Casa Chopin e la vocazione per la bellezza- Il mistero del Notturno op. 72 n. 1.
Zecchini Editore Varese
Verità o mezza verità?
Fryderyk Chopin scrisse nel 1827, quando aveva 17 anni, una composizione di straordinaria bellezza che per ragioni sconosciute non diede mai alle stampe.
Il mistero del Notturno op. 72 n. 1.
Descrizione del libro su Fryderyk Chopin – La composizione del Notturno op. 72 n. 1.fu pubblicato solo dopo la sua morte , benché fosse evidentemente anteriore ai tre Notturni dell’op. 9, editi nel 1833 a Parigi. Il manoscritto però non è mai stato ritrovato e si ignora completamente il percorso che lo ha portato a finire nelle mani dell’amico Fontana, il quale ha curato per volere della famiglia la pubblicazione delle opere inedite, avvenuta nel 1855. Emilia è una sorella del compositore, dotata di una squisita sensibilità artistica, considerata una promessa della letteratura polacca, che fu stroncata dalla tubercolosi il 10 aprile 1827, non ancora quindicenne. La protagonista è Ludwika, un’altra delle sorelle (la terza è Izabela) che nel racconto sono depositarie di un segreto relativo a questa composizione. Il romanzo immagina la vicenda legata alla nascita di questo Notturno e suggerisce una prospettiva particolare dalla quale coglierne il significato. Allo stesso tempo disegna uno scenario che coglie alcuni momenti particolari della famiglia Chopin, profondamente legati alla vicenda umana e creativa dell’artista. Tutte queste figure, e tra esse la madre Justyna, sono unite, oltre che da un intenso legame famigliare, anche dalla comune vocazione per la Bellezza, che costituisce un altro filo conduttore della narrazione.
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Città di Pescara- Se il biscotto diventa un gioiello-
Corso di decorazione al Museo delle Genti d’Abruzzo-
Pescara, 8 ottobre – Al Museo delle Genti d’Abruzzo Sta per iniziare un viaggio attraverso i sensi: la bellezza da guardare, il buono da assaggiare, la capacità di realizzare. E’ un corso che valorizza non solo la creatività, ma le tradizioni e le suggestioni della fantasia. Tre distinti eventi che la Fondazione Genti d’Abruzzo organizza avvalendosi della professionalità di Filomena Tavano cookie artist , ovvero decoratrice di biscotti. Da non confondere con la pasticceria. Tavano è una eccellenza nel suo settore: nasce, con i suoi studi, restauratrice e decoratrice e si perfeziona lavorando con importanti aziende, per poi trovare una strada alternativa, che le consente di coniugare il suo amore per la pittura con quello per la cucina: nasce così Dolcetto, che le frutta riconoscimenti a livello internazionale e la porta in giro a raccontare come si fa a trasformare un biscotto in un capolavoro.
Il calendario degli appuntamenti si apre sabato prossimo alle ore 16, con la decorazione del biscotto “Presentosa d’Abruzzo”, sabato 30 novembre con inizio alla stessa ora toccherà al “Cuore d’Abruzzo” per concludere il 7 dicembre con la più classica preparazione di piccole opere d’arte natalizie. Sarà possibile sia frequentare un solo evento, della durata di quattro ore, che partecipare all’intero percorso ed avere così una preparazione più completa. “Lavoriamo in un ambiente insolito – spiega Tavano – e proprio per questo presentiamo un prodotto che sia attinente al museo. Ma questa esperienza fa parte anche di un mio progetto, che ha mosso i primi passi nel corso di Mediterranea, che è quello di declinare la decorazione dei biscotti in funzione turistica, preparando delle scatole eleganti che siano riconoscibili come prodotti abruzzesi. Ho già collaborato con la Regione Puglia, lavorando sugli Ori di Taranto, anche per l’Abruzzo sarebbe bello poter avviare una produzione con una propria identità. Penso a una scuola di formazione che potrebbe, ad esempio, essere anche funzionale alla riqualificazione di donne che hanno perso il lavoro, ma anche un punto di partenza per chi decide di investire su un progetto innovativo”. La proposta che si svilupperà all’interno del Museo delle Genti d’Abruzzo potrebbe essere un primo passo verso un lavoro più strutturato sul territorio. “Abbiamo organizzato il percorso in tre distinti eventi – chiarisce Tavano – ed in ognuna delle tre occasioni insegneremo le competenze tecniche di base per poter realizzare un biscotto decorato. Gli elementi essenziali sono la pasta frolla e la ghiaccia reale, che possono però essere lavorati con molte varianti. Perché la decorazione ha davvero molto da offrire, come produzione prevede l’infinito: ogni biscotto è una tela bianca su cui lavorare”. Diverse le tecniche di realizzazione tra la Presentosa e il cuore d’Abruzzo, poi il gran finale a sorpresa per il Natale: biscotti da utilizzare come decorazione per l’albero o per la tavola, per regali originali o semplicemente per coccolarsi in occasione delle feste.
Ai corsi sono ammessi anche i ragazzi, dai 12 anni in poi, un’occasione per avvicinarsi, divertendosi, all’arte della decorazione: “Decideremo in prossimità dell’evento come interpretare il terzo evento. Siamo estremamente flessibili. Ogni persona viene seguita a seconda della propria inclinazione, accompagnata fino al conseguimento del suo risultato”.
Informazioni
Il Museo delle genti d’Abruzzo è un museo di Pescara. Wikipedia
Dell’autore Octavio Paz , scrittore, poeta e diplomatico messicano,Premio Nobel per la letteratura nel 1990, sempre accanto a emarginati e oppressi, si preferisce ricordare quasi unicamente la parabola finale. Glissando su affermazioni valide a ogni latitudine: “La ricerca dell’identità nazionale è un passatempo intellettuale, a volte anche un affare di sociologi disoccupati” oppure “Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio”
Mai come in questi tempi appare importante la riflessione politica di Octavio Paz sulla parola e sul linguaggio che lui espresse in questi termini: “Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio. La critica della società inizia quindi con la grammatica e il ristabilimento dei significati” (Pos data, 2005). La parola appare al poeta messicano come un elemento necessario per rimarcare il fatto che fa parte integrante della cultura; la cultura é l’identità di un popolo e si mostra anche attraverso il linguaggio. Quando il linguaggio si appiattisce e si impoverisce per cedere il posto all’immediatezza (o a insistenti termini presi in prestito da altre lingue), noi pian piano ci allontaniamo dall’essenza, dalla creatività, dalla complessità e soprattutto dalla nostra capacità di autocritica. Octavio Paz nelle sue opere ha continuamente ribadito l’importanza della creatività della parola e del linguaggio. Saggista, giornalista, diplomatico messicano, premio Nobel per la letteratura, è considerato il poeta di lingua spagnola più importante della seconda metà del Novecento: “Non è poeta chi non abbia sentito la tentazione di distruggere il linguaggio o di crearne un altro, chi non abbia provato il fascino della significazione indicibile” (Vento Cardinale, 1985). La società e la politica furono per lui sempre inscindibili dall’arte poetica, anzi, la sua poesia d’avanguardia si fece veicolo di istanze sociali e di problemi politici, mettendo in luce una società corrotta che aveva fatto della merce l’unico valore visibile.
