Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Pericle – Discorso agli Ateniesi, 431 a.C. (*)
Tratto da Tucidide, Storie, II, 34-36
(*) Errata corrige: inizialmente era stata indicata la data del 461 a.C., riportata da diverse fonti, ma in realtà il discorso, secondo Tucidide, è stato pronunciato all’inizio della Guerra del Peloponneso (431 a.C. – 404 a.C.)
MILANO (ITALPRESS) – Descrizione del libro di Roberto Fiorentini –“I dimenticati”- Nel Maggio 1940. Ai circa 25 mila italiani residenti in Libia, tra Tripoli, Bengasi e la Cirenaica, è notificata una circolare delle autorità locali. Invita le famiglie, con figli dai 5 ai 10 anni, a inviarli in Italia dove sarebbero stati accolti, per tutto il periodo estivo, nelle colonie marine costruite del Regime Fascista. Il 3 giugno 3000 bambini, partono così dal porto di Tripoli, a bordo della nave ‘Augustus’ Il giorno successivo per il porto di Napoli. Trasferiti nelle colonie del regime chi sul mar Adriatico, chi sulla riviera ligure di Ponente, chi in zone montane. Non torneranno mai più nelle loro famiglie.
Racconta tutta questa incredibile odissea il nuovo libro del giornalista Roberto Fiorentini dal titolo ‘I dimenticatì (Ronca Editore). Lo fa con la voce di una delle sopravvissute: Silvia Napoletano, ora 92enne e che vive nel piacentino. Una storia oscura e drammatica del regime fascista quasi mai raccontata e rimasta solo nella memoria personale dei pochi sopravvissuti.
La narrazione parte proprio dalle terre libiche e da quel terribile viaggio in nave dove 3000 bambini erano stati ammassati ‘come pecorè (così racconta Silvia) per raggiungere il porto di Napoli, sempre controllati dalle ‘educatricì e dalle ‘camice nerè. La voce della protagonista narra la sua odissea. Prima nelle colonie estive della Romagna; poi in quelle in collina sull’appennino tosco romagnolo. Vita da caserma per quei bimbi e quelle bimbe.
“Alla caduta del regime la vita diventa un vero inferno”, racconta Silvia. Cibo finito. Vestiti spariti. Scarpe inesistenti. Notti da brividi e da paura in mezzo alle sparatorie tra i partigiani, uomini allo sbando del fascismo e truppe tedesche in ritirata. A pranzo e a cena solo l’erba che, di giorno, quelle bambine raccoglievano nei campi a combattimenti sospesi.
Fiorentini traccia anche una vera mappa di questi luoghi soprattutto nell’Italia del Nord che dovevano essere di villeggiatura ma che, con il passare del tempo, si sono trasformati in grandi carceri da cui non potere più uscire. Ricostruisce l’indottrinamento a cui erano sottoposti. Lettere, canzoni, disegni : tutto era utile per far celebrare ai bimbi le ‘progressive sortì del regime.
Un viaggio nell’orrore troppo velocemente dimenticato dalla memoria collettiva del Paese. “Ho voluto dar voce a questi bambini – dice Fiorentini – perchè i bimbi, ieri come oggi, sono le principali vittime di ogni conflitto bellico. I più indifesi. I più deboli. E per questo i più ‘Dimenticatì”.
– Foto: Fiorentini –
(ITALPRESS).
Descrizione del libro di Ilse Aichinger- La speranza più grande-Sullo sfondo di una città in guerra Ellen, una ragazzina per metà ebrea, fa amicizia con un gruppo di coetanei «con i nonni sbagliati». Tra giochi, paure, sogni, desiderio di fuga e addii, Ellen e i suoi compagni fanno esperienza della crudele realtà della persecuzione razziale e della minaccia costante della deportazione e della morte, affrontando un mondo assurdo e incomprensibile. La speranza iniziale di una fuga possibile, al di là dell’oceano, sembra destinata a svanire entro gli angusti e invalicabili confini della città assediata, ma si trasforma in una speranza più grande – forse meno terrena della prima, ma non per questo meno tangibile – che dischiude la possibilità di raggiungere la terra promessa, «dove tutto diventa azzurro». Un viaggio in dieci stazioni nelle pieghe profonde dell’esistenza e di una Vienna ferita, raccontato dalla voce corale dei perseguitati, sul crinale di una quotidianità che sconfina nella dimensione del sogno. Il romanzo di Ilse Aichinger è un coraggioso atto di resistenza al nulla esistenziale, un gesto di interrogazione del mondo e della lingua volto a restituire alla realtà devastata dalla guerra un senso nuovo, e a indicare, come fa la stella di David con Ellen, una strada da seguire.
