Beppe Fenoglio- I ventitré giorni della città di Alba-Einaudi editore Torino
Centro Studi Beppe Fenoglio-DESCRIZIONE“Difesero Cascina Miroglio e, dietro di essa, la città di Alba per altre due ore, sotto quel fuoco e quella pioggia. Ogni quarto d’ora l’aiutante si staccava dal telefono e si sporgeva a gridare: – Tenete duro che vi arrivano i rinforzi! – Ma fino alla fine arrivarono solo per telefono. […] Tutti avevano già spallato armi e cassette, ma non si decidevano, vagabondavano per l’aia, al bello scoperto. Pensavano che Alba era perduta, ma che faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quattro o anche più tardi invece che alle due. Sicché il Comandante fu costretto a urlare: – Ritirarsi, ritirarsi o ci circondano tutti! – e arrivava di corsa alle spalle dei più lenti, come fanno le maestre coi bambini delle elementari. Scesero la collina, molti piangendo e molti bestemmiando, scuotendo la testa guardavano la città che laggiù tremava come una creatura.”
In foto il Capitano Fede, Comandante della difesa di Alba nei 23 giorni, insieme a Pinot Gallizio, Teodoro Bubbio, membri del CLN delle Langhe, e i comandanti dei partigiani il primo anniversario della battaglia per Alba libera.«”I ventitre giorni della città di Alba”- sono il primo capitolo di un unico grande libro fenogliano». (Davide Longo). Storie partigiane trattate con piglio disincantato, antiretorico, talora epico-burlesco; storie di Alba e delle Langhe, vicende sanguigne e beffarde, drammi di miserie antiche e di speranze impossibili: con quel suo linguaggio crudo, privo di ostentazione, con quel suo stile asciutto ed esatto, Fenoglio restituisce le prime cronache veramente sincere delle contraddizioni vitali della Resistenza e penetra il «mistero» della spietatezza dei rapporti umani. Con una ‘Presentazione’ di Dante Isella e la cronologia della vita e delle opere.Beppe Fenoglio nacque ad Alba il 1° marzo 1922 e vi trascorse quasi tutta la vita, esclusi i mesi del servizio militare a Roma. L’8 settembre ritorna sulle Langhe, dove combatterà tutta la guerra partigiana, sino alla Liberazione. Si era fatto una profonda cultura letteraria sui poeti e sugli scrittori inglesi, e sulla civiltà anglosassone nel suo complesso, che ammirava come antidoto e rivalsa sulla meschina realtà provinciale del fascismo. Dopo la guerra si impiegò in una ditta vinicola di Alba, per cui tenne la corrispondenza estera. Nell’estate 1962 fu colto dal male inguaribile che lo spense a Torino il 18 febbraio 1963, e che sopportò con stoica fermezza.
Esordí nel 1952 con I ventitre giorni della città di Alba (Einaudi) cui seguí nel 1954 La malora (Einaudi). Nel 1959 apparve il romanzo Primavera di bellezza, diretto riflesso della sua esperienza nell’esercito italiano. Il partigiano Johnny, la grande «cronaca» della guerriglia apparsa postuma da Einaudi nel 1968 ne costituisce il seguito cronologico. Postumi sono apparsi anche il volume di racconti Un giorno di fuoco (che comprende anche il romanzo Una questione privata, Garzanti, 1963) e il romanzo giovanile La paga del sabato (Einaudi, 1969).
Di Beppe Fenoglio Einaudi ha pubblicato: I ventitre giorni della città di Alba, La malora, Il partigiano Johnny, La paga del sabato, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, L’affare dell’anima e altri racconti, Primavera di bellezza, Una questione privata, Un giorno di fuoco, L’imboscata, Appunti partigiani ’44-’45, Diciotto racconti, Quaderno di traduzioni, Lettere 1940-1962, Una crociera agli antipodi, Epigrammi, Tutti i racconti, Teatro, La favola delle due galline e Il libro di Johnny. Nel 2012, negli ET Biblioteca, è uscita la raccolta Tutti i romanzi.
Beppe Fenoglio-
Nota di Noemi Cuffia-Beppe Fenoglio è uno degli scrittori italiani più grandi, liberi, monumentali e innovatori del Novecento. Uno degli autori di più ampio e solido respiro di tutta la nostra letteratura. Fenoglio è lo scrittore schivo, appartato, stroncato in giovane età, a soli quarant’anni, che però ha rivoluzionato il linguaggio, lo spirito, l’epica e il sentire di più generazioni di lettori. Scriveva e pensava in inglese e poi traduceva. Aveva imparato l’italiano sui libri, perché la lingua madre era il piemontese di Alba, dialetto capace di raccontare la guerra, la Resistenza, la giovinezza, il territorio, l’amicizia e l’amore come nessuno. Con dignità, poesia, genio, smarrimento e civiltà.
Fenoglio Nasce ad Alba, in provincia di Cuneo, il 1° marzo 1922. Cresce in una famiglia di lavoratori (il padre è macellaio) e frequenta le scuole. Si iscrive poi alla Facoltà di Lettere di Torino ma nel gennaio 1943 è chiamato alle armi. Nel 1944 si unisce alle prime formazioni partigiane. Pubblicherà solo alcuni suoi lavori di scrittore, poi soccombe alla malattia. Muore il 18 febbraio 1963.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-
9) Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale –
Premessa-Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 9) Carlo Forlanini- Medico ha inventato lo pneumotorace artificiale che ha guarito tanti tubercolotici–Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni–Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, La scuola di Cinema, la scuola di Musica, Palestre , il Bistrò oltre i Bar , Ristoranti e Pizzerie e ancora Parrucchieri e specialisti per la cura della persona , Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra bambini oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico; oppure vedendo il tronco della palma tagliato ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma lungo via Folchi ,dall’inizio di via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri ma dimenticati su questo muro di cinta – I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta costeggia l’Ospedale “Lazzaro Spallanzani” e fa da “sostegno” e “tela” è un muro di cinta di 270 metri, lungo il quale, dal mese di aprile del 2018 sono immortalati 13 volti di scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Un progetto dei Murales è finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, iniziato a febbraio – e inaugurato il 3 maggio – grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica pecca, peccato grave, non vi è immortalata nessuna donna.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da
Carlo Forlanini, l’uomo che curò la tubercolosi
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
A Roma il Forlanini è un grande complesso ospedaliero che tutti conoscono ed usano come punto di riferimento, come il Colosseo, o il McDonald’s di Piazza di Spagna: se cerchi una via tra Piazzale della Radio e la Portuense, ti diranno di costeggiare il Forlanini tre romani su tre. Ma chi era Forlanini, Carlo Forlanini? La cosa è meno nota. Carlo Forlanini, medico milanese vissuto a cavallo tra otto e novecento, è colui che grazie ad una invenzione, lo pneumotorace artificiale, ha contribuito alla cura della tubercolosi. Una invenzione. Si immagina che gli inventori siano gente stravagante, chiusa in laboratori improvvisati, almeno così l’iconografia del fumetto e del cinema ci ha abituato a ritrarli, ma è una immagine che va rivista, almeno in questo caso. Tutta la famiglia Forlanini era dotata di talento inventivo, non solo Carlo. Il fratello Enrico, che fu pioniere dell’aviazione, per esempio fu anche il primo a concepire l’aliscafo. E non solo, ebbe idee necessarie per l’ideazione dell’elicottero, dotando un velivolo con elica sul tetto di un motore a vapore, e poi sperimentò i primi dirigibili. Carlo non era da meno. Da ragazzo, al liceo, si guadagnò un premio per uno studio sui palloni aerostatici. Poi si iscrisse alla facoltà di medicina di Pavia e trovò in seguito impiego all’ospedale Maggiore di Milano. I talenti inventivi, almeno nel 1876, facevano agilmente carriera e Carlo Forlanini divenne primario del Comparto delle malattie cutanee. Ebbe così l’occasione di concentrarsi sull’ambito che più lo attraeva: lo studio della tubercolosi polmonare. Ma bisogna aspettare la cattedra di Propedeutica e Patologia Speciale Medica all’università di Torino nel 1884 per vedere i primi risultati della sua ricerca. La pneumoterapia (una pratica terapica fatta con apparecchi pneumatici per il bagno d’aria compressa) era usata già con successo nell’asma, nell’enfisema, nelle bronchiti, nelle laringiti e anche nella tisi al primo e secondo stadio. Forlanini fece di più: inventò nuovi apparecchi pneumatici che potevano essere trasportati e dunque anche meglio applicati. A fine ottocento tornò a Pavia. E’ stato un grande insegnante, prova ne fu la passione con la quale i suoi studenti seguivano le lezioni, e prova ne fu anche l’ostinazione che ebbe nel continuare ad insegnare anche in precarie condizioni di salute. Il suo nome rimarrà sempre legato allo pneumotorace artificiale, la cui applicazione fu universalmente promossa attraverso la fondazione dell’Associazione internazionale dello pneumotorace (Londra,1913). Tuttavia la scienza va avanti, e sia la sicurezza che l’efficacia della terapia sono state fortemente discusse e poi superate. Ma per sempre, se passate in zona portuense a Roma, la pietra miliare da seguire sarà Carlo Forlanini: costeggiatelo.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
Biografia di Carlo Forlanini a cura di M.U. Dianzani
Carlo Forlanini nacque a Milano nel 1847 da famiglia agiata, imparentata con Paolo Mantegazza. La madre di questi, patriota e organizzatrice nel settore della beneficenza, era infatti nonna di Carlo Forlanini. Il suo nome (Laura Solera) è rimasto nella storia milanese. Fratello di Forlanini fu il famoso Enrico, ingegnere aeronautico di grandi vedute. Un altro fratello, Luigi, fu medico, Presidente, a Milano, della Croce Rossa. Il giovane Carlo studiò a Pavia, ove frequentò il Laboratorio di Patologia Sperimentale, diretto prima da Bizzozero, e poi, dopo la chiamata di questi a Torino, da Camillo Golgi. Si formò scientificamente in questo ambiente, ma preferì poi passare alla Clinica. Interessato soprattutto alle malattie polmonari, fu il primo a intuire che l’unico modo per chiudere le caverne tubercolari del polmone era quello di farne collabire le pareti. Ci riuscì costruendo un apparecchio che serviva a introdurre aria nel cavo pleurico, in modo da creare uno pneumotorace. Il parenchima polmonare si ritraeva all’ilo, e le pareti delle caverne collabivano e potevano chiudersi. La scoperta del pneumotorace come mezzo di cura (1882) gli attirò grande rinomanza.