Nato nel 1914 a Città del Messico da una famiglia borghese, in cui il sangue spagnolo si era unito a quello indigeno messicano, a soli 19 anni pubblica la prima raccolta di poesie dal titolo Luna Silvestre. Grazie alla sua professione di diplomatico viaggia molto: vive a lungo negli Stati Uniti, in Spagna, Francia e persino in India e in Giappone, ove conosce la filosofia che influenzerà una parte sostanziale dei suoi scritti.
Il primo viaggio lo porta nello Yucatan, ove si misura col profondo passato della storia messicana, con l’antica civiltà Maya, la povertà e le lotte di parte della popolazione. Giunge a Mérida l’11 marzo 1937 e vi rimane per 65 giorni. Qui aderisce al progetto educativo di una scuola secondaria per i figli di indigeni, di operai e contadini, che gli era stato proposto dagli amici Octavio Novaro Fiora del Fabro e Ricardo Cortés Tamayo. Octavio nella scuola, e proprio a quel periodo appartengono le pagine di “Tra la pietra e il fiore” (1941), un ampio “inno tra le rovine” o meglio, come dirà più tardi “maleza entre escombros” (“erba tra le macerie”), un tema che lo accompagnerà come una ferita aperta per tutta la vita.
Sempre 1937, Paz ha più di 20 anni, partecipa come rappresentante del suo Paese al II Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, che quell’anno si propone di supportare i repubblicani in Spagna durante la Guerra civile. Vi partecipano, tra gli altri, André Malraux, César Vallejo e Pablo Neruda. Alla fine della seconda guerra mondiale diviene segretario dell’ambasciata messicana a Parigi entrando in contatto con il movimento surrealista e André Breton. Come incaricato d’affari arriva in Giappone e, infine, negli anni 60, è ambasciatore in India. Qui, nel 1968, rassegna le dimissioni per protestare contro il governo messicano, responsabile di una brutale repressione di studenti che manifestavano in piazza delle Tre Culture a Tlatelolco, Città del Messico, alla vigilia dei Giochi Olimpici. È il 2 ottobre 1968. Lasciato l’incarico, si dedica all’insegnamento presso università americane ed europee. Continua l’instancabile attività di promotore della cultura tenendo lezioni e fondando nuove riviste, come Plural (1971-1976) e Vuelta (1976). Paz non si limita a scrivere, ma trasforma le parole in azioni concrete. Politicamente propende a sinistra come il padre Octavio Paz Solorzano, avvocato zapatista. Più tardi invece adotterà un atteggiamento politico liberal-conservatore, simile a quello del nonno Irineo, che era stato vicino a Porfirio Diaz, presidente della Repubblica del Messico per tre mandati diretti, dal 1876 al 1911.
Così Paz desta polemiche quando divien aspro critico della insurrezione zapatista del 1994 e del subcomandante Marcos. Il 7 gennaio 1994 sul quotidiano messicano La Jornada scrive: “È una ribellione irreale, condannata al fallimento. Non corrisponde alla situazione del nostro paese, né alle sue necessità ed aspirazioni attuali”. Ma poi “pian piano, scopre lo stile originale dei proclami di Marcos, l’idealismo sincero, la sensibilità con cui esprime i sentimenti degli indigeni. Ricordandogli quando lui stesso, negli anni 30, era andato nello Yucatan a lavorare con gli indigeni. A conquistare il poeta è un’identificazione personale più che ideologica: non fu la guerriglia, ma la prosa di Marcos e la sua vocazione per il mondo indigeno”. Così scrive il messicano Jorge Volpi nel saggio La guerra y las palabras: una historia intelectual del 1994, in cui analizza il controverso rapporto tra Marcos e Octavio Paz
Ricordiamo che fu grande conoscitore di lingue, di tradizioni, affascinando soprattutto grazie al riflesso delle culture preispaniche rievocate in tante pagine. Tra gli scritti migliori ricordiamo: Il labirinto della solitudine, i saggi su Fernando Pessoa e Luis Cerneda, pubblicati in Italia dal Melangolo nel 1988, i trattati Congiunzioni e disgiunzioni e El Arco y la lira. Il labirinto della solitudine, scritto nel 1950, è il primo tentativo compiuto da un messicano per arrivare alla conoscenza piena della propria identità culturale. Paz tenta di far luce sull’anima del suo popolo e ne esamina perciò la storia, la politica, l’economia, ma spesso va al di là, aprendo le frontiere del Messico sul mondo. Nel labirinto della solitudine non si avventurano i soli messicani, ma tutti gli uomini: queste 250 pagine rappresentano una profonda meditazione sulla condizione umana. Altra sua opera è Suor Juana o le insidie della fede, monumentale biografia dedicata a Suor Juana Inés de la Cruz, straordinaria figura di religiosa e poetessa messicana del XVII secolo.
L’introduzione è a cura di Dario Puccini, uno dei massimi studiosi italiani di letteratura spagnola e ispano americana, studioso di suor Juana, e autore nel 1967 di un fondamentale saggio su di lei. Secondo Puccini l’incontro tra Paz e la suora messicana ha il carattere di un coinvolgimento totale. Nel riflettere sul mondo del Vice Reame della Nuova Spagna (1535-1821), all’interno dell’Impero coloniale spagnolo, Octavio Paz compie una profonda riflessione sul ruolo dell’intellettuale alle soglie della modernità: “Da un lato la società in cui visse suor Juana ci aiuta a comprenderla, dall’altro ce la nasconde. Suor Juana come ognuno di noi, è l’espressione della sua epoca, ma anche la negazione, l’eroina e la vittima”. Nel doppio ruolo della società e della protagonista, risiede il grande tema di un’opera che è allo stesso tempo critica letteraria e analisi del rapporto tra cultura e sistema totalitario.
La poesia come atto di liberazione, a perenne memoria, è teorizzata nel libro El Arco y la Lira, una riflessione nata dopo l’incontro con le culture orientali durante la sua permanenza in Giappone e India. Come Goethe, pensa che la poesia sia ricerca ininterrotta di senso, momentanea riconciliazione, presenza. Tutta l’inesausta attività ruota attorno a un solo tema: “Si scrive per essere ciò che siamo e che non siamo. Nell’uno e nell’altro caso cerchiamo noi stessi. E se abbiamo la fortuna di trovarci scopriamo che siamo uno sconosciuto”. Nascono così testi poetici come Libertad bajo palavra (1949), Aguila o sol? (1951), Agua y viento (1959), Topoemas (1971). Il mondo indigeno e in particolare quello azteco lo ritroviamo in Piedra del sol (1957): 584 endecasillabi in cui il passato precolombiano diventa fonte di suggestioni filosofiche. A partire dagli anni 80 del secolo XX, giungono riconoscimenti letterari internazionali, anzitutto l’importante Premio Cervantes, ricevuto nel 1981. Definito “l’orafo dei segni” per la cura e l’eleganza dei suoi versi, si afferma come innovatore del costume letterario e delle concezioni culturali.
Nel 1990 gli è assegnato il premio Nobel per la Letteratura per “l’appassionata scrittura dai vasti orizzonti, caratterizzata da un’intelligenza sensuale e da una integrità umanistica”. Octavio Paz scompare il 20 aprile 1998 in Messico, nella sua casa di Coyacan, dopo una lunga malattia. Rimane una delle figure chiave del XX secolo e tale rimarrà nel tempo, quel tempo nel quale rintracciò l’esperienza sovrannaturale come dimensione originaria dell’esistenza e trasmutazione di sé: “Le pietre sono tempo / Il vento / secoli di vento / Gli alberi sono tempo / gli uomini sono pietre / Il vento / si avvolge su se stesso e si sotterra / nel giorno di pietra / L’acqua non c’è, ma gli occhi brillano” (Versante Est, 1969).
