a cura di Maria Serena Sapegno-Viella Libreria Editrice Roma
Sinossi -Con questo libro viene fatto il punto sugli studi più recenti intorno a Vittoria Colonna, figura chiave della cultura italiana nel Cinquecento, protagonista della vita letteraria, religiosa e politica in Italia. Oltre a essere stata la prima italiana ‒ unica tra tutti i poeti, uomini o donne ‒ alla cui poesia sia stato dedicato un intero volume a stampa, fu anche la prima a beneficiare di un’edizione con commento mentre era in vita. Tuttavia non fu solo un’attrice di primo piano della scena letteraria del tempo. Vittoria Colonna fu, infatti, anche parte attiva delle controversie religiose e politiche del secolo XVI. Appartenente a una delle famiglie più potenti di Roma, amica tra gli altri di Bembo, Michelangelo, Pole, Ochino, la poetessa fu personalmente implicata in molte delle vicende più significative del periodo. E se la sua figura ha goduto del privilegio ‒ pressoché unico tra le letterate italiane ‒ di non scomparire mai del tutto dal canone, le interpretazioni che ne sono state date sono mutate molto nel corso del tempo. Questo libro, attraverso una disamina dell’intera produzione di Vittoria Colonna e un’analisi dello scenario più ampio, religioso e culturale, al quale partecipava, aiuta a comprendere tali interpretazioni in modo innovativo e a capire così anche tutta un’epoca.
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Dalla raccolta:Fotografie per raccontare Roma e la sua Campagna Romana.
FOTO di Franco Leggeri IL SORGERE DEL SOLE su ROMA e il suo GAZOMETRO 14 giugno 2023
“Storia del Gasometro (o Gazometro) di Roma”
Dove si trova
Lungo la via Ostiense, sul lato destro uscendo da Roma, per la precisione in via del Commercio 9/11, si impone la presenza di un’enorme struttura cilindrica, metallica che ormai fa parte del paesaggio urbano della città di Roma. Anzi, è stato definito “un pezzo pregiato dello skyline di Roma”. Si tratta del gasometro o gazometro. L’area che ospita il gasometro, fin dall’antichità, è stata deputata ad accogliere le derrate alimentari e le merci necessarie all’approvvigionamento dell’Urbe.
Nel 1863 la zona è stata attraversata dalla ferrovia costruita da Pio IX e vi è stato costruito il ponte dell’Industria (che i romani chiamano “ponte di ferro”). La presenza della ferrovia ha stimolato la crescita di alcuni insediamenti commerciali ed industriali, come il mattatoio e i Mercati Generali (dove confluivano tutta la frutta e la verdura destinate al commercio al dettaglio).
Perché è stato costruito e che cosa è
Agli inizi del XX secolo il sindaco Ernesto Nathan, uno dei migliori che abbia servito Roma, ha cominciato a promuovere una politica industriale, perciò nella zona fu costruito lo stabilimento del Gas (ora Italgas) con il Gasometro. Il gasometro è una struttura inventata nel 1789 dal fisico francese Antoine-Laurent de Lavoisier che veniva usata per accumulare il gas che in origine veniva prodotto per gassificazione del carbone e poi per cracking del petrolio.
La gassificazione è un processo chimico che permette di trasformare in monossido di carbonio, in idrogeno e in altre sostanze gassose materiali ricchi di carbonio, come per esempio carbone, petrolio o biomassa. Nel gasometro romano veniva distillato e opportunamente depurato, soprattutto il carbon fossile. Il gas veniva prodotto nei forni di distillazione e poi temporaneamente immagazzinato nei gasometri.
Quando è stato costruito
Il complesso del gasometro di Roma fu progettato nel 1909 e la struttura oggi visibile è stata preceduta da tre gasometri “minori” che sono stati costruiti dalla Samuel Cuttler & Sons di Londra tra il 1910 e il 1912. Il gas ivi prodotto veniva utilizzato sia per l’illuminazione pubblica, sia per quella domestica.
La struttura ancora visibile, in ferro, è stata messa in opera tra il 1935 e il 1937 dalla società Ansaldo di Genova e dalla tedesca Klonne Dortmund. Misura un’altezza di m 89,10 e un diametro di m 63; i pali che la compongono raggiungono una lunghezza totale di km 36; la sua capienza è di 200.000 mc di gas.
Come funziona
Il gasometro aveva la funzione di contenere il gas, dopo la sua produzione che avveniva nei forni e prima della distribuzione. Il gasometro, quando era in funzione, si alzava e si abbassava; il nostro gasometro è del tipo detto a “telescopio” che vuol dire che il cilindro interno si innalza e si abbassa, attraverso le guide laterali, indicando la quantità di gas contenuto.
I gasometri non avevano un grande capienza e quindi non potevano essere utilizzati come serbatoio a lungo termine, ma si limitavano solo a regolare a breve termine il passaggio tra la produzione del gas e il suo consumo.
Quando e perché è stato dismesso
Con la diffusione del gas metano il gasometro è caduto in disuso. Infatti nel 1960 si decide di portare a Roma il metano naturale. Nel 1970 il gas metano ha cominciato ad alimentare il quartiere di Spinaceto e nel 1981 è stata avviata la completa metanizzazione della città di Roma. La società Italgas che prima produceva il gas, attualmente si occupa solo della sua distribuzione.
Dagli anni ’90 sono state avanzate varie ipotesi di recupero del gasometro, ma ad oggi non è stato realizzato nulla. Nella zona limitrofa però, dalla fine degli anni ’90, sono stati aperti numerosi locali (discoteche, ristoranti, pub, gelaterie) e adesso il quartiere intorno al gasometro si annovera tra quelli che fanno da sfondo alla “movida” romana.
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETROFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETROFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETROFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETROFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETROFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETROFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETROFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETROFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETROFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETROFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETROFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Niente di noi saprebbe morire; ferma le tue braccia
Sulla stanza che plana e dove l’orbe immobile
Concentra l’infinito dei cieli a cui non arriviamo.
Donandomi a te con tutta la mia tristezza
T’avrei dunque piegata alla mia gola, o gioia?
Sono un raggio spezzato di qualche stella in disgrazia
Per sentir scorrere queste lacrime nel mio cuore?
Come m’appari luminosa e profana,
Con la tua chioma in cui la mia bocca ha rotolato.
Golfo del ricordo dove fanno rotta le tartane,
In un odore di miele e uva pigiata!
Ah! dovrei inghiottir la mia forza e sparire
In quest’onda sulla quale il mio bacio s’è sospeso,
Leccherò la traccia dove s’imprime il tuo essere,
Per sentirti pesare sul mio petto disteso.
Avrò goduto di te fino a sentire il mio sogno
Esplodere sotto la mia tempia. Ad ogni battito,
Proiettata al di là delle stagioni sollevatesi,
Vedevo la nostra anima con la sua ala sospesa.
Ma più batteva la sera, più credevo di sentire,
In un caos di fiori, musica e incenso,
Le nostre fronti rompere quest’ombra dove caliamo,
E questo pianto che si sarebbe allargato per sempre.
Stringiamoci! il tempo ha bisogno di nutrimento.
In lui nel gettare i nostri corpi, possiamo contemplarci
Un alone formidabile intorno a un’ossatura,
E il cielo su di noi che sembra averci oltrepassato.
MERCATO ARABO
Il gran odore familiare dalle ali di zafferano,
Diavolo giallo arrotolato nella sua corona d’aglio,
Di pimenti e cipolle. Cabili e bestiame
Che scalpicciano sotto il cielo tra lo sterco.
Frutti delle ravine che salgono in piramidi d’oro,
Imbrattando di cielo le botteghe spelate,
Ammasso bianco d’un arabo che dorme
Accanto ad angurie sgozzate.
E sempre a dominare il mezzodì dalla sua voce bruna,
Aratore del sole, discepolo delle cicogne,
Il muezzin canta.
Mendicanti e vecchi mostrano la loro faccia orba;
La moresca s’aggira più lenta.
Solo, vestito di pimenti e zeppo d’aromi,
Il mercato si solleva.
Bucce d’oro si muovono negli scoli,
L’uomo del caffè moro ha fischiato alle sue greggi,
L’odore vivente sale. E, curvo sul suo sogno,
L’uomo schiaccia una rosa e pidocchi sulla sua pelle.
IL MUEZZIN
Il silenzio ha domato la terra;
Plana la città;
La moschea ha ripreso la sua postura di sultana:
Dormicchia tra le pietre.
È aurora?
La notte ha strappato il suo scamiciato di stelle;
Fiocchi di chiarezza nevicano sul Bosforo.
Un blu sordo ha lambito le feluche; le vele
Tirano su gli ormeggi;
In uno sciabordio di perle,
E in tono minore, con le gutturali
Rose, il canto s’infrange,
Brillo d’eternità.