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Si presentò nel 1883 al concorso per un posto di professore straordinario di Clinica Medica Propedeutica, posto vacante per il passaggio di Camillo Bozzolo alla Clinica Medica. Fecero parte della Commissione Domenico Tibone, Giulio Bizzozero, Camillo Bozzolo, Lorenzo Bruno e Angelo Mosso, e Carlo Forlanini fu vincitore. La sua grande passione per le tecnologie nuove distinse la sua attività torinese. Fu sotto la sua direzione che il suo Aiuto, Scipione Riva Rocci, costruì lo sfigmomanometro per la misurazione della pressione arteriosa, usato ancora oggi. La presenza a Torino di Forlanini accrebbe certamente la rinomanza della Facoltà Medica torinese, che diveniva antesignana anche nella terapia della tubercolosi. Disgraziatamente, dopo un primo periodo di collaborazione, si creò un forte contrasto in Facoltà fra lui e Bozzolo. Forlanini, infatti, aveva chiesto di diventare titolare di una seconda Clinica Medica, ma Bozzolo non aveva gradito. Il problema era acuito dal fatto che il Ministro aveva abolito la cattedra di Clinica Medica Propedeutica.
Difeso dalla Facoltà, Forlanini rimase peraltro al suo posto per vari anni. Il problema fu risolto con l’apertura di un concorso per professore ordinario di Patologia Speciale Medica a Torino, contestualmente all’apertura di un altro concorso, identico, a Pavia. Il vincitore di Torino fu Forlanini, quello di Pavia fu Bernardino Silva, un allievo di Bozzolo.
Il Ministero accettò che Silva fosse comandato a Torino, e Forlanini a Pavia. Col 1899, si ebbero infine i decreti di trasferimento. Silva restò a Torino, praticamente subalterno a Bozzolo, fino al 1905, quando morì in un incidente di montagna. Forlanini ebbe via libera a Pavia, dove insegnò e operò scientificamente sino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1918.
A cura di M.U. Dianzani
Carlo Forlanini, apparatus Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images images@wellcome.ac.uk http://wellcomeimages.org Forlanini’s apparatus for artificial pneumothorax. ‘Die Indikationem und die Technik des kunstlichen Pneumothorax bei der Behandlung der Lungenschwindsucht’ Die Therapie der Gegenwart Carlo Forlanini Published: 1908 Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/
Biografia di Carlo Forlanini
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Ultimato il liceo, si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Pavia (nell’Almo Collegio Borromeo è presente una lapide commemorativa in suo onore) e, dopo la campagna garibaldina, si laureò nel 1870 con la tesi “Teoria della piogenesi-fachite”. La Ca’ Granda lo attirava e il 23 agosto 1870 presentò domanda all’Ospedale Maggiore di Milano che fu accolta e lì iniziò la sua pratica ospedaliera occupandosi di chirurgia nella sala di San Paolo sotto la guida del Dott. Monti, continuando le ricerche nel campo dell’oculistica. Rimase per due anni all’ambulanza oculistica di Santa Corona. Nel gennaio 1876 fu nominato primario del Comparto delle malattie cutanee dove rimase sei anni, continuando gli studi che più lo attiravano: quelli sulla tubercolosi polmonare, malattia che nell’infanzia gli aveva portato via la madre.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Nel 1884 la Facoltà Medica dell’Università di Torino lo propose per la cattedra di Propedeutica e Patologia Speciale Medica che Forlanini accettò con entusiasmo. A Torino numerosi erano gli studenti che frequentavano le sue lezioni di semeiotica e di clinica: le più ascoltate furono quelle che riguardavano i metodi clinici per la diagnosi delle pleuriti e della tisi polmonare. La pneumoterapia (terapia con apparecchi pneumatici per praticare il bagno d’aria compressa) era usata con successo nell’asma, nell’enfisema, nelle bronchiti, nelle laringiti e anche nella tisi al primo e secondo stadio. Inventò nuovi apparecchi pneumatici trasportabili per renderli più facilmente applicabili e, per rendere più precisa la semeiotica della patologia polmonare, modificò il plessimetro di Seitz: il miglior plessimetro era in avorio, di cinque centimetri di diametro e due millimetri di spessore, da percuotere con le dita per ottenere un suono che rifletteva la natura della zona sottostante.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
Ritornò nel 1899 all’Università di Pavia, titolare della cattedra di Patologia Speciale Medica e dal 3 febbraio 1900 di quella di Clinica Medica Generale, al posto del Prof. Orsi, in un Ateneo che vantava una tradizione gloriosa, dove Bizzozero aveva compiuto geniali scoperte sulla fisiologia del sangue, dove Golgi aveva svelato il segreto della fine struttura del sistema nervoso, dove Mantegazza aveva segnalato l’importanza delle ghiandole a secrezione interna, dove Bassini aveva creato il metodo di cura dell’ernia inguinale.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Carlo Forlanini
La sua opera di insegnante, che era tanto ammirata, fu negli ultimi anni limitata dalle condizioni di salute. Per l’incrollabile fede nell’efficacia di una cura che, esclusivamente per merito del suo studio, entrò nella pratica quotidiana, gli è dovuto l’appellativo di “inventore dello pneumotorace”, che gli è riconosciuto dagli studiosi di tutto il mondo[senza fonte].
Carlo Forlanini-Medico- Inventore del pneumotorace artificiale
Senatore dal 1913, fu anche membro del consiglio superiore dell’istruzione, dedicandosi anche a ricerche sull’uremia, sull’ipertensione arteriosa essenziale e su diverse patologie polmonari. Al suo nome è intitolato l’Ospedale Carlo Forlanini, sanatorio di Roma, sede della Clinica universitaria della tubercolosi e delle affezioni respiratorie.
I risultati di questi lavori portarono Forlanini a ricevere più volte la candidatura al Premio Nobel per la Medicina, almeno una ventina, tra il 1912 e il 1919[4].
Nel 1877 fondò l’Istituto medico pneumatico, dove iniziò gli studi sulla cura della TBC polmonare, arrivando nel 1882 ad ideare lo pneumotorace artificiale.[6][7][8] Applicò la tecnica con pieno successo nel 1888, ma essa solo nel 1912 ebbe piena accettazione dalla comunità medica.[9]
Appassionato di apparecchi pneumatici e stimolato dal fratello Enrico, collaborò con lui discutendo su problemi di idraulica, aerodinamica e fisica, cercando di trarre il massimo beneficio dall’associazione tra scienza medica e meccanica. Il problema di poter applicare l’aria compressa nella cura della tisi lo entusiasmava e i disegni degli apparecchi di aeroterapia, di spirometria e per la cura della tisi erano tutti di mano sua e fatti con tale cura da poter servire al costruttore. Fa brevettare due modelli di aeroterapia per la cura della pleurite con inspirazioni di aria compressa per far dilatare il polmone e per la cura dell’enfisema con espirazioni in aria rarefatta. Disegna apparecchi per le inalazioni medicamentose di cui intuisce l’avvenire. I suoi lavori sull’enfisema polmonare e quelli sulla cura dei versamenti pleurici sono pietre miliari nella storia della medicina. La toracentesi con introduzione di aria filtrata (estrazione di quanto più liquido è possibile e introduzione di aria al posto del liquido estratto) è uno dei lavori fondamentali della medicina pratica. Si deve alla sua scuola l’invenzione dello sfigmomanometro di Scipione Riva Rocci, ancora oggi usato in tutto il mondo, che permise la misurazione della pressione arteriosa con un metodo incruento.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma-Muro di cinta
Forlanini ebbe il merito di accorgersi che lo pneumotorace spontaneo che fortuitamente si aveva in ammalati di tubercolosi cavitaria (la tisi polmonare), imprimeva alla malattia un andamento più favorevole. Secondo le sue idee la malattia era dovuta alla particolare funzione del polmone, cioè al respiro che in ogni istante fa variare la tensione del parenchima polmonare attraverso la variazione della quantità e pressione del suo contenuto (aria polmonare). Il polmone diventa tisico perché si muove e la tensione statica e dinamica impedisce la riparazione delle lesioni polmonari: l’immobilizzazione assoluta arresta il processo distruttivo favorendo la cicatrizzazione delle lesioni cavitarie.
Per guarire un polmone dalla tisi è necessario pertanto sopprimere la sua funzione, cioè collassarlo per eliminare il costante trauma respiratorio. Il metodo si basa sulla tecnica della collassoterapia, elaborata dallo stesso Forlanini, e consiste nell’introdurre gas inerte nella cavità pleurica corrispondente al polmone leso, in modo che esso venga posto in stato di riposo funzionale, così da favorirne la cicatrizzazione.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Tecnica del pneumotorace artificiale
Il metodo di cura del Forlanini è detto pneumotorace artificiale che in medicina significa presenza d’aria nel sacco pleurico. L’apparecchio di Forlanini era costituito da un manometro ad acqua in comunicazione con un rubinetto a tre vie: da una parte c’è un tubo di gomma portante l’ago d’introduzione, dall’altra un cilindro graduato di vetro contenente il gas sotto pressione in comunicazione con un altro contenitore di vetro. Il gas usato era l’aria atmosferica filtrata dal pulviscolo. L’ossigeno si evitava perché veniva assorbito troppo velocemente e l’azoto perché poteva provocare embolie.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
L’immobilizzazione del polmone veniva ottenuta introducendo nelle pareti toraciche a ridosso del polmone stesso, e cioè nel sacco pleurico una tal quantità d’aria la cui pressione doveva vincere quella espansiva dell’aria inspirata dal polmone: questo verrà in tal modo a trovarsi come sotto una campana d’aria in pressione, che gli impedirà di espandersi durante l’inspirazione e quindi di muoversi. L’introduzione dell’aria era effettuata con un ago che veniva inserito sulla linea ascellare media del torace, all’altezza del IV-VII spazio intercostale, fino a raggiungere la cavità pleurica, dove si registrava una pressione negativa. A quel punto si iniettava il gas fino a raggiungere una pressione intorno allo zero: il polmone collabiva e rimaneva così, con successivi rifornimenti di gas, per un periodo prolungato di almeno due, tre anni. Si procedeva quindi alla sua riespansione quando si era completamente cicatrizzato.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Al Congresso Internazionale di Roma del 1894 venne data dimostrazione pratica dell’utilità dello pneumotorace e al VI Congresso Nazionale della Medicina a Roma nel 1895 Forlanini espose i primi risultati ottenuti con il nuovo metodo di cura che fu accolto però con incomprensione dai contemporanei che consideravano probabilmente un’eresia l’aver studiato il problema della cura della tisi senza tentare qualcosa contro l’agente eziologico della malattia: il bacillo di Koch.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di RomaFranco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Carlo Forlanini di Roma
Nonostante lo scetticismo sul suo metodo Forlanini continuò i suoi esperimenti. Se fino al 1894 erano svolti su malati nei quali l’estensione, la gravità e la bilateralità delle lesioni toglievano ogni ragionevole speranza di salvezza, dopo il 1895 la sua attività si rivolse ai malati con monolateralità delle lesioni e buone condizioni generali e così aumentò il numero dei successi. Nel 1907 si decise a rompere il silenzio che durava ormai da 13 anni e nel giugno si svolsero due conferenze all’Associazione Sanitaria Milanese, una teorica e la seconda nella quale furono presentati i casi di guarigione e il numeroso uditorio lo seguì con interesse e i giornali milanesi si fecero portavoce del successo ottenuto. Il pneumotorace artificiale fu riconosciuto ufficialmente dai tisiologi di tutto il mondo al Congresso Internazionale della tubercolosi tenutosi a Roma nel 1912. La applicazione fu universalmente promossa attraverso la fondazione dell’Associazione internazionale dello pneumotorace, avvenuta a Londra nel 1913.[10][11] Studi più recenti tuttavia hanno sollevato forti dubbi sia sulla sicurezza, sia sulla efficacia della terapia[senza fonte], comunque oggi abbandonata.