Vladimir Vladimirovič Majakovski, La nuvola in calzoni (1915)
traduzione di Carmelo Bene
Strenuo innovatore,Vladimir Vladimirovič Majakovski, fuse le tendenze ribelli e anarchiche del futurismo con l’attività di tribuno e di agitatore durante la rivoluzione d’Ottobre. La sua opera maggiore prima della rivoluzione è il poema Oblako v štanach (“La nuvola in calzoni”, 1915), in cui il motivo d’amore e quello sociale s’intrecciano in una trama iperbolica, esasperata. Gli stessi accenti ritornano nei poemi Flejta-pozvonočnik (“Il flauto di vertebre”, 1915), Vojna i mir (“La guerra e l’universo”, 1917), Čelovek (“L’uomo”, 1916-17). Le vicende della rivoluzione sono trasposte su un piano biblico nella commedia Misterija-Buff (“Mistero buffo”, 1917) e rivissute come scene di canti epici e di vignette popolari nel poema 150.000.000 (1921), che contrappone in un grottesco duello il gigante russo Ivan e Woodrow Wilson. Al tema d’amore M. tornò nei poemi Ljublju (“Amo”, 1922) e Pro eto (“Di questo”, 1923). La morte di Lenin gli suggerì il poema Vladimir Il´ič Lenin (1924) e il decimo anniversario della rivoluzione l’affresco epico Chorošo! (“Bene!”, 1927). Accanto a queste ampie composizioni, scrisse odi d’intonazione oratoria, versi di propaganda commerciale e politica, poesie satiriche, scenari cinematografici, pantomime, canovacci per scene di circo, commedie come Klop (“La cimice”, 1928) e Banja (“Il bagno a vapore”, 1929). L’influenza di M. sui movimenti artistici russi d’avanguardia fu enorme. M. era stato inizialmente pittore, e della sua attività figurativa, dopo che si era dedicato agli scritti e all’azione politica, sono importanti le ricerche tipografiche e compositive fatte in collab. con A. Rodčenko (pagine della rivista Lef, 1923 segg.).
Intronando l’universo con la possanza della mia voce,
cammino- bello,
ventiduenne.
*
Se volete,
sarò rabbioso a furia di carne,
e, come il cielo mutando i toni,
se volete,
sarò tenero in modo inappuntabile,
non uomo, ma nuvola in calzoni!
*
Voi pensate che sia il delirio della malaria?
Ciò accadde,
accadde a Odessa.
“Verrò alle quattro” – aveva detto Maria.
Le otto.
Le nove.
Le dieci.
*
La dodicesima ora è caduta
Come dal patibolo la testa d’un giustiziato.
*
Sei entrata tu
Tagliente come un “eccomi!”,
tormentando i guanti di camoscio,
hai detto:
“Sapete,
io prendo marito”.
Ebbene, sposatevi.
Che importa.
Mi farò coraggio.
Vedete,sono così tranquillo!
Come il polso
D’un defunto.
Non vi sovviene?
Voi dicevate
“Jack London,
denaro,
amore,
passione,”-
ma io vidi una sola cosa:
vidi in voi una Gioconda
che bisognava rubare!
E vi hanno rubata.
*
Volete stuzzicarmi?
Ricordate!
Perì Pompei
Quando esasperarono il Vesuvio.
Ehi!
Signori!
Dilettanti
di sacrilegi,
di delitti,
di massacri,
avete visto mai
ciò che è più terribile:
il viso mio
quando
io
sono assolutamente tranquillo?
E sento che l’io
Per me è poco:
qualcuno da me si sprigiona ostinato.
Allò!
Chi parla?
Mamma!
Vostro figlio è magnificamente malato!
Mamma!
Ha l’incendio nel cuore.
Dite alle sorelle Ljuda e Olja
Ch’egli non sa più dove salvarsi.
*
Che m’importa di Faust
che in una ridda di razzi
scivola con Mefistofele sul pavimento del cielo!
Io so
che un chiodo del mio stivale
È più raccapricciante della fantasia di Goethe!
*
Me ne infischio se negli Omeri e negli Ovidi
non c’è gente come noi,
butterata e coperta di fuliggine.
Io so
che il sole si offuscherebbe a vedere
le sabbie aurifere delle nostre anime.
Muscoli e nervi sono più sicuri di tutte le preghiere.
Dovremmo impetrare le grazie dal tempo?
Ciascuno
di noi
tiene nelle sue cinque dita
le cinghie motrici dei mondi!
Ciò mi fece salire sul Golgota degli auditori
di Pietrogrado, di Mosca, di Odessa, di Kiev,
e non vi fu uno solo
il quale
non gridasse:
“Crocifiggi,
crocifiggilo!”
*
Io,
dileggiato dall’odierna generazione
come un lungo
aneddoto scabroso,
vedo venire per le montagne del tempo
qualcuno che nessuno vede.
Là dove l’occhio degli uomini si arresta insufficiente,
alla testa di orde affamate
con la corona di spine delle rivoluzioni
avanza l’anno sedici.
Ed io presso di voi sono il suo precursore,
io sono sempre là dove si soffre:
su ogni goccia di liquido lacrimale
ho posto in croce me stesso.
*
… attraverso il suo
occhio lacerato sino all’urlo
si inerpicava, impazzito, Burljuk
e con tenerezza inattesa in un uomo pingue
mi prese e disse
“Bene!”
Bene, quando una gialla blusa
protegge l’anima da tanti sguardi!
*
Ma dal fumo d’un sigaro
come un bicchierino di liquore
si è allungato il viso alticcio di Severjanin.
Come osate chiamarvi poeta
e, mediocre, squittire come una quaglia?
*
Io, che decanto la macchina e l’Inghilterra,
sono forse semplicemente
nel più comune vangelo
il tredicesimo apostolo.
*
Maria! Maria! Maria!
Lasciami entrare, Maria!
Non posso restare in istrada!
Non vuoi?
*
Mi hai lasciato entrare.
Bambina!
Non ti spaurire
se ancora una volta
nell’intemperie del tradimento
mi stringerò a migliaia di vezzose faccine.
“Adoratrici di Majakovskij!”
ma questa è davvero una dinastia
di regine salite al cuore d’un pazzo.
Maria, più vicino!
Con denudata impudenza
O con pavido tremore
Concedimi la florida vaghezza delle tue labbra:
io e il mio cuore non siamo vissuti neppure una volta sino a maggio,
e nella mia vita passata
c’è solo il centesimo aprile.
Maria!
Il poeta canta sonetti
mentre io,
tutto di carne,
uomo tutto,
chiedo semplicemente il tuo corpo,
come i cristiani chiedono
“Dacci oggi
il nostro pane quotidiano”
Maria, concediti!
Maria!
Maria, non vuoi?
Non vuoi?
Ah!
E allora di nuovo,
io prenderò il mio cuore
lo porterò
come un cane
porta
nella sua cuccia
la zampa stritolata dal treno.
*
Mi chinerò
Per dirgli in un orecchio:
Ascoltate, signor Dio!
Onnipossente che hai inventato un paio di braccia
E hai fatto sì che ciascuno
Avesse una sua testa,
perché non hai inventato una maniera
di baciare, baciare e ribaciare
senza tormenti?