Splendido e scialbo,
Indossando il suo bianco mantello come una zimarra,
Canta il muezzin. La città
È un vascello morto che beccheggia verso la luce;
E riecco unico l’istante ove i terrazzi,
Scrollando la rugiada, slacciano con lentezza
La loro veste di preghiera.
SIDI-BOU MÉDINE
Uccello sfracellato di cui lo scheletro danza
Tra due cordoni
Di case morte.
Villaggio di lebbrosi, famelico di silenzio,
Dove le piaghe,
Come una zimarra,
Ricoprono le porte,
Facendo colare il cielo sul ventre delle giare,
Mettendo a crudo su canestri di pietre
Cocci di sole e brandelli di rose.
Golfo della miseria
Dove la moschea si poggia,
Dove la bellezza, come un leone riposa,
Dove lo spazio,
A dispetto del tempo e del silenzio,
Fonde,
Alla cima dei piedritti che i secoli oltrepassano,
Le ali del nulla…
LA MORTE PUÒ SOPRAFFARMI
La morte può sopraffarmi, ho teso già avanti
Le mie ali per la partenza. Sono sicura
Di trovare lassù la casa che mi è dovuta,
Dovrei affondare in più solitudine.
La mia soddisfazione sarà stare al tuo tavolo,
Dolore che unisce il ricco e il bisognoso;
Porterò nella mia sacca un po’ di sabbia,
E riaccenderemo il fuoco di San Giovanni.
Che cosa vuoi, Signore, che non puoi più dormire,
Ti ho pregato di venire a farmi visita,
Ed ecco che le mie notti ricominciano a fiorire
Con la grazia dell’angelo e della clematide.
BATTITO D’ALI
Sere d’estate così dolci, velate d’azzurre increspature,
Dove il cuore viene a morire in un battito d’ali,
Fanno gli alberi leggeri come dorati capelli
Sui quali, sognando, fluttuerebbero merletti.
Il lago ha rivestito i suoi toni di chiaroscuri
E riflette nell’acqua, dal ciel, l’unica stella…
Guardiamoci, vuoi, in fondo ai nostri occhi
Così che il nostro amore rialzi il suo velo candido.
Ah! Lasciamoci cullare dal fato divino…
Che gioia amarsi nel cuore stesso delle cose,
Gettare alla vita un dolce e lungo sguardo,
Gettare alla vita, a mani piene, delle rose.
DEMONE DELL’EQUATORE
Jeanne Dortzal
Demone dell’equatore incatenato nelle stive,
Per secoli d’ombra e passività,
Ho balzato verso i tuoi occhi con la voluttà
D’un marinaio senza luce che ritrova la sua rotta.
Sciolgo dunque quel ciel che mi divora i polsi,
D’un sol colpo, faccio saltare quelle cinghie di tela,
La mia pelle deve sentir le alghe e gli embrioni delle stelle,
Sdraiarmi sotto il cielo dentro cui ti bagni.
Origlia! la notte salta attraverso i cavi,
Si muove il mio corpo e ti chiama, i garretti tesi,
Umidi di profumi, dimoriamo a mezz’aria,
Tutto l’oceano contro la tempia, in pieno miraggio.
IL MIO LETTO È CALDO COME UNA ROSA
Entra. Il mio letto è caldo come una rosa.
L’ombra ha calato gli occhi; un odore di moschea
Si sparge tra i miei seni. Ho rimesso tutte le cose
Al loro posto effimero e, avendole mascherate,
Avendo loro, goccia a goccia, infuso il nostro sangue,
Avendole fatte inchinare, chiedere grazia
E astenersi da ogni giuramento, ho messo la mia faccia
Contro la sera, ho staccato ciò che discende
Dall’ora, ed eccomi. Che la stanza abbia un cuore
E batta. Quanto a noi, consumeremo il cielo
Con un ritmo uguale, un po’ soprannaturale,
Come conviene a due amanti agghindati di lacrime.
Entra, ho preparato la notte come una culla.
La cicogna, mia sorella, è in piedi alla porta;
La voluttà respira e i nostri corpi sono così belli
Che sembra entrare in una città morta.
All’immobilità, uniamo il grido selvaggio
Di bestie che stanno figliando. Affrettiamoci, affrettiamoci
Ad afferrare quello che passa! E, gettando sul mio strato
La tua criniera di lupo,
La tua maschera di soldato e il mio mantello di fata,
Siamo quelli che se ne ritornano, non avendo altro
Che un otre di sole e dei clamori di cane,
E che salutano la morte dal blu della loro spada.
L’OASI
È un giardino del Sud dalle fioriture giganti.
Lembi di sole, strappati dal vento,
Sanguinano tra la sabbia, e c’è un battito
Di foglie e d’acqua chiara, una canzone demente,
Chiamata degli altopiani che la primavera porta
E che irrompe in acquazzoni e ricade in bouquet.
Gli alberi hanno teso le loro braccia, la terra grida,
Un miagolio blu s’esaspera e tace,
Poi di colpo riprende con note sorde.
Un cielo zeppo di sabbia accoglie l’orizzonte,
Un silenzio sfrenato s’addensa in gocce pesanti,
E, proclamando il suo risveglio,
L’oasi canta, attraverso i tramezzi
Del sole.
EFFETTO DI LUNA
Gli uccelli hanno taciuto per molto tempo; la strada
Che conduce al cimitero è piena di grilli;
Un silenzio infinito aleggia sopra i campi
E sembra che la campagna stia origliando.
La casa si tira addosso un gran lembo di luna,
Azzurra è la notte; al largo, una canzone: il mare!
E sempre, e sempre, a dominar il mio rancore,
Questo grido disperato del mio cuor per la tua carne!
Jeanne Dortzal
Articolo e traduzione di Emilio Capaccio–Jeanne Dortzal(Nemours, distretto di Tlemcen, Algeria, 24 gennaio 1878 – Parigi, 1943) è stata un’attrice teatrale, drammaturga e poetessa algerina di lingua francese.
Dotata di grande bellezza, lasciò, ancora adolescente, l’Algeria con la madre, che si era separata dal marito, e grazie all’amicizia del poeta Pierre Guédy, con il quale più tardi ebbe un figlio, intraprese la carriera di attrice di teatro.
Pierre Guédy, che era anche amico stretto del critico teatrale e scrittore Paul Léautaud, fu uno dei primi, insieme al poeta Jean Lorrain, allo scrittore Victor Margueritte e alla stessa Jeanne Dortzal, a partecipare all’esordio del fotoromanzo letterario francese, dalle tinte blandamente erotiche, rivolto a un giovane pubblico femminile, e curato dall’editore Nilsson.
Gli esordi della Dortzal avvennero nel vaudeville con l’opera: “Le Faubourg” di Abel Hermant, poi l’attrice passò al Teatro dell’Odéon di Parigi, recintando in ruoli classici e al Teatro Francese di Anversa. In questi anni conobbe un apprezzabile successo, tanto da essere raffigurata anche su alcuni francobolli degli inizi del ‘900.
Intorno al 1910 lasciò l’attività teatrale per dedicarsi completamente alla scrittura: scrisse pezzi teatrali, alcuni racconti, ma soprattutto raccolte poetiche, tra le quali ricordiamo: Vers sur le Sable(1901); Vers l’Infini (1904); Le Jardin des Dieux (1908); Les Versets du Soleil (1921); La Croix de Sable (1927); Le Credo sur la Montagne (1934).
Morì nel 1943 distrutta dal dolore per la perdita prematura di quell’unico figlio, Pierre, avuto da Pierre Guédy.
(Articolo e traduzione di Emilio Capaccio)
Biografia di Jeanne Dortzal est une actrice et poétesse française.
Biographie de Jeanne-Françoise Thomasset (1878–1943) naît à Nemours, (aujourd’hui Ghazaouet, wilaya de Tlemcen en Algérie), le . Parmi ses souvenirs d’enfance, la promenade de Létang à Oran1.
Ramenée en France par Pierre Guédy2 (dont elle eut un fils prénommé Pierre), sa carrière d’actrice débute au Vaudeville3. Elle étudia au Conservatoire -sans doute d’art dramatique- et aussi à l’Odéon4.
Jules Massenet met en musique certains de ses poèmes5 : « L’exquis poète Jeanne Dortzal aussi est un ami de ces félins aux yeux verts, profonds et inquiétants; ils sont les compagnons de ses heures de travail ! »6. Dans Les versets du soleil en 1921, elle « chante l’Algérie, ses paysages désertiques et ses villes, ses oasis et ses fleurs, la splendeur et la solitude de ses ciels, la rudesse ou la douceur voluptueuse de ses mœurs »7.
À partir de 1930 sa renommée s’arrête, et elle se consacre à l’écriture poétique. Le Mercure de France du évoque une vie de chagrins8. Elle meurt à Viroflay le 9, brisée par la mort de son fils Pierre (1896-1942)10,11.
