravura del tandem Lardo-Giuliani, un roster corto e assai modesto riuscirà nell’impresa di salvarsi grazie a straordinarie quanto inaspettate vittorie contro compagini ben più attrezzate come Virtus Bologna, Angelico Biella, Fortitudo Bologna, Air Avellino e Ngc Cantù in un girone di ritorno perfetto in cui la Solsonica farà parlare molto di sé in tutto l’ambiente del basket italiano. L’intera stagione è però funestata dai continui problemi economici e dalle voci che girano su un debito sempre più profondo. Tutto ciò viene rafforzato dai continui allarmi lanciati dal presidente Papalia, che già a inizio 2009 minaccia la vendita del titolo o la messa in liquidazione della società se non verranno trovate altre risorse per continuare l’avventura in A. Tra un futuro sempre più nero e un presente pieno di sofferenze la Nuova Sebastiani si presenta all’ultima giornata con due punti di svantaggio dalla Fortitudo Bologna che nonostante i milioni spesi e i molti acquisti nel corso dell’anno non è riuscita a tirarsi fuori dalla zona retrocessione. Proprio nell’ultima domenica di campionato, il 10 maggio, si consuma l’ultimo miracolo, Bologna perde a Teramo mentre la NSB espugna il campo della già retrocessa Udine conquistando grazie alla migliore differenza canestri negli scontri diretti il suo personalissimo scudetto, quello della seconda soffertissima salvezza in A.
Il trasferimento a Napoli e la fine
Terminata la sbornia per la nuova impresa, a Rieti si deve pensare a conquistare l’altra salvezza, ancora più difficile di quella del 10 maggio. Infatti la permanenza in serie A passa da eventuali nuovi sponsor e risorse che dovranno necessariamente entrare nelle casse societarie. In tal senso agli inizi di giugno sembra già tutto risolto per il meglio, con l’annuncio della sponsorizzazione ACEA per il PalaSojourner e con contatti già ben avviati con Wind. Tuttavia alla fine la tanto annunciata firma sul contratto non arriverà mai e dopo due mesi di rinvii, il presidente Papalia pone fine alla vicenda operando il trasferimento del campo di gioco al PalaBarbuto di Napoli, concludendo una trattativa iniziata e conclusa in pochi giorni. Il presidente motivò la scelta in questo modo:
«Quello che posso dire è che ci è stato concesso perché il PalaSojourner non è a norma per la serie A. Fate attenzione: non parlo di parametri tecnici, ma di parametri economici. Il palazzo si trova in una zona depressa che non consente di avere incassi in termini di pubblico o di spazi pubblicitari sufficienti a sostenere una serie A. Requisiti che, al contrario, il PalaBarbuto ha e per questo abbiamo chiesto ed ottenuto la deroga.[4]»
Così Rieti vede sparire di nuovo il basket professionistico e il presidente Gaetano Papalia è bersagliato dai tifosi di insulti e accuse, reo a loro parere di aver portato via alla città di Rieti una storia, un nome ed una tradizione nati nel lontano 1946.
Il ritorno del grande basket a Napoli, anche se a discapito di una città come Rieti che nel basket ha profuso molte energie, viene invece accolto positivamente sia dal presidente della F.I.P. Dino Meneghin, da sempre desideroso di riportare nell’élite del basket italiano una grande città come Napoli, sia dal presidente del C.O.N.I.Giovanni Petrucci, che qualche giorno prima del via libera al trasferimento commentava così tale possibilità:
«Non voglio entrare in faccende che sono di competenza della federazione, ma certo che avere Napoli in serie A sarebbe un vantaggio per il basket italiano. Da parte mia non posso che esprimere un auspicio, naturalmente fatti salvi tutti i diritti di Rieti[5]»
e ancora:
«Mi auguro che il basket torni in questa città – dice Petrucci -. Sono per lo sport nelle grandi piazze e sarebbe bello rivedere il Palabarbuto pieno. Del resto, la Virtus Roma è in serie A perché prese il titolo di Desio, non vedo quindi la novità. Non posso che essere favorevole a portare lo sport dove la gente lo vuole. Non conosco le regole del basket, queste questioni sono di competenza di Meneghin e della Fip. Sono loro che daranno l’ok, ma credo che alla Fip convenga avere Napoli nella massima serie, anche dal punto di vista pubblicitario.[6]»
Queste dichiarazioni scatenarono l’ira dei tifosi reatini, che ritennero di cattivo gusto le parole del presidente del CONI, nelle quali tutto è ridotto a una questione di convenienza e pubblicità.
