Diane di Prima (Brooklyn, 6 agosto 1934- 25 ottobre 2020), poetessa statunitense della Beat Generation. Nata a Brooklyn, ha studiato allo Swarthmore College; di origini italiane (suo nonno materno, Domenico Mallozzi, è stato un attivo anarchico) cominciò a scrivere da bambina e a diciannove anni conobbe Ezra Pound e Kenneth Patchen.
Abbandonate…
Abbandonate a se stesse, le persone si fanno crescere i capelli.
Abbandonate a se stessesi tolgono le scarpe.
Abbandonate a se stesse fanno l’amore
dormono facilmente
dividono coperte, droga e bambini
non sono pigre o impaurite
piantano semi, sorridono, parlano fra loro. La parola
comincia dentro se stessa: tocco di amore
nel cervello, nell’orecchio.
Ritorniamo con il mare, con le maree
ritorniamo spesso come le foglie, numerosi
come l’erba, gentile e insistente, ricordiamo
il modo in cui i nostri piccoli muovono i primi passi a
piedi nudi attraverso le città
dell’universo.
*
Lettera Rivoluzionaria #1
Ho appena capito che il premio sono io
non ho altro
denaro per riscatto, nient’altro da spezzare o scambiare che la vita
il mio spirito dosato, frammentario, sparso
sul tavolo della roulette, ripago quanto posso
nient’altro da ficcare sotto il naso del maitre de jeu
nulla da spingere fuori dalla finestra, niente bandiare bianche
questa carne è tutto ciò che ho da offrire, fare il gioco con
questa testa qui e ora, e quello che vien dietro, la mia mossa
mentre strisciamo sopra questo bordo, proseguendo sempre
(si spera) fra le righe.
*
Requiem
Penso
che troverai
una tomba
non così bella
baby oh
Ti legano stretta
nel bel
vestito
Ascolto
È freddo
e i vermi e le cose
sono là per ragioni egoistiche
Penso
che tu vorrai
girarti
dalla tua parte
ai tuoi capelli
non piacerà
rimanere a posto
per sempre
ed alle tue mani
non piacerà
essere poste in croce
così
Io penso
che alle tue labbra
non piacerà
per loro stesse
La prima neve,Kerhonkson
per Alan
Questo, quindi, è il dono che il mondo mi ha fatto
(che mi hai fatto)
dolcemente la neve
ammonticchiata in cavità
distesa sulla superficie dello stagno
accoppiata alle mie lunghe, bianche candele
che stanno alla finestra
che brucerà al crepuscolo mentre la neve
riempie la nostra valle
in questa conca
nessun amico vagabonderà
nessuno arriva depresso dal Messico
dai campi di sole della California, portando marijuana
sono dispersi adesso, morti o silenziosi
o inariditi sino alla follia
dalla terribile lucentezza della visione che un tempo ci accomunava
e questo tuo dono –
bianco silenzio che riempie i contorni della mia vita.
Un esercizio d’amore
per Jackson Allen
Il mio amico indossa la mia sciarpa alla cintola
Gli dò le pietre lunari
Lui mi dà una conchiglia & alghe marine
Proviene da una città lontana & gli vado incontro
Pianteremo insieme melanzane & sedano
Lui tesse per me un panno
Molti hanno portato dei doni
Io per il suo piacere uso
seta, & verdi colline
& airone il colore dell’alba
Il mio amico cammina leggero come una tessitura al vento
Lui retroillumina i miei sogni
Ha costruito altari accanto al mio letto
Mi sveglio con l’odore dei suoi capelli e non riesco a ricordare
il suo nome, o il mio.
Canzone buddhista di Capodanno
Ti ho visto in velluto verde, maniche larghe e piene
seduto di fronte a un camino, la nostra casa
resa in qualche modo più elegante, e hai detto
“Nei tuoi capelli ci sono le stelle” – era la verità che
ho rovesciato in me
verso questo luogo tetro e scolorito che dobbiamo indorare
rendere prezioso e mitico in qualche modo, è la nostra natura,
ed è la verità, che siamo approdati qui, te l’ho detto,
da altri pianeti
dove eravamo signori, siamo stati inviati qui,
per qualche scopo
la maschera d’oro che avevo visto prima, che è combaciata
così splendidamente col tuo viso, non è ritornata
né lo ha fatto quel volto di un toro che avevi acquistato
tra le genti del nord, i nomadi, nel deserto del Gobi
Non ho visto di nuovo quelle tende, né i carri
infinitamente lenti sulle pianure infinitamente ventose,
così fredde, ogni stella nel cielo era di un colore diverso
il cielo stesso un arazzo ingarbugliato, incandescente
ma potevo quasi vedere il pianeta da cui eravamo venuti
Non riuscivo a ricordare (allora) quale fosse il nostro scopo
ma rammentavo il nome Mahakala, all’alba
all’alba di fronte a Shiva, la luce gelida
ha rivelato i mondi “partoriti dalla mente”, come questo semplicemente,
Li ho visti propagarsi, defluire,
o, più semplicemente, uno specchio che ne riflette un altro.
poi si sono rotti gli specchi, non eri più in vista
né c’era scopo alcuno, fissavi lo sguardo su questa nuova tenebra
i mondi partoriti dalla mente svanirono, e la mente si diramò:
una follia, o un inizio?
“City Lights” 1961 *
Arrivando lì per la prima volta
era molto più piccolo allora
quel pianterreno affollato pieno di poesia
traboccava di logore rivistine addossate al muro
quei bianchi tavoli traballanti dove la gente si sedeva a leggere/scrivere
Il Vesuvio Cafe era come un ufficio aggiunto
Arrivando di nuovo un anno dopo, con due bambini al seguito
Lawrence mi diede una pila enorme delle sue pubblicazioni
“Ho dei libri” disse “come altre persone hanno i topi”
E North Beach non ha mai smesso di essere misteriosa
quando mi sono trasferita qui nel 1968
quell’ufficio editoriale di Filbert & Grant era una mecca
un posto per incontrarsi con i miei figli se ci fossimo separati
durante una di quelle innumerevoli manifestazioni
(sebbene Lawrence preoccupato, mi dicesse che avrei dovuto tenerli
fuori pericolo, a casa) io pensavo che dovessero imparare
qualsiasi cosa di ciò che stavamo imparando,
Un ufficio proprio dietro l’angolo del negozio di perline
dove mi sono trovata ogni giorno, facendo provviste
Quante notti sul tardi abbiamo visitato il Negozio
acquistando una grande quantità di nuove poesie da tutti gli angoli della terra
poi diretti verso la rivendita della Tower Records tutta la notte piena di travestiti
e rivoluzionari, per acquistare qualche disco
E fare ricerche, City Lights è ancora qui, come un vecchio faro
anche se tutto il resto è andato,
la poesia si è spostata al piano di sopra, pure l’ufficio editoriale
è proprio lì ora & folle di persone
un terzo della mia età o meno ancora consultano le pile di testi
alla ricerca di voci da tutte le parti
del mondo
* “City Lights” è la celebre libreria e casa editrice di Lawrence Ferlinghetti a San Francisco
Lilith delle Stelle
perché c’è un’altra Lilith, non fatta per la terra
di chi si è detto / che quando lei viene vista dagli uomini
è come una visione di fumo / una piaga / una cacofonia
di sole campane / sforzate e straniere, loro inseguono
il suo immateriale scorrere attraverso questo mondo
e il prossimo. Lei è, infatti, l’archetipica
cattiva ragazza delle stelle
sarà il fuoco fatuo dello spazio vuoto
la stagnante luce cosmica dalle sfere celesti
che ci alletta, la nostra casa
per vagare, per sempre, tra i quasar
in opposizione al Suono dei Cristalli Armoniosi
fiore del tempio dell’abisso
Verricello
su cui si è ferita
quella speranza
smisurata.
Nave-Che-Gira-Ad-Un-Angolo
Bianca Ragazza che Salta sopra le Lapidi
Lilith delle Stelle
perché c’è un’altra Lilith, non fatta per la terra
di chi si è detto / che quando lei viene vista dagli uomini
è come una visione di fumo / una piaga / una cacofonia
di sole campane / sforzate e straniere, loro inseguono
il suo immateriale scorrere attraverso questo mondo
e il prossimo. Lei è, infatti, l’archetipica
cattiva ragazza delle stelle
sarà il fuoco fatuo dello spazio vuoto
la stagnante luce cosmica dalle sfere celesti
che ci alletta, la nostra casa
per vagare, per sempre, tra i quasar
in opposizione al Suono dei Cristalli Armoniosi
fiore del tempio dell’abisso
Verricello
su cui si è ferita
quella speranza
smisurata.
Nave-Che-Gira-Ad-Un-Angolo
Bianca Ragazza che Salta sopra le Lapidi
(dal web)
Breve biografia di Diane di Prima (Brooklyn, 6 agosto 1934- 25 ottobre 2020), poetessa statunitense della Beat Generation. Nata a Brooklyn, ha studiato allo Swarthmore College; di origini italiane (suo nonno materno, Domenico Mallozzi, è stato un attivo anarchico) cominciò a scrivere da bambina e a diciannove anni conobbe Ezra Pound e Kenneth Patchen. Fino al 1960 ha vissuto a Manhattan, dove ha preso parte al movimento beat; la sua prima raccolta poetica, This Kind of Bird Flies Backwards, fu pubblicata nel 1958 dalla Totem Press, di Hettie e LeRoi Jones. Nel 1962 conobbe il maestro Zen Suzuki Roshi, grazie al quale si avvicinò al buddhismo. Fondatrice della Poets Press, con Amiri Baraka (LeRoi Jones) ha pubblicato The Floating Bear e fondato il New York Poets Theatre. Nel 1966 si è trasferita a Millbrook, entrando nella comunità psichedelica di Timothy Leary e nel 1969 ha pubblicato il racconto della sua esperienza beat in Memoirs of a Beatnik; trasferitasi nel 1970 in California, dove vive tuttora, qui è entrata a far parte del movimento Diggers ed ha pubblicato il suo lavoro maggiore, il poema Loba, nel 1978. Una selezione di sue poesie è stata raccolta in Pieces of a Song, nel 1990, mentre del 2001 sono le sue memorie, Recollections of My Life as a Woman. (Wikipedia)
Theodor W. Adorno e le “piaghe” dei movimenti fascisti-
Theodor W. Adorno e le “piaghe” dei movimenti fascisti-Articolo di Sergio Paolo Ronchi-Un inedito sulla dimensione “spettrale” della nuova destra–La contemporaneità trascende il tempo: è l’“attualità” della storia. Ne è limpido esempio un testo di Theodor W. Adorno datato 1967: Aspetti del nuovo radicalismo di destra; sette pagine di appunti e parole-chiave “tradotte” in una conferenza semisconosciuta (conservata solo in forma orale) presso l’Università di Vienna, ora in edizione italiana per i tipi della Marsilio, basata su una registrazione, con una postfazione dello storico tedesco Volker Weiss*.
Esponente di punta insieme a Max Horkheimer della cosiddetta «Scuola di Francoforte», l’Istituto per la ricerca sociale, Adorno intendeva «chiarire a un uditorio austriaco l’emergere nella Repubblica Federale Tedesca dell’NPD [Partito nazionaldemocratico di Germania], fondato nel 1964, il quale registrava significativamente un certo successo come gruppo dell’area di destra». Non poteva certo prevederne la sconfitta alle elezioni federali di due anni dopo. Egli intendeva richiamare l’attenzione sul nazionalsocialismo in un contesto che registrava lo svilupparsi di una formazione politica di destra radicale. «A Vienna – sottolinea Weiss – Adorno non parlava solo in qualità di analista critico della situazione ma anche come testimone del tempo». «La lettura del discorso – prosegue – richiede dunque di distinguere tra ciò che è condizionato dal contesto e ciò che è essenziale. È necessario mettere in relazione l’attualità che produce un effetto profetico con il nucleo storico della sua verità».
Le parole del filosofo tedesco, articolate in una puntuale argomentazione analitica, sono tese a mettere in luce e a collegare quei varî elementi sovracronologici carichi di attualità su cui riflettere con estreme sensibilità e attenzione. Una conferma di quanto esposto in una conferenza del 1959, Che cosa significa elaborazione del passato. In essa, scrive, «ho illustrato la tesi secondo cui il radicalismo di destra, o il potenziale di un radicalismo di questo genere, può essere spiegato con il fatto che, oggi come allora, continuano a sussistere le premesse sociali del fascismo. Vorrei partire dall’idea che, nonostante il loro crollo, le premesse dei movimenti fascisti continuano a sussistere sul piano sociale, se non anche su quello direttamente politico».