L’autore-Ilse Aichinger
Ilse Aichinger è nata a Vienna il 1° novembre 1921 da un’insegnante austriaca e da un medico di origine ebraica. Trascorre gli anni della Seconda guerra mondiale a Vienna insieme alla madre, mentre la sorella gemella, la pittrice Helga Michie (1921-2018), riesce a emigrare in Inghilterra. Nel 1942 gran parte della famiglia materna viene deportata e uccisa nel campo di sterminio di Malyj Trostenec. Uscito nel 1948, La speranza più grande è il primo e unico romanzo di Ilse Aichinger. Autrice di numerosi racconti, radiodrammi, poesie, aforismi e diari, Aichinger partecipa agli incontri del Gruppo 47, vincendo il premio nel 1952 con il racconto Spiegelgeschichte (Storia allo specchio). Nel 1953 sposa il poeta e drammaturgo tedesco Günter Eich. Insignita di molti e prestigiosi premi, nel 1995 riceve il Großer Österreichischer Staatspreis, premio di Stato austriaco per la letteratura. Muore a Vienna l’11 novembre 2016
Ilse Aichinger-La speranza più grande
Traduzione di Ervino Pocar A cura di Matteo Iacovella
-Introduzione alla poesia di Giacomo Leopardi “ALLA SUA DONNA” (Canzone n. XVIII) –
La poesia “ALLA SUA DONNA” fu composta da Giacomo Leopardi nel settembre 1823 quando perdurava ancora la delusione del viaggio che il giovane Leopardi fece a Roma (novembre 1822 – maggio 1823) e quando l’aridità poetica diventava sempre più duratura. Ultima delle dieci canzoni pubblicate in B 24, ebbe il posto definitivo al numero 18 (forse perché sentita, come spiega il Fubini, come sintesi delle Canzoni e degli Idilli). E secondo me, Biagio Carrubba, è incontestabile che la poesia è aspra, cerebrale, razionale, tutta costruita sul sentimento della disperazione e della rabbia per la perduta vena poetica che non c’era più. Allora, credo che Leopardi cominciò a cercare un qualcosa che potesse sostituire la vena poetica e si rifugiò nell’eterna idea della bellezza femminile, dato che non aveva una donna bella, reale e concreta da amare. Lo spunto per scrivere questa poesia glielo diede il breve scambio epistolare con il giovane letterato belga A.M.Jacopssen a cui Leopardi rispose nella lettera del 2 giugno del 1823 dicendo, per l’appunto, che: “nell’amore, tutte le gioie che provano gli amanti volgari, non valgono il piacere che può dare un solo istante di incanto e di emozione profonda”. Allora conclude Ugo Dotti: “Le cinque strofe della canzone sono appunto la traduzione poetica di questo incanto, di questo ravissement conquistato con la sola immaginazione e la sola contemplazione di ciò che, almeno, in apparenza “non esiste” (da Giacomo Leopardi – Canti – a cura di Ugo Dotti – Feltrinelli Editore – pag. 68).
La poesia, dunque, pur nella sua brevità e aridità sentimentale, mi piace perché constato come il Leopardi non finiva mai di ricercare quel Principio Metafisico che dona tranquillità al continuo affannarsi delle inquietudini metafisiche dell’esistenza degli uomini. Leopardi, in questa poesia, si rivolge all’eterna bellezza femminile e quindi all’amore che da essa nasce per le donne reali e che rende la vita degli uomini più bella, tanto che: “la vita mortale sarebbe con essa simile a quella di Dio” (vv. 32 – 33) e tanto che questa idea perfetta della bellezza riesce a farlo svegliare dalla sua infelicità e a fargli ritornare a palpitare il cuore e a farlo di nuovo sperare. Ora io, Biagio Carrubba, penso che Leopardi, umanamente, avesse ragione a lamentarsi della sua condizione fisica e della sfortuna che gli erano state imposte dalla natura e lo avevano costretto a vivere con un corpo poco bello e pieno di malanni; ma io credo, anche, che, nella sua sfortuna esistenziale, Leopardi è stato anche fortunato perché è diventato il sublime poeta che sarà immortale nei secoli e a cui noi dobbiamo tanta gratitudine per la bellezza poetica che ha profuso nei suoi Canti. Infatti c’è tanta altra gente che sta peggio di lui, perché oltre ad essere sofferenti fisicamente non possono, non avendo la fortuna di essere poeti, far sentire la loro voce e muoiono soli e dimenticati da tutti. Ed io penso che Leopardi non è stato soltanto il grande poeta che ha saputo esprimere la sua protesta contro l’indifferenza degli dei e contro la natura, madre matrigna, ma è stato soprattutto il grande lirico degli infelici, degli andicappati e degli sfruttati della vita, ma che ha saputo esprimere, in modo elegiaco e fermo, il dolore e l’amarezza per la vita che se ne va, impercettibilmente ed invisibilmente, ogni giorno. Ma, incredibilmente e paradossalmente, Leopardi, tanto più invoca la morte, quanto più fa apprezzare la vita, che rimane il bene più prezioso, più delicato e più fragile che ogni uomo possiede. La poesia è composta da 5 strofe di 11 versi ciascuna con rima varia per ogni strofa. Anche oggi, a distanza di due secoli, dalla vita di leopardi, le condizioni di queste persone sfortunate, se pur molto migliorate rispetto allora, rimangono sempre infelici e quindi ci vorrebbe un altro Leopardi che continuasse la sua azione di protesta e di ribellione contro la natura, madre madrigna, e contro chi ha creato l’Universo.
Testo della poesia “ALLA SUA DONNA”.
Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne’ campi ove splenda 5
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara 10
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
Nulla spene m’avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza 15
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna 20
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.
Fra cotanto dolore
Quanto all’umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge, 25
Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg’io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
L’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse 30
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.
Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto, 35
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m’abbandona;
E per li poggi, ov’io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de’ giorni miei; di te pensando, 40
A palpitar mi sveglio. E potess’io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L’alta specie serbar; che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.
Se dell’eterne idee 45
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s’altra terra ne’ supremi giri 50
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi. 55
Parafrasi e costruzione diretta della poesia “ALLA SUA DONNA”.
1ª strofa.
Cara bellezza, che mi fai nascere l’amore,
o da lontano nascondendomi il tuo viso
fuorché quando tu, ombra divina,
nel sonno mi sconvolgi il cuore,
o quando sto nei campi dove il bel giorno ed
il sorriso della natura risplendono,
forse tu hai reso beato il secolo, che
prende nome dall’oro, ora, o leggera anima,
perché invece sorvoli sopra la gente?
O la crudele sorte, la quale ti nasconde a noi,
ti preserva agli uomini del futuro?
2ª strofa.
Ormai nessuna speranza mi resta
di poterti vedere viva e reale;
se sarà così, di non poterti vedere
durante la mia vita, potrò farlo solo
quando il mio spirito privo di corpo,
attraverso una nuova strada, giungerà
a una nuova e sconosciuta dimora (l’aldilà).
Già nella mia prima giovinezza,
incerta e buia, io pensai a te come
compagna di viaggio in questo mio
arido suolo. Ma sulla terra non c’è
qualcuna che ti somiglia e anche se
qualcuna fosse uguale a te nel volto,
negli atteggiamenti e nel parlare,
sarebbe, pur nella somiglianza,
assai meno bella.
3ª strofa.
Se qualcuno, fra cotanto dolore, che
il Fato impose (elargì) agli uomini,
t’amasse sulla terra veramente e come
il mio pensiero ti dipinge, allora
questa vita per lui sarebbe beata:
e mi accorgo chiaramente come
l’amore per te mi farebbe seguire
lode (gloria) e virtù come io feci
nei primi anni della mia gioventù.
Il Fato non aggiunse nessun conforto
ai nostri dolori; e la vita con te
sarebbe simile a quella divina.
4ª strofa.
Nelle valli, dove il canto del contadino
affaticato risuona e dove io siedo e mi
lamento per le mie illusioni giovanili che mi abbandonano,
nelle campagne, dove io ricordo e rimpiango
i perduti desideri e la perduta speranza della mia vita,
allora, mentre penso a te (alla bellezza ideale),
mi sveglio e ricomincio a palpitare.
E se io potessi conservare l’alta immagine
di te nella mia mente, in questo oscuro secolo
e in questa aria nefanda, allora ne sarei contento,
dal momento che mi appago della tua immagine,
dato che mi è impedito di essere contento della realtà.
5ª strofa.
Anche se tu sei una idea fra le eterne idee (Platoniche)
a cui l’eterna sapienza ha proibito
di far rivestire di forma sensibile,
e di far provare nei corpi mortali la vita funerea;
anche se un altro pianeta in più alti cieli
fra mondi innumerevoli t’accoglie;
anche se una stella vicina e più bella del sole
t’illumina e se tu respiri un’aria più pura,
da qua, dalla terra, dove gli anni sono dolorosi e brevi,
ricevi questo inno da un ignoto amante.
Finale
Secondo me, Biagio Carrubba, il finale della canzone è tronco ed è strozzato. Allora io ho composto e propongo quest’altro finale che mi sembra più dolce e più delicato rispetto a quello più duro e più razionale di quello del Leopardi.
Testo della mia ultima strofa proposta.
Tu, Bellezza eterna dell’Amore, accogli
benevolmente e benignamente questa lode
e celebrazione da parte mia, povero aspirante poeta,
perché senza di Te la vita sarebbe buia e tetra,
perché senza di Te la vita sarebbe noiosa e povera,
grazie a Te, invece, la vita risplende sulla terra e
grazie a Te l’Amore rende la vita gioiosa e felice.
Roma, 18 dicembre 2024 – Ospitata ai Musei Capitolini, Villa Caffarelli, dall’11 febbraio al 18 maggio 2025, la mostra “I Farnese nella Roma del Cinquecento. Origini e fortuna di una collezione”, a cura di Claudio Parisi Presicce e Chiara Rabbi Bernard, costituisce uno degli eventi di punta organizzati dalla Sovrintendenza Capitolina all’interno dell’intervento “#Amanotesa” (PNRR CAPUT MUNDI), finalizzato a favorire l’inclusione sociale attraverso l’incremento dell’offerta culturale.
Per l’alto valore del progetto espositivo e per la sua rilevanza nell’ambito dell’anno giubilare, l’inaugurazione della mostra (10 febbraio 2025) è anticipata da un evento di “introduzione”, in programma giovedì 19 dicembre, ore 17.30, ai Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, presso l’Esedra del Marco Aurelio, raccordo ideale tra la figura di Paolo III, la collezione Farnese e i Musei Capitolini.
Saranno presenti per i saluti istituzionali il Sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, l’Assessore alla Cultura, Massimiliano Smeriglio, S.E. l’Ambasciatore di Francia in Italia, Martin Briens, il Prof. Massimo Osanna, Direttore Generale dei Musei del Ministero della Cultura.