Il destino della società rimase inizialmente incerto, almeno ufficialmente, dato che la deroga fu concessa per un solo anno, mentre da Napoli si affermava che la società sarebbe restata nel capoluogo campano per almeno tre anni[7].
A Napoli, Papalia trasferisce una società al collasso, che sembrerebbe non avere soldi per produrre un campionato dignitoso. Nell’autunno 2009, raggiunta la sponsorizzazione con la Martos (Società finanziaria) la rotta sembra cambiare: vengono ingaggiati il nigeriano Adeleke (successivamente tagliato), l’asso ex-NBA Damon Jones e il lettone Armands Šķēle. Successivamente viene messo sotto contratto anche il centro Robert Traylor.
Nel breve volgere di metà campionato, tuttavia, la società si ritrovò con problemi più grandi di quelli con cui si era allontanata da Rieti: a causa degli stipendi non pagati, molti giocatori decidono di abbandonare la società, sulle cui maglie non compariva neanche più lo sponsor[8], tanto che nelle ultime apparizioni sui parquet della Serie A fu costretta a schierare sul campo partenopeo gli under 19 provenienti inizialmente da Napoli e Rieti[9] e poi solo da Rieti.
La giustizia sportiva penalizzò la squadra, già partita con 2 punti in meno, con altri 6 punti. La Giudicante penalizzò la squadra di 8 punti per la successiva stagione, e inibì Papalia per 3 anni e 4 mesi. La Corte Federale confermò l’inibizione a Papalia e comminò 12 punti di penalità da scontare per la successiva stagione. La società fece ricorso al TAS Coni.
A stagione ancora in corso la squadra fu esclusa dal campionato, per non aver pagato la 2° rata professionistica alla LegaBasket, e tutte le partite furono considerate perse 20-0 a tavolino.
Il 15 aprile 2010, la commissione agonistica della FIP ha annullato tutta la stagione della squadra e la ha esclusa dalla classifica, decretando di fatto la definitiva chiusura anche di questo capitolo, lungo poco più di un decennio, della pallacanestro reatina.
Seconda rinascita: la Sebastiani Basket Club Rieti
Il duro colpo non cancella però Rieti dal panorama della palla a spicchi italiano, infatti gli occhi della città si spostano subito verso un’altra società locale: il Rieti Basket Club, dal quale trarrà origine l’attuale sodalizio. Questa società nasce nel 2006, quando ancora la NSB militava in LegaDue come “Spes Pallacanestro Rieti” e con l’acquisto del titolo sportivo del Vallesanta Basket, piccola formazione reatina, è ammessa al campionato di Serie D. Qui la società disputa un campionato che la vede sconfitta solo in due incontri, chiudendo così al primo posto e conquistare immediatamente la promozione in Serie C2[10]. L’anno seguente, stagione 2007-2008, chiude la stagione regolare da imbattuta e nei play-off vince la finale contro la Virtus Monterotondo, centrando la seconda promozione consecutiva e approdando questa volta in Serie C Dilettanti[10].
Per la stagione 2008-2009 di C Dilettanti, un nuovo allenatore, Marco Schiavi, si siede sulla panchina a tenere le redini della formazione ampiamente rinnovata. Durante il campionato un cambio in corsa porterà poi Claudio Vandoni, vecchia conoscenza del basket reatino a ricoprire il ruolo di head coach. Piazzatasi terza in classifica, affronta quindi i play-off dove in finale se la vede con Torre dei passeri, che viene sconfitta 3 a 1 mettendosi in tasca la terza promozione di fila che questa volta vale la Serie B Dilettanti. Nel settembre 2009 la denominazione della società viene mutata in Rieti Basket Club e il club lascia il piccolo PalaSpes sito nella frazione di Poggio Fidoni, palasport fino ad allora teatro degli incontri casalinghi, per trasferirsi al PalaSojourner[10].