Principali lavori pubblicati
1875 Brevissimi cenni di aeroterapia e sullo Stabilimento Medico-pneumatica di Milano. Gazzetta Medica Italiana Lombardia. Serie VII: 6
1882 A contribuzione della terapia chirurgica nella tisi del polmone. Ablazione del polmone? Pneumotorace artificiale? Gazzetta degli Ospedali e delle Cliniche di Milano
1894 Primi tentativi di pneumotorace artificiale della tisi pulmonare. Gazzetta Medica di Torino. 45:381-4, 401-3
1894 Su un caso di stenosi dell’arteria polmonare con persistenza del dotto di Botallo e di tisi polmonare
1895 Primo caso di tisi pulmonare monolaterale avanzata curato felicemente col pneumotorace artificiale. Gazzetta Medica di Torino 46:857
1897 Contributo allo studio del polso venoso presistolico
1897 Contributo alla terapia dell’empiema
1906 Zur Behandlung der Lungenschwindsucht durch künstlich erzeugten Pneumothorax. Deutsche Medizinishe Wochenschrift 32:1401-5
1908 Apparati e tecnica operativa dello pneumotorace artificiale
1909 Cenni storici e critici sul pneumotorace artificiale nella tisi pulmonare. In: Cappelli, ed. Scritti di Forlanini. Bologna, 1928:1013
1912 Il pneumotorace artificiale nella cura della tisi pulmonare. Atti de VII Congresso Internazionale Contra la Tubercolosi. Vol 3 Rome, 182.
Franco Leggeri Fotoreportage-
Logo dell’Associazione Graffiti Zero, Associazione che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano-Foto Franco Leggeri
La guerra di Spagna è già stata oggetto di una grande quantità di pubblicazioni, tra studi di storici e la memorialistica di coloro che ne furono protagonisti. Tuttavia, negli ultimi venti anni, la documentazione archivistica a disposizione degli storici è notevolmente aumentata, grazie a nuove fonti resesi disponibili in Spagna, alla digitalizzazione parziale e alla messa in rete degli archivi dell’Internazionale Comunista e del Comintern, quest’ultima realizzata sotto gli auspici del Consiglio Internazionale degli archivi e del Consiglio d’Europa.
Altra documentazione si è resa disponibile grazie al lavoro dell’Istituto Gramsci, mentre varia documentazione, scritta e iconografica è disponibile ma non ancora completamente utilizzata presso l’AIVACS (Associazione Italiana Combattenti Antifascisti in Spagna).
Proprio con il contributo dell’AIVACS e utilizzando, almeno in parte, le nuove fonti citate, lo storico Marco propone un nuovo libro sulla guerra di Spagna, che esce presso le Edizioni Kappa Vu di Udine (Garibaldini in Spagna, Storia della XII Brigata Internazionale nella guerra di Spagna, Kappa Vu, pag. 240, €16).
Come si comprende già dal titolo, il lavoro di Puppini si concentra sulla formazione e sugli avvenimenti che videro protagonista la XII Brigata Internazionale, inquadrata nella quarantacinquesima divisione dell’esercito repubblicano. Tale Brigata fu composta e comandata prevalentemente da italiani e prese per questo il nome di Garibaldi, deciso unitariamente dai tre partiti che ne furono promotori (comunista, socialista e repubblicano).
Tra i pregi di questo libro è però il suo punto di vista ampio, che permette di inquadrare la partecipazione italiana alle Brigate Internazionali nel vasto contesto dei fatti politici, militari e umani generali vissuti dal fronte repubblicano in Spagna e anche da quello antifascista italiano. Si può dire che questo libro permette di leggere molti fatti e problemi della guerra di Spagna attraverso la lente della storia della Brigata Garibaldi.
Il libro prende avvio da quella che Puppini definisce “la crisi dell’antifascismo italiano” alla metà degli anni trenta, in anni particolarmente difficili tra persecuzioni, prigioni ed esilio. In questo modo si può capire quale fosse la composizione politica e sociale dei circa 3500 volontari italiani che combatterono in Spagna, alcuni dei quali presenti in altre formazioni (come la Centuria Gastone Sozzi), oltre alla Garibaldi, già prima della costituzione delle Brigate Internazionali. Di questi combattenti, la maggior parte non proveniva direttamente dall’Italia ma da altri paesi europei dove si era dovuta rifugiare per ragioni politiche e di lavoro.
La maggior parte dei volontari proveniva dalla Francia, dove tra il 1920 e il 1940 si trasferì un milione di italiani e una percentuale assai minore invece arrivava dal Belgio, dove era presente una forte comunità italiana, altri dalla Svizzera e dall’Unione Sovietica. Non mancarono però arrivi dagli Stati Uniti e dal Sud America, attraverso difficili viaggi pagati dalle organizzazioni antifasciste. Infine, una parte dei combattenti si trovava già in Spagna, poiché vi aveva cercato riparo dopo la proclamazione della Repubblica spagnola, nel 1931.
Dal punto di vista sociale, essi erano soprattutto lavoratori più o meno qualificati, muratori, minatori, operai di fabbrica, contadini. Gli intellettuali erano pochi, la maggior parte dei quali costituita in realtà da “rivoluzionari di professione” come Togliatti, Longo e Vidali. Erano presenti anche una sessantina di donne italiane, impegnate soprattutto come infermiere, la più nota delle quali era la fotografa Tina Modotti. Il viaggio verso la Spagna era in ogni caso difficile e faticoso per tutti, poiché si dovevano costruire corridoi e passaggi clandestini per arrivarci, soprattutto dai paesi caduti sotto la dominazione nazifascista.
La decisione di costituire le Brigate Internazionali fu parte della risoluzione del Presidio dell’Internazionale, presa il 18 settembre 1936, che avviò una complessa e imponente operazione di invio in Spagna, dai porti dell’URSS o di altri paesi, ma a carico dell’URSS, del materiale bellico e logistico necessario alla difesa della repubblica spagnola.
La Brigata Garibaldi, a composizione italo-spagnola, fu costituita a partire dagli organici del precedente Battaglione Garibaldi, già operativo in Spagna, integrato da italiani presenti in altri reparti e da nuove reclute. A comandarla fu designato il repubblicano ed ex ufficiale dell’esercito Randolfo Pacciardi, mentre Ilio Barontini, comunista, ne fu nominato commissario politico.
Quello del “commissario politico” era un ruolo delicato, già esistente nelle brigate bolsceviche e nell’Armata Rossa. La sua presenza voleva dare corpo all’idea di un esercito nuovo, popolare e, nel caso della Spagna, internazionalista, e a un concetto di disciplina diverso da quello delle forze armate degli stati capitalisti. Infatti, il combattente doveva essere considerato nel suo aspetto interamente umano; gli era ovviamente richiesta disciplina, ma aveva anche diritto di udienza per i suoi problemi, a condizioni di vita le migliori possibili nella situazione bellica e alle cure necessarie.
Il commissario politico doveva quindi occuparsi dell’alloggio, dell’alimentazione e del benessere dei combattenti e costruire una disciplina basata sulla consapevolezza e lo spirito di sacrificio e non sull’autoritarismo, facendosi anche carico dei diversi problemi umani dei militari.
Quella del commissario politico fu una figura istituita in seguito anche nelle brigate partigiane, molti combattenti e comandanti delle quali si forgiarono nella guerra di Spagna. Purtroppo, le buone intenzioni di costituire un esercito popolare e umano si scontrarono non solo con una realtà di guerra molto difficile, ma soprattutto con le concezioni autoritarie e militaresche di molti comandanti e del comando generale, composto in gran parte da ufficiali formatisi negli eserciti tradizionali.
Infatti, non era facile conciliare, nella situazione di guerra, gli atteggiamenti di alcuni comandanti con un esercito di volontari che erano anche militanti politici e che quindi erano disposti al sacrificio ma pretendevano chiarezza nelle relazioni e nelle decisioni. Lo stesso comandante della Garibaldi, Randolfo Pacciardi, fu criticato per i suoi atteggiamenti da militare di vecchio stampo, per avere istituito alloggi e mense distinte per ufficiali e soldati e per la scarsa adattabilità a una organizzazione diversa da quella vissuta nell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale.
Inoltre, i combattenti delle Brigate Internazionali non erano residenti in Spagna e avevano bisogno, di tanto in tanto, di permessi e licenze per vari problemi o semplicemente per poter rivedere la famiglia e riprendere le forze dopo battaglie estenuanti combattute in condizioni difficili, d’inferiorità di armamenti e mezzi rispetto ai franchisti.
