Helmut Newton. Legacy-Autori Matthias Harder e Philippe Garner-Editore Taschen
Helmut Newton. Legacy
Descrizione-Un’eredità permanente L’estesa opera omnia di Helmut Newton– Autori Matthias Harder e Philippe Garner-Abbracciando un periodo di più di cinquant’anni e coprendo una quantità di ambiti impareggiabile, la fotografia del visionario Helmut Newton (1920–2004) ha raggiunto milioni di persone grazie alla pubblicazione su riviste del calibro di Vogue e Elle. La sua opera ha trasceso i generi, portando eleganza, stile e voyerismo nella fotografia di moda e nel ritratto, configurandosi in un corpus che resta inimitabile e insuperato. La padronanza dell’arte della fotografia di moda raggiunta all’inizio della sua carriera, ha fatto sì che, nei suoi scatti, Newton andasse regolarmente oltre la pratica comune, sfumando i confini fra realtà e illusione e spesso infondendo in essi una vena di surrealismo o la suspense di un film di Alfred Hitchcock. Un’estetica pulita pervade ogni ambito del suo lavoro, in particolare la fotografia di moda, di nudo e i ritratti. Le donne occupano una posizione centrale e fra i suoi soggetti figurano Catherine Deneuve, Liz Taylor, e Charlotte Rampling. Superando gli approcci narrativi tradizionali, la fotografia di moda di Newton è permeata non solo da un’eleganza sfarzosa e una sottile seduzione, ma anche da riferimenti culturali e un sorprendente senso dell’umorismo. Negli anni ’90 Newton ha pubblicato le sue fotografie nelle edizioni tedesca, americana, italiana, francese e russa di Vogue, scattandole prevalentemente a Monte Caldo e nei dintorni, dove si era trasferito nel 1981. Era solito trasformare locali, come il suo garage, in veri e propri palcoscenici teatrali dai particolari fortemente contrastanti o decisamente minimalisti, e in queste ambientazioni insoliti ritraeva spesso le vite eccentriche di personaggi ricchi e belli in scatti traboccanti di erotismo ed eleganza. Usava, e allo stesso tempo metteva in discussione, cliché visivi, talvolta con autoironia o una certa dose di parodia, ma sempre mostrando empatia. Coniugava con estrema sobrietà nudità e moda, trasformando così il suo lavoro in una testimonianza e un’analisi dei cambiamenti nel ruolo della donna nella società occidentale. Helmut Newton. Legacy, pensato per accompagnare la mostra internazionale itinerante dei lavori di Helmut Newton, presenta le opere principali di uno dei corpus più pubblicati della storia della fotografia, unitamente a svariate immagini riscoperte di recente. Questo volume celebra l’intramontabile influenza sulla fotografia moderna e l’arte visiva di Helmut Newton, prolifico creatore di immagini e autentico visionario. “Sono un voyeur professionista.” — Helmut Newton Il fotografo: Helmut Newton (1920–2004) è stato uno dei fotografi più influenti di tutti i tempi. Raggiunse la fama internazionale negli anni ’70, quando lavorava principalmente per l’edizione francese di Vogue, dove si fece apprezzare per le ambientazioni controverse delle sue fotografie. La sua abilità più originale consisteva nel far sembrare spontanei e dinamici scatti che erano in realtà accuratamente pianificati. Fra i numerosi titoli e riconoscimenti che ottenne spicca quello di Commandeur de l’Ordre des Arts et des Lettres. Il curatore e autore: Matthias Harder ha studiato storia dell’arte, archeologia classica e filosofia a Kiel e Berlino. È un membro della German Society of Photography e membro del comitato consultivo dello European Month of Photography. Curatore capo della Helmut Newton Foundation di Berlino dal 2004 e suo direttore dal 2019, ha scritto numerosi contributi per svariati libri e cataloghi di mostre. L’autore: Philippe Garner è un esperto di fotografia del XX secolo, design e arte decorativa. Ha scritto numerosi saggi e libri, spaziando dagli studi delle vite del designer Émile Gallé e dei fotografi Cecil Beaton e John Cowan, al volume Sixties Design pubblicato da TASCHEN. Ex dirigente di Christie’s, ha curato anche alcune mostre per musei di Londra, Parigi e Tokyo.
Helmut Newton. Legacy
Helmut Newton è una figura difficile da inquadrare. La maggior parte di noi crede di conoscere il suo lavoro, almeno nei suoi aspetti più importanti. Ma l’opera del fotografo tedesco-australiano è così prestigiosa ed emblematica che qualunque analisi sistematica con qualche pretesa di esaustività è destinata a fallire. […] Un approccio adeguato all’opera di Newton potrebbe essere uno studio di come il fotografo metteva in scena le sue immagini, attuato attraverso l’analisi di una selezione di fotografie scattate in quarant’anni di attività e che illustrano in modi molto diversi le tre principali tipologie del lavoro di Newton: moda, nudi e ritratti, a volte tutti in un unico scatto. […]
Newton ha sviluppato il suo inimitabile stile nella Parigi degli anni sessanta. La sua visione dinamica si manifesta, ad esempio, in una serie di fotografie dei modelli di André Courrèges, rivoluzionari per l’epoca, che scattò nel 1964 per la rivista britannica Queen. In retrospettiva, è evidente che aveva bisogno di trovare il giusto “sparring partner”: lavorare con spiriti affini gli era essenziale per eseguire con successo un incarico e, in definitiva, per aprire le porte all’avanguardia. Questa simbiosi si è ripetuta nelle sue intense collaborazioni con Yves Saint Laurent, Karl Lagerfeld e Thierry Mugler. Allo stesso tempo, le condizioni a volte rigide imposte dai suoi clienti e le loro aspettative sempre elevate erano per lui un forte stimolo a contrapporsi alle modalità tradizionali di rappresentazione. Per una mente irrequieta e creativa come la sua, era fondamentale spingersi oltre i limiti del consueto, quando lavorava all’interno delle regole consolidate definite dai servizi commissionatogli dalle riviste.
La serie di fotografie per Courrèges venne realizzata in uno studio rivestito di pannelli dalla superficie leggermente riflettente che raddoppiavano schematicamente le modelle; ma spesso Newton lavorava all’aperto, nelle vie parigine. Le sue modelle apparivano da sole o in gruppo, in pose a volte eleganti ed erotiche, a volte anarchiche e giocose. Sebbene siano principalmente fotografie di moda, queste immagini sono anche un sottile commento alla società dell’epoca, accennando a tematiche come le manifestazioni nelle metropoli europee e la radicalizzazione dei giovani borghesi. La sua fotografia di moda a colori scattata a Parigi nel 1970 per la rivista americana Essence fa pensare che Newton abbia catturato immagini di una manifestazione spontanea, come un fotoreporter. In realtà, le cinque donne nere che corrono verso l’osservatore gridando slogan e indossando le ultime creazioni della collezione Rive Gauche di Yves Saint Laurent erano modelle regolarmente ingaggiate. Sebbene Newton si sia sempre ispirato a situazioni reali, con lui non si poteva mai dire con sicurezza dove finisse la realtà e iniziasse l’illusione.