Nello storico impianto di Campoloniano, Rieti continua la sua corsa disputando il nuovo campionato 2009-2010 con l’obiettivo della promozione diretta nella categoria superiore, ma a causa di numerosi infortuni che riducono all’osso gli elementi a disposizione dell’allenatore Alessandro Crotti, la formazione sabina chiude la stagione regolare al secondo posto e prende così parte ai play-off dove viene tuttavia eliminata dal Patti. Il quarto salto di categoria consecutivo arriva però comunque perché, a seguito dell’esclusione di tre club dalla Legadue, che libera tre posti nella A Dilettanti 2010-11, la società avanza ufficialmente richiesta di ripescaggio, che verrà poi accolta.
Nel 2010 la società attraversa una fase di cambiamento, costituendosi come S.r.l. Poco dopo si verifica anche un cambio al vertice: Marzio Leoncini, che dal 2006, anno della fondazione, aveva tenuto le redini del progetto, lascia la carica di presidente in favore di Silvio Gherardi. Come ultimo passo viene mutata la denominazione: con la partenza della NSB dal capoluogo sabino, l’anno precedente infatti il Rieti Basket Club si era trovato ad essere la prima formazione cestistica della città ed era stata avanzata l’ipotesi di restituire a Rieti la denominazione Sebastiani ripartendo proprio dall’RBC, ipotesi sostenuta anche da due sondaggi, uno apparso sul sito internet della società e uno su quello della tifiseria organizzata. Questo si rese possibile nel 2010 quando, a seguito della richiesta della società, la FIP l’autorizzò ad assumere la denominazione ufficiale di Sebastiani Basket Club Rieti[10][11].
Stagione 2010-2011: A Dilettanti
Per la prima stagione in Serie A Dilettanti 2010–2011, l’obiettivo principale della Sebastiani è la salvezza, compito tutt’altro che semplice per via della riforma dei campionati dilettantistici, in conseguenza della quale le retrocessioni previste per questo campionato sono sedici. Il torneo non si apre nel migliore dei modi per gli amaranto celesti, che inanellano una serie di cinque sconfitte consecutive che schiacciano subito la società all’ultimo posto in classifica palesando già lo spettro della retrocessione. La dirigenza corre quindi ai ripari e rivoluziona il roster: il netto fra vittorie e sconfitte viene ben presto invertito con una serie di sei successi consecutivi, striscia che permette ai reatini di entrare in zona playoff. Con il procedere del campionato la Sebastiani riesce, malgrado alcuni infortuni, a mantenersi fuori dalla retrocessione diretta. Nel girone di ritorno, però, qualcosa si rompe, con la Sebastiani che subisce sette sconfitte in otto partite[12]. Di conseguenza la società convoca due incontri, uno con l’allenatore Alessandro Crotti e il capitano Davide Zambon e l’altro con tutti i giocatori, dai quali emerge l’esistenza di attriti a livello individualistico e nei rapporti interpersonali fra gli atleti, ma nessun contrasto con il tecnico. La società decide di sanzionare due giocatori, uno dei quali si scuserà subito dopo con la squadra, i dirigenti e i tifosi[13]. Nel frattempo viene ingaggiato Federico Lestini[14]. Una boccata di ossigeno arriva con la vittoria contro la Nuova Virtus Molfetta che consente alla Sebastiani di ritirarsi fuori dalla zona playout. Tuttavia, a seguito di un’ulteriore sconfitta interna contro il fanalino di coda Palestrina, la squadra scende nuovamente in zona playout e il tecnico Alessandro Crotti decide di lasciare la guida della Sebastiani, venendo sostituito da Rod Griffin[15][16]. Il cambio in panchina non sortisce però gli effetti sperati: Rieti infatti vince solo due partite e, dopo l’ultima sconfitta casalinga con Ferentino, retrocede in Serie B Dilettanti ad un solo anno di distanza dalla promozione. A distanza di 21 anni dall’ultima volta, quindi, la Sebastiani retrocede sul campo.