Pensavo che tu fossi un grande Dio onnipotente,
e invece sei solo un povero deuccio.
*
Alati furfanti!
Rannicchiatevi in paradiso!
Te, impregnato d’incenso, io squarcerò
di qui sino all’Alaska!
Lasciatemi!
Non mi fermerete.
*
Guardate:
hanno di nuovo decapitato le stelle.
Ehi, voi!
Cielo!
Toglietevi il cappello!
Me ne vado!
Sordo.
L’universo dorme,
poggiando sulla zampa
l’enorme orecchio con zecche di stelle.
Biografia di Vladimir Vladimirovič Majakovski -Poeta, autore drammatico e pittore russo (Bagdadi, od. Majakovskij, presso Kutais, 1893 – Mosca 1930). Grande innovatore, esercitò enorme influenza sui movimenti artistici russi d’avanguardia. Militante nel partito bolscevico, fu inizialmente pittore e fece parte del gruppo dei cubofuturisti; nel 1923 organizzò il LEF (Leuyj Front iskusstv “Fronte di sinistra delle arti”). Tra le opere: i poemi Oblako v štanach (“La nuvola in calzoni”) e Flejta-pozvonočnik (“ll flauto di vertebre”), entrambi del 1915; la commedia Misterija-Buff (“Mistero buffo”, 1917), sulle vicende della Rivoluzione russa; il poema Vladimir Il´ič Lenin (1924).
Vita
Ancora adolescente, svolse intensa attività politica nel partito bolscevico e fu arrestato tre volte. Dedicatosi poi allo studio delle arti figurative, fu espulso (1914) dall’Istituto di pittura, scultura e architettura di Mosca per la sua appartenenza al gruppo dei cubofuturisti. Nel 1913 apparve il suo primo libro, Ja! (“Io!”). Nel dic. 1913 interpretò a Pietroburgo, al teatro Luna Park, la propria tragedia Vladimir Majakovskij. Accolse la rivoluzione con entusiasmo e nel 1923 organizzò il LEF (Levyj Front iskusstv “Fronte di sinistra delle arti”), che raggruppò artisti, poeti, scenografi, registi, filologi vicini al futurismo, e pubblicò la rivista omonima. In quegli anni fu il simbolo di tutto ciò che v’era di moderno e di audace nell’arte sovietica. La campagna condotta contro di lui dalla critica di partito, le delusioni politiche e motivi amorosi lo spinsero al suicidio.
Opere
Strenuo innovatore, fuse le tendenze ribelli e anarchiche del futurismo con l’attività di tribuno e di agitatore durante la rivoluzione d’Ottobre. La sua opera maggiore prima della rivoluzione è il poema Oblako v štanach (“La nuvola in calzoni”, 1915), in cui il motivo d’amore e quello sociale s’intrecciano in una trama iperbolica, esasperata. Gli stessi accenti ritornano nei poemi Flejta-pozvonočnik (“Il flauto di vertebre”, 1915), Vojna i mir (“La guerra e l’universo”, 1917), Čelovek (“L’uomo”, 1916-17). Le vicende della rivoluzione sono trasposte su un piano biblico nella commedia Misterija-Buff (“Mistero buffo”, 1917) e rivissute come scene di canti epici e di vignette popolari nel poema 150.000.000 (1921), che contrappone in un grottesco duello il gigante russo Ivan e Woodrow Wilson. Al tema d’amore M. tornò nei poemi Ljublju (“Amo”, 1922) e Pro eto (“Di questo”, 1923). La morte di Lenin gli suggerì il poema Vladimir Il´ič Lenin (1924) e il decimo anniversario della rivoluzione l’affresco epico Chorošo! (“Bene!”, 1927). Accanto a queste ampie composizioni, scrisse odi d’intonazione oratoria, versi di propaganda commerciale e politica, poesie satiriche, scenari cinematografici, pantomime, canovacci per scene di circo, commedie come Klop (“La cimice”, 1928) e Banja (“Il bagno a vapore”, 1929). L’influenza di M. sui movimenti artistici russi d’avanguardia fu enorme. M. era stato inizialmente pittore, e della sua attività figurativa, dopo che si era dedicato agli scritti e all’azione politica, sono importanti le ricerche tipografiche e compositive fatte in collab. con A. Rodčenko (pagine della rivista Lef, 1923 segg.).
Giuseppe Aragno- Le quattro giornate di Napoli. Storie di antifascisti
Editore Intra Moenia
Descrizine del libro di Giuseppe Aragno-Le quattro giornate di Napoli-Questo libro racconta una “storia civile”. Al centro della scena uomini e donne che vincono la paura e lottano per la dignità in una notte disperata. Sullo sfondo, la dittatura, la repressione, la guerra e un’occupazione spietata. Il libro ha i toni e l’andamento di un romanzo storico. Non rinuncia al rigore della ricerca, ma dà la parola a chi non l’ha mai avuta e diventa il canto corale della Napoli antifascista. Questa ricostruzione storica delle Quattro Giornate non solo smantella lo stereotipo della città di plebe, ma restituisce alla memoria collettiva i nomi, le storie umane e la vicenda politica degli sconosciuti protagonisti di una delle più belle pagine della millenaria storia di Napoli, quella dell’antifascismo popolare colto nel suo momento più alto, fatto di speranza e sacrificio. Un messaggio di grande attualità nel nostro tempo che sembra tornare ad essere buio.
Giuseppe Aragno-
Giuseppe Aragno si è formato alla scuola di Renzo De Felice, con cui è stato esercitatore all’Università di Salerno alla fine degli anni Settanta; dal 1994 collabora, in qualità di cultore della materia e docente a contratto, con la cattedra di Storia Contemporanea della Facoltà di Scienze politiche dell’Università “Federico II” di Napoli. Un suo saggio sulle politiche culturali nell’Italia dall’Unità ai primi anni della repubblica, intitolato Un giacimento in fondo allo stivale, Laterza, Roma-Bara, 1997, ha vinto il premio Laterza. Ha partecipato, come membro del Comitato di Redazione e autore di 40 voci biografiche, al progetto di rilievo nazionale, finanziato dal MIUR e realizzato dalle Univerisità di Messina, Milano, Teramo e Triete, da cui è nato il Dizionario Biografico degli anarchici Italiani, Biblioteca Serantini, Pisa, 2003-2004. I suoi ultimi saggi si intitolano Antifascismo popolare, Il manifestolibri, Roma, 2009 e Antifascismo e potere, Bastogi, Foggia, 2012. Dall’anno accademico in corso insegna Storia contemporanea presso la “Fondazione Humaniter”. Collabora col Manifesto, Liberazione e l’edizione napoletana di Repubblica”.
La lunga storia della ricotta, un latticino dalle antiche origini-
Il candido colore bianco della Ricotta , la consistenza morbida e cremosa, il gusto fresco e delicato: la ricotta è un prodotto unico, che ancora oggi è protagonista di moltissime ricette. Ma non tutti sanno che si tratta di “un’invenzione” molto più antica di quanto si pensi.
La ricotta è un ingrediente indispensabile in molte delle più famose ricette della tradizione gastronomica italiana, un patrimonio che è stato costruito con il tempo, lentamente e con la saggezza di centinaia di generazioni. Con la sua consistenza piacevolmente cremosa e il suo gusto fresco e delicato, la ricotta è uno dei pochi ingredienti insostituibili di molti dolci, come ad esempio la cassata o i cannoli siciliani, ma anche la pastiera napoletana; è poi un prodotto indispensabile nella ricetta dei cannelloni ricotta e spinaci e in molti altri primi piatti della tradizione italiana, come la pasta alla norma. E poi ancora la deliziosa farcitura dei ravioli, mille tipi di polpette, altrettanti di crostate, torte salate e sformati, e così via: le ricette con la ricotta sono davvero innumerevoli.