In quegli anni erano i redattori, tra cui grandi nomi come Alexander Liberman, Francine Crescent, Caroline Baker e Willie Landels, a decidere quali sequenze di immagini e quali dettagli dovessero essere pubblicati, e quindi a determinare il modo in cui le interpretazioni della moda di Newton sarebbero state accolte. Tuttavia, il fotografo aveva possibilità quasi illimitate per quanto riguardava lo scatto in sé. Nel 1971, per una serie di fotografie di costumi da bagno apparse su Vogue US, Newton fece trasportare la modella in elicottero sui set alle Hawaii; e per una serie di fotografie di lingerie scattate nello stesso anno per Nova, si servì di un hotel di Parigi che affittava camere a ore. In questa serie lo stesso Newton appare come una figura interattiva, con una macchina fotografica in mano, intento a scattare fotografie verso gli specchi fissati alle pareti o al soffitto.
Matthias Harder
Tratto da Helmut Newton Legacy, Taschen 2023
HELMUT NEWTON. LEGACY sarà in mostra alla Helmut Newton Foundation, Jebensstraße 2, 10623 Berlino dal 31 ottobre 2021 al 22 maggio 2022
Un’immagine, una fotografia, alcune parole ci aprono a ricordi che pensavamo di aver dimenticato… Antonio Vivaldi –Qui è una lapide appesa ad una chiesa (si chiama della Pietà ed è ben visibile dalla Riva degli Schiavoni a due passi da Piazza San Marco) a ricordarmi chi in questo luogo passò gran parte della sua vita a suonare il violino e a dirigere i concerti che lui stesso componeva. Di lui oggi si sa quasi tutto anche se un oblio prolungato durato 200 anni ne aveva fatto scomparire la memoria. Forse avrete già intuito a chi alludo: lui è Antonio Vivaldi, uno dei più grandi compositori del suo tempo… (Venezia 1678-Vienna 1741).
Antonio VIVALDI
Ma non starò certo a raccontarvi la sua storia che, pur interessante, immagino già conoscerete, anche se certe parti della sua vita, forse, sono rimaste ancora nell’ombra. Quello che cercherò di fare sarà un breve viaggio nella Venezia della sua decadenza, alla ricerca del suo stile, tra quello spazio che va dalla fine del 1600 ai primi decenni del 1700, tempo in cui Vivaldi visse e dove seppe esprimere tutto il suo genio.
Sembrerà curioso sapere che, nonostante la città non fosse più la stessa dei secoli precedenti (in quanto a ricchezza e potenza bellica) e faccia fatica a fronteggiare le calamità verificatesi più volte (la più gravosa fu l’epidemia di peste che il secolo prima aveva decimato la sua popolazione) si aprono nuovi teatri, dove la gente si precipita: per divertirsi, o per dimenticare. Emergono figure di scrittori divenuti poi in seguito famosi: Carlo Goldoni, i fratelli Gozzi, Giacinto Gallina…
Ma quanto accade in città non è ancora, per Vivaldi, motivo di interesse. Iniziò qui la sua storia quando, uscito dal seminario, ha già 25 anni, ma soprattutto è un sacerdote. Sembra però che la vita ecclesiastica non sia stata quella adatta a lui. Il pretesto, o la causa, che lo allontana dai suoi obblighi sacerdotali è una malattia di cui soffriva fin da ragazzino e diagnosticata allora come « strettezza de petto » (un’asma bronchiale). Per il giovane Antonio la dispensa dal dire messa fu una vera fortuna che gli consentì di dedicarsi esclusivamente alla musica, unica ragione della sua vita. Ma al periodo passato in seminario Vivaldi sarà sempre grato: gli consentì di studiare e approfondire la conoscenza della musica, imparando a suonare il violino e a perfezionare una tecnica virtuosistica, da molti definita insuperabile.Ma, in cuor suo, Vivaldi si sente attratto dalla composizione. Scrive musica, anzitutto quella strumentale, che sottopone al padre (suona il violino nella Cappella Marciana, l’unica istituzione musicale della città), ma non trova estimatori. Il suo sogno di dirigere un giorno la Cappella Marciana si infrange quasi subito. Gli unici che si accorgono di lui sono i membri del direttivo dell’Oratorio della Pietà, luogo di carità istituito già nel lontano 1300. Lì verrà accolto nell’organico degli insegnanti come « maestro de violin » e compensato con 40 ducati annui, aumentati poi a 100 per l’incarico aggiuntivo di maestro concertatore.
Antonio VIVALDI
Questa assunzione presso l’oratorio sarà la sua fortuna. Tra l’impenetrabile silenzio delle sue mura, lavorerà per decenni portando avanti la sua non dichiarata “rivoluzione musicale”, dando vita a tutto il suo estro creativo, mettendo la sua musica su un piano che allora, ma anche oggi, sorprese tutti per le evidenti novità che introdusse. Dagli studi fatti al seminario Vivaldi si era accorto di come tutto ciò che aveva appreso appartenesse ad un’epoca ormai spenta. Le dinamiche espressive dei concerti che ascoltava risentivano della lentezza con cui venivano eseguiti. Certi strumenti, come il clavicembalo, non potevano esprimere più nessuna nuova potenza sonora, ragione che lo spinse, progressivamente, ad escluderlo dagli strumenti della sua orchestra a favore degli archi e dei fiati di cui intravvedeva nuovi e più importanti sviluppi. Nelle sue partiture emergono nuovi simboli dove si riconoscono ben tredici graduazioni che stabiliscono le intensità dei “piani” e dei “forti”. Nel solo tempo “allegro”, 18 sono le variazioni sonore a riprova che tutto era stato da lui vagliato e migliorato.
Dentro all’Oratorio spetta a lui scegliere tra le allieve le più meritevoli (non sorprenda questo fatto ma l’istituto raccoglieva solo ragazze, abbandonate in tenera età). Per disciplina interna sono tenute al rispetto e all’obbedienza e lui non chiede di più: l’impostazione musicale ottenuta porterà nel giro di qualche anno le sue allieve al massimo grado di perfezione, superando, per capacità, l’orchestra ed il coro della stessa Cappella Marciana. A Vivaldi molti guarderanno con rinnovato interesse. Dall’estero gli giungeranno richieste per poter partecipare alle sue lezioni, domande che non sempre furono concesse.
Antonio VIVALDI-Venezia-Calle della Pietà-Lapide Vivaldi-Foto-Giovanni Dall’Orto
Dal libro di Walter Kolneder Vivaldi (edit. Rusconi), a proposito della sua musica, leggo : «… le prime opere di questo genere dovettero apparire al pubblico come rivelazioni di una nuova umanità, l’ampiezza degli sviluppi dovette produrre un effetto tale da mozzare il respiro».
Che cosa aveva di così travolgente la musica di Vivaldi su chi l’ascoltava? Anzitutto quella gran massa di suoni eseguiti a ritmi elevati per quei tempi (ma ci sorprendono anche oggi!), poi le variazioni tonali, l’uso degli archi così sorprendente, frutto di una tecnica eccelsa in possesso delle sue allieve, e le novità messe in atto dallo stesso Vivaldi che aggiungeva difficoltà crescenti allo svolgimento dei suoi concerti. Sorpresero tutti le “martellate”, così definite allora, quelle specie di frustate buttate addosso alle corde degli archi, con gesti eseguiti soprattutto dalle violiniste, che le impegnarono anche fisicamente, in una fatica nuova ma esaltante. Tutto, alla fine, produceva un effetto estraniante, che stordiva piacevolmente chi ascoltava.
Antonio VIVALDI
Nel corso degli anni successivi, Vivaldi comincerà a comporre anche per le corti europee più importanti. La sua musica aveva raggiunto le vette più alte guadagnata in anni di silenzioso lavoro. Il re di Francia Luigi XV per il compleanno del figlio Delfino chiese a Vivaldi una cantata. “La Senna festeggiante”, così si chiama, fu composta ed eseguita nel 1726, tra la compiaciuta contentezza dei convenuti.