Lo stato maggiore spagnolo era però sordo a queste richieste di licenza, nonostante le insistenze di Longo, commissario generale delle Brigate Internazionali. Questo fatto contribuì a creare malcontento e disagio che si unirono alla fatica dei combattimenti nel creare, nel 1937, una crisi nella Brigata.
Naturalmente, le difficoltà vissute dalla Brigata Garibaldi, come dalle altre brigate, non furono dovute solo ai problemi citati, ma furono causate soprattutto dalle diverse linee politiche dei partiti che avevano contribuito alla sua costituzione, prima di tutto tra la componente socialista e comunista e quella repubblicana, ma in alcuni casi anche tra socialisti e comunisti. Queste divergenze, a volte anche forti, furono una delle ragioni dei frequenti cambiamenti al vertice della Brigata, con i continui e controproducenti avvicendamenti nella direzione.
Se il primo comandante fu Randolfo Pacciardi, questi giunse, in seguito a delle valutazioni politiche discutibili e a insofferenze personali, a proporre a un certo punto persino lo scioglimento della Brigata; vari altri comandanti si avvicendarono, in seguito, al dirigente repubblicano e lo stesso avvenne per i commissari politici. I frequenti cambiamenti nel comando della Brigata Garibaldi, come in altre, furono dovuti peraltro, oltre ai contrasti politici, alla morte e ai ferimenti di cui i comandanti e i commissari politici furono vittime; non si deve dimenticare che le Brigate Internazionali nel loro complesso ebbero una percentuale di caduti altissima, che sfiorò il 25% degli organici.
Una percentuale di caduti che fu dovuta anche all’imperizia dei comandi generali dell’esercito spagnolo e all’impiego delle Brigate Internazionali come truppe d’assalto in condizioni a volte di scarsa considerazione per la vita dei volontari. In tale contesto, una terza ragione dei continui cambi al vertice delle Brigate fu anche la fatica psicofisica vissuta dai comandanti, esposti, in una situazione già difficile sul campo, a critiche politiche e di conduzione militare.
Il libro di Marco Puppini segue tutte le vicende politiche e militari vissute dalla Brigata Garibaldi attraverso le numerose battaglie a cui partecipò, a volte concluse con importanti vittorie, come quella di Guadalajara, contro l’esercito fascista italiano e purtroppo più spesso con dolorose sconfitte, come nel caso di Huesca, sino a quella decisiva e finale sul fronte dell’Ebro.
Battaglie che furono tutte segnate da grande spirito di sacrificio e spesso da eroismi dei volontari; mi sembra importante che Puppini abbia svolto un lavoro di ricerca per poter dare un nome e qualche informazione sul maggior numero di caduti possibile, operazione di memoria e di omaggio a quanti sacrificarono la loro vita in per la difesa della democrazia, non solo in Spagna ma in tutta Europa. Infatti, la guerra di Spagna non fu solo una tragedia nazionale, ma un episodio del più vasto quadro della lotta tra fascismo e nazismo e forze democratiche e popolari.
In una precedente occasione1 ho avuto modo di ricordare come molti combattenti della battaglia dell’Ebro (luglio-novembre 1938), che segnò la svolta finale della guerra a favore dei franchisti, ricordano con rimpianto che la sconfitta fu dovuta, in gran parte, al grande squilibrio di armamenti tra i due eserciti e aggiungono che se le armi bloccate alla frontiera franco-spagnola fossero giunte a destinazione, forse gli eventi avrebbero preso un’altra strada.
Infatti, se l’URSS si era impegnata per far giungere rifornimenti all’esercito repubblicano, tali invii seguivano ovviamente percorsi tortuosi e difficili e si scontravano in particolare con la linea di “non intervento” delle potenze occidentali, segnatamente Gran Bretagna e Francia, i cui governi bloccavano regolarmente le spedizioni.
Tale linea politica di “non intervento” fu una delle cause della vittoria dei franchisti che invece disponevano del sostegno dei rifornimenti e dell’aviazione della Germania e dell’Italia fascista. L’intervento italiano si concretò oltre che con la collaborazione dell’aviazione e della marina, anche con l’invio di circa 75.000 soldati. Mussolini sognava un Mediterraneo fascistizzato che andasse dalla Grecia alla Spagna e si prolungasse sino al Portogallo di Salazar.
La ragioni dell’offensiva lanciata dai repubblicani sull’Ebro, ci chiarisce Puppini, non furono solo militari, ma in gran parte politiche. La situazione internazionale era difficile poiché l’URSS era impegnata sul fronte orientale a fronteggiare l’invasione giapponese dalla Mongolia e probabilmente avrebbe avuto in futuro meno risorse da destinare alla Spagna; diventava quindi importante dimostrare la vitalità della Repubblica nella speranza che Francia e Gran Bretagna, di fronte anche alla conclamata aggressività dei nazisti che stavano aggredendo la Cecoslovacchia, avessero una reazione.2 Che non venne.
Fu così che il capo del governo spagnolo Juan Negrin giocò la carta, rivelatasi controproducente, del ritiro delle Brigate Internazionali, che comunicò il 21 settembre 1938 alla Società delle Nazioni. La situazione era tale che la presenza delle Brigate Internazionali non avrebbe, probabilmente, potuto ribaltare le sorti della guerra e Negrin chiese in cambio della loro partenza, il ritiro del sostegno tedesco, italiano e portoghese ai franchisti.
Ma la mossa di Negrin fu inutile, poiché proprio in quei giorni, alla conferenza di Monaco, i governi francese e inglese scelsero l’accordo con Hitler concedendogli la vittoria nella questione dei Sudeti. Dichiarando che con quell’accordo “avevano evitato la guerra” (sappiamo come finì la storia), l’inglese Chamberlain e il francese Daladier posero anche la pietra tombale sulla Repubblica Spagnola.
Il governo francese non fu meno ostile verso la Repubblica nel comportamento che tenne in seguito, quando gran parte dei volontari si ritirarono in Francia, paese dove, tra l’altro, erano massicciamente residenti prima della guerra. Furono internati in diversi campi di concentramento, dove furono praticamente prigionieri, in condizioni di vita pessime e umilianti, che solo l’inziativa degli antifascisti rese più accettabili dal punto di vista umano.
Questo prima di essere, in molti casi, consegnati alla polizia del paese natale, che, nel caso degli italiani, significava confino o prigione. Questi antifascisti il riscatto lo avranno, nella loro maggioranza, durante la Resistenza, quando si avvarranno dell’esperienza politica e militare maturata nella guerra di Spagna.
2 E’ il caso di ricordare che l’URSS invece aveva promesso il suo sostegno alla Cecoslovacchia e in caso di guerra avrebbe dovuto sostenere un ulteriore impegno militare.
Poesie di Fadwa Toqan -Poetessa araba della Resistenza-Copia Anastatica
Fadwa Tuqan nasce nel 1917 a Nablus; soprannominata da Mahmoud Darwish “la madre della poesia palestinese”, è l’emblema della componente femminile nella resistenza e nella lotta sociale e umanitaria per il popolo della sua terra. Fadwa dedica questi versi di poesia a tutti i poeti della resistenza, riuniti per l’occasione in una conferenza ad Haifa.
Fadwa Tuqan nasce nel 1917 a Nablus; soprannominata da Mahmoud Darwish “la madre della poesia palestinese”, è l’emblema della componente femminile nella resistenza e nella lotta sociale e umanitaria per il popolo della sua terra. Fadwa dedica questi versi di poesia a tutti i poeti della resistenza, riuniti per l’occasione in una conferenza ad Haifa.
Lo fa scandendo una serie di versi, di quesiti, di punti di riflessione in un susseguirsi talmente veloce, talmente duro, dirompente e tagliente che arriva a toccare e a bruciare l’anima.
La simbologia è fortissima, le parole prendono quasi vita, si possono immaginare, concretizzare; pregne di tristezza, sature di dolore. Fadwa sembra quasi discostarsi dalla sua stessa realtà, appare una visitatrice ignara, catapultata a sua insaputa di fronte a un pezzo importante della tragedia e travolta da un senso profondo di solitudine.
In pochi ma efficaci fiumi di parole, racconta il dramma -ancora attuale- di donne, uomini e bambini. Il dramma logorante dell’abbandono delle proprie case, ancore dell’appartenenza alla loro patria. E’ proprio l’abbandono il concetto che fa da sfondo e cornice; sensazione alienante che accompagna la poetessa quasi fosse un osso granitico che si riforma in essa, dal quale non si può separare mai più – declinato e espresso tramite più metafore. Le “piante spinose”, cresciute nelle case, sono il simbolo della tangibile solitudine rimasta del seme dell’ingiustizia maturato fino a prendere il posto di chi, fra quelle mura, aveva vissuto e costruito i propri sogni. Cosa vi è rimasto dopo la diaspora? Dei gufi, branchi di gufi cupi, sinistri. Tipico simbolo della letteratura classica, viene proiettato dalla poetessa nel suo presente: diviene la metafora dell’occupante.
La casa, quello che fra gli spazi materiali è il più intimamente caro all’uomo, qui viene persino personificata per evidenziare la concreta realtà, l’unica rimasta dopo l’occupazione. Un panorama, però, desolato di rovine, specchio della condizione dell’anima di chi le ha lasciate; costruzioni vacue, non più case, ora abitate soltanto dal silenzio dell’assenza -forse il più assordante fra tutti- che ne colma il ventre, eco della privazione di un’identità. Dov’è ora il sogno? Dov’è l’avvenire? Dove sono loro?
Fadwa Tuqan, “la poetessa della Palestina”. Le sue poesie di impegno, di lotta, di incoraggiamento verso il popolo palestinese, sono ciò per cui ricordiamo e conosciamo la poetessa.
Per me, però, è stato illuminante scoprire che i suoi componimenti su questi temi, non costituiscono la totalità della sua produzione.
Fadwa Tuqan è stata prima di tutto una donna. Una donna che ha lottato per la propria libertà personale e per i propri diritti. Solo dopo ha unito la sua voce alla protesta nei confronti di Israele, in seguito a una ricerca di sé, una presa di coscienza maturata nel corso di buona parte della sua vita.
Inutile dire come questo mi abbia letteralmente conquistato.
Ciò che più mi ha affascinato è stato, sopratutto che la vita della poetessa e le vicende palestinese sembrano non viaggiare sullo stesso binario, ma anzi percorrere direzioni opposte. O almeno fino al 1967.