Il Sovrintendente Capitolino, Claudio Parisi Presicce, darà avvio ai lavori con un inquadramento di carattere generale su Paolo III Farnese e la Roma rinnovata alla vigilia del Giubileo del 1550 e una introduzione alla mostra, curata insieme a Chiara Rabbi Bernard. Seguirà l’intervento del Professore Carlo Gasparri (Prof. Emerito – Università degli Studi di Napoli Federico II), che ha dedicato molti dei suoi studi alla collezione Farnese di antichità, e la cui presentazione sarà incentrata sulle sculture un tempo di proprietà Farnese, conservate dalla fine del Settecento a Napoli. Alcune delle opere della collezione Farnese, punto di riferimento sin dal Cinquecento per artisti e studiosi, saranno protagoniste di un ulteriore approfondimento da parte del Dottor Adriano Aymonino (University of Buckingham) e della Dott.ssa Eloisa Dodero (Musei Capitolini). A chiudere l’evento sarà il Professore Salvatore Settis (Prof. Emerito – Scuola Normale Superiore di Pisa), che discuterà dei bronzi donati al Popolo Romano da papa Sisto IV – dal 2020 raccolti in un nuovo allestimento nell’Esedra del Marco Aurelio – e del futuro delle collezioni di archeologia nei musei contemporanei.
L’evento è promosso da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con i servizi museali di Zètema Progetto Cultura. L’ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili.
La mostra (11 febbraio 2025 – 18 maggio 2025)
Il progetto espositivo è dedicato al momento di profonda trasformazione urbanistica della città di Roma, promossa da Paolo III Farnese (r. 1534-1549). All’indomani del tragico Sacco del 1527, la città si ritrova di fronte alla necessità di una rinascita rapida e vigorosa. All’impulso di Papa Farnese, si devono alcuni grandiosi interventi, tra cui la monumentalizzazione della Piazza del Campidoglio, affidata al genio di Michelangelo; la celebre statua equestre in bronzo di Marco Aurelio, trasferita nel 1538, per volontà del papa, dalla Piazza del Laterano, diventa il centro del colle capitolino; attorno, simbolo del passato grandioso di Roma, Michelangelo progetta una quinta scenografica e monumentale.
Paolo III avvia anche la più importane collezione di arte e di antichità della Roma del Cinquecento. Risale al 1545-1546 il rinvenimento nelle Terme di Caracalla di alcuni colossi in marmo, tra cui l’Ercole, il Toro e la Flora Farnese. Le statue sono subito trasferite nel cortile del Palazzo Farnese in Campo de’ Fiori.
Erede della collezione alla morte del papa è il nipote Alessandro (1520-1589), che trasforma Palazzo Farnese in una residenza raffinatissima, espressione suprema del potere farnesiano a Roma, in cui convivono sculture, iscrizioni e gemme antiche, preziosi elementi di arredo, disegni, incisioni, dipinti e affreschi dei maggiori artisti del tempo, tra cui Tiziano e i fratelli Carracci.
Se il Campidoglio monumentalizzato da Michelangelo costituisce la massima manifestazione dell’incisività “pubblica” dei Farnese, il palazzo in Campo de’ Fiori ne rappresenta il potere privato.
Ospitare una mostra sulla collezione Farnese ai Musei Capitolini (Villa Caffarelli), dunque, diventa una occasione preziosa per presentare e spiegare questa dinamica pubblico/privato in un momento solo apparentemente remoto, gli anni centrali del Cinquecento, ma in realtà molto più vicino a noi di quanto possiamo immaginare. Come negli anni Quaranta del Cinquecento, alla vigilia del Giubileo indetto da Paolo III, anche oggi Roma si rinnova, spinta dalla necessità di cambiare e trasformarsi, tra molti conflitti e molte incertezze.
Articolata in sei sezioni, la mostra, ospitata negli spazi espositivi di Villa Caffarelli, è il risultato di una complessa campagna di prestiti che ha visto coinvolti numerosi musei italiani e stranieri.
Il percorso espositivo prende l’avvio con la presentazione, attraverso planimetrie e incisioni, degli interventi di trasformazione della città alla vigilia del Giubileo del 1550. Il confronto tra il Camillo in bronzo delle collezioni capitoline, parte del nucleo dei bronzi lateranensi donati al “Popolo Romano” da Sisto IV nel 1471, e la sua copia in bronzo realizzata da Guglielmo della Porta per il Cardinale Alessandro Farnese negli anni Sessanta del Cinquecento, offre lo spunto per una prima riflessione sul rapporto tra collezione pubblica e collezione privata.
Segue una preziosa galleria di ritratti dei protagonisti della collezione negli anni del suo maggiore splendore, da papa Paolo III ai nipoti Alessandro e Ottavio (1524-1586). I grandi marmi rinvenuti nelle Terme di Caracalla, tra le prime sculture antiche a trovare posto nel cortile di Palazzo Farnese a Campo de’ Fiori, sono evocati da preziosi bronzetti, disegni e incisioni, nella sezione, intitolata “I Farnese e la passione per l’antichità”.
Il visitatore è quindi invitato a “entrare” nell’allestimento originario dell’antica collezione di Palazzo Farnese, percorrendo la “Sala dei Filosofi”, caratterizzata nel Cinquecento dalla presenza di statue, come la celebre Venere Callipigia del Museo Archeologico di Napoli, e la splendida Galleria affrescata dai Carracci, qui evocata da importanti disegni
preparatori degli affreschi e da alcune delle sculture più importanti esposte nel grande ambiente di rappresentanza, oggi conservate al Museo Archeologico di Napoli, che tornano ad essere visibili a Roma dopo il loro trasferimento nel corso dell’ultimo decennio del XVIII secolo.