Tra le premesse, in prima fila è la «tendenza del capitale alla concentrazione», cifra dello «spettro della disoccupazione tecnologica» che induce alla paura di perdere il proprio status sociale. Poi, il problema del nazionalismo dal «carattere agonistico» comune anche al radicalismo di destra. Il quale si esprime in movimenti «dal basso livello spirituale» o del tutto privi di presupposti teorici: «Sono in linea di principio solo tecniche di potere e non derivano affatto da teorie ben articolate». Al contrario, loro peculiarità è «una straordinaria perfezione dei mezzi, innanzitutto quelli propagandistici in senso lato, combinati con una certa cecità, addirittura un’astrusità degli scopi che vengono perseguiti. In questi movimenti la propaganda costituisce la sostanza della politica»: la verità viene messa al servizio della non-verità decontestualizzando «osservazioni in sé vere e corrette».
Sotto attacco vengono così a trovarsi la cultura in senso lato e gli intellettuali di sinistra – espressioni del «rifiuto dell’argomentazione razionale e del pensiero basato sul discorso». Poi, la ricerca di un capro espiatorio. E qui ci si trova sul terreno dell’antisemitismo, «uno degli “assi della piattaforma”. Se così si può dire, è sopravvissuto agli ebrei, e su questo si basa la sua forma spettrale. Si rifiuterà soprattutto il senso di colpa attraverso una razionalizzazione. Si dirà: “Devono pur aver fatto qualcosa, altrimenti non li avrebbero uccisi». Adorno invoca l’espressione tedesca “metodo del salame”: una questione complessa viene “affettata” fino a banalizzarla. In forza di tale «pedanteria pseudoscientifica» si arriverà persino a mettere in dubbio i numeri della Shoah.
Per fronteggiare detto problema «altamente reale e politico» rappresentato dalla destra radicale, «si deve lavorare contro di esso con la forza d’urto della ragione, con una verità realmente a-ideologica».
Fonte- RIFORMA.IT
* Theodor W. Adorno, Aspetti del nuovo radicalismo di destra. Venezia, Marsilio, 2020, pp. 100, euro 12.00.
Editore Marsilio
Vienna-Il 6 aprile 1967Theodor Adorno tenne una conferenza all’Università di Vienna il cui valore va ben oltre l’aspetto puramente storico e che può aiutarci a comprendere il tempo che stiamo vivendo. Risalendo alle origini del consenso ottenuto dai movimenti radicali di destra, il filosofo intendeva chiarire le ragioni dell’ascesa dell’NPD, formazione di destra che all’epoca stava registrando un certo successo nella Repubblica Federale Tedesca. Adorno mette in luce e collega tra loro in modo inedito vari elementi: il congegno sofisticato della propaganda e l’antisemitismo, il connubio tra perfezione tecnologica e un «sistema folle», l’individuazione di un capro espiatorio e l’odio ostentato verso gli intellettuali di sinistra e la cultura in generale, la tendenza del capitale alla concentrazione e la paura diffusa di perdere il proprio status sociale. Oggi lo «spettro» a cui la conferenza è dedicata non solo non si è dissolto, ma assume nuove e inquietanti sembianze. Diventa dunque ancora più importante prendere coscienza dei meccanismi dell’agitazione fascista e dei fondamenti psicologici e sociali su cui poggia. Nella consapevolezza che «se si vogliono affrontare sul serio queste cose, bisogna richiamare in modo perentorio gli interessi di coloro ai quali la propaganda si rivolge. Ciò vale soprattutto per i giovani che devono essere messi in guardia». La postfazione dello storico Volker Veiss contestualizza il testo e lo inquadra in una prospettiva attuale.
Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana.
Editore Einaudi
Descrizione del libro Gli uomini di Mussolini-Al termine della Seconda guerra mondiale molti tra i più alti vertici dell’esercito o degli apparati di forza del fascismo furono accusati di omicidi e torture, ma nessuno venne mai processato o epurato. Nessuno fu mai estradato all’estero o giudicato da un tribunale internazionale. Diversi di loro furono invece coscientemente reintegrati nei loro posti di responsabilità, dando corpo a quella «continuità dello Stato» che rappresentò una pesante ipoteca sull’Italia repubblicana. Attraverso l’analisi di una gran mole di documenti, Conti ricostruisce le vicende personali e i profili militari di alcuni dei principali funzionari del regime di Mussolini e illumina uno dei passaggi più appassionanti e controversi della nostra storia.
Mussolini-Uomo politico (Dovia di Predappio 1883 – Giulino di Mezzegra, Dongo, 1945). Socialista, si andò staccando dal partito, fino a fondare i Fasci da combattimento (1919). Figura emergente nell’ambito del neoformato Partito nazionale fascista, subito dopo la “marcia su Roma” (1922) venne incaricato dal re della formazione del governo, instaurando nel giro di pochi anni un regime dittatoriale. In politica internazionale M. affrontò l’esperienza coloniale in Etiopia, si fece coinvolgere dai buoni rapporti con la Germania di Hitler nella persecuzione degli Ebrei, fino poi alla partecipazione al conflitto mondiale. I pessimi risultati bellici portarono il Gran Consiglio a votare la mozione Grandi presentata contro di lui (1943). Arrestato, fu liberato dai Tedeschi e assunse le cariche di capo dello Stato e del governo nella neonata Repubblica sociale. Alla fine della guerra fu catturato e fucilato dai partigiani per ordine del Comitato di liberazione nazionale. Dominò la storia italiana per oltre un ventennio, divenendo negli anni del suo potere una delle figure centrali della politica mondiale e incarnando uno dei modelli dittatoriali fra le due guerre.
LA DISFIDA DI BARLETTA E’ STATA COMBATTUTA A TRANI
L’ANTEFATTO. LE MIRE EPANSIONISTICHE FRANCESI SULL’ITALIA
Nel 1494 il nuovo Re di Francia, Carlo VIII di Valois, che ha solo 24 anni, vuole estendere il suo Regno. Pertanto, il 3 settembre “cala” in Italia con un potente esercito di 30.000 uomini (8.000 dei quali sono mercenari svizzeri), dotato anche di artiglieria moderna, guidato da Louis de la Trémoille, vantando diritti di successione, da parte della nonna paterna Maria D’Angiò, sul Regno di Napoli, governato da un ramo collaterale degli Aragona, sovrani di Spagna e di Sicilia.
La conquista del regno napoletano gli serve come base di partenza per una Crociata per riconquistare Gerusalemme, di cui probabilmente ambisce a diventare Re.
In Piemonte si ferma ad Asti dove riceve l’omaggio dei suoi “sostenitori” italiani, compreso Ludovico Sforza, detto Il Moro, reggente del Ducato di Milano, di cui qualche mese dopo, in seguito alla morte di Gian Galeazzo Sforza (probabilmente per avvelenamento), diventa Duca, con il sostegno del Re francese.
Carlo VIII marcia quindi verso Firenze, che era tradizionalmente filo francese, ma Piero de’ Medici (figlio di Lorenzo, detto Il Magnifico) si era schierato in difesa degli Aragonesi, sovrani di Napoli. Pertanto il Re francese attacca e saccheggia alcune cittadine toscane costringendo Piero de’ Medici a cedere altre città, tra le quali Pisa e Livorno. Questo cedimento induce la popolazione fiorentina, dopo la partenza dei Francesi, a cacciare Piero ed a proclamare la Repubblica.
Carlo VIII marcia poi verso Roma, dove entra pacificamente il 31 dicembre, dopo aver fatto un accordo con il Papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia, di origine spagnola). Ciononostante, la città è saccheggiata dalle truppe francesi. Il Papa concede a Carlo VIII il passaggio nello Stato pontificio verso il Regno di Napoli, affiancandogli come Legato (rappresentante) pontificio il figlio Cesare Borgia (che è diventato Cardinale in giovane età).
Il Re francese, nella sua marcia verso il Regno napoletano, conquista altre città, che sono saccheggiate e la popolazione è in gran parte trucidata.
Il 22 febbraio 1495 entra a Napoli senza combattere dato che il Re aragonese Ferdinando II, detto Ferrandino, è fuggito con la Corte. Dopo pochi giorni Carlo VIII si fa incoronare Re. Però a maggio il popolo napoletano insorge contro i Francesi, che sono costretti a lasciare la città ed a ritornare in patria.
La facilità e la rapidità con la quale il Re francese era arrivato a Napoli e l’aveva conquistata, compiendo lungo il suo cammino efferate violenze sulla popolazione delle città conquistate, portano il 31 marzo 1495 alla costituzione di una Lega Santa antifrancese da parte del Sacro Romano Impero, della Spagna, del Papato, della Repubblica di Venezia e del Ducato di Milano. Quindi, il 6 luglio 1495 l’esercito della Lega sconfigge a Fornovo il Re francese, mentre sta tornando in patria.
Finisce così la prima di una serie di guerre condotte in Italia dalle grandi Potenze continentali (soprattutto Francia e Spagna) per la spartizione del territorio italiano, comunemente dette “guerre d’Italia” e definite “orrende” da Niccolò Macchiavelli, che cessano nel 1559 con la Pace di Cateau-Cambrésis, che cambia profondamente la geografia politica della penisola italiana.
Nel 1498 Carlo VIII muore senza eredi, a soli 27 anni, e gli succede il cugino Luigi XII di Valois-Orléans, detto Il Padre del Popolo, il quale, con un accordo con il Papa Alessandro VI, ottiene l’annullamento del matrimonio con Giovanna di Valois e sposa la vedova di Carlo VIII, Anna di Bretagna, acquisendo così i diritti di successione sul Ducato di Bretagna.
Luigi XII persegue la politica espansionistica del suo precedessore e ben presto rivendica il possesso del Ducato di Milano in quanto Valentina Visconti, figlia di Gian Galeazzo, era sua nonna.
Però, per evitare i “problemi politici” che Carlo VIII aveva avuto in Italia, prima di venire nel nostro Paese Luigi XII stipula una serie di accordi diplomatici, che gli assicurano il sostegno alla sua pretesa di ottenere il Ducato di Milano.
Per primo ottiene l’appoggio del Papa Alessandro VI, donando nel 1498 a Cesare Borgia, figlio del pontefice, la Contea di Valentinois, che viene eretta in Ducato (pertanto Cesare assume il soprannome di Valentino) e gli concede anche di sposare la nobile Charlotte d’Albret, sorella del Re di Navarra Giovanni II. Inoltre promette di appoggiare il progetto di Cesare di riconquistare la Romagna, dove i feudatari locali si sono ribellati al potere papale.
Inoltre il 2 febbraio 1499 Luigi XII stipula a Blois un trattato con la Repubblica di Venezia concedendo alla Serenissima le città di Cremona e di Chiara d’Adda.
Infine, il 16 marzo 1499 stipula un Trattato con i Cantoni svizzeri, concedendo ad essi la Contea di Bellinzona (il Canton Ticino).
Dopo questi accordi Luigi XII viene in Italia con un forte esercito e conquista Genova. Inizia così la Seconda guerra italiana (detta anche “Guerra italiana di Luigi XII” o “Guerra per il Regno di Napoli”), che si conclude il 31 gennaio 1504 con l’Armistizio di Lione tra Luigi XII ed il sovrano spagnolo Ferdinando II d’Aragona.
Il 2 settembre 1499 i Francesi, guidati da Gian Giacomo Trivulzio, espugnano Milano e Ludovico Sforza, detto Il Moro, ripara in Tirolo, protetto dall’Imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano I d’Asburgo, che è il marito di sua nipote Bianca Maria Sforza.
Nel marzo 1500 Ludovico Il Moro riesce a riprendere il possesso di Milano con l’aiuto delle truppe imperiali, ma il 10 aprile 1500 è costretto dai Francesi a riparare a Novara, dove è tradito dai mercenari svizzeri che lo consegnano ai Francesi, che lo portano in Francia, dove muore nel 1508.
Dopo la conquista di Milano, l’esercito francese, con Cesare Borgia che è diventato luogotenente di Luigi XII, scende in Romagna.
Intanto, il Papa Alessandro VI invia ai feudatari di Camerino, Faenza, Forlì, Imola, Pesaro e Urbino una lettera dichiarandoli decaduti dai loro feudi, che li invita a restituire allo Stato Pontificio. Naturalmente nessun feudatario obbedisce all’ingiunzione del Papa e quindi inizia la guerra, che è molto cruenta. La prima città conquistata da Cesare Borgia è Imola, l’11 dicembre 1499. Poi cade Forlì, che è saccheggiata dalle truppe mercenarie, che compiono violenze sulla popolazione.
Dopo aver riconquistato tutti i feudi, Il Valentino riceve dal padre, il Papa Alessandro VI, il titolo di Duca di Romagna.
In seguito, Il Valentino scampa ad una congiura. Per vendicarsi invita, singolarmente, per la pacificazione, tra il 31 dicembre 1500 ed il 18 gennaio 1501, i congiurati nel suo castello di Senigallia e li fa uccidere. La “strage di Senigallia” è raccontata da Niccolò Macchiavelli nella sua opera principale Il Principe.