Mi spiego meglio: Fadwa Tuqan nasce a Nablus nel 1917 (anche se non ci sono dati certi sull’anno esatto) ed essendo nata in una famiglia appartenente all’alta borghesia e per di più conservatrice, la sua libertà era decisamente limitata e ben presto le venne proibito persino di frequentare la scuola.
Negli stessi anni si abbatterono sulla Palestina gli accordi Sykes-Picot e la dichiarazione di Balfour, che diedero il via all’immigrazione ebrea sotto il protettorato inglese, ma che non influirono in maniera diretta sulla vita quotidiana di Nablus, almeno non subito.
Allo stesso tempo la minaccia sionista diede propulsione a movimenti nazionalisti e di emancipazione femminile che permisero alla poetessa di riprendere gli studi.
Arrivò poi la Nakba, la catastrofe del 1948. Nablus rimase sotto il controllo arabo e migliaia di profughi vi si rifugiarono in cerca di protezione. Nello stesso anno morì il padre della Tuqan.
Questa duplice disgrazia, se da un lato gettò la poetessa nello sconforto, le fece acquistare una libertà mai sperimentata prima, grazie all’assenza del padre-padrone e all’impegno sociale e politico che la situazione richiedeva. Le donne palestinesi poterono finalmente unirsi ai combattenti e rivendicare, insieme alla libertà del proprio paese, anche quella personale.
Perciò uno dei momenti più drammatici della storia palestinese, rappresenta per Fadwa Tuqan l’inizio della libertà tanto agognata.
Tutto cambia, come vi dicevo, dopo il 1967, quando ha luogo il terzo conflitto arabo-israeliano, che vede la sconfitta definitiva delle rivendicazioni palestinesi.
È solo da questo momento in poi che la poetessa iniziò a celebrare la Palestina nelle sue poesie. In seguito a quest’ultimo dramma la Tuqan e il suo Paese si riconciliano e iniziano a camminare nella stessa direzione.
Questo percorso si rispecchia perfettamente nella sua produzione poetica.
La poetessa viene iniziata alla poesia dal fratello Ibrahim, anche lui poeta politicamente impegnato nella difesa della Palestina. I primi componimenti di Fadwa Tuqan sono quasi esclusivamente incentrati sul dolore: per l’isolamento in casa, per i lutti familiari (primo fra tutti quello per il fratello Ibrahim, morto giovanissimo). Anche se viene spesso invitata a scrivere per la causa Palestinese sembra che la poetessa non riesca a farsi carico di questo compito.
Quando nel 1948 la libertà fa capolino nella vita della Tuqan, lei ne approfitta a piene mani, ma, quasi come un’adolescente, è inesperta e immatura, sia dal punto di vista personale che politico. Inevitabilmente si rivolge al sentimento che più di tutti le era stato proibito: l’amore. Mai uguale a se stesso, l’amato cambia volto, carattere, ma rimane sempre anonimo.
Nello stesso periodo iniziano i viaggi della poetessa per presenziare a conferenze e incontri sulla poesia. In una di queste occasioni incontrò Salvatore Quasimodo, il quale rimase colpito dalla Tuqan e, probabilmente, le rivolse degli apprezzamenti. La poetessa gli rispose con una poesia intitolata “Lan abi’ hubbahu” (Non venderò il suo amore), in cui declina con ironia le avance del poeta:
Io, poeta mio, ho nella mia cara patria
un innamorato che attende il mio ritorno.
È un amato compatriota, del mio paese natio;
e tutte le ricchezze del mondo,
le stelle luminose e la luna
non mi faranno mai perdere il suo cuore
o vendere il suo dolce amore.
Ma, ciò nonostante, i sentimenti ed i desideri di donna
mi fanno battere il cuore gioiosamente
al vedere le ombre d’amore negli occhi tuoi
e al sentire il loro desideroso invito.
Perdona, o caro, l’orgoglio del mio cuore
al sentirti bisbigliare dolcemente:
«I tuoi occhi sono profondi e tu sei bella!»
Essenziale nella formazione personale e artistica della poetessa fu anche il suo soggiorno in Inghilterra, dove decise anche di iscriversi ad un corso di Lingua e letteratura inglese presso l’Università di Oxford.
La scoperta di un paese diverso dal proprio dove poteva essere molto più libera fu un’esperienza elettrizzante per l’ormai quarantacinquenne Fadwa Tuqan. Dopo qualche anno, però, iniziò a vedere con disillusione anche l’Inghilterra, che dopo l’entusiasmo iniziale, si rivelò un Paese estraneo. Significativa è questa poesia senza titolo:
Brutto tempo; e il nostro cielo è sempre coperto di nebbia.
Ma dì, di dove sei signorina?
Una Spagnola, forse?
– No, sono della Giordania.
– Scusami, della Giordania, dici?
Non capisco!
– Sono delle colline di Gerusalemme; della Patria della luce e del sole!
– Oh, oh! Capisco; sei un’ebrea!
Ebrea?
Che pugnalata mi ferì al cuore!Una pugnalata tanto crudele e tanto selvaggia!
Tornata finalmente in Palestina, fu allora che iniziò ad impegnarsi attivamente per il suo Paese e diventò realmente una degli esponenti più significativi della letteratura palestinese.
Vi voglio lasciare con una delle poesie a me più care di questo periodo. Si intitola Madinati al-hazina (La mia triste città):
Il giorno in cui vedemmo la morte e il tradimento
l’alta marea si ritirò,
e finestre del cielo si chiusero
e la mia città perse il fiato.
Il giorno in cui si ritirarono le onde
e le bruttezze dei precipizi volsero il volto verso il sole,
s’infiammarono gli occhi della speranza
e la mia triste città
si soffocò di tormento.
Sparirono bimbi e canzoni,
non più ombre né più echi,
e la tristezza andava nuda in mezzo alla mia città
Elisa Veronesi-Molesini Editore Venezia:il presente della Poesia-
Se la Venezia del Ventunesimo secolo ha poco o nulla a che vedere con la città ricca e cosmopolita che nel Quattrocento dominava il Mediterraneo, c’è tuttavia un fil rouge che pare saldare questo nostro presente catastrofico con la grandezza di una città il cui fascino continua ad irradiare, nonostante tutto, a pelo d’acqua. E questo legame è iscritto, o meglio sarebbe dire scritto, nei libri. Nei libri in quanto oggetti prodotti dall’arte sapiente della rilegatura e nei libri in quanto veicoli di conoscenza, di scienza e di poesia.
La storia della stampa si intreccia con la città di Venezia ancor prima dell’invenzione dei caratteri mobili, infatti, già nel Trecento, nella Laguna si sperimentavano nuove forme di stampa attraverso l’uso della riproduzione xilografica, soprattutto per riprodurre tabule (utilizzate dagli scolari per imparare l’alfabeto) e salteri (raccolta di preghiere utilizzato per imparare a leggere), molto richiesti dai numerosi studenti cittadini. Venezia era una città nella quale lo studio e il commercio erano vivissimi e i libri erano un’effettiva necessità. Quando dunque l’invenzione dei caratteri mobili arrivò nella laguna trovò terreno fertile e divenne in poco tempo un mercato fiorente, con all’attivo oltre 200 macchine da stampa alla fine del XV secolo e nomi illustri che rimarranno impressi nella storia del libro, come quello di Aldo Manunzio.
Anche nell’odierna Venezia si continuano a stampare libri e, nell’ottobre del 2022, è nato un nuovo editore: Molesini Editore Venezia. Andrea Molesini, veneziano, scrittore e traduttore, autore, tra gli altri libri, di Non tutti i bastardi di Vienna, vincitore del Premio Campiello nel 2010, ha deciso di fondare una casa editrice di poesia al motto vitruviano di firmitas, utilitas, venustas: solidità, praticità, bellezza. Creare una casa editrice oggi è già una scommessa non da poco, fondarne una di sola poesia poi, parrebbe ancor più un azzardo. Ma è proprio nell’intento «di rivitalizzare il ruolo della poesia, e della riflessione sulla poesia, nella vita letteraria italiana», come si legge nel sito web dell’editore, che nasce questo interessante progetto. Poesia dunque, e grande cura e attenzione nei dettagli dell’oggetto-libro. I libri pubblicati da Molesini, infatti, sono libri in formato tascabile, realizzati con carta di qualità, rilegata e cucita a mano e caratterizzati da una grafica essenziale con colori vivaci e senza immagini, firmata dal grafico Giacomo Callo. Il carattere tipografico utilizzato è il Baskerville Original, inventato da John Baskerville durante l’Illuminismo, un carattere non molto comune nell’editoria contemporanea, la quale preferisce il Garamond. Una scelta, quest’ultima, che vuole omaggiare la libertà di pensiero e la laicità. I libri di autori stranieri sono poi presentati con testo originale a fronte, una pratica essenziale per un testo poetico il cui ritmo e il cui respiro vivono realmente solo nella lingua d’origine.
Molesini Editore Venezia
Molesini Editore pubblicherà 10 libri all’anno, i primi 7 titoli sono usciti alla fine del 2022 e il primo libro della collana è Messaggio di Fernando Pessoa, tradotto da Francesco Zambon, il quale ha curato anche la prefazione e il commento al testo. Un titolo significativo che inaugura la collana e che pare davvero lanciare un messaggio, quello di un’utopia necessaria in un mondo alla deriva. La poesia visionaria di Pessoa, che in questo libro narra in versi la vicende di un re del ‘500, re Don Sebastiano, il quale deve ritornare in patria per fondare il Quinto Impero della storia universale, è una poesia che vuole salvare il mondo e che per farlo trasla verso un piano spirituale e recupera il mito come fondazione.
«Sogno è vedere le forme invisibili Della vaga distanza e, con sensibili Moti della speranza e del volere, Cercare sulla fredda linea dell’orizzonte Albero, spiaggia, fiore, uccello, fonte – I baci meritati della verità».
Pessoa, II. Orizzonte
Il secondo volume pubblicato, tradotto da Emilio Coco e arricchito di un saggio di Marco Frizzini è Il pesce rosso che ci nuota nel petto, della poetessa e scrittrice nicaraguense Gioconda Belli, ex militante del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale. Si tratta di una raccolta che analizza, con una lingua poetica tesa fino alla prosa, i legami amorosi, le lotte femministe e gli elementi della natura. La scrittura chiara e precisa di Belli apre, spalanca voragini di senso e crea immagini che restano attaccate senza tregua alla retina. Un’ironia tagliente raggira con abilità gli stereotipi che spesso accompagnano il parlare d’amore o il parlare della femminilità e trasforma il dire in una lucida disamina del mondo e degli esseri umani.