Il percorso virtuale all’interno del palazzo riprende attraverso la ricostruzione del “Camerino” e della Galleria dei Quadri di Palazzo Farnese. La mostra si chiude con una stanza dedicata a un confronto tra due collezioni, quella dei Farnese e quella Orsini, appartenuta al celebre antiquario vicino alla nobile famiglia, accomunate entrambe da un comune destino di dispersione.
La mostra, a cura di Claudio Parisi Presicce e Chiara Rabbi Bernard, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e organizzata da Zètema Progetto Cultura in collaborazione con Civita Mostre e Musei.
INFORMAZIONI PER IL PUBBLICO
Introduzione alla mostra
Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, Esedra del Marco Aurelio Giovedì 19 dicembre, ore 17.30
Ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili
La mostra
Dall’11 febbraio al 18 maggio 2025
Musei Capitolini, Villa Caffarelli
Via di Villa Caffarelli – 00186 Roma
Tutti i giorni ore 9.30 – 19.30. Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura
Info
Tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00) www.museicapitolini.org www.museeincomuneroma.it
la Santa Sede porta l’arte contemporanea nelle carceri-
Città del Vaticano-A pochi giorni dall’inizio del Giubileo 2025e dall’apertura solenne dell’Anno Santo, il Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede inaugura un nuovo, ambizioso programma dedicato all’arte contemporanea. Un percorso che mette in dialogo la spiritualità del Giubileo 2025, incentrato sulla Speranza – «Spes non confundit», la speranza non delude, come evocato da Papa Francesco – con l’impegno culturale e sociale di portare l’arte nei luoghi più fragili dell’esistenza: le carceri.
Il programma si svolge dunque in continuità con quanto già visto al Padiglione della Santa Sede della 60ma Biennale d’arte di Venezia, presentato nella casa di detenzione femminile della Giudecca. L’arte entra così nei luoghi dove la fragilità si fa più evidente, trasformando carceri e strade in spazi di incontro, riflessione e speranza. Un messaggio potente, che riafferma il ruolo dell’arte come strumento di rinascita.
Un Giubileo oltre le mura: Rebibbia e Marinella Senatore
Il Giubileo, che prenderà il via il 24 dicembre 2024 con l’apertura della Porta Santa in San Pietro, si carica di un valore simbolico straordinario già due giorni dopo, il 26 dicembre, quando Papa Francesco aprirà la seconda Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia. Ad accompagnare questo gesto carico di significato sarò Io Contengo Moltitudini, l’installazione site specific di Marinella Senatore curata da Cristiana Perrella. Una torre luminosa alta sei metri, intreccio di architettura popolare e parole scritte dai detenuti delle sezioni maschili e femminili, frutto di un workshop partecipativo che ha dato voce alla comunità carceraria.
Le frasi selezionate attraversano lingue e dialetti diversi, componendo una narrazione collettiva di speranza e trasformazione. «Le opere sono esperienze condivise e trasformative», ha affermato Senatore. «La luce, ispirata alle tradizioni del Sud Italia, ha la capacità di trasformare un luogo in uno spazio speciale». Visibile dal 21 dicembre fino a febbraio 2025 nel piazzale della chiesa del carcere, l’opera è un ponte luminoso tra l’interno e l’esterno, un dialogo aperto con il mondo.
La speranza concreta nelle carceri
Il programma del Dicastero per la Cultura non si ferma a Rebibbia. Le Porte della Speranza, progetto curato da Davide Rampello, prevede interventi artistici in diverse carceri italiane e internazionali. Queste porte, concepite come installazioni site-specific in collaborazione con artisti di fama mondiale e detenuti, offriranno alla città uno sguardo nuovo sul carcere, trasformandolo da luogo di punizione a spazio di riabilitazione. «Il carcere è spesso visto come luogo disperato», ha spiegato Rampello. «Aprire ai valori della speranza è indicare una meta, un progetto di vita. La concretezza della speranza si realizza nell’arte, che diventa movimento, manifesto e bellezza condivisa».
Conciliazione 5: lo spazio della contemporaneità
Il 2025 segnerà anche l’apertura di Conciliazione 5, un nuovo spazio espositivo voluto dal Dicastero e curato da Cristiana Perrella. Una finestra aperta sull’arte contemporanea, visibile 24 ore su 24 su via della Conciliazione. Il primo artista a inaugurare il progetto sarà Yan Pei-Ming, celebre per i suoi intensi ritratti. L’opera, dedicata al carcere di Regina Coeli e realizzata in occasione del Giubileo degli Artisti (15-18 febbraio 2025), si propone come un dialogo profondo tra arte, istituzioni e umanità.
«L’arte è chiamata a dare voce agli invisibili e a stimolare un nuovo sguardo», ha dichiarato Perrella. «Questi progetti nascono da una fiducia totale nel potere trasformativo dell’arte e nella sua capacità di affrontare i temi più urgenti del presente».