L’Heure bleue
Pierre Guédy fait de Jeanne l’héroïne de L’Heure bleue (coll. « La voie merveilleuse », Éditions Per Lamm Nilsson, 1898)12.
RITA LEVI MONTALCINI il 10 dicembre 1986 vince il Premio Nobel per la Medicina
RITA LEVI MONTALCINI – Premio Nobel per la Medicina-«È un’idea strampalata quanto assurda: frequentare l’Università per diventare medico! Tu, una donna?! Ah questa poi! Occuparsi di ferite, sangue, interventi chirurgici e Dio sa cos’altro. Ma chi ti ha messo in testa queste idee bislacche? È già tanto che io abbia acconsentito a farvi proseguire gli studi superiori, a voi tre figlie, dacché ritengo che una qualsivoglia attività professionale sia incompatibile con il ruolo di moglie e di madre. Non se ne parla, Rita. La nostra conversazione finisce qui.»
L’ingegner Adamo Levi si alzò dalla poltrona e andò alla finestra, volgendo ostentatamente le spalle a sua figlia. Era interdetto e intimamente furibondo e cercò di placarsi seguendo con lo sguardo le rondini che fuori si libravano garrendo verso i nuvolotti fioccosi, in quella bella giornata primaverile del 1930.
Rita, dei quattro figli avuti da Adele Montalcini, era quella che aveva rivelato più degli altri il suo stesso amore per le scienze, la sua stessa acuta e brillante mente e soprattutto la sua stessa inarrendevole caparbietà: «Nessuno mi ha messo in testa idee bislacche, papà. Ho deciso io mia sponte di studiare medicina. E vi dico anche che vorrei seguire le orme del professor Albert Schweitzer per cui, una volta laureata, andare in Africa a curare i lebbrosi» rispose educata ma risoluta, con negli occhi un lampo di sfida.
«Cosa? Andare in Africa??? Ma…ma sei impazzita, forse? In Africa! Non mi capacito, guarda. Il tuo posto è accanto ad un uomo rispettabile con cui condividere il tuo futuro e formarti una bella famiglia, come hanno fatto tua madre e tua sorella maggiore Nina» replicò l’ingegnere furioso, battendo il palmo della mano sul tavolo.
«Nel senso che dovrei rinunciare ai miei sogni come hanno fatto mamma con la pittura e Nina con la scrittura, e diventare una moglie quieta che ubbidisce al marito? No, grazie. Non sono fatta per questo e non ho attitudine a diventar madre. Voglio laurearmi in Medicina, aiutare chi soffre e trovare nuove terapie per guarire i malati. Questo solo mi interessa e spero di avere il vostro consenso, ma, sappiate» e qui Rita si produsse in una studiata pausa «che intendo perseguire i miei obiettivi e realizzare i miei sogni e sono disposta a tutto, a tutto, capite, pur di vederli concretizzati.» Era una ragazza garbata e controllata, Rita, ma caparbia e decisa: ostacoli e rifiuti non la spaventavano né arretrava mai dalle proprie decisioni, e sarebbe stato così per sempre. (…)
Questo è solo l’incipit della biografia dal titolo “Rita Levi Montalcini-Il genio e la grazia” che ho dedicato a questa straordinaria e indomita donna nel mio libro Le Indomabili-33 donne che hanno stupito il mondo(Piemme-Mondadori)
Descrizione-Il Museo di “Santa Filippa Mareri” sito in loc. Borgo San Pietro di Petrella Salto (RI) raccoglie parte dei reperti, dei documenti e dei ricordi dell’antico Monastero di San Pietro de Molito, fondato dalla Baronessa Santa nel 1228 ed abbandonato perché sommerso nel 1940, insieme al centro antico di Borgo S. Pietro, dalle acque del lago artificiale del Salto.
Petrella Salto (Rieti) Museo del Monastero di Santa Filippa Mareri
Le Suore hanno voluto che importanti testimonianze storiche del Cicolano venissero non solo conservate come é avvenuto per secoli, ma anche esposte all’ammirazione dei fedeli e alla vista degli studiosi di storia, diplomatica, sfragistica, arti locali e artigianato.
Il Museo, realizzato all’interno del nuovo Monastero, é stato inaugurato nel 1977 (progetto architettonico dell’arch. Renato Ales) ed é stato ampliato e completamente rivisto nell’allestimento nel 2000.
Il nuovo allestimento, curato dagli archh. Francesco Melaragni e Marina Campagna, propone gli oggetti e i reperti sopravvissuti e conservati (già selezionati dal dott. Vinicio Biondi e restaurati dal maestro Domenico Santarelli) secondo una chiave di lettura simbolica e suggestiva e in tre momenti tematici pregnanti.
Il primo, che da inizio al percorso di visita, vuole rievocare al visitatore l’architettura dell’antico monastero di San Pietro de Molito, non solo attraverso immagini grafiche e fotografiche, ma soprattutto attraverso la suggestione dei frammenti decorativi rimasti (capitelli, formelle, cornici, stemmi, mascheroni, campane dei secc. XII-XVIII) e dell’imponente portone ligneo a formelle di Maestro Giacomo di Bernardino del 1511.
L’antico portone ligneo invita simbolicamente, insieme a tre antichi bauli da corredo del XVII sec in cuoio decorato appartenuti alle clarisse, al viaggio indietro nel tempo e nella memoria alla scoperta, attraverso gli oggetti, di quella che era la vita di “preghiera” e la vita di “lavoro” nell’antico monastero: il secondo e terzo momento tematico del museo.
Petrella Salto – Museo del Monastero di Santa Filippa Mareri
Due volumi-vetrina, piccole architetture all’interno dell’involucro architettonico, rievocano la prima, piccola e mistica cappella, la vita di preghiera delle clarisse, custodendo in particolare gli arredi e gli oggetti sacri (secc. XVII-XVIII) della chiesa monastico-parrocchiale di San Pietro de Molito, alcuni paramenti sacri (secc. XVII-XVIII), e poi una pregevole statua lignea di madonna (sec. XIV-XV), una statua lignea di Santa Filippa (arte abruzzese sec.XV), le grate in ferro battuto, dalle quali le clarisse assistevano alle funzioni religiose, una Croce astile del 1550, la seconda, con una teoria di profonde bucature, come celle delle clarisse, la vita domestica e di lavoro del monastero, dedita alla tessitura, alla filatura, alla farmacia, custodendone gli utensili e gli oggetti di uso domestico (secc. XIII-XIX), testi, ricettari e gli strumenti della farmacia (secc. XVI-XIX), gli attrezzi per la filatura e la tessitura.
Borgo San Pietro (Petrella Salto).Il Santuario di Santa Filippa, nel quale sono conservati i resti della Santa si trova nella frazione di Borgo San Pietro. Nel comune molti sono i luoghi legati alla vita della Santa, nata da una nobile famiglia verso la fine del secolo XII, nel castello di loro proprietà della famiglia a Borgo San Pietro. La sua famiglia ne ostacolò la scelta monastica, per cui Filippa fuggì, rifugiandosi in quella che oggi viene chiamata “Grotta di Santa Filippa” (1210 m.s.l.m.), situata sopra l’abitato di Piagge (961 m.s.l.m.), e vi rimase circa tre anni, fino al 1228 quando i fratelli le donarono il castello con l’annessa chiesa di San Pietro e la Santa si trasferì nella tenuta con le sue compagne vivendo secondo la regola indicata da San Francesco per Santa Chiara e le monache di San Damiano.
In passato la località è stata anche chiamata Petrella di Cicoli. Il nome deriva dal latino petra da cui pietra e quindi pietraia. Nel 1598 ebbe luogo nella Rocca di Petrella uno dei più celebri delitti del XVI secolo, l’assassinio del conte Francesco Cenci, organizzato dalla figlia Beatrice.
Cleonice Tomassetti durante gli anni della Seconda guerra mondiale abitava a Milano, dove si era trasferita da Petrella Salto per fare la maestra. Quando il suo compagno era passato nella Resistenza aveva deciso di raggiungerlo e, nell’aprile del 1944 la giovane donna era entrata come staffetta nella stessa formazione partigiana. Era la sola donna del gruppo di 43 partigiani, prigionieri dopo il Rastrellamento della Val Grande e fucilati dai nazifascisti a Fondotoce il 20 giugno 1944
Simboli
Lo stemma e il gonfalone sono stati concessi con decreto del presidente della Repubblica del 19 marzo 2003.[7]
«D’argento, alla torre di due palchi, di rosso, mattonata di nero, ogni palco merlato di cinque alla ghibellina, finestrata di due nel palco superiore, poste in fascia, di nero, chiusa dello stesso, fondata sulla collina trapezoidale, di verde, con rocce di argento, fondata in punta, essa torre accompagnata da quattro stelle di sei raggi, di azzurro, due per parte, ordinate in palo, le più alte poste all’altezza della merlatura del palco superiore, le altre all’altezza della merlatura del palco inferiore. Ornamenti esteriori da Comune.»