«Abitante millenaria Della precarietà dei sogni Desidero l’angolo della tua spalla Piangere sulla tua schiena Attraccare la mia barca sul dorso del tuo braccio Penisola della mia speranza». Gioconda Belli, Dichiarazione di vulnerabilità
Oltre a Pessoa e Belli sono già uscite le raccolte poetiche di Emmanuel Moses con Oscuro come il tempo nella traduzione di Andrea Molesini, Bianca Tarozzi con Devozioni domestiche, Il tempo degli spaventapasseri di Jozefina Dautbegović, tradotto da Neval Berber, Gilberto Sacerdoti con Peltro e argento e Francesco Zambon, quest’ultimo con L’iride nel fango, un suggestivo commento a L’anguilla di Eugenio Montale, un viaggio negli abissi fangosi tra il mondo umano e non umano.
Un panorama poetico, insomma, quello di Molesi Editore, che pare intercettare tematiche cruciali del presente e che lo fa con la parola più profetica della quale disponiamo, quella poetica. Aspettiamo dunque le nuove pubblicazioni di questo nuovo anno, sicuri che questa nuova avventura editoriale e poetica arricchirà il panorama editoriale italiano e ci ricorderà, ancora una volta, che la poesia è sempre stata là e non può «fare naufragio».
«Ma prima di tutto c’è la poesia, più misteriosa, più incandescente, più aspra ancora la poesia che è la nostra fame, la nostra sete, la nostra necessità e il nostro desiderio […] Il mare in tempesta che ci lacera il docile mare che ci rispecchia il mare traslucido dove vediamo tesori insospettabili il mare nero come un incubo senza fine la poesia continua là il suo viaggio galleggia hai mai visto una poesia fare naufragio?» Emmanuel Moses, Il mare interiore
Elisa Veronesi è nata a Castelnovo ne’ Monti, nell’Appennino Reggiano.Ha vissuto a Bologna, dove si è laureata in Italianistica e poi a Reggio Emilia, dove ha faticato per qualche anno nei magazzini di un’azienda di moda. Dal 2019 vive in Francia e lavora come insegante e formatrice di italiano in un liceo privato e in diversi centri di formazione. Dal 2022 è lettrice di italiano all’Université Côte d’Azur. Scrive, un po’ da sempre, disordinatamente. Legge molto, un po’ da sempre, altrettanto disordinatamente Un suo racconto è apparso sulla rivista on line “YAWP Giornale di Letterature e Filosofie”, altri racconti sono archiviati nel suo sito, poco aggiornato, messmerprimo.com e altri ancora sono in giro in rete. Collabora con il blog “La Grande Estinzione – per un romanzo diffuso dell’Antropocene”. Ha collaborato con la rivista on-line “Simposio Italiano” con recensioni e diversi articoli legati al territorio appenninico e alla frontiera franco-italiana.
Vittorio Maria De Bonis-Una lama di tenebra – Giustizia per Caravaggio
Una tela di Caravaggio sempre ricercata e mai attribuita con certezza, un raffinato e cinico collezionista pronto a tutto pur di possederla, un’arma memorabile forse appartenuta davvero al geniale artista milanese, una catena sconcertante di delitti nel segno di Caravaggio che insanguina la Roma contemporanea dell’antico patriziato e della cultura, fra botteghe antiquarie, salotti alla moda, ribalte mediatiche e nuovi protagonisti del web, gettando nel panico la mondanità capitolina. Anche stavolta il brillante critico d’arte Lorenzo Alderani, diviso fra perizie, comparsate televisive e conferenze, appassionato di Caravaggio e coadiuvato da un inseparabile assistente, irriverente e snob come il suo mentore, si mette alla ricerca della verità fra gallerie di pittura e palazzi aristocratici, prestigiose collezioni patrizie e chiese barocche, turbato da mille tentazioni femminili ma pur sempre devoto all’eterna fidanzata Elena, ironica e sapiente giornalista di moda con la vocazione dell’arte e dell’indagine, in una frenetica caccia al tesoro fra Roma, Malta e Port’Ercole sulle tracce del Maestro della Luce e dell’oscuro Giustiziere che ha deciso di vendicarlo. Un inseguimento fra le tenebre del Peccato e gli splendori della Fede che rivela i luoghi segreti e le tappe inedite della breve stagione di Caravaggio a Roma, in un suggestivo itinerario fra pale d’altare e celeberrime raccolte d’arte, cappelle dipinte e capolavori inaccessibili, fino alla necessaria – e fatalmente imprevedibile – resa dei conti, tra grande arte e ossessione omicida. Nel nome e per conto di Caravaggio.
Dati: 2021, pp. 192, brossura Prezzo: 16 euro
EdiLet – Edilazio Letteraria
Sede: Via Taranto, 184 – 00182 Roma – tel./Fax 06 7020663 06 70392827
Michelangelo Merisi da Caravaggio nasce a Milano, e non a Caravaggio, luogo della famiglia d’origine, nel settembre del 1571; solo recentemente (2007) questa data, molto importante per la ricostruzione dell’intera opera dell’artista, è stata resa nota con certezza e ora sappiamo, sulla base di un documento dell’archivio diocesano, che Michelangelo viene battezzato il 30 settembre 1571 a Milano nella parrocchia di Santo Stefano in Brolo, chiesa ancora oggi esistente in piazza Santo Stefano. È probabile dunque che sia nato, come alcuni studiosi hanno supposto, il giorno prima, 29 settembre, giorno dedicato a San Michele Arcangelo, il cui nome fu apposto al neonato. Conosciamo il nome dei suoi genitori, originari di Caravaggio (piccolo borgo allora parte del territorio di Milano, oggi città della provincia di Bergamo): Fermo Merisi, maestro di casa di Francesco Sforza, marchese di Caravaggio, e Lucia Aratori. Sappiamo poi che, a poco più di dodici anni, nell’aprile 1584, il giovane Michelangelo entra nella bottega di Simone Peterzano, pittore assai noto della Milano tardocinquecentesca; vi sarebbe rimasto per imparare il mestiere, come da contratto, quattro anni. Questa la formazione del Merisi, avvenuta presso un pittore borromaico, fortemente segnato dalla pittura veneto-tizianesca e che di Tiziano si dichiara allievo. Se Peterzano è stato il suo vero e proprio maestro, è certo che il giovane Merisi si forma, con un occhio attento al reale, anche sulla pittura lombarda del Cinquecento: da Savoldo a Moretto, da Moroni ai Campi. Non sappiamo se rimane proprio quattro anni nella bottega milanese di Peterzano e neppure quando si trasferisce da Milano a Roma, dove lo troviamo con qualche certezza solo nella primavera del 1596. È documentato in Lombardia fino al luglio 1592, quando vende i suoi possedimenti, ma dei quattro anni che intercorrono tra il 1592 e il 1596 non sappiamo assolutamente nulla e, viceversa, la conoscenza della data di arrivo nella città eterna sarebbe fondamentale per capire meglio l’ambiente romano frequentato dall’artista e stabilire una cronologia più precisa delle sue opere. Le fonti contemporanee infatti ci parlano della presenza del Merisi a Roma ma non indicano una data precisa per il suo arrivo. Il solo Giulio Mancini, che scrive però a un decennio di distanza dalla morte dell’artista, riferisce che “se ne passò a Roma d’età incirca 20 anni”, ma nessun documento conferma questa notizia che pure alcuni studiosi, con motivazioni diverse, hanno avallato.
ILSE WEBER: Da Terezin verso Auschwitz Birkenau-Articolo di Anna Foa
Elsa Weber, di religione ebraica, nata a Witkowitz nel 1903, scrisse poesie e fiabe per bambini fin da giovanissima, entrando a far parte del grande mondo intellettuale ceco. Come tutti gli ebrei cechi, era di lingua tedesca. Sposatasi con Willi Weber, Ilse si dedicò poi alla famiglia, pur senza interrompere la sua attività di scrittrice. Nel 1930 aveva già pubblicato tre fortunati libri di fiabe ed era divenuta una valente musicista. Patriota della sua Cecoslovacchia, diede al suo secondo bambino il nome di Tomáš in onore del presidente Masaryk.
La Cecoslovacchia degli anni Trenta era un’isola di democrazia e una crogiolo di attività intellettuali, che spiccava nel panorama degli altri Stati dell’Europa orientale, sottoposti a regimi dittatoriali e caratterizzati dal prevalere dell’antisemitismo.