Stagione 2011-2012: Divisione Nazionale B
Dopo aver tentato sia la carta del ripescaggio che quella della riammissione in Divisione Nazionale A, vedendosi tuttavia costretta a rimanere in Divisione Nazionale B per insufficienza di posti vacanti disponibili nella categoria superiore, la società inizia un cambiamento nel suo organigramma nominando Michele Martinelli nuovo direttore generale[17] mentre pochi giorni dopo Franco Montorro diventa il Direttore Marketing e Comunicazione[18]. Sulla panchina viene chiamato Donato Avenia. La costruzione della rosa inizia con Christian Cappanni[19] (che tuttavia rescinderà il contratto ancora prima dell’inizio del campionato), Luca Rossi[20]e Leonardo Busca[21]. Con la campagna acquisti ancora in corso la società perde il Direttore Sportivo Attilio Pasquetti che si dimette nei primi di agosto. La costruzione della nuova rosa prosegue con gli arrivi di Stefano Gallea[22], Federico Pugi[23]e Luca Sottana[24]. Torna inoltre a giocare a Rieti Simone Bagnoli[25]. Alla rosa a disposizione di Avenia si aggiungono Antonio Lepre, Sergio Di Nicola, Eduardo Striano, Stefano Laudoni, Paolo Zanatta, Ivan Falsini, Marco Vian ed Emanuele Levorato. Il girone d’andata inizia bene, con due successi consecutivi rispettivamente contro Scauri e Bisceglie. La prima sconfitta in campionato però non tarda ad arrivare: al turno successivo infatti, la Sebastiani commette un passo falso in casa contro Martina Franca[26], in seguito alla quale ottiene quattro successi consecutivi[27]. All’ottava di campionato, fra le mura amiche, arriva la sfida con la capolista Agrigento, fino a quel momento imbattuta. I siciliani espugnano il PalaSojourner, con Rieti che, inoltre, perde Luca Sottana durante l’incontro a causa della rottura del tendine di Achille[28]. I problemi per Rieti non terminano qui, perché pochi giorni dopo la partita il Giudice Sportivo Nazionale decreta la squalifica del PalaSojourner per tre gare per via delle intemperanze post gara del pubblico reatino, squalificando poi per quattro incontri Simone Bagnoli[29]. Nel frattempo, viene ingaggiato il centro Max Politi[30] e, sul fronte societario, arriva un nuovo cambio al vertice, con la nomina di Giuseppe Rosati Colarieti come Presidente, in luogo di Silvio Gherardi. Alla sconfitta con Agrigento fanno seguito altri due passi falsi: il primo a Roseto, dopo il quale la società torna sul mercato ingaggiando l’ala Salvatore Genovese[31], il secondo contro Potenza, prima del quale arriva in prestito dalla Mens Sana Basket Siena il playmaker classe 91 Duccio Doretti[32], in un match disputato sempre al PalaMaggetti, campo nel frattempo scelto dalla società per far fronte alla squalifica del PalaSojourner[33]. Nel frattempo la Commissione Giudicante Nazionale Fip riduce le giornate di squalifica del campo reatino e di Simone Bagnoli a due turni[34]. Dopo la terza sconfitta consecutiva, con relativa discesa al sesto posto in classifica, Avenia viene esonerato e sostituito da Massimo Friso (non prima del turno successivo, in cui Rieti ritrova la vittoria sul campo di Agropoli, con Roberto Peron a tenere le redini della panchina[35]). Il nuovo coach stecca le prime due sfide, rispettivamente contro la Stella Azzurra sul neutro di Anagni e in trasferta contro Pescara, e la squadra scivola al settimo posto in classifica. Prima della pausa natalizia, nuovamente fra le mura amiche del PalaSojourner, la Sebastiani ritrova il successo battendo Francavilla. Vengono in seguito tagliati Max Politi e Simone Bagnoli, e al posto di quest’ultimo viene ingaggiato Davide Zambon, già a Rieti l’anno precedente. Inoltre, una nuova assemblea dei soci produce un ulteriore cambiamento al vertice, nominando Carmine Rinaldi presidente. All’inizio del girone di ritorno, inaspettatamente, Friso, si dimette, così come Franco Montorro, direttore comunicazione e marketing della società [36], e Michele Martinelli [36]. La squadra viene definitivamente affidata a Roberto Peron. Sul fronte giocatori, Politi viene reintegrato in squadra per sopperire all’assenza di Vian per infortunio. Il girone di ritorno si apre con una vittoria ai danni di Scauri, seguita però da due sconfitte, dopo le quali la società interviene nuovamente sul mercato, ingaggiando il playmaker argentino Victorio Musso. La stagione prosegue tra alti e bassi, con gli amarantocelesti che concludono al settimo posto in classifica, qualificandosi ai playoff, dove vengono eliminati nei quarti di finale contro Martina Franca per 2-1. Al termine della stagione, a causa di inadempienze contrattuali, la società viene radiata dalla federazione.