Però, nel 1503, morto il Padre Alessandro VI, che lo proteggeva, il nuovo Papa Giulio II fa arrestare Cesare Borgia e riprende il possesso della Romagna. Cesare Borgia riesce ad evadere e si rifugia in Spagna, dal cognato Giovanni d’Albert, Re di Navarra, dove muore nel 1507 durante una guerra locale.
IL TRATTATO DI GRANADA TRA LA FRANCIA E LA SPAGNA
PER LA SPARTIZIONE DEL REGNO DI NAPOLI
Il 10 ottobre 1500, nel castello di Chambord il Re francese Luigi XII firma il Trattato (segreto) di Pace e di Alleanza con i sovrani spagnoli Ferdinando II d’Aragona, detto Il Cattolico (che è anche Re di Sicilia), e sua moglie (nonché sua cugina) Isabella di Castiglia, per la spartizione del Regno di Napoli (che è il Regnum Siciliae citra Pfharum, cioè la parte del Regno di Sicilia al di qua del Faro, cioè dello Stretto di Messina). L’accordo è giustificato dalla necessità di combattere uniti contro i Turchi, che scorrazzano nel Mediterraneo.
Il Trattato, ratificato dai sovrani spagnoli l’11 novembre 1500 nel palazzo dell’Alhambra di Granada, strappato agli Arabi nel 1492, prevede l’assegnazione alla Francia delle regioni continentali settentrionali del Regno di Napoli, cioè la Campania e gli Abruzzi, ed alla Spagna di quelle meridionali, cioè la Calabria e le Puglie.
Il Trattato prevede inoltre la spartizione al 50% degli introiti della Dogana delle pecore di Puglia (Duana pecorum Apuliae) ubicata a Foggia, al termine del “tratturo” più importante per la “transumanza” degli ovini dall’Abruzzo alle Puglia, che parte da Celano.
Ferdinando II, Re di Aragona, mira in questo modo ad eliminare la dinastia collaterale aragonese che governa il Regno di Napoli con Federico I d’Aragona, zio del Re Ferdinando II (Ferrandino), morto nel 1496, ed ad unirlo al Regno di Sicilia.
Il 25 giugno 1501 il Pontefice Alessandro VI emana una Bolla papale con la quale dà il proprio assenso al Trattato e scomunica il Re napoletano Federico I, accusandolo di aver fatto un accordo con i Turchi, il quale, quindi, è dichiarato decaduto dal Regno. Molto probabilmente, nella decisione del Papa influisce la decisione della Principessa di Taranto Carlotta d’Aragona, figlia di Federico I, di aver rifiutato di sposare Cesare Borgia, annullando l’ambizioso progetto del Pontefice di mettere il figlio sul trono napoletano.
Quando i Francesi invadono da Nord il Regno di Napoli, il Re Federico I, essendo all’oscuro del Trattato di Granada, chiede aiuto al cugino Ferdinando II, il quale, invece, invade con le sue truppe il Regno di Napoli da Sud. A questo punto, Federico I capisce il tradimento ordito dal cugino Ferdinando II.
Il 19 luglio 1501 Cesare Borgia, con l’esercito francese, assedia Capua, che e conquistata dopo 7 giorni grazie al tradimento di un cittadino, corrotto da IlValentino, che apre le porte della città all’orario stabilito, consentendo alle truppe francesi e papali di entrare, massacrando la guarnigione militare e la popolazione.
Il Re napoletano Federico I cerca di trattare la resa, invano. Poi abdica in favore del Re francese. Così, il 19 agosto i Francesi entrano a Napoli e Luigi XII diventa Re di Napoli (Rex Neapolis). Poi ritorna in Francia, nominando come Viceré il nobile Louis d’Armagnac, Duca di Nemours. Inizia così il lungo periodo dei Viceré di Napoli: dal 1501 al 1504 sotto la Corona francese; da 1504 al 1707 sotto la Corona spagnola; dal 1707 al 1734 sotto gli Asburgo d’Austria.
Il 6 settembre 1501 Federico I d’Aragona parte per la Francia, scortato da alcuni suoi fidati cavalieri (mercenari), tra i quali Ettore Fieramosca. Nel maggio 1502, come compenso per la sua rinunzia al Regno di Napoli, ottiene dal Re francese Luigi XII il titolo di Duca d’Angiò. Muore il 9 novembre 1504. La dinastia degli Aragonesi di Napoli si estingue nel 1550.
Il 13 ottobre 1501, con il Trattato di Trento, stipulato dal Re francese Luigi XII e dall’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, quest’ultimo riconosce il possesso francese nell’Italia settentrionale (Ducato di Milano e Genova, occupati nel 1499).
LA GUERRA TRA I FRANCESI E GLI SPAGNOLI PER IL REGNO DI NAPOLI
Ben presto scoppiano dissidi tra la Francia e la Spagna sulla spartizione del Regno di Napoli, in base al Trattato di Granada, in particolare sulla definizione dei confini tra alcune delle 12 Provincie del Regno. Sicuramente, un altro motivo di contrasto è la spartizione delle immense entrate della Dogana delle pecore di Foggia, che ammontano a 160.000-200.000 ducati l’anno.
Pertanto inizia, nell’estate 1502, la guerra. Le truppe francesi sono comandate da Louis d’Armagnac, mentre quelle spagnole sono sotto il comando di Gonzalo (Consalvo) Fernandez de Cordoba (Cordova).
Al conflitto partecipano numerosi cavalieri italiani, che combattono come “mercenari”, nelle Compagnie di Ventura, “al soldo” degli Spagnoli. Alcuni di questi erano stati “ingaggiati” dal precedente Re di Napoli Federico I d’Aragona. In particolare c’è la Compagnia del Capitano di ventura Prospero Colonna e del cugino Fabrizio, Conte di Tagliacozzo (poi Duca dal 1504), della quale fanno parte Ettore Fieramosca (originario di Capua), Giovanni Capoccio (originario di Tagliacozzo) e Fanfulla da Lodi, i quali partecipano con altri 10 cavalieri italiani alla “disfida di Barletta” del 13 febbraio 1503, combattuta contro altrettanti 13 cavalieri francesi, che li hanno accusati di “codardia”.
LA DISFIDA DI BARLETTA
All’inizio di gennaio 1503, in uno scontro a Canosa di Puglia, gli Spagnoli, guidati da Diego de Mendoza, catturano alcuni cavalieri francesi.
Il 15 gennaio 1503 il Gran Capitano (Comandante supremo) spagnolo Consalvo Fernandez de Cordova organizza a Barletta (dove ha sede il quartier generale spagnolo) una cena in onore dei Francesi, secondo il “codice cavalleresco” dell’epoca.
Durante la cena il francese Charles de Torgues (detto Guy de La Motte) accusa di codardia i cavalieri italiani, che sono difesi dal comandante spagnolo Inigo (Ignazio) Lopez de Ayala, il quale sostiene che gli italiani al suo comando hanno sempre combattuto valorosamente e quindi si sono comportati in modo onorevole.
Il Capitano dei cavalieri italiani Prospero Colonna invia Giovanni Capoccio e Giovanni Brancaleone a parlare con La Motte per indurlo a ritrattare la grave offesa fatta ai cavalieri italiani, senza alcun risultato. Anzi La Motte getta il “guanto di sfida” addosso ai cavalieri italiani.
Si decide quindi di effettuare un duello tra 13 cavalieri francesi ed altrettanti cavalieri italiani (in origine gli sfidanti dovevano essere 10, ma poi il numero è stato aumentato).
Uno scontro analogo era avvenuto l’anno precedente, nel marzo 1502, in una pianura tra Barletta e Bisceglie tra 11 soldati francesi ed altrettanti spagnoli, di cui però non si conosce l’esito.
La “disfida” è programmata per la mattina del 13 febbraio 1503 nella località denominata “Mattina di S. Elia”, nel territorio di Trani, allora possesso della Serenissima Repubblica di Venezia e quindi “territorio neutrale”. Però il combattimento è passato alla storia come “disfida di Barletta”, dato che la controversia era nata in questa cittadina pugliese.
Le modalità dello scontro sono stabilite nei minimi dettagli. In particolare si decide che i cavalli e le armi dei cavalieri sconfitti sarebbero stati presi dai vincitori e ogni cavaliere catturato avrebbe pagato un riscatto di 100 ducati. Inoltre, sono nominati due giurati per parte ed è assegnato un ostaggio a ciascuna parte per garantire il rispetto dell’accordo.
Il campo nel quale si svolge il duello viene delimitato con l’aratro.
Prospero e Fabrizio Colonna formano la squadra italiana con i seguenti cavalieri, considerati i migliori: Ettore Fieramosca (di Capua, che é nominato Capitano e quindi é incaricato di tenere i rapporti con il francese La Motte); Mariano Marcio Abignente; Ludovico Abimale da Terni; Guglielmo Albimonte; Giovanni Brancaleone; Giovanni Capoccio; Marco Corollario; Ettore de’ Pazzis (detto anche Miale da Troja); Ettore Giovenale; Romanello da Forlì; Fanfulla da Lodi; Riccio da Parma; Francesco Salamone.
I 13 cavalieri francesi sono: Charles de Torgues (detto Guy de La Motte), che é il Capitano; Claude Grajan d’Aste (Graziano d’Asti); Eliot de Baraut; Jacques de la Fontaine; Naute de la Fraise; Marc de Frigne; Girout de Forses; Jacques de Guignes; Martellin de Lambris; Jean de Landes; Pierre de Liaye; Francois de Pise (Francesco di Pisa); Sacet de Sacet.
I cavalieri italiani la mattina del 13, prima dello scontro, ascoltano la messa nella Cattedrale di Barletta, giurando davanti alla statua della Madonna, poi denominata Madonna della Sfida, di vincere o di morire.
I cavalieri francesi pernottano a Ruvo di Puglia, dove è acquartierato il loro esercito e dove, la mattina del 13 febbraio, ascoltano la messa nella Chiesa di San Rocco.
Il Capitano Prospero Colonna decide quali armi impiegare. I cavalieri italiani sono armati con due lance, più lunghe di quelle usate dai Francesi, e di 2 stocchi: uno è bloccato all’arcione, alla parte sinistra della cavalcatura; l’altro è posto sul fianco destro della cavalcatura, dove viene messa anche una scure, al posto della mazza ferrata. Inoltre i cavalli sono coperti da frontali di ferro, anche sul collo. Infine, a terra sono posti due spiedi a disposizione di ogni cavaliere, per essere utilizzati in caso di necessità.
I cavalieri italiani arrivano per primi sul posto stabilito per la “disfida”, ma quelli francesi entrano per primi nell’area delimitata dai quattro giudici.
Le due formazioni si dispongono su due file ordinate, contrapposte l’una all’altra, in modo da “caricarsi” vicendevolmente con le lance.
Secondo il cronista francese Jean d’Auton i cavalieri italiani adottano uno stratagemma: invece di “caricare” arretrano fino al limite dell’area delimitata per lo scontro ed aprono dei varchi nelle proprie file in modo da far uscire dall’area i cavalieri francesi, che pertanto sarebbero stati eliminati. In effetti alcuni di questi, nella foga della corsa, non riescono a fermarsi in tempo ed escono dall’area stabilita per lo scontro, venendo così eliminati. Invece, secondo il vescovo Paolo Giovio, che ha assistito allo scontro, i cavalieri italiani rimangono fermi nelle loro posizioni, attendendo la “carica” dei Francesi con le lance abbassate.
Nel primo scontro due cavalieri italiani sono disarcionati, ma si rialzano e riescono ad uccidere i cavalli degli loro antagonisti francesi, i quali sono costretti a combattere appiedati, con le spade e le scuri.
Il combattimento dura più di un’ora ed alla fine tutti i cavalieri francesi sono sconfitti e catturati dagli italiani, che pertanto riportano una netta vittoria.
Secondo la tradizione il cavaliere italiano che combatte meglio e si distingue di più, dopo il Capitano Ettore Fieramosca, è Giovanni Capoccio, che riceve l’appellativo di ”più forte campione italico dopo il Fieramosca”.
Secondo Jean d’Auton, l’ultimo cavaliere francese ad arrendersi è Pierre de Chales, originario della Savoia.
Il Vescovo Giovio riferisce che il francese Claude (probabilmente Graziano d’Asti) muore per una grave ferita alla testa riportata nello scontro con Giovanni Brancaleone, che probabilmente infierisce su di lui perché è considerato dai cavalieri italiani un “traditore” dato che combatte dalla parte dei Francesi (in verità, in quell’epoca la città di Asti appartiene alla Francia). Allo scontro partecipa, combattendo con i Francesi, anche un altro cavaliere italiano: Francois de Pise (Francesco di Pisa).
I cavalieri francesi sconfitti sono condotti come “prigionieri” a Barletta perché, sicuri di vincere, non hanno portato i 1.300 ducati previsti per l’eventuale loro riscatto in caso di sconfitta. Pertanto sono liberati dopo quattro giorni, quando è pagata la somma stabilita di 1.300 ducati.