Ma ad impreziosire i suoi rapporti di quegli anni va ricordata l’amicizia e stima di J. S. Bach il quale intuì, e fu forse l’unico, l’enorme portata del rinnovamento messo in campo dal “prete rosso”; lo apprezzò così tanto che trascrisse alcune sue sonate portandole alla sola voce del clavicembalo (Bach era innamorato di questo strumento scrivendo per lui decine e decine di pezzi). Si sa della loro corrispondenza e di come Bach studiasse gli spartiti di Vivaldi. Tracce dell’influenza vivaldiana si possono trovare nei Concerti Brandeburghesi.
Di Vivaldi esiste un unico disegno fatto da Pier Leone Ghezzi nel 1723 quando giunse a Roma. Aveva allora 45 anni. Dal profilo si nota la grande massa dei suoi capelli (erano rossi e arricciati), gli cadono sulle spalle. L’ampia fronte fa scendere lo sguardo sul naso aquilino, poi sulle labbra, forse sottili. Più volte ho cercato di immaginarlo Vivaldi. Alto circa un metro e settanta, dentro al suo lungo abito nero, col breviario stretto sotto al braccio, la mente che inseguiva le sue musiche, il suo passo veloce per tornare all’Oratorio e metterle nel foglio pentagrammato. Di lui Charles De Brosse disse che era più veloce a scrivere un concerto di quanto non facesse un copista a ricopiarlo…
Tralascio ciò che fece Vivaldi nei decenni successivi dove si dedicò quasi esclusivamente alla musica profana, scrivendo più di 90 fra opere e cantate. Potrà sorprendere questo cambio di indirizzo, ma Vivaldi aveva capito che le nuove tendenze che circolavano in città volevano altro. La musica sacra, che gli aveva dato la notorietà, non era più richiesta come prima. In questa sua nuova veste Vivaldi si dedicherà anima e corpo in un lavoro che sembrava non aver mai fine. La grande produzione del “prete rosso” ammonta a più di 750 composizioni, ma ciò non deve sorprendere perché ogni compositore dell’epoca aveva come requisito necessario, quello di saper scrivere musica con continuità. Allora, nelle chiese e nelle sale da concerto, non era previsto che una stessa musica fosse suonata due volte.
Vivaldi avverte che il suo tempo sta per scadere. A Venezia altri sono i compositori le cui musiche trovano maggiori consensi. Si fanno largo Benedetto Marcello, Tommaso Albinoni e per Vivaldi gli spazi si vanno restringendo. Molti non approvano che un prete, come continuava ad essere lui, dovesse vestire anche i panni dell’impresario e uomo d’affari. (Per gli accordi presi con il Teatro di S. Angelo e per garantire i contratti con le maestranze con cui era venuto a collaborare, Vivaldi si prese cura di tutta la gestione). Ma erano troppe le voci contrarie per poter respingere i pregiudizi più velenosi.
Vivaldi lasciò per sempre Venezia accogliendo l’invito di Carlo VI d’Asburgo che lo volle alla sua corte a Vienna. Era il 1728. Nella capitale asburgica rimase fino al 1741, anno della sua morte, un anno dopo la morte del sovrano Carlo VI che lasciò il nostro Vivaldi in condizioni economiche precarie. Fu sepolto nel cimitero dell’ospedale in una fossa comune. Le note del suo funerale , trascritte nel registro parrocchiale così dicono: «Si è constatata la morte del molto reverendo Sig. Antonio Vivaldi prete secolare età 60 anni, avvenuta per infiammazione interna, nella casa Satler presso la porta di Carinzia.» Si concluse così la vita di uno dei più grandi musicisti del 700.
Ed il suo stile? Vi chiederete. Già… Sta tutto nei fogli pentagrammati, negli ascolti ripetuti che ce lo rivelano puntualmente. Se confrontati con altre composizioni dell’epoca, si potrà intuire quasi subito nei duetti fra l’assolo del violino e l’orchestra, fra soprano e contralto, fra flauto dolce e orchestra.
Per quanti volessero farsi un’idea più precisa della musica di Vivaldi potrei suggerire l’ascolto di alcuni brani che, a mio avviso, sono tra i più significativi della sua arte.
Tra le Quattro Stagioni scelgo L’Estate (LINK). Poi passo ai Concerti di Dresda, allo Stabat Mater (Philippe Jaroussky LINK), al Concerto Grosso in fa minore, il Concerto per flauto dolce e orchestra RV 443, la Cantata Juditha Triumphans. Aggiungo, e lo consiglio vivamente, il bellissimo documentario girato dalla BBC che ha per titolo Gloria at Pietà. All’ascolto del celeberrimo brano, si aggiungono le immagini, e la ricostruzione fedele delle atmosfere dei concerti vivaldiani all’interno della chiesa della Pietà.
Massimo Rosini
Massimo Rosin nato a Venezia nel 1957. Appassionato di cinema, musica, letteratura, cucina, sport (nuoto in particolare). Vive e lavora nella Serenissima.
Poesie di Christina Rossetti-Poetessa italo-britannica-
Biografia e Poesie di Christina Rossetti Poetessa italo-britannica-Biblioteca DEA SABINA-nacque a Londra il 5 dicembre 1830 ove mori il 29 dicembre 1894-fu educata in casa dalla madre. Intorno al 1840 la famiglia aveva grosse difficoltà economiche dovute al peggioramento della salute fisica e mentale di suo padre. A 14 anni Christina soffrì di una crisi nervosa che fu seguita dalla depressione. In questo periodo lei, la madre e la sorella si interessarono al movimento anglo-cattolico, che era parte della Chiesa anglicana. La devozione religiosa ebbe un ruolo importante nella vita di Christina: appena diciottenne si impegnò sentimentalmente con il pittore James Collinson, ma la relazione finì perché quest’ultimo tornò ad essere cattolico. In seguito si legò al linguista Charles Cayley ma non lo sposò, nuovamente per motivi religiosi. Morì di cancro nel 1894 e venne seppellita nell’Highgate Cemetery. All’inizio del Novecento, con il modernismo, la sua popolarità venne offuscata, come anche quella di molti altri scrittori dell’epoca vittoriana. Christina Rossetti rimase a lungo dimenticata fino a quando negli anni settanta venne riscoperta da studiose femministe.
Christina Rossetti-Poetessa italo-britannica
Il posto più umile
Dammi il posto più in basso; non lo merito,
lo so, ma Tu scegliesti di morire
perch’io potessi vivere e godere
la gloria dalla stessa parte Tua.
Dammi il posto più in basso, e se per me
troppo alto fosse, un altro più giù ancora,
dove possa sedermi per vedere
il mio Signore, e così amare Te.
Maggio
Io non ti posso dire come è stato:questo soltanto so, che è già passato.In un giorno di pura luce e brezza,un maggio dolce, in piena giovinezza.Non erano i papaveri ancor natitra lievi steli del granturco incerto,l’ultimo uovo ancor non s’era apertoe gli uccelli volavano accoppiati.Io non ti posso dire come è stato:questo soltanto so, tutto è passato.Con quel sole di maggio è andata viaogni dolce ed amata compagniae sola, vecchia e grigia m’ha lasciato.