Una storia millenaria
Ma se l’uso della ricotta nella cucina contemporanea è un dato assodato, di certo non si può dire lo stesso per la lunga storia di questo latticino, spesso ignorata anche da chi lavora o si intende di cucina. Eppure, si tratta di una delle vicende più lunghe, antiche e appassionanti della gastronomia italiana, dalla quale c’è sempre molto da imparare. Di origini assai remote, la ricotta sembra essere un prodotto conosciuto addirittura fin dai tempi delle antiche popolazioni mesopotamiche, che popolavano il Mediterraneo già nel quarto millennio avanti Cristo. Da allora, divenne molto popolare anche tra gli antichi greci e i romani. Dopo un periodo in cui la sua preparazione sembra cadere in disuso, la ricotta ricompare nelle fonti iconografiche della fine del XII secolo, in pieno Medioevo.
La ricotta: un ritratto delle antiche abitudini alimentari
Ma in che modo siamo riusciti a reperire così tante informazioni su un alimento che era conosciuto decine di millenni or sono? Ebbene, la maggior parte delle testimonianze ci giungono da remoti affreschi, dipinti e disegni reperiti da codici e libri antichi.
Questo ricco alimento, ad esempio, è frequentemente raffigurato nei mosaici e negli affreschi dell’antica Pompei, nei quali la ricotta veniva ritratta in canestrini di giunco, dove era effettivamente conservata, così come è ancora in uso nelle zone rurali.
Spesso, al centro di rappresentazioni di banchetti e tavole imbandite, cesti o ciotole di ricotta fresca sono sempre più gettonati nel corso dei secoli, specialmente nelle aree geografiche la cui economia si basava sull’allevamento di bovini e ovini. Alla fine del Cinquecento, quando diventa sempre più diffusa la tendenza a ritrarre la natura morta, compaiono anche molte raffigurazioni del latticino in questione, che nel frattempo si è imposto come una delle delizie più ricercate sulle tavole dell’epoca: ne è una dimostrazione l’opera di Vincenzo Campi, intitolata “I mangiatori di ricotta”, in cui è palpabile la goduria dei personaggi rappresentati nell’atto di consumare una candida forma di ricotta.
Dai santi alle regine
Quando, sul finire dell’età antica e successivamente alle invasioni barbariche, la produzione di ricotta calò bruscamente, si persero con essa anche la maggior parte delle testimonianze che ci informano sul suo uso e consumo. Ma, stando alla tradizione popolare, il ritorno in auge di questo delizioso latticino si deve a – niente di meno che – San Francesco, il religioso assisano poi diventato patrono d’Italia. Leggenda vuole, infatti, che fu lui a reintrodurre tra i pastori della campagna romana l’usanza della produzione della ricotta, insegnando loro i semplici passaggi necessari per ottenerla dal latte dei loro animali. Che sia merito di San Francesco in persona o meno, il racconto cristiano ha certamente un fondo di verità, perché, nel Medioevo, ai monaci era affidato un ruolo decisivo nel preservare il sapere contadino.
Nella storia della ricotta, però, c’è almeno un altro personaggio importante: molti storici gastronomici sono concordi, infatti, nell’attribuire a Caterina de’ Medici la caduta in disuso della ricotta presso l’aristocrazia, e il suo declassamento ad alimento della gastronomia povera. Divenuta regina di Francia nel 1547 come moglie di Enrico II, Caterina stentò ad abbandonare le abitudini culinarie della sua Firenze, per adattarsi alla cucina – che riteneva primitiva e insoddisfacente – dei cuochi francesi. Chiamò quindi a corte esperti gastronomi fiorentini, rivoluzionando i pasti e le abitudini alimentari della cucina francese, dividendo le portate salate da quelle dolci ed eleggendo a cibi “nobili” solo pochi selezionati alimenti. Dopo di lei, la ricotta scomparve quasi del tutto dalle opere letterarie e figurative.
Una ricotta leggendaria Caterina de’ Medici interruppe, suo malgrado, una tradizione davvero millenaria, che vedeva la ricotta protagonista di miti e leggende. Questo latticino è presente, addirittura, in uno dei passaggi più celebri dell’“Odissea”, ovvero quello che vede il ciclope Polifemo incontrare Ulisse e i suoi compagni, proprio mentre prepara e lavora la ricotta: «Mezzo il candido latte insieme strinse, / E su i canestri d’intrecciato vinco / Lo collocò ammontato», si legge nel nono libro; poco oltre, Ulisse stesso assaggia un po’ di quel ciclopico lavoro quotidiano, gustando una generosa porzione del «rappreso latte». E di certo non ci saremmo tirati indietro, al posto del leggendario esploratore: ancora oggi la ricotta vanta numerosi ammiratori ed è l’ingrediente principe di preparazioni salate e ricette dolci di ogni genere, dalla “cuccìa siciliana” consumata in occasione del giorno di Santa Lucia alla saporitissima pasta alla Norma, confermandosi uno dei prodotti gastronomici di punta del nostro Paese.
Città di Senigallia, in mostra l’Ottocento dalle raccolte marchigiane-
La città di Senigallia ospita presso Palazzetto Baviera, fino al 30 novembre 2024, l’esposizione intitolata Sguardi sull’Ottocento. Arte Italiana nelle collezioni marchigiane, che presenta una collezione di 60 dipinti provenienti da musei e collezioni private della regione.
Tra le opere esposte, spicca una tavola dipinta ad olio dell’illustre pittore anconetano Francesco Podesti (1800-1895), che un tempo adornava il celebre Palazzo Torlonia di Roma. Questo palazzo, situato in Piazza Venezia, fu demolito nel 1902 per far spazio a nuovi lavori di viabilità. La tavola di Podesti, come spiegato dalla curatrice della mostra Maria Gabriella Mazzocchi, è un modello preparatorio del famoso affresco Il Trionfo di Nettuno, parte della volta della Galleria di Ercole e Lica, dove era esposto il gruppo scultoreo di Antonio Canova. Questo pezzo, miracolosamente sopravvissuto alla demolizione, ha suscitato grande interesse tra i visitatori, evocando immagini di un’epoca perduta e del fasto del Palazzo Torlonia.
La mostra, tuttavia, non si limita a celebrare Podesti e la sua opera. Le quattro sale espositive ospitano una ricca selezione di dipinti che testimoniano la rinascita della pittura ottocentesca marchigiana, riscoperta e valorizzata negli ultimi dieci anni. La curatrice sottolinea che non si tratta solo di una mostra sull’Ottocento marchigiano, ma di una panoramica sulla pittura dell’Ottocento italiana, conservata nei musei e nelle collezioni private della regione.
Un altro pezzo di grande rilievo è un quadro di Francesco Paolo Michetti (1851-1929), che rievoca la profonda amicizia dell’artista con Gabriele d’Annunzio. L’opera, raffigurante due pecore con un ragazzo, rimanda alla famosa poesia “I Pastori” di d’Annunzio: “Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare.”