Terza rinascita: l’era Pietropaoli e la Real Sebastiani Rieti
Otto anni dopo lo scioglimento della Sebastiani, durante i quali l’eredità della pallacanestro reatina viene raccolta dalla N.P.C. Rieti del presidente Giuseppe Cattani, capace di sfiorare la promozione in LBA nella stagione 2018-2019, nell’estate 2020 nasce la Real Sebastiani Rieti, con presidente Roberto Pietropaoli, ex patron del Real Rieti Calcio a 5, rilevando il titolo sportivo di Serie B di Valmontone. L’obiettivo societario è quello di riportare la Sebastiani nella massima serie nel più breve tempo possibile[37][38].
Stagione 2020-21: un nuovo inizio
La campagna acquisti, inizialmente condotta dal GM Paolo Moretti (successivamente sostituito da Domenico Zampolini) porta alle pendici del Terminillo i giocatori Federico Loschi, Klaudio Ndoja e Andrea Traini, ai quali si aggiungono le ali Alberto Cacace, Matias Drigo ed Enzo Cena, la guardia Manuel Diomede e gli under Vincenzo Provenzani e Marco Di Pizzo, oltre ai ritorni a Rieti del centro Simone Bagnoli e della guardia Juan Marcos Casini. L’allenatore è Alex Righetti, unico confermato dallo staff tecnico insieme al suo assistente Antonio Carone. La squadra comincia bene, superando il proprio girone di Supercoppa con tre vittorie (contro Formia, LUISS Roma e Cassino) e battendo Teramo a domicilio negli ottavi di finale, approdando alle Final Eight, ma viene sconfitta in semifinale contro Nardò. La regular season vede la Sebastiani cominciare con nove successi di fila e mantenere la testa alla classifica tanto nella prima quanto nella seconda fase, concludendo il girone D con un bilancio di 20 vittorie su 22 partite. Rieti, inoltre, ottiene la qualificazione alle Final Eight di Coppa Italia, disputate a Cervia, dove viene sconfitta in finale contro la Pallacanestro Piacentina. La rosa viene rivoluzionata nel corso del campionato, con le cessioni di Bagnoli, Casini, Cacace e Diomede e gli arrivi di Paolo Paci, Eric Visentin e Nicolò Basile. Poco prima dei playoff arriva anche Lorenzo Panzini. La corsa della Sebastiani nella post-season si ferma in semifinale, dove i reatini vengono sconfitti da Roseto per 3-0 (al termine di gara 1 Righetti e Carone vengono esonerati e sostituiti dall’assistente allenatore Mauro Angelucci e da Massimo Prosperi, responsabile del settore giovanile, per il prosieguo dei playoff), dopo aver superato Jesi per 3-1 nei quarti.