La vittoria dei cavalieri italiani è salutata dalla popolazione di Barletta con un grande gioia e festeggiamenti. Nella cattedrale di Barletta è celebrata una solenne messa di ringraziamento.
Come ricompensa per la vittoria tutti i 13 cavalieri italiani sono insigniti dal Comandante supremo spagnolo Consalvo Fernandez dell’ordine di Cavaliere di San Giacomo della Spada.
Nei mesi seguenti i Francesi sono ripetutamente sconfitti dagli Spagnoli: a Ruvo di Puglia il 22-23 febbraio 1503; a Seminara (Calabria) il 21 aprile 1503; a Cerignola (Puglia) il 28 aprile 1503; presso il fiume Garigliano (Campania) il 29 dicembre 1503; a aeta (Campania) il 1 gennaio 1504.
Il 31 gennaio 104 è sottoscritto l’Armistizio di Lione e con il successivo Trattato di Blois del 12 ottobre 1505 la Francia rinuncia definitivamente al Regno di Napoli a favore della Spagna ed il Re spagnolo Ferdinando II d’Aragona, detto Il Cattolico, si impegna a sposare Germana di Foix, nipote del Re francese.
In seguito, numerosi cavalieri italiani continuano a militare nella Compagnia di ventura di Prospero Colonna, in varie guerre.
LA MEMORIA DELLA DISFIDA
Nel 1583 (per il 70mo anniversario della “disfida”), sul luogo della battaglia, in Contrada “Mattina di Sant’Elia”, nel territorio di Trani, è fatta costruire una “edicola” da Ferrante Caracciolo, Duca di Airola, Prefetto delle Province di Bari e Otranto.
Il monumento è distrutto nel 1805 dai Francesi, che pensano in questo modo di eliminare la “memoria” della loro sconfitta nella “disfida” del 13 febbraio 1503, ma è riedificato nel 1846 a cura del Capitolo Metropolitano di Trani.
Nel 1903 viene aggiunta una lapide con il seguente epitaffio, scritto da Giovanni Bovio, famoso filosofo e politico di fede laica e repubblicana “In equo certame / contro tredici francesi / qui tredici di ogni terra italiana / nell’unità / nell’amore antico / e tra due invasori / provarono che dove l’animo sovrasti la fortuna / gli individui e le nazioni risorgono” .
La “disfida” ha ispirato alcune famose opere letterarie. E’ sempre stata chiamata “disfida di Barletta”, anche se combattuta nella Contrada “Mattina di Sant’Elia” nel territorio di Trani, probabilmente perché la controversia era nata a Barletta, dove aveva sede il quartiere generale spagnolo.
La prima fonte che ne parla è la lettera in latino De pugna tredecim equitum, scritta poco tempo dopo l’evento, nello stesso anno 1503, dal medico ed umanista salentino Antonio De Ferraris, detto “Galateo”, che sta a Bari, dove è il medico di Isabella d’Aragona (vedova di Gian Galeazzo Sforza, Duca di Milano) ed il precettore della figlia Bona Sforza (futura Regina di Polonia).
All’inizio del Risorgimento, nel 1833, Massimo D’Azeglio scrive il romanzo storico Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, in chiave patriottica, facendo leva sul sentimento nazionale per favorire la “riscossa contro lo straniero”, rappresentato dall’Austria, che domina buona parte del territorio settentrionale.
Nel 1896 il compositore Vincenzo Ferroni compone il dramma lirico Ettore Fieramosca.
All’inizio del Novecento sono girati due film, ispirati al romanzo di D’Azeglio: Ettore Fieramosca, di Ernesto Maria Pasquali, nel 1909; Ettore Fieramosca, di Domenico Gaido e Umberto Paradisi, nel 1915.
Il regime fascista rivaluta di nuovo, come già era accaduto nel Risorgimento, la “disfida di Barletta”, ignorando però che il sentimento nazionale era assolutamente sconosciuto nel nostro Paese nel XVI° secolo, tanto che i 13 cavalieri italiani combattevano come “mercenari”, al soldo degli Spagnoli contro i Francesi, in guerra tra di loro per il possesso del Regno di Napoli.
Nel 1938 esce il film Ettore Fieramosca di Alessandro Blasetti, con un chiaro scopo di propaganda nazionalistica.
Nel 1939 il pittore Pino Cesarini dipinge il quadro La disfida di Barletta.
LA CONTROVERSIA RECENTE SUL LUOGO DELLA DISFIDA
Durante il regime fascista nasce una accesa disputa in merito al luogo in cui erigere il nuovo monumento in ricordo della “disfida”, al posto di quello costruito nel 1583 e distrutto dai Francesi nel 1805.
Nell’ottobre 1931 l’avvocato di Trani Assunto Gioia pubblica un opuscolo nel quale sostiene che la “disfida” era stata combattuta nella Contrada “Mattina di Sant’Elia”, nel territorio di Trani, per cui deve chiamarsi “disfida di Trani”.
Pochi giorni dopo, il 28 ottobre, il sottosegretario Sergio Panunzio scrive un articolo a sostegno di questa tesi, pubblicato sul quotidiano Gazzetta del Mezzogiorno.
Il 2 novembre 1931 la tesi sul luogo della “disfida” a Barletta è sostenuta da Salvatore Santeramo in un articolo pubblicato sul quotidiano Il Popolo di Roma.
Il giorno seguente lo stesso giornale pubblica, a sostegno di questa tesi, la lettera di Arturo Boccassini, segretario della sezione del Partito Nazionale Fascista-PNF di Barletta, che era stata rifiutata dalla Gazzetta del Mezzogiorno.
Il 3 novembre a Bari si costituisce un Comitato per far costruire il nuovo monumento nella città, di cui fanno parte alti esponenti del PNF, come Attilio Teruzzi, Comandante della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale-MVSN, Araldo di Crollalanza, Ministro dei Lavori Pubblici, e Achille Starace, Vice segretario nazionale del PNF. Appresa la notizia della costituzione del Comitato barese, a Barletta un gruppo di cittadini entra nel Comune, preleva il bozzetto del nuovo monumento e lo deposita nella Piazza del paese, su un piedistallo improvvisato.
Il 7 novembre 1931 Boccassini è destituito. Questo fatto provoca nuove manifestazioni, che degenerano in scontri con le forze dell’ordine.
Il 10 novembre, dopo l’arrivo del nuovo segretario della sezione del PNF di Barletta, si verifica una nuova manifestazione, nella quale sono lanciati sassi contro i Carabinieri, che reagiscono, sparando sui manifestanti ed uccidendo due persone.
In seguito a questi incidenti il nuovo monumento non viene più fatto. É rimasto quindi nella Contrada “Mattina di Sant’Elia”, nel territorio di Trani, il monumento ricostruito nel 1846, dopo la distruzione da parte dei Francesi nel 1805 di quello realizzato nel 1583.
Nel 1975, dopo decenni di abbandono, il monumento è stata restaurato dal Comune di Trani, con il sostegno finanziario del locale Rotary Club.
Ancora oggi, pur essendo stata combattuta la “disfida” nel territorio di Trani, si continua a chiamarla “disfida di Barletta”.
‘LEE MILLER’: in arrivo il film sulla grande fotografa americana-
Articolo di Elisabetta Colla. Rivista NOI DONNE-
Nelle sale da inizio 2025, distribuita da Vertice 360, la pellicola sulla straordinaria figura di Lee Miller è interpretata e prodotta da Kate Winslet
– Quella della fotografa, fotoreporter e modella statunitense Elizabeth, detta ‘Lee’, Miller è stata certamente una vita fuori dell’ordinario.
Lee era la figlia prediletta del padre Theodore, che si dilettava con la fotografia e che insegnò ai propri figli numerose tecniche fotografiche quando erano ancora molto piccoli: in particolare Lee, oltre ad essere sua allieva, fin dall’infanzia era stata anche la sua modella preferita e veniva spesso ritratta nelle sue fotografie stereoscopiche.
Un’infanzia anticonvenzionale e in parte drammatica (subì una violenza sessuale a soli sette anni, forse da un parente o da un marinaio), poi gli studi all’ École nationale supérieure des beaux-arts e, nel 1926, a 19 anni, la frequenza all’Art Students League di New York per studiare scenografia.
Poi la carriera da modella a seguito dell’incontro casuale con Condé Nast, editore di Vanity Fair e di Vogue, tra new York e Parigi, città dove diventò una fotografa affermata di arte e moda e di arte. La sua relazione con Man Ray e successivamente il matrimonio con Roland Penrose le diedero accesso ai circoli artistici e letterari più interessanti del ventesimo secolo.
Proprio per raccontare la storia di questa donna e artista unica, sfuggente a ogni definizione, uscirà a gennaio, distribuito da Vertice 360, diretto dalla direttrice della fotografia e regista statunitense Ellen Kuras (collaboratrice abituale di Spike Lee e Michel Gondry) il film “Lee Miller”, ispirato all’opera ‘Le molte vite di Lee Miller’ di Antony Penrose, figlio di Miller e del surrealista Roland Penrose.
Accanto a Kate Winslet, nei panni della protagonista (che aveva già lavorato in “Se mi lasci ti cancello” con la Kuras, quest’ultima in veste di direttrice della fotografia) e in veste anche di produttrice, sono presenti nel cast Alexander Skarsgård, Marion Cotillard, Andrea Riseborough, Josh O’Connor, Noémie Merlant, Andy Samberg.
Alla fine degli anni ’30, Elizabeth “Lee” Miller lascia la sua cerchia di amici e la sua vita artistica in Francia e va a Londra dopo essersi innamorata del mercante d’arte Roland Penrose. I due iniziano una relazione appassionata, proprio mentre in Europa scoppia la guerra.
Già fotografa riconosciuta, Lee ottiene un lavoro per British Vogue, ma rimane scioccata dalle restrizioni imposte alle fotografe donne.
Mentre il regime di Hitler conquista l’Europa, Lee è sempre più frustrata dal fatto che il suo lavoro sia limitato da regole patriarcali. Determinata a essere dove c’è l’azione, è in prima linea nella Seconda Guerra Mondiale.
Costretta a documentare la verità, volge il suo obiettivo verso la sofferenza e inizia lentamente a rivelare la spaventosa perdita di vite umane dovuta ai diabolici crimini di Hitler contro le vittime innocenti del suo regime. Lee Miller svolse questo pericoloso lavoro per il bene delle lettrici della rivista Vogue, alle quali la realtà della guerra era in gran parte tenuta nascosta, e nel processo produsse una serie indelebile di immagini che ancora oggi continuano a plasmare il nostro modo di vedere e documentando eventi quali il bombardamento strategico della battaglia d’Inghilterra, la Battaglia di Normandia, la liberazione di Parigi, i campi di concentramento di Buchenwald e di Dachau.
Celeberrimo, fra gli altri scatti, il suo autoritratto nella vasca da bagno di Hitler. Donna indipendente, determinata e libera, amica di Picasso e Man Ray, fu l’unica fotografa donna a documentare la liberazione dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald denunciandone con forza e lucidità la tragedia e gli orrori.
Nel corso di una carriera di oltre tre decenni entrò in contatto con personalità di ogni tipo, molte delle quali divennero soggetti dei suoi ritratti fotografici, come gli studi su Pablo Picasso, Max Ernst, Fred Astaire, Colette, Maurice Chevalier e Marlene Dietrich.
Nel panorama editoriale italiano ed europeo ‘NOIDONNE’ rappresenta un raro esempio di continuità editoriale che dal 1944 racconta – con espressioni professionali di alto livello e con attenzione al contesto culturale e politico nazionale ed internazionale – le attività, le conquiste, i pensieri e i movimenti delle donne. Lo sguardo di genere sulla realtà, attraverso le sue molteplici sfaccettature, è la scelta di campo che ha sempre scandito un percorso giornalistico scritto da donne.
LE ORIGINI E LE EDIZIONI CLANDESTINE.
Le prime edizioni di ‘Noi Donne’ risalgono al 1937 a Parigi – sotto la direzione di Marina Sereni – e sono espressione dell’associazione (facente capo all’Unione popolare) che raccoglieva le donne antifasciste emigrate in Francia. Nel 1944, nel pieno della Resistenza e della lotta contro il nazifascismo, le pubblicazioni riprendono in Italia con edizioni regionali prodotte e diffuse clandestinamente, in condizioni difficili e di altissimo rischio personale. Nella Sezione Archivio storico queste edizioni sono oggi consultabili.
1944: INIZIA IL CAMMINO.