Il gonfalone è un drappo partito di bianco e di rosso.
Petrella Salto
Si affaccia sul Lago del Salto questo affascinante borgo ricco di storia, arte e i reperti archeologici.
Il centro storico, ben conservato, con vicoli tortuosi, belle case, portali e finestre tre e quattrocenteschi, sorse nel sec. XI su uno sperone difendibile dalle invasioni, nell’ambito del fenomeno dell’incastellamento, molto diffuso nella zona.
Dai Mareri, feudatari di Petrella, nacque Filippa: l’incontro con san Francesco rafforzò la sua vocazione religiosa e santa Filippa fondò il primo monastero delle Clarisse nel regno di Napoli, trasformando il Castello e la Chiesa di San Pietro di proprietà della famiglia; crebbe nel tempo la devozione per la santa alla quale sono attribuiti moltissimi miracoli.
Da non perdere il borgo e i suoi eleganti palazzi medievali e rinascimentali, con portali, finestre, cornici e architravi scolpiti; la Rocca della Petrella, la Chiesa di Santa Maria, con brani di affreschi e fregi di grande interesse, recentemente restaurata; il Museo di Santa Filippa Mareri a Borgo San Pietro, con i resti dell’antico monastero sommerso dalle acque del lago artificiale, e la biblioteca, ricca di pergamene e bolle papali del sec. XII .
Nel 1598 nella Rocca di Petrella si consumò uno dei più celebri delitti del XVI secolo, l’assassinio di Francesco Cenci, organizzato dalla figlia Beatrice.
Alla sua figura, spesso romanzata, Petrella è legata indissolubilmente, come peraltro a quella opposta, di Santa Filippa.
Sulle rive del Lago del Salto potete gustare piatti a base di tartufo e funghi porcini; ottime anche le carni locali, il pesce di lago con l’anguilla allo spiedo o la trota tartufata; tra i molti prodotti PAT, la castagna rossa del Cicolano, le pere sciroppate al mosto, gli gnocchi di castagne, i ravioli di patate o con crema di castagne, la cicerchia e i tersitti de’girgenti, ai quali curiosamente dà il nome una località fondata da agrigentini.
***Prima di programmare una visita si consiglia di contattare il luogo
“La Terra dei Giganti. Studi di Archeologia e Storia in memoria di Giovanni Mannino”
Angelo Mazzotta editore
Esce in libreria il volume “La Terra dei Giganti. Studi di Archeologia e Storia in memoria di Giovanni Mannino”. Il volume curato da Alfonso Lo Cascio e da Antonino Filippi raccoglie il contributo di 19 studiosi: Giuseppina Battaglia, Alberto Cazzella, Massimo Cultraro, Franco D’Angelo, Rosanna De Simone, Sara Di Salvo, Antonino Filippi, Rossella Giglio Cerniglia, Caterina Greco, Domenico Laudicina, Alfonso Lo Cascio, Giuseppe Lo Iacono, Marcello A. Mannino, Ferdinando Maurici, Giulia Recchia, Alberto Scuderi, Francesca Spatafora, Sebastiano Tusa, Stefano Vassallo.
Le dinamiche storiche e archeologiche che hanno interessato la Sicilia e l’Isola di Malta dalla Preistoria al Medioevo sono il tema dei contributi che arricchiscono questo volume, scritto da specialisti del settore, con approfondimenti sulle più recenti scoperte, frutto di scavi, indagini nel territorio e nei magazzini dei musei siciliani. Si scopre così che le nostre conoscenze sulle antiche culture testimoniate nell’Isola si legano strettamente all’attività di ricerca di un uomo, Giovanni Mannino, che per oltre mezzo secolo è stato uno dei protagonisti della cultura siciliana e al quale, come dimostra la sua lunga bibliografia, molto dobbiamo sulle attuali conoscenze in diverse discipline, all’Archeologia alla Speleologia.
I curatori del libro: Alfonso Lo Cascio, giornalista pubblicista, è Presidente regionale di BCsicilia. Ha dato vita all’Università Popolare di Termini Imerese. È Direttore della rivista Espero che si occupa di cultura, politica, informazione, e fondatore della Casa editrice Don Lorenzo Milani. È inoltre Direttore responsabile della rivista “Galleria, Rassegna semestrale di cultura”. Tra le sue pubblicazioni: “Himerensis, Agenda dei paesi del termitano”, “La riserva di Pizzo Cane, Pizzo Trigna e Grotta Mazzamuto”, “Un eroe semplice”. “1943: la Reconquista dell’Europa”, “Il futuro delle città. Memoria, identità, bellezza, nuovo umanesimo”. Per il suo impegno culturale gli sono stati conferiti i premi “Quattro arcangeli”, “Sikelè”, “Gaia”, “Civitas”, “La Campana di Burgio” e “Paolo Amato – Città di Ciminna”.
Antonino Filippi, è laureato in Archeologia presso l’Università di Palermo e attualmente conduce un progetto di Dottorato di ricerca sulla Protostoria siciliana presso l’Università di Roma “Tor Vergata”. Per conto della Regione Siciliana è Ispettore Onorario del Parco Archeologico di Segesta. Vicedirettore nazionale dei Gruppi Archeologici d’Italia, con l’incarico di Responsabile scientifico della rivista “Archeologia”. È socio ordinario dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. Ha partecipato a diverse attività di ricerca, con oltre quaranta pubblicazioni sull’archeologia e la topografia antica del territorio siciliano, tra le quali quattro monografie e la curatela con altri autori di due convegni scientifici.
La Terra dei Giganti
Il libro è pubblicato da Angelo Mazzotta editore, prezzo € 24.90. Per informazioni: mazzottaeditor@libero.it tel. 392.7194229.
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-
SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Brevissimi cenni storici –La sua origine risale alla prima metà dell’XI secolo. Ben presto passò dai suoi più antichi feudatari, i Baronisci, all’Abbazia di Farfa, della quale seguì le vicende storiche fino al XVIII secolo; all’atto pratico fu comunque amministrata dalle potenti famiglie che avevano la commenda dell’abbazia (gli Orsini, i Farnese, i Barberini e i Lante Della Rovere). Sotto gli Orsini, venne ceduta a un loro protetto, il barone Galeotto Ferreoli, il quale mostrò subito una natura violenta e arrogante e sottopose la popolazione a ogni tipo di sopruso: gli abitanti, stanchi di sopportare le sue violenze, lo uccisero insieme ai familiari e alla servitù. Il toponimo si configura come una formazione prediale con il suffisso -ANUS, ma non è chiaro l’eventuale antroponimo latino da cui si sarebbe originato. Conserva i resti delle mura medievali e di un’antica fortezza, dagli storici identificata con il palazzo fatto erigere dal barone Ferreoli e poi distrutto dalla popolazione dopo l’assassinio del tirannico signore. Tra gli edifici religiosi spicca la parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo: edificata nel XVIII secolo, a pianta ellittica, è caratterizzata da due eleganti campanili simmetrici sulla facciata e all’interno custodisce una pregevole tela bizantineggiante del Quattrocento, raffigurante la Madonna con il Bambino; interessanti sono anche la chiesa di San Diego e l’attiguo convento francescano, risalenti alla fine del Cinquecento.
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-
Comune di Salisano
Salisano è uno dei paesi piu caratteristici della Sabina, si affaccia sulla valle del Farfa, la sua origine risale alla prima metà del XI secolo.
Questo borgo è situato a 460 m s.l.m. sulle propaggini dei monti sabini e viene attraversato dal torrente Farfa.
Fa da cornice a questo meraviglioso borgo la catena montuosa del Tancia, molto suggestiva è la contrapposizione geografica al colle vicino dove c’è Mompeo, altrettanto belli e suggestivi sono i piani di Salisano che si trovano più in alto verso Tancia.
Il nome Salisano sembra avere origine a causa del fatto che l’unica via d’accesso al paese metteva a dura prova la resistenza fisica delle persone che intendevano raggiungerlo e secondo la tradizione poteva essere percorsa esclusivamente da chi era fisicamente sano, da qui salisano, ovvero Sali solo se sei sano.