Nel mezzo di un gelido inverno
Nel mezzo di un gelido invernoIl vento gelato portava lamenti,La terra era dura come il ferro,L’acqua come una pietra;La neve era caduta,Neve su neve,Nel mezzo di un gelido inverno,Molto tempo fa Nostro Dio, il paradiso non può trattenerlo,Né la terra sorreggerlo;Il cielo e la terra fuggirannoQuando verrà il suo Regno;Nel mezzo di un gelido invernoUna stalla fù sufficientePer il Signore Dio incarnato,Gesù Cristo. Bastò per lui, che i cherubinilo adorassero notte e giornoUn seno pieno di latteE una mangiatoia piena di fieno.Bastò per lui, che angelicaduti in passato,Il bue, l’asino e il cammellolo adorassero. Angeli ed arcangelierano tutti lì riuniti,Cherubini e serafiniAffollavano l’ariaMa solo sua madreNella sua fanciulla beatitudine,Adorò l’amatoCon un bacio. Cosa posso dargli,Povera come sono?Se fossi un pastorePorterei un agnello,Se fossi un MagioFarei la mia parte,Ecco cosa posso dargli —Gli dono il mio cuore
Christina Rossetti -Poetessa italo-britannica
Quando io sono morta
Quando io sono morta, mio carissimo,non cantare canzoni tristi per me;non piantare rose alla mia testanè ombroso albero di cipresso:sia la verde erba su di mecon acquazzoni e gocce di rugiada umida;e se tu vuoi, ricordae se tu vuoi, dimentica.Io non vedrò le ombre,non sentirò la pioggia;non udirò l’usignolocantare come se fosse addolorato:e sognando durante il il crepuscoloche nè sorge nè tramonta,per caso possa ricordaree per caso possa dimenticare.
Ricordami
Tu ricordami quando sarò andatalontano, nella terra del silenzio,né più per mano mi potrai tenere,né io potrò il saluto ricambiare. Ricordami anche quando non potraigiorno per giorno dirmi dei tuoi sogni:ricorda e basta, perché a me, lo sai,non giungerà parola né preghiera. Pure se un po’ dovessi tu scordarmie dopo ricordare, non dolerti:perché se tenebra e rovina lasciano tracce dei miei pensieri del passato,meglio per te sorridere e scordareche dal ricordo essere tormentato.
A Birthday
My heart is like a singing bird
Whose nest is in a water’d shoot;
My heart is like an apple-tree
Whose boughs are bent with thickset fruit;
My heart is like a rainbow shell
That paddles in a halcyon sea;
My heart is gladder than all these
Because my love is come to me.
Raise me a dais of silk and down;
Hang it with vair and purple dyes;
Carve it in doves and pomegranates,
And peacocks with a hundred eyes;
Work it in gold and silver grapes,
In leaves and silver fleurs-de-lys;
Because the birthday of my life
Is come, my love is come to me.
(Traduzione)
È un uccello canoro il mio cuore
che ha fatto il nido su una fresca cima –
un melo ricco di rami è il mio cuore
ricco di frutti come mai fu prima
È come una conchiglia iridescente
su un mare luminoso e trasparente.
Più felice di sempre oggi è il mio cuore
perché è giunto l’amore.
Fatemi un trono di piume e seta
di morbide pellicce e drappi rossi
colombe e melagrane sian scolpite
intrecciate a cento occhi di pavone,
grappoli d’oro e grappoli d’argento
in viluppi di bianchi fiordalisi.
È il compleanno della vita mia,
l’amore è giunto e non andrà più via
The lowest place (1863)
Give me the lowest plase: not that I dare
Ask for that lowest place; but Thou hast died
That I might live anch share
Thy glory by Thy side.
U That lowest plase too high, make one more low
Where I may sit and see
My God and love Thee so.
(Traduzione)
Dammi l’ultimo posto: non che osi
chiederlo, ma Tu sei morto
perché io viva e divida con Te
la gloria al tuo fianco-
Dammi l’ultimo posto: o se per me
l’ultimo è troppo, creane un altro più giù
dove possa sedere e vedere
il mio Dio e così amarTi [
Composizioni di Christina Rossetti
Christina Rossetti-Poetessa italo-britannica
L’Italo-britannica Christina Rossetti iniziò a scrivere molto presto, ma solo all’età di 31 anni vide pubblicata la sua prima raccolta di poesie, Goblin Market and Other Poems (1862). L’opera ottenne una critica molto favorevole e Christina venne salutata come la naturale erede di Elizabeth Barrett Browning nel ruolo di female laureate. Il titolo che dà il nome alla raccolta è il lavoro più famoso di Christina Rossetti, e nonostante a prima vista sembri semplicemente una filastrocca sulle disavventure di due sorelle in mezzo agli gnomi (goblins), la poesia è complessa e ha diversi livelli di lettura. La critica l’ha interpretata in modi molto diversi: vi ha visto un’allegoria sulla tentazione e la redenzione, un commento sui ruoli sessuali nell’epoca vittoriana, e la tematizzazione del desiderio erotico e la redenzione sociale.
Christina Rossetti continuò a scrivere e pubblicare per il resto della sua vita e si concentrò soprattutto sulla poesia devozionale e per bambini. Tuttavia le cose più interessanti che ha scritto sono poesie d’amore. Non si tratta di fantasie o di petrarchismo cortese: nascono da storie d’amore dolorosamente vissute e da sprazzi di lucidità che trasformano il dolore in un sentimento leggero e giocoso. La famosa When I am dead, my dearest esprime tutta la sua insicurezza: Christina non è sicura del proprio amore quanto non è sicura dell’amore dell’amato, il quale dunque non viene caricato di doveri, che del resto neppure lei potrebbe sopportare.
Mantenne una grande cerchia di amici e per dieci anni lavorò come volontaria in una casa di accoglienza per prostitute. Rimase ambivalente riguardo al suffragio femminile, ma molti hanno riconosciuto tematiche femministe nella sua poesia. In più era contro la guerra, la schiavitù, la crudeltà contro gli animali, lo sfruttamento sessuale delle minorenni e ogni forma di aggressione militare.
Ferruccio Parri-Come farla finita con il fascismo-
Editori Laterza
Ferruccio Parri :«Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi.»
Ferruccio Parri
DESCRIZIONE-INTRODUZIONE-RASSEGNA STAMPA
Ferruccio Parri, uno dei maggiori esponenti dell’antifascismo italiano e della Resistenza, è una vera e propria guida. I suoi scritti e i suoi discorsi ci conducono, ancora oggi, attraverso una ragnatela di parole chiave necessarie per contrastare il ritorno di retoriche e pratiche violente e identitarie. Che se fasciste non sono, al fascismo assomigliano molto. Ferruccio Parri, vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Resistenza, è stato il primo presidente del Consiglio dell’Italia libera. Dopo una lunga militanza nel Partito d’Azione, si è impegnato in altre formazioni prima di lasciare l’impegno partitico. Ha dedicato la sua intera esistenza alla politica e non ha mai smesso di lottare contro il ritorno del fascismo.
Ferruccio Parri
Introduzione.
Cosa resta
di David Bidussa e Carlo Greppi
Abbiamo già detto tante volte che noi non vogliamo fare una storia idealizzata, né credere e far credere quello che non c’è, o presentare gli attori di questi fatti per quello che non sono o non sono stati; essi furono modesti uomini come tutti.
Ferruccio Parri (1961)
Del fascismo Parri è stato uno dei più irriducibili avversari nel corso della sua lunga vita adulta, che percorre integralmente la storia dell’ideologia che ha insanguinato l’Italia, l’Europa e il mondo. Dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla presa del potere, Parri sente, «come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio» [infra, p. 6], ed è lui il primo a fare della sua «avversione morale», che è «perentoria ed irriducibile», appunto, la cifra con cui affronta la dittatura prima, l’occupazione e la guerra civile poi, e, infine, il costante riemergere del neofascismo in incalcolabili forme, i cui echi arrivano fino all’Italia di oggi, un paese le cui stesse premesse democratiche scricchiolano in maniera preoccupante. Ed è utile, in questo tempo di crisi profonda, ripercorrere i passi di una generazione che ha in gran parte voluto – e in questo Parri è stato maestro – sentirsi «ordinaria».