Stagione 2021-22: le 19 vittorie consecutive e la delusione finale
Della precedente rosa vengono riconfermati Loschi, Ndoja e Traini (con quest’ultimo che però, a causa dei numerosi infortuni che lo terranno spesso lontano dal parquet, verrà escluso dalla rosa a stagione in corso). A questi giocatori si aggiungono gli arrivi dei playmaker Nicolás Stanic e Alessandro Piazza, delle guardie Marco Contento e Lorenzo Piccin, dell’ala piccola Omar Dieng, dell’ala forte Mario Ghersetti e dei centri Alberto Chiumenti, anch’egli lasciato fuori a stagione in corso, e Roman Tchintcharauli. Il nuovo allenatore è Alessandro Finelli. In Supercoppa di Serie B, dopo aver battuto nettamente Avellino e Piombino, arriva l’eliminazione dalle Final Eight ad opera dei rivali cittadini della N.P.C. Rieti per 85-82. Il campionato inizia con una vittoria su Rimini, ma il girone di andata prosegue tra alti e bassi e la RSR non si qualifica alle finali di Coppa Italia. Il girone di ritorno inizia malissimo: la Sebastiani perde a Rimini, successivamente Cesena espugna il PalaSojourner. Qui si ha però la svolta positiva della stagione: Finelli, precedentemente esonerato viene richiamato, così come il preparatore atletico Luca Verdecchia, la squadra ritrova gioco e compattezza e anche la serie di infortuni inizia pian piano a volgere al termine. Nel frattempo giungono alle pendici del Terminillo due nuovi giocatori: Marco Maganza (centro), in sostituzione di Chiumenti, e Zdravko Okiljević (ala forte). Dopo una sconfitta nella stracittadina d’andata, recuperata durante il girone di ritorno a causa dei focolai di COVID-19 che hanno colpito la RSR prima e la NPC poi, la Sebastiani non perderà più alcuna partita fino alla semifinale playoff, mettendo insieme una striscia di 19 vittorie consecutive (di cui 13 in stagione regolare e 6 nei playoff), compresi lo stesso derby di ritorno contro la NPC e lo scontro diretto contro la capolista Roseto, concludendo la stagione regolare al secondo posto del girone C. Nei playoff, la Sebastiani supera Reggio Calabria nei quarti e Senigallia in semifinale, qualificandosi alla finale contro Agrigento, capolista nel girone D. La RSR perde nettamente le prime due sfide in terra siciliana, riscattandosi in gara 3 e 4 al PalaSojourner. Nella decisiva gara 5, disputata ancora ad Agrigento, gli uomini di coach Finelli perdono per 63-60 e vedono dunque sfumare all’ultimo l’obiettivo promozione.
Stagione 2022-23: il ritorno in A2
Il presidente Pietropaoli cambia allenatore, affidando il ruolo di head coach della squadra a Sandro Dell’Agnello. Tra i giocatori vengono riconfermati il capitano Alessandro Piazza, Marco Contento, Lorenzo Piccin e Zdravko Okiljević, mentre, sul fronte dei nuovi arrivi, il mercato porta a Rieti la guardia ex N.P.C. Simone Tomasini e il playmaker Marco Spanghero, fresco di promozione in A1 con la maglia di Verona. Altri arrivi sono quelli di Riccardo Chinellato, Ferdinando Matrone, Nicola Mastrangelo, Alessandro Paesano e Alessandro Ceparano. A completare il roster sono i giovani Danilo Pavićević, Alen Nuhanović e Gianluca Frattoni. In Supercoppa, la Sebastiani esordisce nei sessantaquattresimi di finale contro Matelica, superandola per 74-69. Il cammino di Rieti nella competizione si ferma nei sedicesimi di finale, in cui arriva l’eliminazione per mano di Roseto, poi finalista. Di contro, in campionato, la Sebastiani chiude al primo posto in classifica la fase di andata, qualificandosi ai quarti di finale di Coppa Italia, vinti per 89-50 a spese della LUISS Roma. Nel frattempo però si infortuna gravemente Spanghero, per il quale la stagione finisce in anticipo, venendo sostituito sul mercato da Franko Bushati, arrivato insieme ad Alessio Mazzotti. Sotto canestro viene invece ingaggiato il centro Giordano Pagani da Torino. Nel girone di ritorno, la Sebastiani conclude la stagione regolare al primo posto. Nelle Final Four di Coppa Italia, Rieti supera Faenza in semifinale per 74-72, soccombendo però in finale contro Orzinuovi per 45-66. A stagione in corso, in seguito all’esclusione di Ferrara dal campionato di A2, arriva il centro Samuele Valente. Nei playoff, in semifinale, la Sebastiani affronta Sant’Antimo, classificatasi al quarto posto nel girone D, battendola per 3-0 e qualificandosi alla finale per accedere al concentramento nazionale, nella quale prevale per 3-1 contro Faenza, qualificandosi al concentramento nazionale di Ferrara. Alla Giuseppe Bondi Arena, però, la Sebastiani perde tutte e tre le sue partite (contro LUISS Roma, Orzinuovi e Vigevano), venendo di fatto esclusa dalla promozione in A2. Il 24 giugno, cinque giorni dopo la fine del concentramento, la società annuncia di aver acquisito il diritto sportivo della Pallacanestro Mantovana, riportando la Sebastiani in A2[39].