La mostra è suddivisa in tre sezioni tematiche: “Dalla pittura di storia all’Unità”, “La poetica del vero” e “I volti e le persone”, ognuna delle quali offre una prospettiva diversa sull’arte del periodo. Gli artisti esposti includono nomi di grande rilievo come Gioacchino Toma, Filippo Palizzi, Raffaele Sernesi, Giuseppe De Nittis, Federico Rossano, Guglielmo Ciardi, Giuseppe Vaccaj, Giulio Gabrielli, Fortunato Duranti, Giacinto Gigante, Vito D’Ancona, Telemaco Signorini, Domenico Morelli, Silvetro Lega, Giovanni Fattori, Giacomo Favretto, Angelo Morbelli, Giovanni Boldini, Vincenzo Irolli, Ettore Tito, e molti altri.
Ingresso intero €. 8,00 – cittadini di età superiore ai 25 anni; ingresso agevolato €. 4,00 – cittadini dell’Unione europea di età compresa tra i 18 e i 25 anni e ai docenti delle scuole statali con incarico a tempo indeterminato; ingresso ridotto €. 6,00 – soci FAI, Touring, Coop Alleanza 3.0, Archeoclub d’Italia, Pro Loco, CNA, AVIS Senigallia, Associazione Albanostra – Cassa Mutua G. Leopardi, e possessori del biglietto di ingresso alla Rocca Roveresca o al Museo Archeologico Statale di Arcevia, special card per soci BCC Fano, turisti ospiti delle strutture alberghiere di Senigallia muniti di apposito riconoscimento; gratuito per tutti i cittadini appartenenti all’Unione Europea, di età inferiore a 18 anni e per gli iscritti alla Libera Università per Adulti di Senigallia.
Esibendo il biglietto di ingresso alla Rocca Roveresca di Senigallia si avrà diritto a un biglietto ridotto per la mostra. Sono disponibili biglietti cumulativi con le altre mostre presenti.
Informazioni sulla mostra
Titolo mostra
Sguardi sull’Ottocento. Arte Italiana nelle collezioni marchigiane
Fonte- Finestre sull’Arte è una testata giornalistica che si occupa di arte antica e contemporanea. Il giornale, nato nel 2017, ha origine dall’omonimo progetto divulgativo che nel 2015 ha ricevuto il Premio Silvia Dell’Orso come miglior progetto italiano di divulgazione storico-artistica. Oggi, Finestre sull’Arte è una delle riviste più seguite del settore, e alla versione online abbina, dal 2019, anche un trimestrale cartaceo. Finestre sull’Arte è edita da Danae Project S.R.L.. Per scrivere alla redazione: posta AT finestresullarte.info.
Pescara-Le 80 tavole dei famosi “Capricci” di Goya
sono riunite al Museo Paparella Treccia Devlet –
La mostra su Francisco Goya al Museo Paparella Treccia Devlet di Pescararesterà aperta al pubblico sino al 13 ottobre 2024.La mostra è curata da Michele Tavola, è caratterizzata dalla rapida successione delle incisioni lungo le pareti delle sale del museo. Durante il percorso il visitatore ha a disposizione una scheda illustrativa che descrive in maniera sintetica ogni opera, permettendo di comprendere ed approfondire le tematiche, i personaggi e gli aspetti più significativi rappresentati dall’artista all’interno delle sue illustrazioni. Oltre ad ospitare mostre temporanee, il museo custodisce una preziosa collezione di antiche maioliche di Castelli, raccolte e studiate in oltre quarant’anni di ricerca dal Processore Raffaele Paparella Treccia. La raccolta custodita all’interno di Villa Urania è composta da 146 esemplari prodotti tra il XVI ed il XIX Secolo, documentando l’evoluzione stilistica della maiolica castellana. Inoltre, il museo conserva prestigiosi dipinti che vanno dal 1400 al 1800.
I “Capricci” di Francisco Goya
La serie completa delle 80 incisioni
a cura di Michele Tavola
dal 27 aprile al 13 ottobre 2024
Augusto Di Luzio–Presidente Fondazione Paparella Treccia
Carissime amiche, carissimi amici,
le attività espositive della Fondazione Museo Paparella Treccia proseguono con le opere di un artista da noi molto amato e che ha segnato la storia dell’arte mondiale producendo opere che hanno determinato il discrimine tra l’arte antica e l’arte moderna: Francisco Goya.
Nel 2013 abbiamo inaugurato la serie di mostre dedicate all’arte dell’incisione proprio con Goya, portando a Pescara la serie delle quaranta stampe de La tauromachia; nel 2023, dieci anni dopo, abbiamo deciso di riprendere il filone esponendo la serie completa di ottanta acqueforti dedicata a I disastri della guerra. Oggi, riportiamo in città Goya con una delle sue opere più celebri e controverse, le ottanta tavole de I capricci.
La mostra, che sarà inaugurata il 27 aprile p.v., è affidata alla cura del noto critico di grafica Michele Tavola, amico e collaboratore di lunga data del nostro Museo, conservatore museale presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia.
Quando furono pubblicati, nel 1799, I capricci suscitarono un grande scandalo, considerato che Goya, in essi, mise a nudo tutti i vizi, le contraddizioni e le ingiustizie della società spagnola del tempo, al fine di denunciarne le barbarie.
È il caso di ricordare che Francisco Goya è ritenuto universalmente, insieme con Rembrandt, Tiepolo, Manet, Picasso, Morandi, tra i più grandi incisori della storia dell’arte.
Per il valore internazionale dell’artista in mostra e per il prestigio del curatore dell’evento, ci aspettiamo una numerosa partecipazione di pubblico e in particolar modo ci auguriamo il coinvolgimento dei giovani.
È importante ricordare che durante la visita alle opere di Goya si avrà la possibilità di ammirare la prestigiosa collezione di 151 esemplari di antiche maioliche di Castelli, prodotte tra il 1500 e il 1800, realizzate dai più grandi e famosi autori, fra i quali Francesco e Carlo Antonio Grue, quest’ultimo ritenuto universalmente il campione della Maiolica barocca castellana.
Tutte le informazioni relative alla mostra potrete trovarle prossimamente sul nostro sito.
In attesa di incontrarvi in Museo, invio i miei più cordiali saluti.
Augusto Di Luzio–Presidente Fondazione Paparella Treccia
Il Museo Paparella Treccia Devlet di Pescara
Il Museo è ospitato in una villa ottocentesca in stile eclettico sita nel cuore di Pescara, di fronte alla centralissima Piazza della Rinascita. Al suo interno è custodita la Collezione Paparella Treccia Devlet, frutto di 40 anni di ricerca e di studi del Professore Raffaele Paparella Treccia il quale ha donato la collezione e la villa a una fondazione intitolata a lui e a sua moglie Margherita Devlet. La raccolta è composta da 151 selezionati capolavori della maiolica artistica di Castelli, ordinati secondo un criterio cronologico, opera dei maggiori maestri castellani attivi tra il XVI e il XIX secolo, fra cui Francesco Grue (1618-1673), il figlio Carlo Antonio (1655-1723) e il nipote Francesco Antonio Saverio (1686-1746), nonché i principali esponenti delle famiglie Gentili, Cappelletti e Fuina. La decorazione delle ceramiche documenta il passaggio dallo stile “compendiario”, caratterizzato da un’essenzialità di elementi, a quello “istoriato” in cui ricorrono scene allegoriche, mitologiche, venatorie e belliche. Tra le opere di maggior pregio si segnalano la più completa testimonianza di un servito alle armi di età barocca, costituito da 19 esemplari con lo stemma del committente, eseguito nella bottega di Francesco Grue e famosi lavori di Carlo Antonio Grue, tra i quali il più antico esemplare castellano di zuppiera, e due pregevoli vasi da consolle prodotti per l’Imperatore Leopoldo I d’Austria, successivamente passati ai Savoia. Il Museo conserva anche prestigiosi dipinti ad olio, tra cui una Natività quattrocentesca, un autoritratto datato 1711 di Pietro Santi Bambocci e un acquerello su carta di Pio Joris, artista romano, del 1800. La Fondazione Paparella è impegnata a diffondere la conoscenza della maiolica di Castelli e, con le attività culturali e didattiche, a promuovere l’amore e l’interesse per l’Arte in genere.