È quando il fascismo si fa regime, ricorderà Parri, che i giovani d’allora scoprono la democrazia: «Si avverte che al fascismo non è possibile opporre soltanto la polemica antifascista, se la polemica antifascista non riposa sui principi, su una costruzione politica superiore, atti a soddisfare le esigenze primarie di libertà e di giustizia. È dunque allora che si crea, soprattutto fra gli intellettuali – ciò che è essenziale per comprendere la lotta di poi – una prima convergenza di forze, fondamentale a spiegare la storia successiva». Convinto che la vittoria sul fascismo si sia costruita passo dopo passo, in oltre vent’anni di lotte e sacrifici, Parri si oppone in diverse occasioni alla «spiegazione poetica che piaceva al nostro sempre compianto Calamandrei», per la quale di colpo, come per delle «misteriose leggi di natura», era gemmata e può gemmare la Resistenza. Dalla svolta con cui Mussolini instaura di fatto il regime, Parri aveva imparato «che la sconfitta si riparava cercando una soluzione superiore; che contro il fascismo non si combatteva più sulla base del diritto formale della società precedente al fascismo; che le vecchie classi dirigenti erano crollate, erano cadute», e che «occorreva una soluzione diversa, una visione più avanzata».
Queste, come quelle che ritroverete in queste pagine, sono parole di un’attualità a dir poco sconcertante, che ripercorrono la presa di coscienza di un uomo «come tutti» che, poco più che trentenne, si rese conto che quella che riteneva essere la sua ordinarietà diventava di colpo speciale, rara, necessaria, da coltivare in un’Italia che sprofondava nel baratro della dittatura. Un uomo che si rese conto, fin dagli anni Venti, che bisognava disobbedire – e rivendicarlo pubblicamente – e poi combattere: «al nemico non si doveva conceder tregua», ricorderà, «sapevamo che la guerra era necessaria e che una volta iniziata non si poteva più tornare indietro» [infra, p. 22].
Accomunati da questa sua tormentata e costante attenzione per una vision – si direbbe oggi – antifascista, fondamentale e fondante in tempo di crisi, sono tre gli aspetti che ritornano più volte nelle parole di Ferruccio Parri e che a vario titolo lo accompagnano nei momenti salienti della propria vita, tanto da definire il suo vocabolario politico.
Il primo aspetto riguarda una dimensione laica della politica. Il secondo nasce dalla convinzione di dover trovare significati e immagini che parlino a generazioni anche lontane dalla sua, consapevole della consunzione non solo delle parole, ma anche dei sentimenti e delle esperienze se non corroborate da una volontà di rimetterle costantemente tra le cose della propria quotidianità, e dunque non proporle come sacre. Il terzo aspetto, infine, consiste nell’essere consci del fatto che scommettere sul futuro ogni volta significa riprendere in mano il passato.
Veniamo dalla polvere e dobbiamo tornare, tutti, nella polvere. Lo spirito che ci rende uomini, soffia quando vuole e dove vuole. La sua brezza ha animato Ferruccio Parri durante tutta la sua lunga vita. Egli era laico, intellettualmente e politicamente […] ma pochi più di Parri possedevano, fra i suoi ed i nostri contemporanei, le doti cristiane della devozione al dovere, dell’obbedienza ai 10 comandamenti, dell’amore della famiglia e dell’umanità, dello spirito di sacrificio, dell’umiltà.
Sono le parole con cui Leo Valiani, il 9 dicembre 1981, apre la sua orazione funebre per Ferruccio Parri. Un addio tra due amici di vecchia data che si erano da tempo divisi sulle scelte politiche, dopo la prima stagione del Partito radicale, quando Ferruccio Parri dava vita al primo nucleo della «sinistra indipendente».
In quelle parole tuttavia non sta solo il rispetto o l’affetto verso «Maurizio» – il mitico nome di battaglia di Parri nella lotta partigiana – o verso la Resistenza, anche se certamente c’è anche quello, memore di quanto Valiani scriveva nel 1947 quando ricordava, nell’inizio incerto della guerra di liberazione, «Tutti vanno pazzi per lui». Quelle parole non sono solo un sincero riconoscimento della capacità che Parri aveva avuto di tenere insieme le molte anime e i molti protagonisti del movimento resistenziale, che avevano accettato come «linguaggio comune» le «semplici parole di libertà e giustizia» [infra, p. 44], che avevano scelto di stare uniti. La commossa orazione funebre di Valiani svela un lessico laico che in Italia non è mai stato linguaggio condiviso, o comunque mai di maggioranza. Laddove con «laico» si intende il riconoscimento del nesso doveri/diritti nonché l’autonomia e la libertà di ciascun essere umano, ovvero il proseguimento del progetto illuminista enunciato da Kant all’inizio del suo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? «L’illuminismo – scriveva il filosofo tedesco – è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro».
Dunque l’essere laico, nelle parole di Valiani e nella biografia di Parri, indica una tendenza continua a uscire dallo stato di minorità in cui ci si trova e a «camminare con le proprie gambe», non confondendo, come sottolinea Michel Foucault, quella condizione di minorità «con uno stato di impotenza naturale». Dunque pare che compito dell’intellettuale e del politico sia essere ottimisti, laddove, con Johan Huizinga, ottimista non è colui che sottovaluta i pericoli gravi sostenendo che tutto finirà per il meglio, bensì colui il quale, pur valutando in tutta la sua portata la minaccia dell’imminente tracollo, tiene alta la speranza, anche qualora non si scorga all’orizzonte una via d’uscita. Ottimista è chi si sforza costantemente di ricomporre un quadro, ma anche di dare il valore alle cose per poterlo sostenere. In altre parole, riprendendo le azioni che nel pensiero di Parri appaiono necessarie per «farla finita con il fascismo», essere laico significa non cedere il passo, saper progettare e saper trainare. Al primo posto, sostiene Parri all’apertura dei lavori della Consulta [infra, pp. 55 sgg.], ci deve essere «la difesa dell’ordine morale» dell’Italia – e della «Giovane Europa» – di domani, in continuità con lo «spirito di concordia» della lotta di liberazione. Senza impantanarsi, invischiarsi, soffocarsi, rischiando così di favorire il ritorno «a regimi di letargo o a regimi senza libertà e quindi senza giustizia» [infra, p. 80].
È un profilo che «Maurizio» ha costantemente presente nella sua riflessione e che nella lezione che tiene nel 1960 – Il CLN e la guerra partigiana –, che abbiamo volutamente sintetizzato con la parola chiave «trasmettere», assume una dimensione paradigmatica. «Trasmettere», infatti, non è solo raccontare perché altri ereditino, ma è soprattutto non celare, non costruire una versione mitizzata del passato per timore della sua dissoluzione, che invece sarà conseguente e logica proprio se quel passato dovesse essere raccontato in versione «eroica». In quell’occasione, in apertura del suo intervento, Parri dice:
Coloro che hanno avuto parte attiva nella lotta di liberazione – alcuni sono qui – sono uomini come voi, con tutti i difetti, gli errori, le insufficienze degli uomini; nessuno di noi le vuole tacere, nessuno le vuole velare, nessuno vuole rivendicare dei meriti che non ha. Ma le cose che si son fatte e la storia di questi anni non han da temere della sincerità, che resta il maggiore dei doveri che abbiamo verso i giovani, verso di voi e verso quelli che verranno dopo [infra, p. 96].