A partire dal luglio 1944 ‘Noi Donne’ esce dalla clandestinità ed è stampato a Napoli sotto la direzione di Laura Bracco, con l’infaticabile apporto di Nadia Spano e la collaborazione di Rosetta Longo. Già al terzo numero redazione e amministrazione sono trasferite a Roma e a Laura Bracco si affianca Vittoria Giunti, insegnante che usciva dalla lotta antifascista clandestina. “Gli intendimenti con cui il giornale usciva – scrive Marisa Rodano in un reprint del 1977 – erano chiari: essere un giornale per tutte le donne, costituire un legame per tutte le energie femminili vogliose di battersi per sconfiggere il fascismo e partecipare direttamente alla costruzione di un’Italia diversa, far conoscere la lotta delle donne nell’Italia occupata, sollecitare nell’Italia liberata lo sviluppo di un movimento di donne”. La formula scelta è quella di un foglio politico che però non rinuncia a parlare di temi che “tradizionalmente le donne sono abituate a trovare nei periodici ad esse diretti: narrativa, moda, cucina…”. L’attenzione è dedicata alle lotte alle contadine per abolire la consuetudine feudale delle regalie dovute ai padroni, alle azioni di rivendicazione per il cibo, all’impegno fattivo delle donne per riaprire le scuole in una Roma distrutta dai bombardamenti, ma insieme alla ripresa della vita democratica e associativa delle donne. Inizialmente mensile, negli anni successivi la periodicità diventerà quindicinale e poi settimanale sotto la lunga direzione di Giuliana Dal Pozzo e di Miriam Mafai. Tornerà ad essere mensile nel 1981, mantenendo tale cadenza fino al dicembre 2016 quando, sospese le edizioni in versione cartacea, si potenziano le varie declinazioni diffuse attraverso la rete virtuale: dal sito al settimanale on line fino ai social. Fino agli ani Novanta ‘Noi Donne’ è stata la rivista dell’Udi (Unione Donne in Italia), un rapporto dinamico che dal 1944 nel tempo si è modificato arrivando alla completa autonomia.
TUTTE LE DIRETTORE.
Elenchiamo, in progressione cronologica, le giornaliste che hanno diretto ‘NOIDONNE’ dal 1944: Rina Piccolato, Nadia Spano, Luara Bracco, Vittoria Giunti, Dina Rinaldi, Maria Antonietta Macciocchi, Milla Pastorino, Benedetta Galasi-Beria, Miriam Mafai, Giuliana Dal Pozzo, Vania Chiurlotto, Anna Maria Guadagni, Mariella Gramaglia, Franca Fossati, Bia Sarasini, Tiziana Bartolini.
‘NOIDONNE’ NEL TERZO MILLENNIO.
Il giornale arriva alle soglie del 2000 nel pieno di una pesante crisi finanziaria che è superata – dopo una profonda riorganizzazione – grazie ad un riassestamento interno e ad un riposizionamento nel mercato editoriale. Tale fase è stata espressione della generosità e professionalità che tante amiche hanno messo a disposizione di una rinnovata rete di contatti e contaminazioni avviata sotto la direzione di Tiziana Bartolini.<
NOIDONNE ONLINE
– www.noidonne.org. Il sito e il settimanale on line (diretto da Tiziana Bartolini) sono la conferma dell’impegno al servizio di un progetto editoriale di genere che ha mostrato di saper essere dinamico, aperto alle innovazioni anche tecnologiche e sensibile alle potenzialità della rete e dei social media (Facebook https://www.facebook.com/Noidonne-38907601699/ – twitter @noidonnemag).
ARCHIVIO STORICO DIGITALIZZATO.
L’Archivio storico di ‘NOIDONNE’ è un patrimonio nazionale culturale e giornalistico. La possibilità di consultarlo è preziosa occasione – soprattutto per le giovani generazioni – di conoscere la storia contemporanea e alcuni particolari aspetti quali le lotte delle donne, che sono parte importante dell’evoluzione della nostra democrazia. Rendere fruibile on line tale Archivio è un grande obiettivo per il quale siamo impegnate, anche allo scopo di tutelare le edizioni cartacee originali che cominciano a deteriorarsi.
Sono già consultabili on line le annate più recenti (2006 / 2016). Nel 2017 è stata avviata la digitalizzazione dell’Archivio storico, a cominciare dalle edizioni clandestine del 1944/45.
Con nuovi progetti e campagne mirate continueremo a raccogliere fondi per completare la digitalizzazione dell’Archivio.
Roma- Museo dell’Ara Pacis-Franco Fontana – Retrospective-
Roma Capitale -Museo dell’ dell’Ara Pacis-Franco Fontana – Retrospective – Prima grande mostra retrospettiva dedicata a Franco Fontana, un progetto espositivo che ripercorre per la prima volta l’intera carriera artistica del fotografo modenese, con opere selezionate dal suo vasto archivio.
Un viaggio straordinario attraverso l’occhio unico di uno dei più grandi fotografi italiani del XX secolo, che ha rivoluzionato il linguaggio della fotografia a colori, nella mostra Franco Fontana. Retrospective, curata da Jean-Luc Monterosso e ospitata al Museo dell’Ara Pacis.
Curatore di fama mondiale, storico fondatore e direttore della Maison Européenne de la Photographie di Parigi, Monterosso guida la visitatrice e il visitatore alla scoperta dell’universo creativo del fotografo modenese, svelandone aspetti inediti, ripercorrendone l’evoluzione artistica e la sua capacità di trasformare la realtà in pura poesia visiva. Attraverso una selezione di oltre 200 fotografie e muovendosi in spazi immersivi, tra particolari installazioni e video, si scoprono infinite possibilità ottiche: in un’alternanza di inquadrature ardite, profondità di campo ridotta e inquadrature dall’alto si possono ammirare immagini astratte e minimaliste caratterizzate da una giustapposizione di colori brillanti e da forti contrasti, elementi che hanno reso Fontana un precursore in un mondo fotografico bianco e nero.
E seppure temi come gli skyline, i paesaggi e l’architettura urbana, continuino a ricorrere rendendo vano qualsiasi tentativo di cronologia, Franco Fontana rinnova costantemente il suo lavoro. Dalla diapositiva alla polaroid al digitale, seguirà gli sviluppi tecnici della fotografia continuando sempre a sperimentare.
Il percorso espositivo si apre con una veduta grandangolare di Praga, usata come copertina della rivista Time Life e del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine e con un ritratto di Franco Fontana realizzato da Giovanni Gastel.
Dopo una serie di scatti di paesaggi naturali ed urbani caratterizzati da una forte geometria e dall’essenzialità degli elementi, introdotti da immagini che esaltano il colore bianco come Urbano 1960, il si giunge progressivamente alle opere rappresentative della fotografia a colori negli anni 1960-1970.
A segnare la carriera del fotografo e la sua produzione artistica è la pubblicazione nel 1978 del volume Skyline. Claude Nori relativamente al libro afferma “con il suo radicalismo e il suo approccio puramente fotografico, ha contribuito ad aprire la strada alla nuova fotografia italiana”.
In Skyline contrasti cromatici e colori vividi definiscono un nuovo approccio al paesaggio come il visitatore ha modo di scoprire nel corso della visita. Nella stessa sezione uno spazio è dedicato ad accogliere alcuni vintage ritraenti soggetti vari come paesaggi urbani, frammenti, asfalti, automobili, e un nudo, NUDO 1969.
La mostra prosegue con una serie di scatti di paesaggi naturali catturati nelle varie sfumature delle quattro stagioni: mare, neve e pianure verdeggianti che culminano nella celebre immagine Puglia 1978 precisamente divisa in due blocchi di colori vividi, azzurro intenso del cielo e giallo brillante del grano. Fontana, relativamente ai paesaggi afferma: “Quando fotografo un paesaggio è il paesaggio che entra dentro di me, si fa l’autoritratto, così anch’io diventi un ‘paesaggio’, per esprimermi al meglio.”
Il percorso di visita continua con fotografie che rappresentano il sapiente studio sull’ombra del maestro. La sezione si apre con un vintage dalla serie Contact (pubblicazione di Ralph Gibson):
nel 1979 Ralph Gibson invita i più influenti fotografi dell’epoca a contribuire al libro Contact Theory con un intero rullino in bianco e nero. Fontana accetta la sfida e sceglie come soggetto il Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR creando opere memorabili caratterizzate da un’atmosfera
metafisica. Queste opere introducono una serie di rari scatti realizzati in Francia e in Asia che catturano persone in contesti urbani come Parigi 1994 e Tokio 1983.
Nella stessa area ci si immerge letteralmente in piscina, scoprendo l’arte della fotografia negli spazi acquatici. Per Franco la piscina è soprattutto un’occasione per esaltare la bellezza delle forme femminili, in un vibrante elogio delle curve. Questa sensualità discreta troverà nelle Polaroid la sua massima espressione.
In mostra anche un’incursione nella vita privata del maestro. In esposizione, infatti, una riproduzione dello studio di Fontana, caratterizzato da un insieme confuso di materiali, in netto contrasto con il minimalismo e l’essenzialità delle sue fotografie ed arricchito da una videointervista del fotografo. Fontana segue con interesse gli sviluppi tecnici della fotografia, sperimenta e acquisisce gli strumenti forniti dalla tecnologia per creare innovativi collage. Partendo dai paesaggi urbani e dalle strade, aggiunge personaggi e ombre, talvolta modificandone i colori e accentuandone i contrasti come in Houston 1986 dalla serie People. Il pubblico, a questo punto del percorso espositivo, ha la possibilità di scoprire le opere che enfatizzano lo stile iperrealista profondamente personale del maestro, in contrasto con le tendenze della Street Photography, per poi ammirare una serie di scatti dalla serie Luce Americana e Frammenti.
Un’area del percorso è interamente dedicata all’esposizione di rare polaroid e polaroid transfer utilizzate quali “appunti visivi” durante i vari reportage. In questo caso, l’erotismo raggiunge la massima espressione; le immagini risultano morbide e meno nitide come in Nudo 1977. Esposto anche un interessante video dedicato al tema del “colore”, posizionato tra due scatti della serie Frammenti, Havana 2017. A seguire sono presentati alcuni scatti di paesaggi urbani, che comprendono le opere realizzate a Los Angeles dal 1979. “Il paesaggio urbano completa i miei paesaggi naturali. I muri dipinti delle case somigliano a dei campi arati o a dei campi di grano giallo”, afferma Fontana.
Al centro della sezione successiva si alternano diverse opere dedicate all’autostrada, all’asfalto, alle automobili. Durante i suoi viaggi ama fotografare in movimento e, utilizzando un lungo tempo di esposizione, sintetizza e cattura in un unico scatto le linee delle strade come in Autostrada 1975. Dagli anni 70 fino ai giorni nostri, catturato da grafismi e da segni colorati che emergono dalla superficie nera, fotografa l’asfalto e realizza opere esemplari come Asfalto 1990. In quest’area, il pubblico ha la sensazione di camminare sull’asfalto fotografato grazie a particolari light box con cinque stampe retroilluminate. Inoltre, è possibile ammirare splendidi scatti di automobili che tanto affascinano il maestro per la loro forma e design e una meravigliosa video-installazione di cinque fotografie in sequenza, Modena 1978.
Il pubblico ha l’opportunità di comprendere ulteriormente l’importanza della strada per Fontana attraverso un video-book dedicato alle tre strade per eccellenza: la Route 66, la strada verso Compostela e la Via Appia. Quest’ultima chiude la trilogia; è la strada che non solo permette al fotografo di riscoprire i paesaggi a lui familiari che hanno caratterizzato la sua produzione, ma anche rafforza il legame del maestro con la città di Roma e con il patrimonio della nostra civiltà.
A seguire, viene presentato un autoritratto del fotografo arricchito dalla sua biografia e, proseguendo nella visita, è possibile ammirare un interessante selezione di nudi femminili, le cui curve sono accentuate da veli e panneggi, accostati a fotografie delle statue del Cimitero di Staglieno, dalla serie Vita Nova.
L’ultima sezione della mostra, che si sviluppa lungo l’esteso corridoio del museo, accoglie fotografie dedicate alla moda, alle numerose pubblicità e realizzate in occasione di commissioni private. Le geometriche immagini dalla serie Artemide introducono un video-book del catalogo dei Dogi della Moda; e ancora, uno scatto, Ceramica 2010, introduce ad un ulteriore video-book del volume Terra a Fuoco. Dopo l’intensa esperienza di visita, il pubblico ha anche la possibilità di scoprire aspetti privati della vita del fotografo grazie all’esposizione in vetrine di fotografie personali, vinili, altri oggetti per finire con le coloratissime immagini dalla campagna pubblicitaria più recente di Sportmax del 2020.
Con l’obiettivo di rendere i musei luoghi aperti a tutti e per tutti e nell’intento di favorire la partecipazione del più ampio numero di persone alla vita culturale della città, la Sovrintendenza Capitolina prosegue nel suo impegno di dotare anche le mostre temporanee di servizi che rispondano alle diverse esigenze della cittadinanza, attraverso un potenziamento continuo dei percorsi di accessibilità. La mostra FRANCO FONTANA. Retrospective è progettata pertanto per essere accessibile.