Elsa Weber
Nel 1939, dopo l’occupazione nazista, i Weber decisero di mandare il primo figlio Hanuš in Inghilterra, affidandolo all’amica di Ilse, che lo avrebbe lasciato in Svezia presso sua madre e che sarebbe poi morta nel 1941. Il piccolo Weber partì così insieme ad oltre seicento bambini ebrei, sottratti ai nazisti grazie all’attività di salvataggio di un agente di borsa inglese, Nicolas George Winton, e spediti in treno nell’unico paese europeo che accettò di accoglierli, l’Inghilterra. Ilse non lo avrebbe più rivisto. Nel 1942, Ilse con il marito e il piccolo Tomáš furono deportati a Theresienstadt, “il ghetto modello” da cui partivano i trasporti per Auschwitz. Qui Ilse fece l’infermiera nell’ospedale dei bambini, creando per loro e per gli altri prigionieri poesie e canzoni, suonando per loro il liuto e la chitarra. Una sua poesia, Le pecore di Lidice, suscitò violente reazioni da parte delle SS, senza fortunatamente che Ilse ne fosse individuata come l’autrice. Un’altra, Lettera al mio bambino, indirizzata al figlio Hanuš, fu tradotta e pubblicata nel 1945 in Svezia e Hanuš poté così leggerla. Nel 1944, Willi fu per primo deportato ad Auschwitz. Poco dopo anche Ilse e Tomáš furono inseriti in un “trasporto all’Est”. Sembra che Ilse abbia scelto volontariamente la deportazione per non abbandonare i bambini a lei affidati. E qui, insieme con loro, Ilse e Tomáš furono subito mandati alle camere a gas. Tornato a Praga dopo la guerra, Willi riprese con sé il figlio, che era vissuto in Svezia affidato alla madre di Lilian, Gertrud. Un ricongiungimento difficile, perché il ragazzo, dopo quei sei anni lontano, rifiutava di parlare con il padre su quanto era avvenuto durante la Shoah. Nel 1968, dopo l’invasione da parte dei russi, divenuto giornalista e legato alla primavera praghese, Hanuš fuggì in Svezia dove si stabilì. Lentamente, alla rimozione dei suoi primi anni si sostituì il desiderio di ricostruire la sua storia. Nel 1974, Willi si preparava a raggiungere in Svezia il figlio per collaborare ad un film sui campi di concentramento che questi stava preparando, quando morì improvvisamente d’infarto. Ora questo libro, con la presentazione di Hanuš e un’ampia prefazione di Ulrike Migdal, viene a riproporci la storia di Ilse e della sua famiglia.Se la storia dei Weber è in sé una storia straordinaria, le poesie composte nel campo da Ilse sono di una struggente bellezza, mentre le sue lettere a Lilian, che vanno dal 1933 al 1944, cioè fino alla deportazione a Auschwitz, sono un eccezionale e vivissimo ritratto, oltre che della sua vita, dei suoi affetti e della sua arte, anche del suo paese, la Cecoslovacchia, man mano che l’ombra dell’antisemitismo e di Hitler si faceva più vicina. Dopo la partenza del figlio, nel 1939, la maggior parte delle lettere sono indirizzate al bambino, che Ilse cerca di seguire a distanza, della cui educazione si preoccupa, di cui lamenta la pigrizia nello scrivere, di cui sollecita il mantenimento dell’appartenenza ebraica. Le ultime lettere sono da Theresienstadt, dove Ilse fa ancora in tempo, prima della deportazione, a piangere in una lettera alla madre di Lilian la morte dell’amica. Subito dopo, Auschwitz.
Descrizione del nuovo libro di Nicola Coccia “Strage del Masso delle Fate”-Un episodio della Resistenza toscana passato quasi in sordina. Il sabotaggio di un treno tedesco zeppo di esplosivi, la notte tra il 10 e l’11 giugno del ‘44, che i partigiani di una Squadra d’azione patriottica, a costo della propria vita, fecero saltare in aria nei pressi di Carmignano. E il ruolo di Ottone Rosai e degli intellettuali fiorentini nella lotta di Resistenza, il loro contributo alla liberazione di Firenze e della Toscana. Storia, ricerca accurata delle fonti, scrittura brillante si fondono nell’affresco fiorentino a cavallo della seconda guerra mondiale tracciato dal giornalista Nicola Coccia nel suo ultimo libro, “La strage del Masso delle Fate. Ottone Rosai, Bogardo Buricchi ed Enzo Faraoni dal 1933 alla Liberazione di Firenze” (Ets). Martedì 26 aprile la presentazione ai lettori in palazzo comunale a Bagno a Ripoli (ore 17.00, sala consiliare “Falcone e Borsellino”, ingresso libero). Accanto all’autore, storica firma del quotidiano La Nazione, saranno presenti il professore di Storia dell’Università di Firenze, Giovanni Cipriani, il sindaco Francesco Casini e l’assessora alla cultura Eleonora Francois. L’iniziativa si svolge in collaborazione con la Biblioteca comunale.
Frutto di quindici anni di ricerche e interviste, il libro di Coccia racconta l’attività di una piccola formazione partigiana guidata da un poeta, Buricchi, e da un pittore, Rosai, fino al più importante attacco alle linee ferroviarie dell’Italia centrale e alla fabbrica di armi nel pratese. La chiave di volta, per l’autore, è il ritrovamento all’Archivio centrale dello Stato di un documento inedito che gli consente di svelare, più di mezzo secolo dopo, come il tritolo dei tedeschi servisse per rallentare l’avanzata degli Alleati.
Gli effetti dell’assalto al treno si intrecciano con la vita di Rosai, che aprirà le porte di casa ad uno dei superstiti del sabotaggio, Enzo Faraoni, così come a Bruno Fanciullacci, il gappista più ricercato della Toscana. Ma anche con l’uccisione di Giovanni Gentile, la cattura del famigerato Mario Carità e del suo degno allievo Pietro Koch, che per una settimana aveva rinchiuso in un armadio Luchino Visconti. Una serie di persone e fatti concatenati nella Firenze degli anni Trenta e Quaranta, dove la gente era affamata d’arte, poesia e libertà.
Nicola Coccia ha cominciato a collaborare all’Avanti nel 1966 per poi passare alla redazione fiorentina del Lavoro di Genova. Per La Nazione si è occupato dei principali fatti di cronaca che hanno segnato la storia di Firenze degli ultimi trent’anni. Con il libro “L’arse argille consolerai. Carlo Levi, dal confino alla Liberazione di Firenze attraverso testimonianze, foto e documenti inediti” (2016) ha vinto il Premio Carlo Levi.
Comune di Bagno a Ripoli (Firenze)-
il 26 aprile 2022 in sala consiliare
presentazione del nuovo libro di Nicola Coccia
“Strage del Masso delle Fate”
Il Comune di Bagno a Ripoli si trova in piazza della Vittoria 1. Per informazioni: 055.6390211.
20/04/2022 15.05 Ufficio stampa Comune di Bagno a Ripoli
Anna Pavlovna Pavlova, la più famosa ballerina russa del XX secolo-
Anna Pavlovna Pavlova,Ballerina (Pietroburgo 1881 – L’Aia 1931). Allieva della Scuola imperiale di ballo a Pietroburgo, studiò con N. G. Legat, P. A. Gerdt e infine con E. Cecchetti, che divenne suo maestro personale. Diplomata nel 1899, nel 1906 fu nominata prima ballerina del teatro Marijnskij di Pietroburgo, sulle cui scene interpretò Il lago dei cigni e Giselle. Nel 1907 M. Fokin creò per lei l’assolo La morte del cigno (o Il cigno) su musica di C. Saint-Saëns, brano emblematico della personalità artistica della P. e a lei rimasto indissolubilmente legato. Nel 1909 danzò a Parigi con la compagnia dei Balletti russi di S. P. Djagilev, interpretando, accanto a V. F. Nižinskij, Les Sylphides e Cléopâtre (coreografia di M. Fokin). Stabilitasi a Londra nel 1911, dopo un’ultima stagione con Djagilev fondò una sua propria compagnia, con la quale danzò in tutto il mondo. Custode di un’estetica conservatrice (si rifiutò di danzare L’uccello di fuoco di Stravinskij), incarnò l’ideale etereo della ballerina classica, influenzando in particolar modo il gusto del sorgente balletto inglese.
Anna Pavlovna Pavlova,, la più famosa ballerina russa del XX secolo-
Professor Josè Gongora Ballet-Anna Pavlovna Pavlova, la più famosa ballerina russa del XX secolo-Biblioteca DEA SABINA
Tra le personalità più importanti della danza russa c’è Anna Pavlova, una straordinaria danzatrice che ha portato e diffuso la cultura balletto per il mondo, danzando sino ai cinquanta anni. La ballerina russa è ancora oggi il simbolo della danza romantica, della sua malinconia e grazia, della capacità di trasfigurare il mondo delle emozioni in arte del movimento.
Nata a San Pietroburgo nel febbraio del 1881, da un’umile famiglia di contadini, Anna Pavlova scopre il balletto a otto anni, quando assiste a una rappresentazione de La Bella addormentata. Qui, ancora bambina, la piccola Anna comprende nel profondo del suo animo di voler diventare una ballerina. Una scoperta casuale come quella derivata da una semplice visione di uno spettacolo cambia dunque il corso della sua vita. Così a soli dieci anni la troviamo alla Scuola dei Balletti Imperiali, in cui studia costantemente sino al raggiungimento del diploma ottenuto a diciotto anni.
Entra immediatamente a far parte della compagnia, diventa seconda solista nel 1902, prima solista l’anno successivo, diventando in seguito prima ballerina dopo l’interpretazione del Lago dei cigni nel 1906. La troviamo quindi a danzare ne La Fille Mal Gardée, uno dei balletti più antichi della storia della danza classica, al Teatro Mariinskij. Uno dei suoi maestri è Enrico Cecchetti, maestro, ballerino e coreografo italiano, il cui metodo è molto conosciuto soprattutto in ambito anglosassone. Anna lavora per Serege Diaghilev, organizzatore e direttore dei Balletti russi, prima di fondare una compagnia vera e propria, con cui girare il mondo.
Questa straordinaria artista ha avuto un ruolo importante nella storia del balletto. Se nell’Ottocento le ballerine sono donne caratterizzate da una corporatura piuttosto muscolosa e forte, la Pavlova, così minuta e delicata, si presenta fisionomicamente distante da quei modelli, ma ricca di grazia e rara eleganza. Il suo piede è piuttosto minuto e delicato, ragion per cui rinforza le sue scarpe da punta con l’aggiunta di un pezzo di cuoio sulla suola dando così anche il suo contributo allo sviluppo della scarpetta da punta moderna.
Questa ballerina è conosciuta soprattutto per delle esibizioni famose come quella de La morte del cigno. La versione coreografata da Michel Fokine è una delle rappresentazioni più interpretate dalla ballerina durante la sua carriera, un’interpretazione artistica a cui resta sempre fedele.
sua favola termina però in Olanda, dove la Pavlova muore a causa di una pleurite nel gennaio del 1931. Il treno è fermo nella neve, e Anna scende non coprendosi completamente, così il freddo intenso e pungente le provoca un malanno che degenera nelle settimane successive. La straordinaria ballerina resta fedele alla danza sino alla morte, la danza è sua compagna, e non è un caso se in fin di vita, richiede espressamente di poter tenere in mano il suo costume utilizzato per La morte del Cigno. Il giorno successivo alla sua scomparsa, lo spettacolo va in scena con un faro segui persona che si muove su un palco vuoto, illuminando quegli spazi che la ballerina avrebbe dovuto riempire con la sua presenza leggiadra.
Oggi esistono dei frammenti di filmati dedicati a questa artista, che ne fissano per sempre come testimonianza la danza. Molte di queste sequenze sono state inglobate in un film del 1956 chiamato The Immortal Swan (Il cigno immortale).