Del resto, anni prima, lo stesso Parri non aveva taciuto sulla dimensione geograficamente contenuta della Resistenza: «Solo una parte del paese, territorialmente parlando, è stata toccata profondamente dalla Resistenza, e solo una parte della società italiana vi partecipa o l’accetta», aveva detto in un’intervista nel 1957, precisando che Resistenza non era stata la ripetizione del moto solo urbano ed elitista del Risorgimento, al quale non manca mai di riferirsi, ma qualcosa di più profondo e partecipato.
In quella stessa intervista, tuttavia, indica una questione molto importante che spiega l’insistenza di parlare della Resistenza, in particolare rivolta alle generazioni anche lontane da quell’esperienza diretta:
il crollo del fascismo – precisa – ha aperto situazioni e vuoti di portata assai più ampia. È crollata l’impalcatura del regime fascista; non sono stati arrestati gli effetti della sterilizzazione dei cervelli. E così un fondo materasso di conformismo e qualunquismo, che è lo stato psicologico di riposo di un paese senza educazione e di scarsa coscienza democratica, fa da supporto alle vendette, alle paure postume, alle restaurazioni conservatrici, alle pressioni retoriche e clericali.
La sua convinzione è che «non si ama quello che non si conosce», e la prima cosa che si ignora, ripete più volte, è la rilevanza del fatto resistenziale, come scelta – un aspetto su cui avrebbe scritto Claudio Pavone nel 1991 proprio su sollecitazione di Parri –, come condizione straordinaria nella storia italiana. Un fatto eccezionale a opera di uomini per lo più, appunto, «ordinari». È un’osservazione che ripete spesso a partire dal 1949, ogni qualvolta riflette sul significato della esperienza resistenziale nella storia degli italiani: vi ritorna nel 1960 nelle lezioni sull’antifascismo [infra, pp. 93 sgg.], poi nel 1963 in un’intervista che dà all’«Avanti!», poi di nuovo nel 1972 ripercorrendo la scena della caduta del governo da lui presieduto [infra, pp. 37 sgg.]. D’altronde lo diceva già nel 1945, descrivendo il «momento psicologico politico» dell’immediato dopoguerra, tratteggiando quella «marea incomposta di malcontento che sale contro il governo, contro il regime dei partiti», della quale «non ci si deve meravigliare», anche perché tra le miserie, i dolori, le inquietudini e «un così diffuso stato di insicurezza», vanno aggiunti «i delusi, gli spostati, gli avventurieri» e «lo spirito di rancore e di vendetta dei colpiti», dei fascisti [infra, p. 79]. La Resistenza aveva visto una partecipazione popolare senza precedenti, è vero, ma restava un’esperienza di una vasta minoranza, che sarebbe tornata a fronteggiare «l’immenso esercito parafascista, l’obeso ventre della storia d’Italia» [infra, p. 53].
Accanto a quella preoccupazione sta una convinzione: da una dittatura non si esce solo per crollo del sistema e ripristino delle regole democratiche. I conti con le dittature impegnano anche le generazioni successive se non si affrontano le mentalità che hanno fatto sì che quelle dittature durassero nel tempo.
In breve, anche se Parri non usa questa espressione – lui parla di «sagomatura mentale» –, l’Italia del secondo dopoguerra ha appunto un problema di «mentalità fascista» non affrontata e, dunque, rimasta nel codice culturale, nel senso comune. Per questo è necessario coinvolgere e motivare le giovani generazioni: non per un vago rispetto alla memoria del passato, ma alla rovescia, perché quel tempo possa archiviarsi come passato. In Italia, invece, sostiene Parri, quel processo di liberazione culturale, mentale, linguistico, non ha avuto luogo. Per questo, sostiene, ci troviamo a misurarci con la «continuità dello Stato», espressione che significativamente Parri introduce nel gennaio 1972 [infra, p. 46] e che Claudio Pavone assumerà come parola chiave di lavoro, nel 1973, per profilare il tema del passaggio claudicante tra dittatura e repubblica democratica, in un contesto in cui aveva «ripreso fiato» quell’Italia «maggioritaria, piallata, abbeverata da venti anni di regime» [infra, p. 86].
Tuttavia, dichiarare o riconoscere che quel passaggio sia avvenuto in maniera incerta, che spesso sia stato più formale che reale, non implica scegliere la strada del ripiegamento o della delusione, comunque del mesto «ritorno a casa» o, peggio, a una scelta tutta rivolta al «culto del privato».
C’è una dimensione pubblica su cui Parri insiste, soprattutto guardando al passato da dare in consegna alle nuove generazioni. La sconfitta è prima di tutto rivendicazione dei principi della propria azione, è non venire a patti col nemico, anche quando il nemico domina. È il senso della lettera al giudice nel 1927 [infra, pp. 3 sgg.], un testo che verrebbe da definire profetico e che per molti aspetti ha scolpito l’immagine pubblica di Parri, spesso trasformandolo in un’icona.
Ma Parri non ha nessuna intenzione di rimanere avvolto nella leggenda. Per questo il punto che egli sottolinea ogni volta è ricominciare, con pazienza, si potrebbe dire con tenacia. E dunque la logica non è mettere le lapidi o porre il problema della liturgia dell’eroe. Parri, a differenza di Calamandrei, ragiona sul fare la propria parte, evita cioè l’elemento eroico e retorico del martire e ragiona sulla possibilità di azione che ci è data, e anche sul ricominciare daccapo.
È un criterio che appare con nitidezza nel 1933, quando Parri scrive un saggio su Carlo Pisacane. Come è stato sottolineato dallo storico Guido Quazza, Parri in Pisacane legge e trova una parte di sé: sono soprattutto i temi ad attirarlo, quelli cioè legati al dopo 1848, al tempo della sconfitta e dell’esilio di un protagonista assoluto del Risorgimento, agli incontri che l’esule Pisacane fa, alle conversazioni che si hanno tra sconfitti, come scrive Gramsci. Avvicinandosi a un uomo del passato, Parri riflette sull’esperienza dell’esilio come opportunità «per crescere» anziché condizione «per piangere». Invito su cui, significativamente, in anni a noi vicini ha proposto pagine di grande spessore Edward Said.
Ne discende che porgere il testimone della storia non è consegnare il fardello del passato, ma è un modo di fare catena generazionale, e dunque di dare senso alla storia. In questo c’è un superamento della dimensione del militante rivoluzionario e del combattente che Jean-Paul Sartre inquadra nel personaggio di Goetz nel dramma Il diavolo e il buon Dio; e c’è, in parallelo, la dimensione della caparbietà con cui Albert Camus descrive Sisifo, non già nella disperazione dell’attimo successivo alla caduta, ma nella determinazione di Sisifo a scendere di nuovo negli inferi per tentare di nuovo la lotta all’oppressione. «In ciascun istante – scrive Camus – durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno».