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-
Comune di Salisano
Sede: Salisano (Rieti) Date di esistenza: sec. IX –
Intestazioni:
Comune di Salisano, Salisano (Rieti), sec. IX -, SIUSA
Già insediamento romano, dove sorgevano numerose ville di età imperiale, Salisano compare in epoca medievale nell’ 840 quando è citato in un diploma di Lotario I tra i possedimenti dell’Abbazia di Farfa. Attorno alla prima metà dell’XI sec. fu feudo dei Baronisci dai quali lo recuperò l’abate Berardo nel 1052; nel corso del secolo la proprietà si arricchì di diverse donazioni di cui l’Abazia ebbe in seguito ratifica dall’imperatore Enrico V nel 1118, da Urbano VI nel 1262 e da Benedetto XII nel 1339. [espandi/riduci]
Condizione giuridica:
pubblico
Tipologia del soggetto produttore:
ente pubblico territoriale
Bibliografia:
TARQUINIUS, Villeggiature Sabine: Salisano, in “Terra Sabina”, 8, 1924
Salisano: nascita e sviluppo di un Castello Sabino, Roma, Fornasiero editore, 2003
AA.VV., Città e paesi del Lazio, Roma, Editrice Romana s.p.a, 1997
Grappa, C., Storia dei paesi della provincia di Rieti, Poggibonsi, Lalli, 1994
Palmegiani, F., Rieti e la regione Sabina. Storia arte, vita usi e costumi del secolare popolo sabino, Roma, Secit, 1988
Gurisatti, g., Picchi, D., Salisano: formazione e sviluppo del centro antico, Salisano, Comune di Salisano, stampa 1988
Redazione e revisione:
Barbafieri Adriana, 2007/11/03, revisione
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Comune di Salisano Il popolo sabino, giunto dalle coste adriatiche, si stanziò intorno al secolo X-IX a.c. nella regione laziale a Nord Est di Roma, in centri quali: Reate (Rieti), Amiternum (presso l’Aquila), Nursia (Norcia), Fidenae, Cures, Nomentum (Mentana). Numerosi sono i riferimenti nella tradizione storica della partecipazione sabina alla fondazione di Roma, quale l’episodio famoso del ratto delle sabine, parzialmente confermato da elementi linguistici, per i quali non è possibile dubitare della partecipazione dei sabini al sinecismo iniziale di Roma. Nel 290 a.c. Curio Dentato conquistò tutto il territorio sabino, riducendo la popolazione a cives sine suffragio, fino a quando nel 268 a.c. ottennero piena cittadinanza essendo gradualmente assorbiti dallo stato romano. Allo stesso console romano si deve, alcuni anni dopo, il primo prosciugamento della paludosa piana reatina con l’apertura della “cava curiana” che dette luogo alla “Cascata delle Marmore”. Dopo un forte terremoto nel 174 a.c., il sorgere di numerose ville romane nella Sabina testimoniano un cambiamento nella riorganizzazione del territorio e dell’agricoltura. Furono chiamate villae rusticae, come ad esempio “i Casoni”, una villa romana attribuita a Varrone, sorta vicino all’odierno Poggio Mirteto. Intorno al II secolo a.c., il propagarsi del cristianesimo fu marcato da una serie di segni importanti: catacombe, chiese, cappelle. Testimonianze di ciò nella Sabina si ritrovano nelle rovine dell’antico municipio romano di Forum Novum, in località Vescovio, nel territorio di Torri in Sabina, costruito all’incrocio di due strade secondarie che collegavano il nuovo centro con la via Flaminia e la via Salaria. Di particolare interesse è anche la cattedrale edificata nelle vicinanze del Forum risalente allo stesso periodo di costruzione di questo. Notevole è il ciclo pittorico realizzato che scandisce i muri laterali. Sulla parte destra sono raffigurate scene dell’antico testamento, alcune delle quali divenute oggi quasi illeggibili. Sulla parete sinistra sono invece rappresentati momenti del nuovo testamento. L’interno, ad una sola navata, non è stato stravolto da rifacimenti in età moderna per la perdita di importanza della stessa sede diocesana traslata a Magliano Sabina. Livio e Dionigi d’Alicarnasso ricordano, nel periodo regio e repubblicano, guerre tra sabini e romani, fino a quando, nel 449, Roma riportando una vittoria definitiva, occupò Cures, Nomentum e Fidenae. In età longobarda, la Sabina fu invece divisa tra i ducati di Roma e Spoleto. Risale al VI secolo, con il diffondersi del cristianesimo e del monachesimo, la fondazione dell’Abbazia di Farfa la quale, insieme ai contigui edifici monastici, furono completamente distrutti dall’invasione longobarda. Sotto l’abate Ugo I° l’abbazia attraversò un fulgido periodo storico protetta dai Carolingi, in primis da Carlo Magno. Intorno all’abbazia, in virtù dell’opera dei monaci seguaci della regola di S. Benedetto, si sviluppò un borgo attivo di artigiani e di contadini in modo da vendere i loro prodotti nelle frequenti fiere che si svolgevano a Roma. Nel XII secolo la Sabina, con il declino del potere dell’Abbazia e il continuo affermarsi del dominio dello Stato pontificio, vide potenti famiglie feudatarie quali i Savelli, gli Orsini e i Colonna insediarsi in questa zona. Nel 1861 venne unificata all’Umbria e soltanto nel 1923 fu nuovamente aggregata al Lazio, costituendo poi, nel 1927 gran parte della nuova provincia di Rieti.
Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-Biblioteca DEA SABINA- SALISANO (Rieti) nel Fotoreportage di Paolo GENOVESI-
Biografia di Aldo Palazzeschi, pseudonimo di Aldo Giurlani è nato a Firenze nel 1885 ed è morto a Roma nel 1974.Le sue raccolte di poesia: I cavalli bianchi (1905), Lanterna (1907), Poemi (a cura di Cesare Blanc, 1909), E lasciatemi divertire (1910), L’incendiario 1905-1909 (1910), Poesie 1904-1914 (1925), Poesie (1930), Poesie 1904-1914 (1942), Piazza San Pietro (illustrazioni di Mino Maccari, 1945), Difetti 1905 (1947), Viaggio sentimentale (1955), Schizzi italo-francesi (1966), Cuor mio (1968), Via delle cento stelle 1971-1972 (1972), Tutte le poesie (Mondadori, 2002). Tra i suoi romanzi: Il codice di Perelà (1911), Sorelle Materassi (1934), Roma (1953), Il Doge (1967). Ha esordito come poeta crepuscolare, aderendo poi al futurismo. Negli anni successivi, si è fatto interprete di un realismo attraversato da una vena ironica e giocosa
Il Meridiano propone, per la prima volta, tutta l’opera poetica di Aldo Palazzeschi, riproducendo interamente le prime raccolte (praticamente irreperibili, a parte qualche riedizione sporadica), poi riviste e rimaneggiate dall’autore. Perché sia visibile il percorso poetico di Palazzeschi, è proposta anche l’ultima edizione del corpus delle “Poesie”. Il ricco apparato a cura di Adele Dei, docente di letteratura italiana all’Università di Firenze, si giova di numerose fonti documentarie.
Aldo Palazzeschi
POESIE
Chi sono? Chi sono?
Son forse un poeta?
No certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
follìa.
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non à che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
malinconia.
Un musico allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
nostalgìa.
Son dunque… che cosa?
Io metto una lente
dinanzi al mio core,
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
Comare Coletta “Saltella e balletta
comare Coletta!
Saltella e balletta!”
Smagrita, ricurva, la piccola vecchia
girando le strade saltella e balletta.
Si ferma la gente a guardarla,
di rado taluno le getta denaro;
saltella più lesta la vecchia al tintinno,
ringrazia provandosi ancora
di reggere alla piroetta.
Talvolta ella cade fra il lazzo e le risa:
nessuno le porge la mano.
“Saltella e balletta
comare Coletta!
Saltella e balletta!”
– La tua parrucchina, comare Coletta,
ti perde il capecchio!
– E il bel mazzolino, comare Coletta,
di fiori assai freschi!
– Ancora non hanno lasciato cadere
il vivo scarlatto.
– Ricordan quei fiori, comare Coletta,
gli antichi splendori?
– Danzavi nel mezzo ai ripalchi,
n’è vero, comare Coletta?
Danzavi vestita di luci, cosparsa di gemme,
E solo coperta di sguardi malefici, vero?
– Ricordi le luci, le gemme?
– Le vesti smaglianti?
– Ricordi gli sguardi?
– Ricordi il tuo sozzo peccato?
– Vecchiaccia d’inferno,
tu sei maledetta.
“Saltella e balletta
comare Coletta!
Saltella e balletta!”
Ricurva, sciancata,
provandosi ancora di reggere alla piroetta,
s’aggira per fame la vecchia fangosa;
trascina la logora veste pendente a brandelli,
le cade a pennecchi di capo il capecchio
fra il lazzo e le risa,
la rabbia le serra la bocca
di rughe ormai fossa bavosa.
E ancora un mazzetto
di fiori scarlatti
le ride sul petto.
“Saltella e balletta
comare Coletta!
Saltella e balletta”
Aldo Palazzeschi
La fontana malata Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchette,
chchch…
È giù,
nel cortile,
la povera
fontana
malata;
che spasimo!
Sentirla
tossire.
Tossisce,
tossisce,
un poco
si tace…
di nuovo.
Tossisce.
Mia povera
fontana,
il male
che hai
il cuore
mi preme.
Si tace,
non getta
più nulla.