Con la collaborazione di Fabio Fornasari, direttore scientifico presso l’Istituto dei ciechi Cavazza di Bologna, ha preso vita il progetto BIBLIOTECA ASTRATTA, un dispositivo di accessibilità da sfogliare, smontare e rimontare per accompagnare tutti, vedenti e non vedenti, alla scoperta dell’opera del maestro modenese. Composta da sei unità, posizionate nel percorso espositivo, la Biblioteca Astratta è un luogo simbolico, dove ogni scatto di Franco Fontana diventa un silent book tattile. Grazie al rinnovato impegno di Rai Pubblica Utilità, del Dipartimento Politiche sociali e Salute – Direzione Servizi alla Persona di Roma Capitale e della Cooperativa Segni d’Integrazione Lazio, sono inoltre disponibili audiodescrizioni e video LIS per accompagnare i l pubblico con disabilità visiva e uditiva nel percorso mostra. I contenuti delle audiodescrizioni e dei video LIS sono disponibili sulla Pagina Accessibilità del museo e sui canali di comunicazione RAI.
Dal 13 Dicembre 2024 al 31 Agosto 2025Luogo: Museo dell’Ara Pacis
Indirizzo: Lungotevere in Augusta
Orari: tutti i giorni 9.30-19.30 24 e 31 dicembre 9.30-14.00 Giorni di chiusura 1 maggio e 25 dicembre
Enti promotori:
Roma Capitale
Assessorato alla Cultura
Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
In collaborazione con Franco Fontana Studio e Civita Mostre e Musei
Ing.Andrea Natile-La fuga di uno dei ragazzi di via Panisperna-
Roma-La fuga di uno dei ragazzi di via Panisperna-Ottima famiglia, bell’aspetto, grande giocatore di tennis, avrebbe potuto diventare un professionista, appassionato di pesca subacquea e di sci nautico. Amava le automobili veloci, e in quela fuga dovette abbandonare l’ultima, che lasciò nell’officina del suo meccanico di fiducia per non lasciare tracce dietro di se; uno dei suoi rimpianti. Il rimpianto più grande fu sicuramente lasciare Roma, quella città che aveva condiviso con quei ragazzi.
Non aveva ancora quarant’anni, quando scelse di andare a vivere in quel posto freddo, molto diverso da quelli dove era nato, la Versilia, e poi Roma, dove aveva deciso di andare per studiare Fisica.
Perchè? Lo raccontò in un’intervista a Miriam Mafai, quando ormai aveva ottant’anni. Alla domanda della sua amica giornalista: “Bruno, ti sei pentito di quella scelta fatta quarant’anni fa?” Bruno rispose: “Ci ho pensato molto, non puoi immaginare quanto. Ma non riesco a dare una risposta”.
Bruno Pontecorvo era nato a Marina di Pisa, nell’agosto del 1913, in una famiglia bene di origini ebraiche. I suoi primi studi sono di ingegneria all’università a Pisa, ma poi, superato il biennio, aveva pensato che non faceva per lui: voleva fare il ricercatore. Nel 1931, si trasferisce a Roma, dove insegnava il grande Enrico Fermi.
Fermi e Rasetti, gli fanno il colloquio di ammissione al terzo anno della Facoltà di Fisica. Fu così che entrò a far parte di quel gruppo “i ragazzi di via Panisperna”; aveva solo diciotto anni e per questo lo soprannominarono “cucciolo”. Nel 1934 c’era, quando scoprirono gli “elettroni lenti”: quel cucciolo era entrato nella storia della Fisica che conta.
Nel 1936, era a Parigi con una borsa di studio per studiare con Frédéric Joliot e Irène Curie, che l’anno dopo vinsero il Nobel per la scoperta della radioattività artificiale.
A Parigi Bruno incontrò Marianne, una giovane svedese che divenne poco tempo sua moglie e che gli diede il suo primo figlio Gil.
Era scoppiata la guerra in Spagna e cominciò a interessarsi di politica. Gran parte dei suoi colleghi erano di sinistra, anche Irène e Frédéric Joliot; lui attivo comunista, era membro del governo di Léon Blum.
Nella capitale francese era presente anche suo cugino Emilio Sereni, dirigente del PCI, esule, in Francia, perchè perseguitato dai fascisti. Grazie a lui Bruno stabilì rapporti d’amicizia con gli intellettuali emigrati a Parigi per la politica: si iscrisse al partito.
Dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali del 1938 lui, ebreo e comunista, era dovuto restare in Francia. Poi le cose cominciarono a precipitare: nel settembre del ‘39 scoppiò la guerra e nel giugno del ‘40 ci fu l’invasione di Parigi da parte dei tedeschi.
Per gente come lui non c’era più posto nel Vecchio Continente. Con Marianne, decise di lasciare la Francia; scapparono, prima in bicicletta per la Spagna, poi in nave per gli Stati Uniti.
Nell’agosto del 1940, dopo una visita al suo maestro Fermi che era alla Columbia di New York, trovò lavoro in una compagnia petrolifera. Aveva messo a punto una tecnica di introspezione di nuovi pozzi petroliferi, con il tracciamento dei neutroni lenti.
Poco dopo, anche gli Stati uniti entrarono in guerra; era partito il Progetto Manhattan per la costruzione dell’atomica, ma lui non fu coinvolto, probabilmente a causa delle sue idee comuniste.
Nel ‘43 si trasferisce in Canada; lavora a ricerche teoriche nel campo dei raggi cosmici, delle particelle elementari ad alta energia, e aspetta la fine della guerra.
Nel ’47, riprendendo studi condotti anni prima dall’amico Ettore, portò avanti importanti ricerche sulla fisica di quella particella strana, il neutrino di Majorana. Diventò uno dei più grandi esperti del settore.
Nel 1948, su invito di John Cockcroft (Nobel per la Fisica nel ‘51) si trasferì nei pressi di Oxford in Inghilterra e lì prese anche la cittadinanza. Lavorava nell’Atomic Energy Research Establishment, il principale centro di ricerche nucleari voluto dal governo inglese.
Partecipò solo marginalmente al progetto per la costruzione dell’atomica inglese, i suoi studi principali, erano sempre sui raggi cosmici.
In occasione delle sue trasferte scientifiche, aveva conosciuto Klaus Fuchs, il fisico che poco dopo fu condannato per spionaggio in favore dell’Unione Sovietica. Si era nel periodo di “caccia alle streghe” ed è lì che forse maturò la sua scelta di campo.
Nell’estate del 1950 lasciò la sua casa vicino Oxford, senza avvertire nessuno; con la sua famiglia raggiunse l’Italia. Dopo un breve periodo Roma, abbandonò la amata macchina. L’intera famiglia prese un aereo con destinazione Stoccolma e da lì si imbarcò per Helsinki; destinazione Leningrado.
Nascosti nel bagagliaio di due auto i Pontecorvo attraversarono la cortina di ferro. Entrati in Unione Sovietica e giunti a Mosca, furono sistemati in un comodo appartamento in via Gorkij. I sovietici erano gentili, ma inflessibili sulla segretezza: per alcuni mesi furono costretti al più completo isolamento.
Trasferiti a Dubna, a un centinaio di chilometri dalla capitale, dove c’era l’aristocrazia della Fisica sovietica, gli diedero la direzione di una divisione sperimentale di Fisica Nucleare, libero di condurre le sue ricerche.
Nel 1959, per primo dimostrò per via teorica l’esistenza di diversi tipi di neutrini come già aveva ipotizzato nel ‘47. Stava nascendo la fisica dell’alta energia, anche in Russia, ma, con l’acceleratore di particelle di Dubna, troppo poco potente, non riuscì a provare le sue ipotesi per via sperimentale.
Soltanto agli inizi degli anni Sessanta, gli americani Leon Ledermann, Melvin Schwartz e Jack Steinberger confermarono la scoperta del fisico italiano. Questa scoperta valse ai tre fisici il premio Nobel nel 1988. L’esclusione dal premio di colui che per primo aveva l’aveva prevista suscitò lo scalpore di buona parte della comunità scientifica internazionale.
Inammissibile darlo ad un cittadino italiano, scappato dall’Inghilterra, per di più diventato cittadino sovietico dal 1952, che aveva ricevuto il Premio Stalin e faceva parte dell’Accademia sovietica delle scienze.
Per molti anni non poté lasciare l’URSS e riuscì a ritornare la prima volta in Italia solo nel 1978 in occasione del settantesimo compleanno di Edoardo Amaldi. In quello stesso anno comparvero i primi sintomi del morbo di Parkinson che progressivamente, senza mai togliergli lucidità, limiterà i suoi movimenti.
Poi nel ‘93 a Dubna, a causa di quel maledetto male, cadde bruscamente dalla bicicletta e come conseguenza di una brutta fattura morì 24 settembre 1993
-Stefania Franceschini-FRANCIS POULENC Una biografia-
-Zecchini Editore Varese-
Descrizione del libro di Stefania Franceschini-Questa è la prima biografia in italiano del compositore francese Francis Poulenc (Parigi 1899-1963). La Francia gli ha dedicato molti studi, elogiandolo quasi a guisa di eroe nazionale, ma in Italia c’era un vuoto che, forse, questo studio comincerà a colmare. Poulenc amava molto il nostro paese: la sua arte infatti si concretizza in una propensione naturale verso il melodismo. Oltre a Mozart e Stravinskij – i modelli di riferimento determinanti per la sua vita artistica – il suo sentire musicale si rivolge a Monteverdi, Verdi e Puccini. Proprio a Verdi dedicherà la partitura dell’opera che rappresenta l’apice della sua produzione artistica, Les Dialogues des Carmélites, la cui prima rappresentazione alla Scala di Milano – committente del lavoro – nel 1957, fu un vero trionfo. Le tappe fondamentali della vita privata ed artistica di Francis Poulenc sono raccontate con particolare attenzione ai concerti tenuti in Italia assieme ai suoi partner eterni: Pierre Bernac, Pierre Fournier e Denise Duval; le cronache dell’epoca (di mano di grandi esponenti del mondo musicale e letterario: Malipiero, Pizzetti e Montale) e gli scritti del compositore stesso – lettere, interviste e commenti sulle proprie opere impreziosiscono la narrazione. Un capitolo è dedicato a Venezia: qui Poulenc, nel 1932, presentò il suo Concerto per due pianoforti e orchestra – commissionato dalla Principessa de Polignac – al Festival della Musica Contemporanea della Biennale. In una seconda sezione del libro sono state classificate, per genere, tutte le opere: oltre ad un commento, ove possibile è stata indicata la data della prima esecuzione. L’augurio è che la passione per la musica di Poulenc, che ha spinto alla compilazione di questo volume, possa arrivare al cuore del lettore, proprio come le melodie del compositore, il quale scrisse solo sotto l’impulso della sua sensibilità, per una pura e semplice volontà di dilettare gli ascoltatori, prima, e se stesso, poi.
Stefania Franceschini
FRANCIS POULENC. Una biografia
XVI+320 – f.to cm. 17×24 – illustrato – Euro 23,00-
Breve biografia di José Hierro – (Madrid, 3 de abril de 1922-21 de diciembre de 2002). è stato un poeta spagnolo, critico d’arte e membro dell’Accademia Reale della Lingua. La sua famiglia si trasferì a Santander quando era bambino e lì studiò per diventare perito industriale, fino al 1936. La sua prima poesia, Una bala le ha matado, fu pubblicata nel 1937. Alla fine della guerra civile fu arrestato e processato. Rimase in carcere fino al 1944, dove iniziò a interessarsi sistematicamente di letteratura. Quando fu rilasciato si trasferì a Valencia, dove si dedicò alla scrittura, collaborò a un dizionario mitologico e, insieme a José Luis Hidalgo, partecipò alla fondazione della rivista Corcel.
Luna d’agosto
Tamburello dei secoli per addormentare l’uomo
imprigionato nel cuore muto dell’universo.
Mezza mela d’oro da mangiare per il bambino
finché non si sentirà eterno.
Alberi, ponti, torri, montagne, mari, strade.
E tutto ciò che va alla deriva svanirà.
Quando essi non vivono più, nello spazio, liberi,
tu continuerai a vivere.
E quando ci stanchiamo (perché dobbiamo stancarci).
E quando ce ne andremo (perché vi lasceremo).
Quando nessuno si ricorda che un giorno moriremo
(perché moriremo).
Tamburello dei secoli per addormentare l’uomo,
mezza mela d’oro che misura il nostro tempo,
quando non sentiamo più, quando non saremo più,
tu continuerai a vivere.
“Luna d’agosto” testo originale spagnolo
Pandereta de siglos para dormir al hombre
preso en el corazón mudo del universo.
Media manzana de oro para que el niño coma
hasta sentirse eterno.
Árboles, puentes, torres, montes, mares, caminos.
Y todo a la deriva se irá desvaneciendo.
Cuando ellos ya no vivan, en el espacio, libre,
tú seguirás viviendo.