Così era stata, in fondo, la Resistenza armata, che stabilì «vincoli di solidarietà morale, che sopravvivono ai litigi e non si cancellano mai», scrive Parri [infra, p. 125]. Così erano stati gli «uomini di allora» che «non hanno meriti speciali, ed hanno commesso gli errori che commettono gli uomini, anche se in buona fede; ma qualche merito deve essere rivendicato, soprattutto in difesa e a onore dei caduti. Il principale di questi meriti è forse la chiarezza della visione di quel momento». Sono parole che «Maurizio» pronuncia quasi vent’anni dopo la Liberazione, evocando una determinazione e una chiarezza di vedute che forse in molti casi sono poi mancate, al momento della sconfitta, quando il vento della restaurazione e della reazione è tornato a soffiare con arroganza. Ed è questo, crediamo, uno dei pericoli che nel nostro tempo rendono così urgenti le parole e gli scritti di Ferruccio Parri: lo spaesamento che rende una chimera la laicità – nella sua accezione più nobile – della politica, il non trovare più significati che possano percorrere quelle catene generazionali che lui aveva immaginato con forza, il non essere più in grado di impugnare il nostro passato per dotarci di nuove parole chiave, necessarie a farla finita, una volta per tutte, con il fascismo. All’inizio degli anni Sessanta, ricordando di aver presentato una legge per lo scioglimento del Movimento sociale italiano, Parri sosteneva di non essere stato mosso dalla preoccupazione per il fenomeno politico del neofascismo in sé, ma per «i problemi morali dei giovani»: «Sono questi movimenti giovanili che si ripetono, è questa facilità di propaganda che ci impensierisce: questo periodico ritorno a sistemi, a ideologie di violenza, che non vogliamo e che non dobbiamo volere».
Ideologie di violenza che dobbiamo, a tutti i costi, sgominare.
Riferimenti bibliografici
Il brano in esergo è tratto dalla relazione «Dalla Resistenza alla Repubblica, alla Costituzione» tenuta da Parri il 26 giugno 1961 e pubblicata in Fascismo e antifascismo (1936-1948). Lezioni e testimonianze, vol. II, Feltrinelli, Milano 1962, p. 615, così come le due citazioni seguenti nel secondo capoverso (ivi, pp. 613-614) che evocano quelle qui in Il CLN e la guerra partigiana [infra, pp. 93 sgg.]; mentre la prima riflessione sulla sconfitta citata è in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Luigi Arbizzani, Alberto Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 200.
Il testo dell’orazione funebre di Valiani si trova in Parri la religione laica del dovere. Testimonianze di Riccardo Bauer, Arturo Colombo, Giovanni Spadolini, Leo Valiani, in «Nuova Antologia», n. 2141, gennaio-marzo 1982, pp. 19-25 (il passo citato è a pp. 19-20). L’espressione «Tutti vanno pazzi per lui» è in Leo Valiani, Tutte le strade conduconoaRoma, introduzione di Claudio Pavone, il Mulino, Bologna 1995 (I ed. 1947), p. 104.
Il testo di Kant è ripreso da Immanuel Kant, Antologia degli scritti politici, selezione italiana di scritti a cura di Gennaro Sasso, il Mulino, Bologna 1961, pp. 47-55 (la citazione è a p. 47, i corsivi sono nel testo); le parole di Foucault sono in Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2017, p. 36 (ed. or. Le Gouvernement de soi et des autres, Seuil/Gallimard, Paris 2008); per Huizinga si veda Johan Huizinga, Nelle ombre del domani,a cura di Rodolfo Lancia, Aragno, Torino 2019, p. 3 (ed. or. In de schaduwen van morgen, een diagnose van het geestelijk lijden van onzen tijd, H.T. Tjeenk Willink & Zoon, Haarlem 1935).
L’intervista di Ferruccio Parri ad Antonio Spinosa Solo una parte…, del dicembre 1957, è in «Resistenza», poi in Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 232-236 (i passi citati sono a p. 233 e a p. 234).
Il libro di Claudio Pavone cui si fa riferimento è Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. I testi di Parri del 1949 e del 1963 sono ricompresi in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 512-528 e pp. 530-534. Per una scelta dei testi di Claudio Pavone dedicati al tema della «continuità dello Stato» si veda il suo Alle origini della Repubblica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 70 e sgg., nonché la bibliografia ivi citata.
Il saggio su Pisacane, lunga recensione alla monografia di Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932, poi Einaudi 1980) è ora in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 74-98 (si veda anche Carlo Rosselli, Fuga in quattro tempi [1931], ora in Id., Socialismo liberale, a cura di Aldo Garosci, Einaudi, Torino 1973, pp. 511-525); il giudizio di Quazza su Parri è in Guido Quazza, Enzo Enriques Agnoletti, Giorgio Rochat, Giorgio Vaccarino, Enzo Collotti, Ferruccio Parri. Sessant’anni di storia italiana, introduzione di Luigi Anderlini, De Donato, Bari 1983, p. 43. Il riferimento a Gramsci è in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 4 voll., a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. 3, p. 1816. Il riferimento a Edward Said è al suo Riflessioni sull’esilio, ora in Id., Nel segno dell’esilio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 216-231. Per Jean-Paul Sartre si veda Il diavolo e il buon Dio, Mondadori, Milano 1976 (ed. or. Le Diable et le Bon Dieu, Gallimard, Paris 1951); per Albert Camus, Il mito di Sisifo (ed. or. Le Mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942), in Id. Opere, Bompiani, Milano 2000, pp. 316-317.
Le ultime due citazioni sugli uomini della Resistenza e quelle sull’MSI sono in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Arbizzani, Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano cit., p. 205 e p. 214.
Gli otto scritti di Parri riprodotti nel volume sono ripresi da: Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 63-65, 132-142, 110-113, 566-576, 179-193, 576-582, 547-566, 582-588.
Salvo indicazione contraria, le note a piè di pagina sono presenti nell’edizione originale.
Ferruccio Parri -foto segnaletica-
Disobbedire.
Lettera al Giudice istruttore di Savona (1927)
Nel dicembre 1926 con Carlo Rosselli, Italo Oxilia, Sandro Pertini e l’aiuto organizzativo di Adriano Olivetti, Ferruccio Parri prepara e realizza l’espatrio di Filippo Turati, con un motoscafo, da Savona a Calvi in Corsica. Mentre Turati, Pertini e Oxilia proseguono per Nizza, Parri e Rosselli, ritornati con il motoscafo a Marina di Carrara, vengono arrestati, nonostante tentino di sostenere di essere reduci da una gita di piacere.
La lettera al giudice di Ferruccio Parri, all’epoca trentasettenne, è datata 18 febbraio 1927 ed è la dichiarazione di assunzione di responsabilità per un atto, ma soprattutto per una decisione che voleva dire disobbedire, venire meno agli ordini del regime in cui ormai era permessa un’unica voce, quella del fascismo. Ma il documento non ha valore solo per questo. Parri insiste, nella sua lettera, sul dato generazionale, sul fatto che egli appartiene a una generazione che non si è «tirata indietro» quando era necessario (è per questo che richiama la sua partecipazione alla guerra). Il suo non è un «vezzo», anzi. È una rivendicazione con un preciso valore politico, perché proprio la sua biografia smentisce la propaganda del regime che si sta costruendo: l’idea che sia l’Italia dei «disfattisti», e dunque degli «antinazionali», ad essere antifascista. È la rivendicazione non solo di un passato, ma anche del diritto a un futuro che il fascismo crede tutto per sé.
Illustrissimo signor Giudice istruttore
La mia volontaria e meditata partecipazione all’espatrio clandestino dell’onorevole Turati è stata determinata – come già le dichiarai, signor Giudice – da moventi strettamente politici. I quali tuttavia dalla deposizione che ho già reso in sue mani – su questo punto necessariamente sommaria – non risultano con quella assoluta chiarezza che deve essere attributo e privilegio di un atto di così piena consapevolezza. Mi consenta pertanto, signor Giudice, di completare per questa parte le mie dichiarazioni.