Il programma artistico del Giubileo 2025 assume così un valore universale, unendo bellezza e responsabilità sociale. Come ricordato dal Cardinale José Tolentino de Mendonça: «L’arte non è un lusso per pochi, ma un desiderio più grande: pensare e specchiare la condizione umana di tutti. È voce e volto dei drammi invisibili, spinta alla responsabilità collettiva»
Roma-Al Teatro Ghione-We call it Ballet: La Bella Addormentata in uno spettacolo di danza e luci-
Roma-Al Teatro Ghione- Preparati per We call it Ballet a Roma! Vivi ‘La Bella Addormentata’ come mai prima d’ora, mentre ballerini in costumi fluorescenti danno vita a questo classico sul palco.
Punti Salienti
🩰 5 straordinari ballerini illuminano il palcoscenico
🌟 I costumi fluorescenti creano uno spettacolare gioco di luci, dando vita alla storia
📖 Un amatissimo classico, La Bella Addormentata, reimmaginato in uno spettacolare splendore
🤩 Una fusione unica tra arte tradizionale e tecnologia moderna
Informazioni generali
📍 Luogo: Teatro Ghione, Via delle Fornaci, 37, 00165 – Roma
⏳ Durata: circa 60 minuti. Le porte aprono 30 minuti prima dell’inizio dell’evento. Non sono ammessi ritardi
👤 Requisito di età: dagli 8 anni in su. I bambini sotto i 16 anni devono essere accompagnati da un adulto
♿ Accessibilità: il luogo è accessibile alle sedie a rotelle
❓ Per maggiori informazioni, consulta le FAQ di questa esperienza qui
✨Se desideri prenotare uno spettacolo privato o acquistare biglietti per un gruppo numeroso (30+ persone), clicca qui
🪑 I posti sono assegnati in base all’ordine di arrivo. Ti consigliamo di arrivare presto.
🎁 Per regalare ad amici e parenti una gift card, fai clic qui
Descrizione
Vivi La Bella Addormentata come mai prima d’ora in questo spettacolo di danza e luci. Goditi una fusione unica tra balletto classico e tecnologia moderna, dove ballerini locali illuminano letteralmente il palco con coreografie scintillanti e costumi fluorescenti. La storia senza tempo della principessa maledetta risvegliata dal bacio del vero amore prende vita sul palco, mentre piroette e salti mozzafiato creano un caleidoscopio di colori nello spazio. È una produzione bellissima che non vorrai perdere! Acquista ora i tuoi biglietti per We call it Ballet a Roma: La Bella Addormentata in uno spettacolo di danza e luci!
Roma-Al Teatro Palladium si apre la rassegna Shakespeare Encore-
Roma-Il Teatro Palladium continua a sperimentare e proporre format performativi innovativi, mettendo in dialogo arti, discipline, mondo accademico e pubblico. Dal 18 dicembre 2024, è la volta di “Shakespeare Encore” a cura di Maddalena Pennacchia, docente di letteratura inglese e specialista in studi shakespeariani, presso l’Università Roma Tre: una serie di appuntamenti che, nella storica cornice del teatro della Garbatella, si ispirano al teatro shakespeariano in un viaggio di andata e ritorno tra Italia e Inghilterra. Un viaggio nel tempo e nello spazio per conoscere da vicino, e sotto nuove prospettive, la straordinaria produzione di un autore che ha ‘inventato’ l’umano.
A inaugurare la rassegna sarà “Playing Shakespeare”, spettacolo scritto e diretto da Loredana Scaramella, che trasporta il pubblico nel cuore del teatro elisabettiano attraverso un intreccio di racconto storico e gioco scenico: lo spettacolo, già fortemente voluto da Gigi Proietti per il Globe Theatre di Roma, è un’esperienza che unisce il fascino della narrazione a una dimensione teatrale ludica e interattiva, in cui palco e platea si fondono in uno scambio vivo e vibrante.
Con sei attori, un musicista e una varietà di stili scenici, “Playing Shakespeare” racconta in modo leggero e accessibile il contesto culturale e sociale in cui è nata la produzione shakespeariana. “Il teatro elisabettiano era un laboratorio di creatività collettiva e popolare,” spiega Loredana Scaramella, “un luogo dove si moltiplicavano energie, idee e innovazioni. Questo spettacolo vuole restituire quella vitalità, celebrando il senso del lavoro condiviso e l’eredità che ci è stata tramandata.”
Playing Shakespeare mette in scena il mondo elisabettiano unendo l’aspetto divulgativo a quello puramente spettacolare, raccontando come lo spirito di collaborazione e un desiderio di comunicazione trasversale sia alla radice del teatro professionale che prende forma in quegli anni. Con l’aiuto delle musiche, le voci degli attori conducono gli spettatori in viaggio dalle taverne di Eastcheap fino alla vita della magica O di legno e dei suoi frequentatori. Con qualche sorpresa, qualche gioco e molta leggerezza.