Y cuando nos cansemos (porque hemos de cansarnos).
Y cuando nos vayamos (porque te dejaremos).
Cuando nadie recuerde que un día nos morimos
(porque nos moriremos),
pandereta de siglos para dormir al hombre,
media manzana de oro que mide nuestro tiemo,
cuando ya no sintamos, cuando ya no seamos,
tú seguirás viviendo.
Accanto al mare
Se muoio, che mi mettano nudo, nudo accanto al mare. Saranno le acque grigie il mio scudo e non si dovrà lottare.
Se muoio che mi lascino da solo. Il mare è il mio giardino. Non può, chi amava le onde, desiderare un’altra fine.
Sentirò la melodia del vento, la misteriosa voce. Sarà finalmente vinto il momento che miete come falce.
Che miete incubi. E quando la notte inizierà ad ardere, sognando, singhiozzando, cantando, io nascerò di nuovo.
José Hierro
(Traduzione di Alessandro Ghignoli)
da “José Hierro, Poesie scelte”, Raffaelli Editore, 2004
∗∗∗
Junto al mar
Si muero, que me pongan desnudo, desnudo junto al mar. Serán las aguas grises mi escudo y no habrá que luchar.
Si muero que me dejen a solas. El mar es mi jardín. No puede, quien amaba las olas, desear otro fin.
Oiré la melodía del viento, la misteriosa voz. Será por fin vencido el momento que siega como hoz.
Que siega pesadumbres. Y cuando la noche empiece a arder, soñando, sollozando, cantando, yo volveré a nacer.
José Hierro
da “José Hierro, Quinta del 42”, Editora Nacional, 1952
Una splendida poesia d’amore di José Hierro
Se fosse vero che due anime
camminano congiunte, senza
che i corpi si conoscano;
Se fosse vero
che si son toccate da sempre,
che bevvero la stessa luce,
che lo stesso destino le culla;
Se fosse vero che son foglie
dello stesso arbusto, eterno e verde;
Se fosse vero che il loro trionfo
si compie il dì che avranno
gli occhi dell’anima gemella
fissi nella loro carne presente;
Se tutto ciò fosse vero,
come mai quel giorno di settembre
non ti cercai, chiamai, portai;
Come mai ignoravo che esistessi,
Come mai non trattenni la stella
che t’arrossava la fronte;
Come mai potevo cantare
sotto la fiamma del ponente;
Come mai poteva non esistere
il tuo passato di ora, che mi doleva.
Come ha potuto essere.
E come non lo impedii, con unghie, denti,
cuore…
VORREI NON ODIARE QUESTA SERA
(José Hierro del Real)
Vorrei non odiare questa sera,
non portare sulla mia fronte la nube oscura.
Questa sera vorrei avere occhi più chiari
per posarli sereni nella lontananza.
Dev’essere bellissimo poter dire:
“Credo nelle cose che esistono e in altre
che probabilmente non esistono,
in tutte le cose che possono salvarmi,
anche ignorando il loro nome;
conosco la frutta dorata che dona l’allegria.”
Vorrei non odiare questa sera,
sentirmi leggero, essere fiume che canta,
essere vento che muove la spiga.
Guardo a ponente. S’abbuiano i lunghi percorsi
che vanno nella notte,
che donano la loro stanchezza alla notte,
che entrano nella notte
a sognare nella sua grande menzogna.
Le strade non portano
Le strade non portano
a nessuna meta; tutte
terminano in noi.
La fiamma del crepuscolo
ci fonde in unità.
È bello camminare,
sognare, cantare. Bello
essere gran tenerezza
con un cuore vicino,
(con un dolore remoto).
La sera si denuda,
mostra i suoi ori profondi.
Ogni forma ci incanta
col suo vino gioioso.
Ormai non c’è nulla: – passato,
futuro, ombre, gioie -,
fuori di noi.
La sera spolvera
il suo caldo tesoro.
I suoi pampini di fuoco
stillano nei nostri occhi.
La sera è nostra. Il mondo
fu fatto per noi.
Siamo il suo centro vivo
e gira il tempo intorno.
Passa e non può ferire
col suo dolore remoto
il nostro cuore vicino.
Le strade non portano
a nessuna meta; tutte
terminano in noi.
(Traduzione di Oscar Macrì)
BIOGRAFIA José Hierro
José Hierro . (Madrid, 3 de abril de 1922-21 de diciembre de 2002). è stato un poeta spagnolo, critico d’arte e membro dell’Accademia Reale della Lingua. La sua famiglia si trasferì a Santander quando era bambino e lì studiò per diventare perito industriale, fino al 1936. La sua prima poesia, Una bala le ha matado, fu pubblicata nel 1937. Alla fine della guerra civile fu arrestato e processato. Rimase in carcere fino al 1944, dove iniziò a interessarsi sistematicamente di letteratura. Quando fu rilasciato si trasferì a Valencia, dove si dedicò alla scrittura, collaborò a un dizionario mitologico e, insieme a José Luis Hidalgo, partecipò alla fondazione della rivista Corcel. Nel 1944 scrive la prima critica pittorica dell’opera di Modesto Ciruelos. Negli anni ’40 torna a Santander dove collabora alla rivista della Camera di Commercio. Nel 1946 entra a far parte dell’innovativo gruppo “Proel”, editore dell’omonima rivista di poesia, nella quale pubblica il suo primo libro di poesie, Tierra sin nosotros, nel 1947. Nel 1950 scrive Con las piedras, con el viento (Con le pietre, con il vento) e nel 1953 appare Antología poética (Antologia poetica). Stabilitosi a Madrid, inizia a lavorare per la Radio Nacional de España, oltre a scrivere critiche d’arte e a collaborare con riviste e giornali. Nel 1955 pubblica Estatuas yacentes e nel 1962 il volume Poesías completas. Ha tenuto un gran numero di conferenze sulla poesia e sull’arte nella maggior parte delle capitali europee e le sue poesie appaiono nelle più importanti antologie di poesia contemporanea. Ha ricevuto il Premio Nacional de las Letras nel 1990, anno di pubblicazione di Agenda. Nel 1998 ha pubblicato Cuaderno de Nueva York e ha ricevuto il Premio Cervantes. Ha ricevuto la laurea Honoris Causa dall’Università di Torino nel 2002. È morto alla fine dello stesso anno.
José Hierro del Real. (Madrid, 3 de abril de 1922-21 de diciembre de 2002). Poeta español, crítico de arte y académico de la Real Academia de la Lengua.
Su familia se traslada a Santander siendo niño y allí estudia la carrera de perito industrial, que tuvo que interrumpir en 1936. Su primer poema, Una bala le ha matado, aparece publicado en 1937.
Al finalizar la Guerra Civil es detenido y procesado. Permanece en la cárcel hasta 1944 y allí empieza a interesarse de forma sistemática por la literatura, apareciendo ya en sus primeros escritos diversos hechos vividos durante la contienda.
Cuando sale de prisión se traslada a Valencia, donde se dedica a escribir, colabora en un diccionario mitológico y, junto a José Luis Hidalgo, participa en la fundación de la revista Corcel. En 1944 realiza la primera crítica pictórica sobre la obra de Modesto Ciruelos.
Durante los años 40 vuelve a Santander y, además de trabajar en diferentes oficios, colabora en la revista de la Cámara de Comercio, donde escribe sobre economía y sobre los hombres ilustres de la industria cántabra.
En 1946 se relaciona con el renovador grupo “Proel”, editor de la revista poética del mismo nombre en la que publica su primer libro de poemas, Tierra sin nosotros, en 1947.
En 1950 escribe Con las piedras, con el viento y en 1953 aparece Antología poética, una amplia selección de su obra lírica.
Durante esa época fija su residencia en Madrid, donde comienza a trabajar en Radio Nacional de España, además de realizar crítica de arte y colaborar en revistas y periódicos.
En 1955 se publica Estatuas yacentes y en 1962 el volumen Poesías completas.
Durante las décadas siguientes continúa creando poesía, participa en actividades literarias, realiza crítica de arte analizando la obra de artistas del campo de la pintura y de la escultura, y forma parte de numerosos jurados literarios. Pronuncia gran número de conferencias sobre poesía y arte en la mayoría de las capitales europeas y sus poemas figuran en las más destacadas antologías de poesía contemporánea.
Premio Nacional de las Letras, en 1990, año en el que ve la luz Agenda.
En 1998 publica Cuaderno de Nueva York y recibe el Premio Cervantes.
Nombrado Doctor Honoris Causa por la Universidad de Turín, en 2002. Fallece a finales de ese mismo año.
José Hierro está considerado como una de las voces más representativas de la poesía social de posguerra.
Sottopongo alla vostra attenzione alcuni versi di Giorgio Piovano (1920-2008) . Mi sembra straordinaria la capacità mostrata dall’autore di trasformare in poesia la vita di milioni di uomini cancellati e dimenticati dalla storia.
Proemio
Questo è il poema degli uomini senza storia
Che alle cerimonie fanno sempre la parte del pubblico
E vengono a galla solo quando si compilano
Le statistiche dei cataclismi :
il poema degli uomini che non hanno mai
avuto una bandiera
e si sono sempre trovati
accodati a quelle degli altri.
Questo è un poema anonimo e materiale
Fatto solo di cose usuali
E di facce senza niente di speciale;
poema cosi povero e rozzo
che per spiegarsi non ha
se non parole di tutti i giorni
e di tutto il campionario
delle gioie e dei dolori
che la Vita mette in vetrina
sa commuoversi solo di quelli
che si possono chiamare
con nome e cognome.
E questo è il suo proemio
messo avanti per avvertire
le schive Anime Nobili
che qui non è aria per loro.
[…]
Ultimo canto
[…]
Io non sono che uno
della mia generazione, uno dei tanti che si credevano i soli
ad avere una storia.
Ma ora so
che un po’ tutti possiamo parlare
della casa della nostra infanzia
dei terrori davanti la porta socchiusa
del corridoio deserto,
del gioco dei pellerosse nei prati
vicino al gasometro, dopo scuola,
delle principesse rapite dai corsari,
di nostro padre che rantolava
nel letto su una montagna di cuscini,
e del vento notturno alle finestre della nostra stanza,
il vento nato sugli altipiani
tremila miglia lontano…
Fummo in molti che lungo le mura
solitarie delle antiche città
erravano viandanti inquieti
tormentandosi per la gloria.
Fummo in molti che accanto a una donna
ci affacciammo alle balaustre
dove splende la curva
del pianeta e s’inseguono
per stellari praterie
eternamente giovani
le comete scintillanti.
E fummo in molti a conoscere
la sapienza dei libri
i cieli d’ardesia sulle città
e il sapore acre del cloroformio,
gli andirivieni dei parenti
davanti alle sale d’operazione
e la guerra, il sangue rappreso nei fossi,
il rombo dei quadrimotori
i lampi dell’artiglieria nella notte
e il vecchio abbattuto sotto i ciliegi
che incarogniva nero
nella gramigna tra milioni di mosche
[…].
La mia storia è la storia di tutti
e la vostra è la mia.
Ascoltate come nel mondo
più incalzanti che nel filo
del telegrafo le linee e i punti
brusiscono i pensieri
di miliardi d’uomini.
[…]
Quanto ancora dovrà salire
l’amaro nella gola degli uomini
che contemplano nel riquadro
dell’inferriata le stelle
della loro ultima notte?
[…]
Io non ho che la mia vita
e la sapienza dei libri.
Io non sono che un cieco
sulla riva del mare
investito dall’uragano
che gli mulina intorno, lontane e vicine
le voci dei naufraghi che chiedono aiuto.
Giorgio Piovano, Poema di noi, Effigie edizioni,Milano 2007.
Il “Poema di noi” (premio Viareggio opera prima nel 1950) è stato scritto negli anni Quaranta. Giorgio Piovano si richiamava a quel filone del “realismo socialista” che allora ispirava molta della letteratura di sinistra. Di fronte all’evolversi degli avvenimenti, al modificarsi dello stesso “modo di far politica”, potrebbe apparire anacronistico riproporre oggi – almeno nei termini in cui lo viveva allora l’autore – quel “bisogno di verità e coraggio” di cui ha parlato Davide Lajolo nella prefazione a “Il fuoco e la cenere”. In realtà, esiste un tenace filo conduttore tra le attese di ieri e quelle di oggi, come d’altra parte, senza quelle speranze, appare arduo capire la delusione e il disincanto che oggi sembrano serpeggiare in una parte della sinistra italiana ed europea. Sarebbe tuttavia riduttiva una lettura di questi versi condotta solo in chiave politica e nostalgica. La poesia di Piovano è soprattutto emozione, come scrive nell’introduzione un altro poeta civile, Alberto Bellocchio: “Poesia? Quella di Piovano è qualcosa di più. È spettacolo, è rappresentazione drammatica, è un torrente in piena, un affresco a tinte forti che ci sloggia dalle nostre plastificate certezze e catafratte abitudini e ci trascina in strada”. Se n’era accorto, fra gli altri, Giancarlo Majorino, che aveva incluso alcune liriche di Piovano nell’antologia “Poesie e realtà”, dedicata alla poesia civile italiana del Novecento.