Il Museo Paparella Treccia attualmente ospita, oltre alla collezione permanente di antiche maioliche di Castelli, anche la mostra temporanea dedicata alla serie completa delle ottanta incisioni dei Capricci di Francisco Goya, mostra curata dal critico d’arte Michele Tavola, che resterà aperta al pubblico sino al 13 ottobre 2024.
The Paparella Treccia Museum currently hosts, in addition to the permanent collection of ancient Castelli majolica, the temporary exhibition dedicated to the complete series of eighty engravings of the Capricci by Francisco Goya, an exhibition curated by the art critic Michele Tavola, which will remain open to the public until to 13 October 2024.
Il museo è aperto al pubblico dal martedì alla domenica dalle ore 9:30 alle 12:30 e dalle ore 16:30 alle 19:30.
Biglietto intero: € 7,00
Biglietto ridotto: € 5,00 (under 18, studenti, over 65, gruppi superiori alle 15 persone, soci ARCI, accompagnatori disabili, docenti di ogni ordine e grado)
Ingresso gratuito per bambini fino a 8 anni e per persone con disabilità certificata superiore al 74%.
Possibilità di visita guidata su prenotazione, 3 euro a persona oltre il costo del biglietto.
Per info: tel. 085 4223426 / +39 3756684180
e-mail: fondazionepaparella@gmail.com
*Museo Paparella – Viale Regina Margherita, 1 – 65122 PESCARA -Tel. e Fax 085 4223426 –
The museum is open from Tuesday to Sunday from 9.30am to 12.30pm and from 4.30pm to 7.30pm.
Full ticket: €7.00
Reduced ticket: €5.00 (under 18, students, over 65, groups of over 15 people, ARCI members, disabled companions, teachers of all levels)
Free entry: for children up to 8 years old and for people with certified disabilities greater than 74%.
Possibility of guided tour by reservation, 3 euros per person in addition to the cost of the ticket.
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The Museum Paparella Treccia Devlet is in Nineteenth century house situated in the heart of Pescara, on the corner of the central square Piazza della Rinascita (Piazza Salotto). Inside, there is the precious and ancient ceramic collection of Castelli, the result of 40 years of research and study by Professor Raffaele Paparella Treccia, a famous orthopaedist, who donated his collection and his house to the Foundation, inaugurated in 1997, and named by him and his wife Margaret Devlet. Castelli, a small village in the province of Teramo, located near to the Gran Sasso Mountain, it has been over the centuries one of the largest centers for the ceramic productions. Its ceramics have crossed the borders of Abruzzo and Italy until to become, especially in the Sixteenth and Seventeenth centuries, the most popular and precious ceramics, also in the main European courts. The collection exhibited in the Museum consists of 151 selected masterpieces of the ceramic art of Castelli, the work of the great Castelli masters active between the Sixteenth and Nineteenth centuries, including Francesco Grue, his son Carlo Antonio Grue, his grandson Francesco Antonio Saverio and others such as Gentili, Cappelletti and Fuina, ordered chronologically, and exposed in the main rooms of the museum. The collection documents the transition from general “compendiario”, which defines white style, characterized by extreme simplicity of the elements (XVI century), until to the Baroque where are recurring historical scenes, religious and mythological (XVII and XVIII centuries), and finally with the Neoclassical and Rococò (XVIII and XIX centuries). The Museum also preserves prestigious oil paintings, including a fifteenth-century Nativity, a self-portrait (oil on canvas) dated 1711 by Pietro Santi Bambocci and a watercolour on paper by Pio Joris, roman artist, 1800. The Paparella Foundation is committed to spreading the knowledge of the majolica of Castelli, cultural and educational activities, to increase love and interest for Art.
Ilse Weber- Il libro Quando finirà la sofferenza? Lettere e poesie da Theresienstadt-
SHOAH- Versi dal lager. Il caso Ilse Weber-
Articolo di Anna Foa-
Fonte Avvenire giornale della CEI- mercoledì 16 gennaio 2013-
Il libro Quando finirà la sofferenza? Lettere e poesie da Theresienstadt, di Ilse Weber , è il frutto di due ritrovamenti: il primo del 1945, quando il marito di Ilse, Willi Weber, tornato da Auschwitz, riportò alla luce da dove le aveva sepolte, a Theresienstadt, una cinquantina di poesie composte nel campo dalla moglie Ilse, assassinata insieme con il figlio Tomáš ad Auschwitz. Il secondo è del 1977, ed è il ritrovamento delle lettere scritte da Ilse alla sua più cara amica, Lilian von Löwenadler, figlia di un diplomatico svedese che viveva in Inghilterra, a cui nel 1939 aveva affidato il primo figlio, Hanuš, per sottrarlo ai nazisti. Ebrea, nata a Witkowitz nel 1903, Ilse, nata Herlinger, scrisse poesie e fiabe per bambini fin da giovanissima, entrando a far parte del grande mondo intellettuale ceco. Come tutti gli ebrei cechi, era di lingua tedesca. Sposatasi con Willi Weber, Ilse si dedicò poi alla famiglia, pur senza interrompere la sua attività di scrittrice. Nel 1930 aveva già pubblicato tre fortunati libri di fiabe ed era divenuta una valente musicista. Patriota della sua Cecoslovacchia, diede al suo secondo bambino il nome di Tomáš in onore del presidente Masaryk. La Cecoslovacchia degli anni Trenta era un’isola di democrazia e una crogiolo di attività intellettuali, che spiccava nel panorama degli altri Stati dell’Europa orientale, sottoposti a regimi dittatoriali e caratterizzati dal prevalere dell’antisemitismo. Nel 1939, dopo l’occupazione nazista, i Weber decisero di mandare il primo figlio Hanuš in Inghilterra, affidandolo all’amica di Ilse, che lo avrebbe lasciato in Svezia presso sua madre e che sarebbe poi morta nel 1941. Il piccolo Weber partì così insieme ad oltre seicento bambini ebrei, sottratti ai nazisti grazie all’attività di salvataggio di un agente di borsa inglese, Nicolas George Winton, e spediti in treno nell’unico paese europeo che accettò di accoglierli, l’Inghilterra. Ilse non lo avrebbe più rivisto. Nel 1942, Ilse con il marito e il piccolo Tomáš furono deportati a Theresienstadt, “il ghetto modello” da cui partivano i trasporti per Auschwitz. Qui Ilse fece l’infermiera nell’ospedale dei bambini, creando per loro e per gli altri prigionieri poesie e canzoni, suonando per loro il liuto e la chitarra. Una sua poesia, <+corsivo>Le pecore di Lidice<+tondo>, suscitò violente reazioni da parte delle SS, senza fortunatamente che Ilse ne fosse individuata come l’autrice. Un’altra, Lettera al mio bambino, indirizzata al figlio Hanuš, fu tradotta e pubblicata nel 1945 in Svezia e Hanuš poté così leggerla. Nel 1944, Willi fu per primo deportato