Lo spettacolo si propone come un’esperienza, un viaggio. Con una forma leggera, conduce gli spettatori in un’escursione attraverso un’epoca magica e lontana, i cui frutti migliori continuano a essere goduti attraverso le opere che sono giunte fino a noi. L’obiettivo è far scoprire una società che trovava nel teatro il suo momento di incontro comunitario, svelandone gusti, fatiche e piaceri. Attraverso questa rappresentazione, vengono messe in luce le caratteristiche sociali del teatro elisabettiano: la sua straordinaria capacità di stimolare l’immaginazione degli spettatori e di creare un’intensa comunicazione tra attori e pubblico. Con strumenti elementari e propri di uno spazio “povero” – piccole attrezzerie e, soprattutto, le parole di Shakespeare – lo spettacolo lavora per generare interesse e coinvolgimento, trasformando la trasmissione di informazioni e la presentazione del teatro elisabettiano in un autentico viaggio nel tempo e nello spazio, e non in una semplice lezione.
Curata da Maddalena Pennacchia, docente di letteratura inglese presso l’Università Roma Tre, “Shakespeare Encore” nasce dal desiderio di riportare il teatro shakespeariano al centro del dialogo culturale cittadino. “Roma ha bisogno di Shakespeare e di un luogo dove ‘fare Shakespeare’,” afferma Pennacchia. “Questo progetto è un’occasione unica per avvicinare studenti, accademici e pubblico al suo straordinario corpus, esplorando la sua modernità e il suo valore universale“. La scelta di inserire “Playing Shakespeare” nella rassegna è in linea con l’attività dell’Università degli Studi Roma Tre Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere, che nel 2020 ha deciso, in collaborazione con la Politeama Srl, di creare e mettere a disposizione di studiosi e ricercatori un Archivio di dimensioni uniche in Italia, dedicato a questo esperimento di divulgazione del teatro shakespeariano, voluto e realizzato da Gigi Proietti.
Bertolt Brecht IL PEGGIOR ANALFABETA È L’ANALFABETA POLITICO
Bertolt Brecht:”La nostra civiltà è intrisa di un profondo analfabetismo, eppure tutti sanno leggere e scrivere. Bertolt Brecht, grande poeta e drammaturgo della prima metà del ’900, traccia il profilo del nuovo analfabeta, per l’appunto l’analfabeta politico, il peggiore della categoria”.
L’ANALFABETA POLITICO (BRECHT) “Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sente, non parla, nè s’importa degli avvenimenti politici. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è così somaro che si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica. Non sa l’imbecille che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, l’assaltante, il peggiore di tutti i banditi, che è il politico imbroglione, il mafioso corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali.” (Bertolt Brecht)
-Bertolt Brecht IL PEGGIOR ANALFABETA È L’ANALFABETA POLITICO – La nostra civiltà è intrisa di un profondo analfabetismo, eppure tutti sanno leggere e scrivere. Bertolt Brecht, grande poeta e drammaturgo della prima metà del ’900, traccia il profilo del nuovo analfabeta, per l’appunto l’analfabeta politico, il peggiore della categoria. Oltre la porta di casa tutto ciò che c’è è affare che non riguarda se stessi. Eppure questa ignoranza produce effetti drammaticamente deleteri perché fa regredire l’uomo da cittadino a suddito il quale non fa altro che apprendere apaticamente e subire le decisioni dall’alto. Brecht ci riporta anche degli atteggiamenti esteriori del nostro analfabeta. “Si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica”. La frase è tipica e, ahimè, troppo diffusa nella nostra società. La politica è affare di tutti e non si manifesta solo in senso stretto prendendo parte a questo o quel partito politico. Essere politicizzati significa comprendere di far parte di una società complessa, di una realtà che non può e non deve rimanerci indifferente. “Zoon politikon” diceva Aristotele, l’uomo è un “animale politico” e questa caratteristica è insita nella natura dell’essere umano. Rimanere indifferenti dinanzi alla società in cui si vive, riempendosi la bocca di espressioni come: “la politica è sporca”, “lo stato è corrotto”, “è già tutto deciso”, ci preclude di essere parte attiva, di avere un ruolo. Chi non pone rimedio alla propria ignoranza politica non sa scindere il bene dal male di una comunità. Brecht in maniera probabilmente anche molto forte fa una carrellata di esempi lampanti delle conseguenze del considerare la politica altro da sè, fuori dalla propria sfera di interessi. “Il bambino abbandonato, la prostituta, l’assaltante, il mafioso corrotto” sono solo alcuni esiti. Certamente la politica oggi non ci invita ad un suntuoso banchetto, ma nello stesso tempo non possiamo non partecipare alla mensa perchè i piatti non sono di nostro gradimento.