Anna Pavlovna Pavlova,, la più famosa ballerina russa del XX secolo-
Professor Josè Gongora Ballet-Nel 1923 , Anna Pavlovna Pavlova,was at the height of her career as one of the world’s most celebrated ballerinas. Pavlova, born in 1881 in St. Petersburg, Russia, had already achieved international fame for her ethereal performances and dedication to the art of ballet. Known for her expressive style and technical prowess, Pavlova became a symbol of the elegance and beauty of classical dance. Her portrayal of the “Dying Swan,” a solo she performed for the first time in 1905, became one of the most iconic pieces in ballet history, solidifying her legacy.
By the time this photograph was taken in 1923, Pavlova had become a household name and was in the midst of her global tours. She was admired not only for her dancing but also for her ability to convey deep emotion through her movements. She was a pivotal figure in bringing ballet to a broader audience, performing in cities around the world and captivating audiences with her grace. Her tours included performances in London, Paris, and New York, where she introduced the beauty of classical Russian ballet to the Western world, forever changing the global perception of ballet.
Pavlova’s influence on the world of dance cannot be overstated. She founded her own ballet company, which toured extensively, and she was instrumental in advancing the recognition of ballet as a legitimate form of artistic expression. Despite the challenges of the time, including the limited acceptance of women in such powerful roles, Pavlova remained a trailblazer for female dancers worldwide. Even today, Anna Pavlova is regarded as one of the most important figures in the history of ballet, and her legacy continues to inspire generations of dancers. The 1923 photograph captures not only her beauty but also her immense contribution to the performing arts, preserving a moment in time that celebrates the artistry of one of ballet’s greatest icons.
Nel 1923 Anna Pavlova era all’apice della sua carriera come una delle ballerine più celebrate al mondo. Pavlova, nata nel 1881 a San Pietroburgo, Russia, aveva già raggiunto fama internazionale per le sue esibizioni eteree e la dedizione all’arte del balletto. Conosciuta per il suo stile espressivo e la sua abilità tecnica, Pavlova è diventata un simbolo dell’eleganza e della bellezza della danza classica. La sua interpretazione di “Dying Swan”, un assolo che ha eseguito per la prima volta nel 1905, divenne uno dei pezzi più iconici della storia del balletto, consolidando la sua eredità.
Quando questa fotografia fu scattata nel 1923, Pavlova era diventata un nome familiare ed era nel bel mezzo dei suoi tour globali. Era ammirata non solo per la sua danza, ma anche per la sua capacità di trasmettere emozioni profonde attraverso i suoi movimenti. È stata una figura fondamentale nel portare il balletto a un pubblico più ampio, esibendosi in città di tutto il mondo e coinvolgendo il pubblico con la sua grazia. I suoi tour includevano spettacoli a Londra, Parigi e New York, dove ha introdotto la bellezza del balletto classico russo nel mondo occidentale, cambiando per sempre la percezione globale del balletto.
Anna Pavlovna Pavlova,, la più famosa ballerina russa del XX secolo-
L’influenza di Pavlova sul mondo della danza non può essere sopravvalutata. Ha fondato la sua compagnia di balletto, che ha fatto un lungo tour, ed è stata determinante nel far avanzare il riconoscimento del balletto come forma legittima di espressione artistica. Nonostante le sfide del tempo, compresa la limitata accettazione delle donne in ruoli così potenti, Pavlova è rimasta una piste per le ballerine di tutto il mondo. Ancora oggi Anna Pavlova è considerata una delle figure più importanti della storia del balletto, e la sua eredità continua a ispirare generazioni di ballerini. La fotografia del 1923 cattura non solo la sua bellezza ma anche il suo immenso contributo alle arti dello spettacolo, conservando un momento nel tempo che celebra l’arte di una delle più grandi icone del balletto.
Poesie di NOÉ JITRIK, critico letterario e scrittore argentino-
Noé Jitrik (Rivera, 23 gennaio 1928- Pereira, 6 ottobre 2022), poeta. Docente universitario, si trasferì nel 1966 in Francia e nel 1974 in Messico, dove rimase esule ai tempi della dittatura argentina. Tornato in patria, diresse la rivista di semiotica sYc.
FRECCE
a Leopoldo Marechal
I giorni non sono
– mi sembra –
frecce
come diceva un poeta
amato
e perduto
quando tutto faceva credere
che avremmo condiviso
un tavolino di caffè
un po’ di chiacchiere
dichiarative
e amichevoli
i giorni sono
un ammiccare di occhi
stupiti
uno stare
tra due attese
mattino e notte
notte e mattino.
(da Calcolo errato, 2009)
FESTA NAZIONALE A LAGUNA PAIVA
Per Paco Urondo
Per Giulio Gargano
Cosa significa un giorno perso
nell’accumulo di giorni trascorsi e sepolti?
Ti ho fatto notare che l’amore è una questione di pulsazioni
del diverso ritmo del polso in ciascuna mano:
donne che sono femmine, uomini che sono maschi
e un alone di gin sulle dolci aiuole.
Ridiamo della nostra reciproca insonnia
guardandoci dolcemente
come se ognuno fosse oggetto di tutti gli incidenti:
finalmente rimaniamo al nulla iniziale
di una lingua legata, impedita e goffa.
Sarai così eroico da sopportare le recite
e le lunghe conferenze coscienziose?
La tua città è un concentrato di ardori,
un tripudio di discorsi, è un respiro
di due che hanno freddo e giocano con i loro sessi.
(da L’anno prossimo e altre poesie, 1959)
NOÉ JITRIK
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LE TAZZE
Come nel tango
la vera tristezza
la tristezza senza ritorno
possiede l’immobile
dipinge le pareti
risuona nei rubinetti mal chiusi
puzza sugli asciugamani e nelle scarpe
dissesta le finestre
nega alle porte il silenzio e la scorrevolezza
respinge i postini ritardatari
piega la punta dei tappeti
e quanto alle tazze, oh le tazze
nella solitudine desertica della notte si frantumano
la tristezza le scheggia
fa grezzo il loro bordo
reprime il caffè
e di conseguenza non c’è niente da fare
è anche inutile
ricordare
senza nemmeno il ricordo di un amore ben fatto
o il ricordo di un insondabile tradimento:
il caffè diventa amaro e duro
a quale serietà puoi aspirare così
senza stoviglie
senza ricordi
proprio come i bambini che non hanno un insegnante
non hanno nemmeno un padrone
nessun amore.
(da Mangiare e mangiare, 1974)
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.
ESSERE O NON ESSERE
Il treno che adesso mi sveglia
sdraiato
sui sassi
accanto al mare di grano rosso
e i treni della mia infanzia
sono diversi per il fumo
non mi restituiscono
il tempo che è passato
il sapore del carbone
nella pampa
un altro mare
non mi restituiscono
mio padre e le sue fatiche
promesse eroiche
in cui solo io credevo
il treno ora non mi offre
più nulla
solo un’altra città
piena di pioggia
incessante
incandescente
ansiosa.
(da Viaggi. Oggetti ricostruiti, 1979)
NOÉ JITRIK
Adiós al escritor y crítico
Noé Jitrik
El escritor, crítico y docente argentino se encontraba en la ciudad colombiana de Pereira para dictar una serie de conferencias cuando sufrió un ACV. Tenía 94 años. El Ministerio de Cultura de la Nación lo despide con profundo dolor y hace llegar sus condolencias a su familia y amigos.
Noé Jitrik
El Ministerio de Cultura lamenta profundamente el fallecimiento del escritor, crítico literario y docente Noé Jitrik, quien tenía 94 años y había sufrido un ACV, mientras se encontraba en la localidad de Pereira (Colombia), para dictar una serie de conferencias. Estuvo acompañado de su mujer, la escritora Tununa Mercado, y sus dos hijos, Oliverio y Magdalena.
Noé Jitrik
El Ministerio de Cultura lamenta profundamente el fallecimiento del escritor, crítico literario y docente Noé Jitrik, quien tenía 94 años y había sufrido un ACV, mientras se encontraba en la localidad de Pereira (Colombia), para dictar una serie de conferencias. Estuvo acompañado de su mujer, la escritora Tununa Mercado, y sus dos hijos, Oliverio y Magdalena.
Noé Jitrik, en su visita al Centro Cultural Borges.
Entre su prolífica producción, abordó primero la poesía, como en Feriados (1956), El año que se nos viene y otros poemas (1959) y Addio a la mamma, Fiesta en casa y otros poemas (1965). Y continuó con otros géneros como el ensayo, entre ellos, Leopoldo Lugones, mito nacional (1960), Cuando leer es hacer (1987), Temas de teoría. El trabajo crítico y la crítica literaria (1987) y Lectura y cultura (1987). La novela fue también un género al que le dedicó gran parte de su vida: Del otro lado de la puerta: rapsodia (1974); El ojo de Jade (1978); Amaneceres (2006) y La vuelva incompleta (2021), entre otras.
Además, Jitrik dirigió la colección de doce volúmenes de Historia crítica de la literatura argentina, editada por Emecé. Allí recolectó ensayos y textos críticos de diversos autores, en lo que se abordaron las diferentes épocas de la literatura argentina.
Noé Jitrik
En 1953 había comenzado a colaborar en la Revista Contorno, junto a David Viñas, Ismael Viñas, León Rozitchner, Juan José Sebreli, Oscar Masotta y Carlos Correas. En la Universidad de Córdoba, ejerció la docencia, donde conoció a la escritora Tununa Mercado y con quien se casó en 1961. Jitrik también trabajó en Francia y México, donde permaneció tras las amenazas de la Triple A, hasta su regresó a Buenos Aires, en 1987. Fue investigador principal en el CONICET y, desde 1991, ejerció el cargo de Director del Instituto de Literatura Hispanoamericana de la Universidad de Buenos Aires.
A lo largo de su vida, Jitrik recibió diversos premios y distinciones, entre ellos: Premio Xavier Villaurrutia por su libro Fin de ritual (1981); Caballero de las Artes y las Letras en Francia (1993); Premio Konex, categoría “Ensayo literario” (1994); Doctor honoris causa, por la Universidad Nacional de Cuyo (2009); Doctor honoris causa de la Universidad de la República (Uruguay, 2010); Miembro de la Academia Mexicana de la Lengua (2021), y Doctor Honoris Causa de la Universidad de Buenos Aires (2021).
Sus colegas argentinos lo habían elegido como candidato al Premio Nobel de Literatura, que casualmente se entregó hoy a la autora francesa Annie Ernaux.
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