Si tace,
non s’ode
rumore
di sorta
che forse…
che forse
sia morta?
Orrore
Ah! No.
Rieccola,
ancora
tossisce,
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
chchch…
La tisi
l’uccide.
Dio santo,
quel suo
eterno
tossire
mi fa
morire,
un poco
va bene,
ma tanto…
Che lagno!
Ma Habel!
Vittoria!
Andate,
correte,
chiudete
la fonte,
mi uccide
quel suo
eterno tossire!
Andate,
mettete
qualcosa
per farla
finire,
magari…
magari
morire.
Madonna!
Gesù!
Non più!
Non più.
Mia povera
fontana,
col male
che hai,
finisci
vedrai,
che uccidi
me pure.
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch…
Aldo Palazzeschi
I Fiori Non so perché quella sera,
fossero i troppi profumi del banchetto…
irrequietezza della primavera…
un’indefinita pesantezza
mi gravava sul petto,
un vuoto infinito mi sentivo nel cuore…
ero stanco, avvilito, di malumore.
Non so perché, io non avea mangiato,
e pure sentendomi sazio come un re
digiuno ero come un mendico,
chi sa perché?
Non avvevo preso parte
alle allegre risate,
ai parlar consueti
degli amici gai o lieti,
tutto m’era sembrato sconcio,
tutto m’era parso osceno,
non per un senso vano di moralità,
che in me non c’è,
e nessuno s’era curato di me,
chi sa…
O la sconcezza era in me…
o c’era l’ultimo avanzo della purità.
M’era, chi sa perché,
sembrata quella sera
terribilmente pesa
la gamba
che la buona vicina di destra
teneva sulla mia
fino dalla minestra.
E in fondo…
non era che una vecchia usanza,
vecchia quanto il mondo.
La vicina di sinistra,
chi sa perché,
non mi aveva assestato che un colpetto
alla fine del pranzo, al caffè;
e ficcatomi in bocca mezzo confetto
s’era voltata in là,
quasi volendo dire:
“ah!, ci sei anche te”.
Quando tutti si furno alzati,
e si furono sparpagliati
negli angoli, pei vani delle finestre,
sui divani
di qualche romito salottino,
io, non visto, scivolai nel giardino
per prendere un po’ d’aria.
E subito mi parve d’essere liberato,
la freschezza dell’aria
irruppe nel mio petto
risolutamente,
e il mio petto si sentì sollevato
dalla vaga e ignota pena
dopo i molti profumi della cena.
Bella sera luminosa!
Fresca, di primavera.
Pura e serena.
Milioni di stelle
sembravano sorridere amorose
dal firmamento
quasi un’immane cupola d’argento.
Come mi sentivo contento!
Ampie, robuste piante
dall’ombre generose,
sotto voi passeggiare,
sotto la vostra sana protezione
obliare,
ritrovare i nostri pensieri più cari,
sognare casti ideali,
sperare, sperare,
dimenticare tutti i mali del mondo,
degli uomini,
peccati e debolezze, miserie, viltà,
tutte le nefandezze;
tra voi fiori sorridere,
tra i vostri profumi soavi,
angelica carezza di frescura,
esseri pura della natura.
Oh! com’è bello
sentirsi libero cittadino
solo,
nel cuore di un giardino.
-Zz… Zz
-Che c’è?
-Zz… Zz…
-Chi è?
M’avvicinai donde veniva il segnale,
all’angolo del viale
una rosa voluminosa
si spampanava sulle spalle
in maniera scandalosa il décolletè.
-Non dico mica a te.
Fo cenno a quel gruppo di bocciuoli
che son sulla spalliera,
ma non vale la pena.
Magri affari stasera,
questi bravi figliuoli
non sono in vena.
-Ma tu chi sei? Che fai?
-Bella, sono una rosa,
non m’hai ancora veduta?
Sono una rosa e faccio la prostituta.
-Te?
-Io, sì, che male c’è?
-Una rosa!
-Una rosa, perché?
All’angolo del viale
aspetto per guadagnarmi il pane,
fo qualcosa di male?
-Oh!
-Che diavolo ti piglia?
Credi che sien migliori,
i fiori,
in seno alla famiglia?
Voltati, dietro a te,
lo vedi quel cespuglio
di quattro personcine,
due grandi e due bambine?
Due rose e due bocciuoli?
Sono il padre, la madre, coi figlioli.
Se la intendono… e bene,
tra fratello e sorella,
il padre se la fa colla figliola,
la madre col figliolo…
Che cara famigliola!
È ancor miglior partito
farsi pagar l’amore
a ore,
che farsi maltrattare
da un porco di marito.
Quell’oca dell’ortensia,
senza nessun costrutto,
fa sì finir tutto
da quel coglione del girasole.
Vedi quei due garofani
al canto della strada?
Come sono eleganti!
Campano alle spalle delle loro amanti
che fanno la puttana
come me.
-Oh! Oh!
– Oh! ciel che casi strani,
due garofani ruffiani.
E lo vedi quel giglio,
lì, al ceppo di quel tiglio?
Che arietta ingenua e casta!
Ah! Ah! Lo vedi? È un pederasta.
-No! No! Non più! Basta
-Mio caro, e ci posso far qualcosa
io,
se il giglio è pederasta,
se puttana è la rosa?
-Anche voi!
-Che maraviglia!
Lesbica è la vaniglia.
E il narciso, quello specchio di candore,
si masturba quando è in petto alle signore.
-Anche voi!
Candidi, azzurri, rosei,
vellutati, profumati fiori…
-E la violaciocca,
fa certi lavoretti con la bocca…
-Nell’ora sì fugace che v’è data…
-E la medesima violetta,
beghina d’ogni fiore?
fa lunghe processioni di devozione
al Signore,
poi… all’ombra dell’erbetta,
vedessi cosa mostra al ciclamino…
povero lilli,
è la più gran vergogna
corrompere un bambino
-misero pasto delle passioni.
Levai la testa al cielo
per trovare un respiro,
mi sembrò dalle stelle pungermi
malefici bisbigli,
e il firmamento mi cadesse addosso
come coltre di spilli.
Prono mi gettai sulla terra
bussando con tutto il corpo affranto:
-Basta! Basta!
Ho paura.
Dio,
abbi pietà dell’ultimo tuo figlio.
Aprimi un nascondiglio
fuori della natura!
Ferdinand du Puigaudeau -pittore impressionista francese
Breve biografia di Ferdinand du Puigaudeau fu un pittore impressionista francese noto per le sue rappresentazioni colorate di fiere di campagna, fuochi d’artificio e tramonti. Fondendo elementi di simbolismo e neoimpressionismo con l’impressionismo tradizionale, i dipinti di Du Puidgaudeau hanno contribuito al movimento con una voce estetica unica. Nato il 4 aprile 1864 a Nantes, in Francia, fu in gran parte autodidatta prima di arrivare alla famosa colonia di artisti di Pont-Aven nel 1886, dove conobbe Paul Gauguin . Tramite il rivenditore Paul Durand-Ruel, uno dei dipinti di Du Puigaudeau è stato acquistato da Edgar Degas, che sarebbe diventato uno dei suoi amici più cari. All’inizio del 1900, l’artista ha viaggiato a Venezia dove ha prodotto una serie di importanti tele raffiguranti i luoghi iconici della città. Nonostante il suo plauso, l’artista viveva spesso con la sua famiglia sull’orlo della povertà. Nei decenni successivi, l’artista ha subito una serie di battute d’arresto che lo hanno lasciato amareggiato e depresso. Du Puigaudeau morì il 19 settembre 1930 a Le Croisic, in Francia. Oggi, le sue opere sono conservate, tra le altre cose, nelle collezioni del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, del Museo d’Arte di Indianapolis e del Musée des Beaux-Arts de Quimper in Francia.
Nelle sue tele ha dimostrato l’uso sapiente dei colori da cui sono nati meravigliosi paesaggi, particolari chiaroscuri e la luce che fa da vera protagonista in alcuni casi.
FONTE-Nuova Rivista Letteraria
Ferdinand du PuigaudeauFerdinand du Puigaudeau
Ferdinand Loyen Du Puigaudeau was born in Nantes on 4 April 1864. The year 1882 marked the beginning of his artistic life. He taught himself to paint, by travelling to Italy and Tunisia. The first of his known works was dated in 1886. In that year he visited Pont-Aven. There, Puigaudeau befriended Charles Laval and Gauguin, with whom he decided to travel to Panama and Martinique. Unfortunately, Ferdinand was unable to join his friends, as he was enlisted. In 1889 he travelled to Belgium, where he met various members of the Groupe des XX. In 1890, he presented one of his works at the Salon of the Société Nationale des Beaux Arts; his father introduced him to the dealer Paul Durand-Ruel who exhibited some of his works. He got married on 7 August 1893 in Saint-Nazaire, and had one daughter: Odette.