ad Auschwitz. Poco dopo anche Ilse e Tomáš furono inseriti in un “trasporto all’Est”. Sembra che Ilse abbia scelto volontariamente la deportazione per non abbandonare i bambini a lei affidati. E qui, insieme con loro, Ilse e Tomáš furono subito mandati alle camere a gas. Tornato a Praga dopo la guerra, Willi riprese con sé il figlio, che era vissuto in Svezia affidato alla madre di Lilian, Gertrud. Un ricongiungimento difficile, perché il ragazzo, dopo quei sei anni lontano, rifiutava di parlare con il padre su quanto era avvenuto durante la Shoah. Nel 1968, dopo l’invasione da parte dei russi, divenuto giornalista e legato alla primavera praghese, Hanuš fuggì in Svezia dove si stabilì. Lentamente, alla rimozione dei suoi primi anni si sostituì il desiderio di ricostruire la sua storia. Nel 1974, Willi si preparava a raggiungere in Svezia il figlio per collaborare ad un film sui campi di concentramento che questi stava preparando, quando morì improvvisamente d’infarto. Ora questo libro, con la presentazione di Hanuš e un’ampia prefazione di Ulrike Migdal, viene a riproporci la storia di Ilse e della sua famiglia.Se la storia dei Weber è in sé una storia straordinaria, le poesie composte nel campo da Ilse sono di una struggente bellezza, mentre le sue lettere a Lilian, che vanno dal 1933 al 1944, cioè fino alla deportazione a Auschwitz, sono un eccezionale e vivissimo ritratto, oltre che della sua vita, dei suoi affetti e della sua arte, anche del suo paese, la Cecoslovacchia, man mano che l’ombra dell’antisemitismo e di Hitler si faceva più vicina. Dopo la partenza del figlio, nel 1939, la maggior parte delle lettere sono indirizzate al bambino, che Ilse cerca di seguire a distanza, della cui educazione si preoccupa, di cui lamenta la pigrizia nello scrivere, di cui sollecita il mantenimento dell’appartenenza ebraica. Le ultime lettere sono da Theresienstadt, dove Ilse fa ancora in tempo, prima della deportazione, a piangere in una lettera alla madre di Lilian la morte dell’amica. Subito dopo, Auschwitz.
Articolo di Anna Foa-Fonte Avvenire giornale della CEI- mercoledì 16 gennaio 2013-
La resistenza di Aldo Braibanti –Storia di un partigiano vero, un combattente disposto a morire per la sua gente. Uno che ha avuto meriti infiniti per la cultura del suo Paese e che ha patito la galera fascista non meno della galera democristiana.
Articolo di Francesco Simoncini
Pensare alla resistenza da questo cubicolo di stanzetta è ostico. La Resistenza è davvero un’esplosione architettonica di spazi e dolori e lancinanti vittorie. È un estendersi fino ai limiti estremi della propria coscienza, oppure un tuffo nell’angustia del fratricidio. Torniamo a questa stanzetta. Penso ad un resistente di prima categoria come fu Aldo Braibanti. Arrestato due volte, una delle quali a Villa Triste, a Firenze, tra le grinfie di quel criminale di guerra che fu Mario Carità. Torturato e poi rilasciato tornò ad impegnarsi nella resistenza con Giustizia e Libertà, segnato nella mente e nel corpo. Si laureò in filosofia: fu studioso di Spinoza e Giordano Bruno. Passò poi in forze al PCI.
Dopo la guerra fu attivo funzionario comunista, responsabile del settore giovanile, mi pare. Poi lasciò tutto, scrisse una lettera al Comitato Centrale in cui dichiarava la propria inadeguatezza al ruolo di funzionario. Si dedicò alla ceramica e alle formiche. Come Nabokov fece scienza della passione per le farfalle così lui fece per le formiche. Ne divenne studioso accanito. Mirmecologia, si chiama così quella scienza. La ceramica non fu che un aspetto della versatilità del suo ingegno vocato all’arte. Non sto qui a dire della sua produzione artistica, filmica, drammaturgica, letteraria in senso ampio. Fu amico e collaboratore di Carmelo Bene, per dirne solo uno: perché in effetti fu conosciuto e apprezzatissimo da tutta l’intellettualità italiana del dopoguerra.
Nel 1964, nel novembre, Braibanti viene arrestato. Perché, secondo l’accusa, ha plagiato un giovane ventiquattrenne, Giovanni Sanfratello. Chi muove l’accusa è il padre del giovane, che si appella ad una legge fascista, vecchia di più di trent’anni, all’epoca: legge che verrà abrogata nell’ottantuno, con sentenza della Corte Costituzionale. Ma nel sessantaquattro è purtroppo ancora in vigore. Quella costituita da Braibanti e da Sanfratello è una coppia omosessuale come quelle che oggi si incontrano molto frequentemente, e a parte i cromagnon fascisti, nessuno può commentare alcunché. Vivono insieme, come è normale che sia per una coppia. Si tratta di un quarantenne e di un venticinquenne. Non siamo fuori dalla norma, se norma ci può essere. Ma Braibanti sarà condannato a nove anni di galera, poi ridotti a sei in appello, poi ulteriormente ridotti a due per il suo passato da partigiano. Solo gli intellettuali scenderanno in campo per lui: Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Elsa Morante, Marco Bellocchio – a onor del vero anche il Partito Radicale di Marco Pannella si farà sentire. Marco Pannella ne ricaverà anche un processo per calunnia.
Piace qui ricordare che Sanfratello, nonostante i ripetuti elettroshock a cui sarà sottoposto (più di venti), chiuso in manicomio, non riconoscerà mai di essere stato plagiato; tra le misure assurde che saranno adottate nei suoi confronti c’è il divieto assoluto di leggere libri che abbiano meno di cento anni, per dire. Dopo aver scontato la condanna, Aldo Braibanti si ritirerà sempre più in sé stesso. Non smetterà di produrre capolavori di cui qui non è il caso di parlare. Morirà indigente, protetto dai quindicimila euro di reddito garantiti dalla Legge Bacchelli, a 91 anni, nel 2014.
Ho cercato di raccontare la storia di un partigiano vero, un combattente disposto a morire per la sua gente. Uno che ha avuto meriti infiniti per la cultura del suo Paese e che ha patito la galera fascista non meno della galera democristiana. Il venticinque aprile del quarantacinque non finì niente. Perché i soliti fascisti ricoprirono le stesse cariche di prima. Giudici, Prefetti, Militari, Giornalisti, Prelati, Politici. E quel che è peggio, il fascismo continuò ad essere pane quotidiano della cultura – tutta – di questo irriconoscente Paese.
Siamo tutti Aldo Braibanti.
Aldo Braibanti (Fiorenzuola d’Arda, 17 settembre 1922 – Castell’Arquato, 6 aprile 2014) è stato uno scrittore, sceneggiatore e drammaturgo italiano. Intellettuale, partigiano antifascista e poeta, nella sua vita si è occupato di arte, cinema, politica, teatro e letteratura, oltre ad essere un esperto mirmecologo.
Articolo di Francesco SIMONCINI-Fonte Ass. La Città Futura- Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi-
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