«Ma il mio paese, il paese del mio cuore,
è là nelle piane lombarde, in Lomellina,
il paese delle nebbie e delle placide acque
che per diecimila canali si ritrovano in Po.
Al tempo dei risi, quando le mondine
calano a reggimenti dalle loro tradotte
e scaricano i sacchi e le casse
sui marciapiedi delle stazioni
allora è da vedere la Lomellina
come si canta per le strade a braccetto
piemontesi bresciane e bergamasche
e più brave di tutte, coi baschi rossi, le emiliane!»
(da: Giorgio Piovano, Il fuoco e la cenere, Editrice Edinform, Pavia 1984)
di Luca Ariano
È scomparso nella notte del 1 agosto 2008 all’età di 88 anni. Nato a Torino nel 1920 partecipò alla lotta partigiana prima a Pisa e poi a Lovere; così in un’intervista rilasciata sul web (http://solleviamoci.wordpress.com): “Sono stato avanguardista, come tutti. Odiavo le divise, ma non per politica. È che mi facevano fare brutta figura con le ragazze. A Pisa trovai qualcuno che mi aprì gli occhi: in pochi anni mi trovai antifascista. Nel ’43 entrai nel Partito d’Azione: alla prima manifestazione eravamo in tre. Il giorno dopo facemmo un comizio: a quella data risale la prima di molte denunce. Il discorso patriottico che tenni venne usato contro di me anni dopo, in tribunale, come prova che ero un sovversivo”. Il trasferimento poi a Pavia e la sua attività politica (Senatore del PCI per tre legislature e Presidente della Provincia di Pavia) nel dopoguerra: “Ero professore, cercavo una sede universitaria. Problemi di salute mi tennero lontano dalla guerra: da Pisa, dove ho studiato, mi spostai a Lovere. Poi mi venne offerto di insegnare all’Istituto Bordoni, e a Pavia sono rimasto fino ad oggi: le mie piccole radici sono qui”. Ricordo l’intervista filmata che gli feci con l’amico e poeta Tito Truglia, ricordo la sua schiettezza, la lucidità e la sua forza e voglia di combattere per un mondo migliore, per i giovani (uno dei pochi di quella generazione a capire la piaga del lavoro precario) perché alle sue idee credeva ancora fermamente e non si vergognava certo di essere stato comunista, di aver fatto la Resistenza. Ho scoperto prima il Piovano poeta leggendo estratti delle sue poesie nell’antologia Poesie e realtà 1945-2000Poema di noi (Premio Viareggio opera prima 1950) che amo molto: (Tropea, 2000) curata da Giancarlo Majorino; solo in seguito, dopo averlo conosciuto, ebbi la fortuna di avere in dono la sua opera omnia poetica. Così descriveva il suo rapporto con la poesia: “Era la mia ambizione, che sto rivivendo ora in tarda età.
Era il tempo di grandi arrabbiature poetiche, della lotta all’ermetismo e agli strascichi dannunziani. Per parafrasare un celebre verso di Montale, questo noi volevamo dire: chi siamo, cosa vogliamo”. Se n’è andato uno degli ultimi comunisti, di quelli che hanno lottato a viso aperto mettendoci la faccia, coraggio, passione ed impegno. Non voglio dilungarmi oltre per non scadere nella retorica o in patinate celebrazioni che so avrebbe odiato, ma voglio ricordarlo qui con una sua poesia tratta da
ULTIMO
Avrei voluto avere il verso lungo e profondo
come il rullo dell’Internazionale
sui tamburi delle divisioni
che sfilano in parata
sotto la porta del Brandemburgo;
avrei voluto potermi fare ascoltare
per amore o per forza come gli altoparlanti
installati tra i reticolati a Madrid
che giorno e notte spiegavano
ai mercenari franchisti
da che parte fosse la Patria vera.
Altro ebbi: come quando le cornamuse
calano dai monti alle città di provincia
accompagnando la fisarmonica
dalla voce sbiadita che tenta
maldestra su povere note
i ballabili più comuni.
Pure molti si fermano ad ascoltare,
il lattaio che gira in bicicletta
col suo bidone, la sposa
appena uscita per la spesa, l’oste
che apre allora… Dalla loggia
del vecchio casamento gentilizio
la fantesca in piedi sul davanzale
a pulire la vetrata, si sporge
col cencio in mano a salutare
i suonatori compaesani.
Poi quando l’allegra nenia è dileguata
oltre i mercati, ancora dura il canto
corale delle lavandaie
lungo la roggia e l’a solo
nei passaggi difficili, della voce
più giovane.
Io non sono che uno
della mia generazione,
uno dei tanti che si credevano i soli
ad avere una storia.
Ma ora so
che un po’ tutti possiamo parlare
della casa della nostra infanzia
dei terrori davanti alla porta socchiusa
del corridoio deserto,
del gioco dei pellirosse nei prati
vicino al gasometro, dopo scuola,
delle principesse rapite dai corsari,
di nostro padre che rantolava
nel letto su una montagna di cuscini,
e del vento notturno alle finestre della nostra stanza,
il vento nato sugli altipiani
tremila miglia lontano…
Fummo in molti che lungo le mura
solitarie delle antiche città
erravamo viandanti inquieti
tormentandoci per la gloria.
Fummo in molti che accanto a una donna
ci affacciammo alle balaustrate
dove splende la curva
del pianeta e s’inseguono
per stellari praterie
eternamente giovani
le comete scintillanti.
E fummo in molti a conoscere
la sapienza dei libri
i cieli d’ardesia sulle città
e il sapore acre del cloroformio,
gli andirivieni dei parenti
davanti alle sale d’operazione
e al guerra, il sangue rappreso nei fossi,
il rombo dei quadrimotori
i lampi dell’artiglieria nella notte
e il vecchio abbattuto sotto i ciliegi
che incarogniva nero
nella gramigna tra milioni di mosche
e dalla veranda del sanatorio
il respiro della risacca e la curva lunghissima
sotto la luna della linea delle spume
a perdita d’occhio nel golfo…
(«Rivedrete le sere che s’incendiano
i cieli, e i monti non hanno più peso
e nel fiume scorrono rivoli d’oro.
Salutatele per me
sperduto nelle valli profonde
donde muovono le ombre
che guidano il carro della Notte»).
La mia storia è la storia di tutti
e la vostra è la mia.
Ascoltate come nel mondo
più incalzanti che nel filo
del telegrafo le linee e i punti
brusiscono i pensieri
di miliardi d’uomini.
Ascoltate l’allarme
delle volontà scatenate
come spari mirati al cuore.
Quando ancora dovrà salire
l’amaro nella gola degli uomini
che contemplano nel riquadro
dell’inferriata le stelle
della loro ultima notte?
Da continente a continente
le radio impazzite
invocano S.O.S.
Io non ho che la mia vita
e la pazienza dei libri.
Io non sono che un cieco
sulla riva del mare
investito dall’uragano
che gli mulina intorno lontane e vicine
le voci dei naufraghi che chiedono aiuto.
Ma milioni come me
fanno il Partito
i vagoni di libri spediti
nei villaggi chirghisi
l’Eurasia fasciata
da una rete di canali
il grano al circolo polare
il razionale Discorso
messo insieme lettera per lettera
pazientemente coscienziosamente
come negli stampi il piombo fuso
sotto il tasto del linotipista:
le parole dei miei fratelli
e con loro le mie
che si danno la mano ed abbracciano
il pianeta col giro dei paralleli!
Milioni come me
e le generazioni martellano
nei bronzi della posterità
l’epopea della Classe Operaia
che mugghiava apocalittica
e si ergeva e colpiva
a mazzate di mille tonnellate
nelle grandi ondate dei popoli
che deragliavano la storia!
I nostri pensieri gridati
con gli altoparlanti nei refettori da cinquemila posti
pesati dagli uomini a veglia
nella stalla attorno al lume a petrolio
con lo stoppino abbassato perché durasse di più
le donne macilente e forsennate
a valanga contro i cordoni
le serpi nelle occhiaie
delle case bruciate per rappresaglia
l’offerta del disoccupato alla sottoscrizione
Montanari che sputava sangue nel fazzoletto
e contava i comizi che gli restavano
fino alla fine della campagna elettorale
Daccò che ha smesso di bere
per non essere espulso
la cooperativa di San Salvatore
costruita di notte e di domenica
Brasi fotografo che adesso
scopa la sua bottega
e indosso ha la giacca a vento
di quando comandava una divisione
le croci di legno sotto i larici a Monte Giglio
con la stella rossa e la scritta
NON PIANGETE
e il compagno senza nome che alla festa
rimase a guardia delle biciclette
al posteggio, e neanche si ricordarono
di mandargli un bicchiere di vino
e la musica della moto tra le mia gambe
sugli stradali nei tramonti estivi
nel pieno dello sciopero, e nel vento
della corsa, i colpi di spillo
dei moscerini sul viso
ed anche la faccia paonazza del Vicequestore
quando si accorse che né bonomia né cipiglio
non attaccavano, anche il pretoccolo
velenoso messo nel sacco
in pubblico contradditorio
e anche il pedatone che ruzzolò
dalle scale l’avvocatuccio
che tirava a diventare onorevole
e le bandiere rosse sulle locomotive
e le metropoli dove prima c’erano le paludi
e i congressi coi delegati di sei continenti
i nostri pensieri sul mondo
a stormo
perdio imparate posteri
in questo mondo si può essere giovani
imparate perdio in questo mondo
si può anche morire
a pieno cuore
come al termine di un’ardita giornata
di maggio, combattuta instancabile
a rincorse volanti e agguati
e subitanei parapiglia
lungo i sentieri dei pioppi
nel giallo del ravizzone
quando torniamo alla cascina
cantando – tutti stanati
i crumiri sotto il naso
dei campari con la doppietta imbracciata!
Pedaliamo a festa
nel fortore dei fieni
sotto le prime stelle,
e da lontano ci saluta
agitando il suo fanale
il compagno che batte la risaia
a caccia di rane
nell’acqua fino a mezza gamba.
(tratta da: Il fuoco e la cenere, Prefazione di Davide Lajolo, Pavia: Editrice Edinform, 1984.)
Biografia di Giorgio Piovano (Torino 1920 – Pavia 2008). Nato da famiglia operaia, frequenta, negli anni ’40, la Scuola Normale di Pisa, della quale diventerà in seguito, per un anno, docente di letteratura dantesca. Partecipa alla lotta antifascista a Pisa e a Lovere, militando nel Partito d’Azione. Con l’avvento della Repubblica, lega il suo destino al Partito comunista, del quale è stato componente della Federazione pavese. Nel 1950 vinse il premio “Viareggio” con l’opera “ Poema di noi”, un componimento che parla «degli uomini senza storia, che alle cerimonie fanno sempre la parte del pubblico». Professore e preside. Uomo schietto, lucido, vicino ai giovani, uno dei pochi della vecchia generazione a capire la piaga del lavoro precario.
Biografia-
Giorgio Piovano (Torino, 27 marzo 1920 – Pavia, 31 luglio 2008) è stato un politico, scrittore e partigiano italiano.
Nasce in una famiglia operaia torinese e negli anni quaranta si trasferisce a Pisa dove frequenta la Scuola Normale Superiore. Iscrittosi al Partito d’Azione partecipa alla lotta partigiana nella zona della provincia di Pisa.[1]
Terminato il conflitto si iscrive al Partito Comunista, venendo nominato Presidente della provincia di Pavia, dove si era trasferito in quegli anni, ed eletto sindaco della città di Casteggio.[1]
Nel 1950 vince il Premio Viareggio per la migliore opera prima con Poema di noi.
Senatore della Repubblica Italiana
Legislature
IV, V, VI
Gruppo
parlamentare
comunista
Incarichi parlamentari
IV legislatura
Commissione per la biblioteca: Membro dal 3 marzo 1964 al 4 giugno 1968
6ª Commissione permanente (Istruzione pubblica e belle arti): Membro dal 3 luglio 1963 al 4 luglio 1963, Segretario dal 5 luglio 1963 al 4 giugno 1968
V legislatura
Commissione per la biblioteca: Membro dal 5 giugno 1968 all’11 novembre 1968
6ª Commissione permanente (Istruzione pubblica e belle arti): Membro dal 5 luglio 1968 al 17 luglio 1968, Vicepresidente dal 18 luglio 1968 al 24 maggio 1972
VI legislatura
7ª Commissione permanente (Istruzione pubblica): Membro dal 4 luglio 1972 al 4 luglio 1976
Commissione parlamentare per il parere al Governo sulle norme delegate in materia di stato giuridico del personale della scuola: Membro dal 13 dicembre 1973 al 19 giugno 1976
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