In 1895 he settled down in Pont-Aven for three years, and was often in the company of the American painters Harrisson and Childe Hassam. He drew inspiration from roundabouts and country fairs for some of his most beautiful paintings. In 1897 Degas bought one of his Fireworks through the dealer Durand-Ruel, an event which marked the beginning of a friendship between the two artists. That same year he travelled to the south of France. Towards 1899-1900, Puigadeau’s family moved to Sannois, near Paris. 1903 was the year of his first personal exhibition at the Galerie des Artistes Modernes, and his break-up with Durand-Ruel.
Puigaudeau travelled to Venice in 1904, where he produced over fifty paintings on that subject. When he returned to France, the exhibition he had been planning fell through. Impoverished, Puigaudeau had to leave Paris. He moved to the village of Bourg de Batz, in Loire Atlantique, where some friends lent him a villa. He recovered, found a new dealer in Nantes (Préaubert), and exhibited his works in various regional Salons.
In 1907, Puigaudeau rented the manor of Kervaudu, and settled down definitively on the peninsula of Guérande. In 1913 he took part in the foundation of the artistic group of Saint-Nazaire. The Great War of 1914 isolated him from the rest of the world. Degas himself called him the hermit of Kervaudu due to his secluded and solitary existence. In 1919 he began to prepare an exhibition in New York, and worked on it for four years, but it was cancelled at the last minute. This failure had terrible repercussions on him-the painter fell into a state of depression and alcohol abuse. In 1924 he illustrated the novel La Brière, by Alphonse de Chateaubriant. He died on 19 September 1930, surrounded by his wife and daughter.
Antoine Laurentin
Ferdinand du PuigaudeauFerdinand du Puigaudeau
Ferdinand Loyen Du Puigaudeau
(1864 – 1930)
Ferdinand Loyen del Puigaudeau, nel corso della sua vita, si è dedicato a molti stili di pittura
benché lo si consideri generalmente un impressionista, ad esempio ha dipinto scene di genere, scene di donne al lavoro o che discutono fra loro alla maniera naturalista Spesso si allontana da quello che è il suo modello perchè preso dalla disposizione dei personaggi e spesso non utilizza degli schemi caratteristici di una particolare corrente pittorica…
alcune delle sue tele ricordano senza dubbio il “synthétisme”, c’è ingenuità nella rappresentazione delle feste popolari, che le rende magiche
Puigaudeau si avvicina ai “symbolistes” a Bruxelles ed in Italia, ma la parte più importante della sua opera sono i paesaggi
la scuola di ponte-Aven su di lui ha svolto un ruolo liberatorio, al contatto di questi vari movimentiFerdinand du Puigaudeau ha saputo togliersi il marchio di impressionista puro, la sua pittura diventa più descrittiva e sembra poco influenzato dalle idee rivoluzionarie di ponte-Aven
egli li cerca di osservare “il fogliame che freme„, “i riflessi delle onde„, “le trasparenze di seta del cielo„
suo cugino Alphonse de Châteaubriant ha detto di lui: “C’è molto certamente in te, della natura, dell’essenza dei conteplativi….„ i suoi temi favoriti sono i fiori, gli effetti atmosferici, i giochi d’acqua e di luce
Si può quindi dire che Ferdinand Loyen du Puigaudeau è ciò che si potrebbe chiamare un piccolo maestro della pittura
possiede cioè un un talento innegabile ma che non è stato riconosciuto per il suo giusto valore, almeno così io la penso
nel 1890, realizza la sua prima esposizione al Beaux-Arts e l’accademia gli proporrà una borsa di studio che rifiuterà, cosa apprezzabilissima, perchè vuole conservare l’indipendenza relativa al suo stile
l’appellativo “L’ermite de Kervaudu” gli è stato dato a ragion veduta benché non sia riconosciuto come un maestro, il lavoro di Puigaudeau sui giochi di luci è impressionante e la sua polivalenza in materia di stile dà alla sua pittura una ricchezza ed una varietà straordinarie
io incontrai per la prima volta questo pittore, che a me personalmente piace molto, molti, molti anni fa, erano soltanto 70 tele, ma me le sono ricordate per molto tempo
piccola biografia
Il 4 aprile 1864 nasce a Nantes Ferdinand Loyen du Puigaudeau. Molto presto il bambino è affidato a suo zio Henri de Chateaubriant, che lo incoraggia a seguire i suoi doni artistici.
La sua scolarità, molto classica lo conduce in diversi collegi da Parigi a Nizza ma l’anno 1882 segna l’inizio della sua vita d’artista, il giovane decide di formarsi solo, viaggiando in Italia, quindi in Tunisia.
La prima delle sue opere che ci sia pervenuta è datata del 1886, anno in cui decide di recarsi a ponte-Aven, meta ben nota di tutti i pittori dell’Europa. Puigaudeau stringe amicizia con Charles Laval e con Gauguin.
La loro relazione è particolarmente forte e nel 1887 pensano di partire tutti e tre alla volta Panama e della Martinica.
Ahimè Ferdinand, chiamato piccolo da Gauguin non potrà aggiungersi ai suoi amici perchè l’esercito che lo convoca per effettuare il suo servizio militare
Ferdinand du PuigaudeauFerdinand du PuigaudeauFerdinand du PuigaudeauFerdinand du PuigaudeauFerdinand du PuigaudeauFerdinand du PuigaudeauFerdinand du Puigaudeau
Virginia Woolf-Pensieri di pace durante un’incursione aerea (agosto 1940)
TOMMASO MONTANARI
TOMMASO MONTANARI:” Nadia Fusini ha tradotto in questi giorni questo testo struggente, e lo ha fatto come atto di resistenza alla guerra: a questa sporca guerra di conquista nazionalista, e ad ogni altra guerra. Pubblicarlo qui oggi è il nostro modo di essere vicini alle donne ucraine sotto le bombe russe, e alle donne russe le cui vite sono ora diversamente distrutte. Nessuno come Virginia Woolf ha saputo esprimere la radicale alterità delle donne rispetto alla guerra: eterno “gioco” bestiale dei maschi, frutto della loro (della nostra) puerile e omicida volontà di potenza. Se qualcuno avesse ancora un dubbio sul fatto che liberarsi dal dominio maschile (nei pensieri, nelle parole, nelle opere) non è un obiettivo (solo) delle donne, ma di tutta l’umanità, questo drammatico 8 marzo di guerra serve a toglierselo una volta per tutte”. (Tomaso Montanari)
Adeline Virginia Woolf
Adeline Virginia Woolf (Londra 1982 – Rodmell 1941) –I tedeschi erano su questa casa la notte scorsa e quella prima. Eccoli di nuovo. È una strana esperienza stare sdraiati al buio e sentire il ronzio di un calabrone che in qualsiasi momento può pungerti a morte. È un rumore che interrompe il pensiero freddo e coerente della pace. Eppure è un rumore che assai più delle preghiere e degli inni dovrebbe costringerci a pensare alla pace. A meno di non riuscire a pensare alla pace, ognuno di noi, ognuna di noi – non questo corpo qui, in questo letto, bensì milioni di corpi non ancora nati – rimarremo al buio ad ascoltare questo rantolo di morte sulla testa. Cerchiamo di pensare che cosa si può fare per creare il solo rifugio antiaereo efficace, mentre in collina i cannoni sparano e i fari tastano le nuvole, e qua e là, a volte vicino, a volte lontano, cade una bomba.
Su in cielo dei giovani uomini inglesi e dei giovani uomini tedeschi si combattono. Sono uomini i difensori, sono uomini gli attaccanti. Alla donna inglese non vengono consegnate le armi, né per combattere il nemico, né per difendersi. Lei deve giacere al buio disarmata stanotte. Eppure se crede che il combattimento in cielo è una battaglia tra gli inglesi per proteggere la libertà, e i tedeschi per distruggere la libertà, anche lei deve lottare, per quanto può, dalla parte degli inglesi. Ma come può lottare per la libertà senza armi da fuoco? Fabbricando armi, oppure vestiti o cibo. Ma c’è un altro modo di combattere per la libertà senza armi; possiamo combattere con la mente. Possiamo ‘fabbricare’ idee, che aiuteranno il giovane uomo inglese che combatte su in cielo a sconfiggere il nemico.