Bertolt Brecht -Scrittore e uomo di teatro tedesco (Augusta 1898 – Berlino 1956). Nato da genitori di agiata borghesia, frequentò gli ambienti dell’avanguardia artistica monacense e berlinese abbandonando, senza concluderli, gli studi di medicina e volgendosi all’attività letteraria. Sullo scorcio degli anni Venti venne maturando il decisivo incontro, sia teorico sia politico, con il marxismo. Andato in esilio nel 1933, fu successivamente in Svizzera, Danimarca, Svezia, Finlandia e Stati Uniti, da dove nel 1948 rientrò in Europa, stabilendosi a Berlino Est. Qui, insieme alla moglie Helene Weigel, fondò nel 1949 il Berliner Ensemble, cui dedicò quasi per intero gli ultimi anni. Formatosi nel clima dell’espressionismo patetico e umanitario nonché dei giochi paradossali e provocanti del dadaismo, seppe trovarvi uno spazio poetico autonomo sin dai primi esperimenti originali (i drammi Baal, 1918; Trommeln in der Nacht, 1918-20; Leben Eduards des Zweiten von England, 1924; alcune liriche riunite più tardi nella Hauspostille, 1927), in cui circola una considerazione del mondo e delle cose che è disincantata e nello stesso tempo piena di umana curiosità, una ironia corrosiva che si diverte a demolire i valori più tradizionali della borghesia guglielmina, una ricerca delle ragioni materiali che sollecitano azioni e comportamenti degli individui. Sbocco naturale di tale posizione critica è una prospettiva sociologica, che se da un lato mette a fuoco il tema della massificazione nella società moderna (Im Dickicht der Städte, 1921-24; Mann ist Mann, 1924-26), dall’altro illustra la tesi proudhoniana della proprietà come furto e il processo capitalistico di feticizzazione del denaro (Die Dreigroschenoper, 1928, e Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, 1927-29, nate dal felice incontro con l’estro musicale di Kurt Weill). Della prima egli darà una replica in prosa con il Dreigroschenroman, 1934). Prende anche corpo, in questo periodo, la teoria del teatro epico che Brecht contrappone allo psicologismo tradizionale: con spezzature di vario genere del crescendo drammatico, ne imbriglia gli effetti emotivi e crea un solido margine alla presenza attiva e cosciente delle facoltà razionali dello spettatore. Lo studio del marxismo, e la congiunta espansione dei suoi interessi ideologici, sono documentati dai cosiddetti “drammi didattici” (Das Badener Lehrstück vom Einverständnis, 1929; Der Jasager e Der Neinsager, 1929-30; Die Massnahme, 1930; Die Ausnahme und die Regel, 1930; Die Horatier und die Kuriatier, 1933-34, con la significativa appendice del Verhör des Lukullus, 1939). Ma attraverso l’asciuttezza della Heilige Johanna der Schlachthöfe (1929-31) e della Mutter (1930-32), e mentre le vicende politiche europee dall’avvento del nazismo allo scoppio della guerra gli ispirano opere di appassionata denuncia (Die Rundköpfe und die Spitzköpfe, 1932-34; Die Gewehre der Frau Carrar, 1937; Furcht und Elend des Dritten Reiches, 1935-38; Der aufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui, 1941; Die Gesichte der Simone Machard 1941-43; Schweyk im zweiten Weltkrieg, 1942-43), egli matura quella sintesi di ragioni ideologiche e pienezza espressiva che si riflette non solo nelle conclusive formulazioni teoriche del Kleines Organon fu̇r das Theater (1948), ma anche nella drammatica limpidezza della tarda lirica, nella precisa dialettica dei Flüchtlingsgespräche (1940), e soprattutto nella produzione teatrale degli anni 1937-44 (Leben des Galilei, 1a stesura 1937-39; Mutter Courage und ihre Kinder, 1939; Der gute Mensch von Sezuan, 1938-41; Herr Puntila und sein Knecht Matti, 1940; Der kaukasische Kreidekreis, 1943-44): testi non slegati mai dalle vive occasioni storiche e dalle suggestioni del presente, ma pur capaci di proiettarle (meglio di quanto accada nell’incolore Die Tage der Commune, 1948-49) in una più lunga durata poetica e umana.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
CHIETI – Il 2025 vedrà il lancio del prestigioso progetto “Casanova 300”, ideato per celebrare il tricentenario della nascita di Giacomo Casanova, una delle figure più affascinanti e poliedriche del XVIII secolo.
Il Direttore Scientifico del progetto culturale é il Prof. Pierfranco Bruni, curatrice delle pubblicazioni Franca De Santis, presidente di “Terra dei Padri”. Invece, il logo ufficiale è stato ideato da Anna Montella.
Il progetto “Casanova 300” mira a esplorare e valorizzare l’eredità culturale di Giacomo Casanova attraverso una serie di iniziative che spaziano dalla ricerca accademica alla divulgazione culturale, passando per eventi artistici e mostre. Saranno organizzati convegni, tavole rotonde, esposizioni e pubblicazioni dedicate alla vita e alle opere di Casanova, con l’obiettivo di offrire una visione innovativa e approfondita del celebre avventuriero, scrittore e diplomatico.
Un punto di forza del progetto sarà l’assegnazione del prestigioso Premio Terra dei Padri, edizione 2025, che si inserisce all’interno delle celebrazioni di “Casanova 300”. Il premio sarà conferito a personalità, istituzioni e studenti che si sono distinte nel campo della cultura, della letteratura e delle arti, in linea con lo spirito e l’eredità di Casanova.
Il progetto “Casanova 300” si distingue per il coinvolgimento di esperti di altissimo livello. Sotto la direzione scientifica del Prof. Pierfranco Bruni, rinomato studioso di letteratura e storia, la curatela di Franca De Santis, e il design innovativo di Anna Montella, l’iniziativa promette di offrire un’esperienza culturale e intellettuale di un certo spessore.
Il progetto è supportato dalla Casa Editrice Solfanelli e dal Gruppo Tabula Fati, che garantiranno la pubblicazione e la diffusione delle opere legate al progetto
Per ulteriori informazioni e aggiornamenti sul progetto “Casanova 300” e sul Premio Terra dei Padri edizione 2025, si prega di contattare l’indirizzo e-mail casanova300@blu.it.
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.