Stagione 2023-24: la Serie A2
Durante la conferenza stampa di presentazione del progetto della Real Sebastiani in Serie A2, il presidente Roberto Pietropaoli annuncia ufficialmente l’ex N.P.C. Rieti e Scafati Basket Alessandro Rossi come nuovo allenatore[40], oltre alle conferme di Marco Spanghero e Lorenzo Piccin[41]. Sul mercato, il primo ingaggio è quello di Davide Raucci[42]. Arrivano in seguito, a completare il pacchetto degli italiani, il play-guardia Vittorio Nobile, le ali Alvise Sarto, Nazzareno Italiano e Danilo Petrovic e il centro Andrea Ancellotti. Per quanto riguarda i due americani, la società vira sul play-guardia Jazz Johnson e sull’ala-centro Dustin Hogue. Infine, viene confermato il play Gianluca Frattoni a completamento delle rotazioni. In precampionato, nell’amichevole disputata al PalaSojourner valida per il 1º Memorial Riccardo Blasi[43], la Sebastiani batte Napoli, formazione militante in A1, con il punteggio di 91-89 dopo un supplementare[44]. In Supercoppa LNP, la Sebastiani, inserita nel girone con LUISS Roma e Latina, perde il match contro i romani per 75-70[45] ma passa il turno per differenza canestri grazie alla vittoria interna sui pontini con il punteggio di 73-58[46]. Dopo aver superato Cento in trasferta nei quarti di finale[47], Rieti sì qualifica alle Final Four di Montecatini, ma viene battuta in semifinale da Treviglio[48]. In campionato la Sebastiani si rende protagonista di una buona prima fase, conclusa al quarto posto con 26 punti, frutto di 13 vittorie e 9 sconfitte. Durante la stagione arrivano il playmaker Giacomo Sanguinetti e l’ala-centro Karl Markus Poom, mentre Gianluca Frattoni viene ceduto in prestito a San Severo. Nella fase a orologio la Sebastiani continua a giocare bene e ad ottenere risultati di rilievo, tra i quali spiccano le vittorie in trasferta contro la Fortitudo Bologna e Udine e il successo interno contro Rimini, concludendo la stagione regolare al terzo posto. Nei playoff, la RSR affronta proprio Rimini nei quarti di finale, superandola per 3-0, qualificandosi alla semifinale contro la Fortitudo. I bolognesi, tuttavia, prevalgono sugli amarantocelesti con lo stesso punteggio, eliminandoli dalla corsa alla promozione in A1[49][50].
Stagione 2024/2025
Anche grazie ai rinnovi contrattuali di Johnson, Sarto, Spanghero e Piccin, nonché di coach Rossi e dell’intero staff tecnico, la Sebastiani parte da una buona base nella costruzione della rosa per il campionato venturo. A pochi giorni da gara 3 contro Bologna, vengono inoltre annunciati i primi due innesti: il playmaker Diego Monaldi e l’ala forte Ion Lupusor. Ulteriori ingaggi della Sebastiani nel settore lunghi sono le ali-centro Giorgio Piunti e Alexander Cicchetti, mentre sugli esterni arriva Nemanja Gajic, il cui contratto viene successivamente rescisso a fine agosto, venendo sostituito da Matteo Pollone. A completamento della rosa, in sostituzione di Hogue, il nuovo centro USA della Sebastiani viene individuato nell’ex Trieste e Varese Skylar Spencer. Per allungare ulteriormente le rotazioni si registrano, inoltre, l’arrivo dell’ala piccola Kenneth Viglianisi e l’aggregazione in prima squadra del reatino Mattia Cicchetti, protagonista nelle Finali Nazionali Under 15 disputate l’anno precedente sempre con la Sebasti
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