Ma perché le idee siano efficaci, dobbiamo essere in grado di spararle. Dobbiamo metterle in atto. Così il calabrone in cielo risveglia un altro calabrone nella mente. Ce n’era uno questa mattina, che ronzava nel Times; era una donna che diceva: “Le donne non hanno voce nelle questioni politiche”. Non c’è nessuna donna nel Gabinetto; né in nessun posto di responsabilità. Tutti quelli che producono le idee, e sono in grado di attuarle, sono uomini maschi. Ecco un pensiero che affossa il pensiero, e incoraggia l’irresponsabilità. Perché allora non sprofondare la testa nel cuscino, turarsi le orecchie e abbandonare la futile attività di produrre idee? Ci sono altri tavoli, oltre ai tavoli dei militari e ai tavoli delle conferenze. Ma rinunciando al pensiero privato, al pensiero del tavolo da tè, perché ci sembra inutile, non priviamo il giovane inglese di un’arma che potrebbe essergli utile? Non stiamo esagerando la nostra incapacità, solo perché la nostra capacità ci espone magari all’insulto, al disprezzo? “Non cesserò di conbattere con la mente” scrive Blake. Combattere con la mente significa pensare contro la corrente, e non a favore.
La corrente scorre veloce e violenta. Straripa a parole dagli altoparlanti e dai politici. Ogni giorno ci dicono che siamo un popolo libero, che combatte per difendere la libertà. Questa è la corrente che ha trasportato il giovane aviatore fino in cielo, e lo tiene lì, tra le nuvole. Quaggiù, protetti da un tetto, con una maschera antigas a portata di mano, è nostro compito bucare i palloni gonfiati d’aria e smascherare i germi di verità. Non è vero che siamo liberi. Siamo tutti e due prigionieri stasera: lui imprigionato nella sua macchina con un’arma a portata di mano, noi sdraiate nel buio con una maschera antigas a portata di mano. Se fossimo liberi saremmo all’aperto, a ballare, o a teatro, o seduti alla finestra a parlare. Che cosa ce lo impedisce? “Hitler!” esclamano unanimi gli altoparlanti. Chi è Hitler? Che cos’è Hitler? Aggressione, tirannia, amore forsennato del potere, rispondono. Distruggetelo, e sarete liberi.
Sulla mia testa ora il rimbombo degli aerei è come la sega sul ramo di un albero. Va in tondo, e sega il ramo proprio sopra la mia casa. E nel cervello un altro rimbombo comincia. “Le donne capaci” così diceva Lady Astor nel Times di stamani, “vengono frenate, ostacolate, sottomesse per via dell’inconscio hitlerismo nel cuore degli uomini”. È vero, noi siamo ostacolate. E questa sera siamo tutti egualmente prigionieri: gli uomini inglesi negli aerei, le donne inglesi nei letti. Ma se lui smette di pensare, può essere ucciso; e lo stesso vale per noi. E allora pensiamo per lui. Cerchiamo di portare alla coscienza l’inconscio hitlerismo che tutti ci opprime. È il desiderio di aggressione; il desiderio di dominare e schiavizzare. Perfino nel buio delle tenebre lo si può vedere chiaramente. Vediamo vetrine di negozi che brillano, e donne che guardano, donne truccate, donne vestite di tutto punto ‒ donne con le labbra rosse, le unghie rosse. Sono schiave che cercano di fare schiavi. Se potessimo liberarci dalla schiavitù, libereremmo anche gli uomini dalla tirannia. Gli Hitler sono generati dagli schiavi.
Cade una bomba. I vetri della finestra tremano. I cannoni antiaerei entrano in azione. Là, in cima al colle, sotto una rete fatta di pezzi di stoffa verde e marrone, che imitano i colori delle foglie d’autunno, si nascondono i cannoni. Ora sparano tutti insieme. Il giornale radio delle nove ci dirà: “Quarantaquattro aerei nemici sono stati abbattuti nella notte, dieci dal fuoco antiaereo”. E una delle condizioni della pace, dicono gli altoparlanti, dev’essere il disarmo. Non ci dovranno essere mai più armi, né esercito, né marina, né forza aerea nell’avvenire. I giovani uomini non saranno più addestrati a combattere con le armi. Il che sveglia un altro calabrone nelle camere del cervello ‒ un’altra citazione: “Combattere contro un nemico reale, guadagnare onore immortale e la gloria uccidendo dei perfetti sconosciuti, e tornare a casa con il petto coperto di medaglie e di decorazioni, quello era il colmo della speranza… A questo era stata dedicata finora tutta la mia vita, la mia educazione, la mia formazione, tutto…”.
Queste sono le parole di un giovane uomo inglese che ha combattuto nell’ultima guerra. Davanti alle quali, gli attuali pensatori possono onestamente credere che scrivendo “disarmo” su un pezzo di carta in una conferenza dei ministri avranno fatto tutto ciò che si doveva fare? Otello non farà più il suo mestiere, ma sarà sempre Otello. Il giovane aviatore su in cielo non è guidato soltanto dalle voci degli altoparlanti; è guidato da voci che ha dentro di sé ‒ antichi istinti, istinti incoraggiati e nutriti dall’educazione e dalla tradizione. Lo dobbiamo biasimare per questo? Si potrebbe forse sopprimere l’istinto materno, al comando di un gruppo di politici seduti intorno al tavolo? Facciamo conto che fra le condizioni di pace ci fosse questa, imperativa: “Fare figli sarà ristretto a una piccolissima classe di donne accuratamente selezionate” ‒ lo accetteremmo? O non dovremmo dire: “L’istinto materno è la gloria della donna. A questo è stata dedicata finora la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto…”. Ma se fosse necessario, per il benessere dell’umanità, per la pace nel mondo, che la maternità venisse controllata, e l’istinto materno messo a tacere, le donne ci proverebbero. Gli uomini le aiuterebbero. Le onorerebbero per il loro rifiuto di fare figli. Offrirebbero altre possibilità alla loro potenza creativa. Anche questo deve far parte della nostra lotta per la libertà. Dobbiamo aiutare i giovani uomini inglesi a strapparsi dal cuore l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per chi cerca di dominare in se stesso l’istinto al combattimento, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle armi.
Il rumore di sega sulle nostre teste aumenta. Tutti i riflettori puntano in alto. Verso un punto che sta esattamente sopra questo tetto. In qualunque momento può cadere una bomba in questa stanza. Uno due tre quattro cinque sei… passano i secondi. La bomba non cade. Ma durante i secondi di attesa, il pensiero si blocca. Anche il sentire si blocca, tranne la sensazione opaca della paura. Un chiodo crocefigge l’essere tutto contro un’asse di legno duro. L’emozione della paura e dell’odio è sterile, non fertile. Non appena la paura passa, la mente si riprende e d’istinto rivive e cerca di creare. Siccome la stanza è al buio, creare può soltanto grazie alla memoria. Si protende verso il ricordo di altri agosti ‒ a Bayreuth, a sentire aWagner; a Roma, a passeggiare per la campagna romana; a Londra. Riaffiorano le voci degli amici. Frammenti di poesia. Ognuno di questi pensieri, anche nella memoria, è assai più positivo, rinfrescante, consolatore e creativo di quell’opaco spavento, fatto di paura e di odio. Perciò, se vogliamo compensare quel giovane uomo della perdita della gloria e delle armi, gli dobbiamo aprire l’accesso ai sentimenti creativi. Dobbiamo fare felicità. Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione, all’aperto. Ma a che cosa serve liberare il giovane inglese, se il giovane tedesco e il giovane italiano rimangono schiavi?
I riflettori accesi sulla pianura hanno finalmente scovato l’aereo. Dalla finestra si vede un piccolo insetto argentato che si gira e rigira alla luce. I cannoni sparano e sparano. Poi smettono. Probabilmente l’incursore è stato colpito dietro il colle. L’altro giorno, uno dei piloti è atterrato sano e salvo in un campo qui vicino. In un buon inglese, ha detto a chi l’ha catturato: “Come sono contento che il combattimento è finito!”. Al che un uomo inglese gli ha dato una sigaretta, e una donna inglese gli ha dato una tazza di tè. Questo starebbe a dimostrare che se si riesce a liberare l’uomo dalla macchina, il seme non cade in un suolo completamente sterile. Il seme può essere ancora fertile.
Finalmente tutti i cannoni hanno smesso di sparare. I riflettori si sono tutti spenti. Il buio naturale della notte d’estate ritorna. Si sentono nuovamente gli innocenti rumori della campagna. Una mela cade per terra. Un gufo bubbola, volando da un albero all’altro. E mi viene in mente una frase quasi dimenticata di un vecchio scrittore inglese: “Si svegliano i cacciatori in America…”. Mandiamo dunque queste note frammentarie ai cacciatori che si sono appena alzati in America, a uomini e donne, il cui sonno non è stato ancora interrotto dal rumore della mitragliatrice, nella fede e nella speranza che ci pensino, e generosamente e caritatevolmente le trasformino in qualcosa di utile. E ora, in questa buia metà del mondo, a nanna.
Adeline Virginia Woolf (Londra 1982 – Rodmell 1941) è stata una scrittice, saggista e attivista inglese. Tra le principali esponenti della letteratura del XX secolo, è stata attivamente impegnata nella lotta per la parità di diritti tra i sessi.
FONTE-sito web “VOLERE LA LUNA”
– Laboratorio di cultura politica e di buone pratiche-Tomaso Montanari-
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.