Non mi hanno guidato ragioni di personale rancore verso il regime; non ambizioni o delusioni o vendette da soddisfare: insisto nel definire motivi strettamente secondari lo stesso sdegno del momento e la sollecitudine per l’uomo nobilissimo minacciato.
Mi onoro di aver servito in pace ed in guerra lo stato italiano con fedeltà ed abnegazione – cui non son mancati riconoscimenti ed elogi –; non ho mai seguito – come le dissi – movimenti di estrema; alieno in genere dalla vita politica, e per questo rimasto sempre estraneo ai partiti, nessuna responsabilità ho certo da rimproverarmi rispetto agli anni torbidi del dopoguerra.
Contro il fascismo non ho che una ragione di avversione: ma quest’una perentoria ed irriducibile, perché è avversione morale: è, meglio, integrale negazione del clima fascista.
Né sono solo: il mio antifascismo non è fermentazione di solitaria acidità. Le mie idee sono di mille altri giovani, generosi combattenti ieri, nemici oggi del traffico di benemerenze e del baccanale di retorica che contrassegnano e colorano l’ora fascista. Indenni di responsabilità recenti, intransigenti perché disinteressati, intransigenti verso il fascismo perché intransigenti con la loro coscienza, sono questi giovani i più veri antagonisti del regime, come quelli che hanno immacolato diritto ad erigersene giudici. Ad essi il fascismo deve, e dovrà, rendere strettissimo conto delle lacrime e dell’odio di cui gronda la sua storia, dei beni morali calpestati, della nazione lacerata.
Il regime li può colpire, perseguitare, disperdere ma non potrà mai aver ragione della loro opposizione, perché non si può estirpare un istinto morale. Consapevoli custodi, alla loro coscienza è affidata per le speranze dell’avvenire la tradizione del passato.
Questa tradizione è nell’aspirazione, perenne nella nostra storia migliore, alla libertà ed alla giustizia, ragione ideale del nostro Risorgimento, ragione ideale domani ancora della nostra storia nella storia del mondo.
Chi, come il fascismo ha fatto, oblia e – cieco – rinnega questa eredità ideale, perduti insieme freno e timore, fatalmente degrada il suo dominio politico a sopraffazione: menzogna ed ipocrisia si fanno strumenti di governo e ragioni di corruzione e corrosione, cade ogni norma e limite di moralità pubblica, è consentita ogni offesa alla dignità personale, si disfrena, serva e padrona dei potenti, la bestialità umana.
Perché questa buia parentesi di cattività sia chiusa e espiata occorre che l’esperimento fascista, percorso tutto l’arco del suo sviluppo secondo la logica del suo impulso e del suo peso, abbia maturato nella coscienza del popolo tutti i suoi frutti amari e salutari, restituendogli ansiosa sete dei beni perduti, ferma volontà di riconquista e ferma volontà di difesa. Secondo Risorgimento di popolo – non più di avanguardie – che solo potrà riallacciare il passato all’avvenire.
È in noi la certezza che libertà e giustizia,idee inintelligibili e mute solo a tempi di supina servitù, ma non periture e non corruttibili perché radicate nel più intimo spirito dell’uomo, che questi due primi valori civili debbano immutabilmente sostanziare ogni sforzo di ascensione, di liberazione di classi e di popolo.
Nella fede in queste idee noi ci riconosciamo: nel dispregio di queste idee riconosciamo il fascismo.Contro le nostre persone esso ha bastone e manette, contro la nostra fede è inane. Non ha invero che i sofismi dei suoi retori e servi.
Esso ci bestemmia, ebbro, antinazione. Ma io, signor Giudice, che credevo al valore civile della storia nazionale che insegnavo in scuola, io, che nel 1915 ho inteso di combattere per la grandezza morale della patria e insieme per un’idea augusta di libertà e di giustizia, io non potevo non sentire che l’esempio del Risorgimento ed il dovere del 1915 erano ancora il dovere di oggi.Ho sentito anche, come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio.
Quando il novembre ha portato la totale sommersione di ogni traccia e modo, nonché di resistenza, di vita pubblica, nello sconforto e nell’accasciamento generale ho sentito degno e doveroso dar opera ad una protesta non sterile e non effimera, che rompendo il silenzio plumbeo fosse viva riaffermazione di fronte all’avvenire di un’Italia migliore. Protesta e riaffermazione che ormai potevano vivere solo oltre confine, mentre la paura del regime con la minaccia delle sue leggi pretendeva vietare ciò che la sua stessa violenza rendeva necessario. Leggi nate dalla paura e dalla violenza, senza radici perché nella coscienza civile, senza diritto quindi al rispetto, persuadenti anzi alla ribellione.
È da questa posizione di spirito, signor Giudice, che deriva il mio atto, è questa diretta e consapevole coerenza con il mio passato che gli conferisce – io credo – una significazione particolare.
Ho invero con l’onorevole Turati un legame che vince ogni diversità di origine ed ogni possibile discordanza del passato: un legame per oggi e per domani essenziale, quale è quello della devozione a quelle idee, dell’avversione a questo clima. L’onorevole Turati per l’altezza del suo animo e per l’onoranda dignità della sua vita poteva a buon diritto rappresentare, sopra ogni divisione e tendenza, di fronte alla civiltà europea, la condanna dell’ottenebramento italiano,la riaffermazione di quei principi ideali nei quali la storia moderna si riconosce, riaffermazione anche di un’Italia che sia patria libera ed equa a tutti gli italiani.
Nessuna jattanza e nessuna libidine di facile martirio da parte nostra.
Ma poiché ora la legge fascista ci chiama a rispondere del nostro atto, con orgoglio ne rivendichiamo la prima e più diretta responsabilità,con tanto più orgogliosa coscienza oggi che nulla più si oppone ai trionfatori; oggi che è pregio delle coscienze più diritte percuotere l’accidia e la ipocrisia della vita pubblica con l’esempio del sacrificio, se anche modesto; oggi che più bisogna sferzare la generale flaccidità e schiaffeggiare la viltà delle classi dirigenti con un esempio di fedeltà alle idee, oggi che è più veemente in noi di fronte all’orizzonte più chiuso la certezza dell’avvenire. Signor Giudice, la legge della fazione colpendoci ci onorerà.
Ferruccio Parri
Combattere.
Venti mesi di guerra partigiana (1945)
Testo del discorso tenuto a Roma, al teatro Eliseo, il 13 maggio 1945, nel corso di una manifestazione organizzata dal Partito d’Azione per presentare Parri e Leo Valiani, segretario del partito per l’Alta Italia, venuti a Roma in rappresentanza del Comitato Nazionale di Liberazione dell’Alta Italia (CLNAI). Oltre a Valiani ci sono anche il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà (CVL), e Luigi Longo, vicecomandante come «Maurizio» ed ex ispettore generale delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna.
Il discorso è forse il primo tentativo di «fare la storia» del movimento partigiano, e costituisce una rivelazione dell’«uomo Parri» (come si scrive già all’epoca), del suo profilo politico, del linguaggio concreto, diretto, non retorico, oltreché morale. L’idea, al contrario del Risorgimento, è che gli italiani c’erano e che dunque, attraverso la lotta di liberazione, si era essenzialmente tentato di «rifare l’Italia». Di rifarla con chi aveva dimostrato di prendere in mano il proprio destino, impegnandosi in prima persona. Dando forma, attraverso la decisione di combattere «per ricostruire», all’idea di «dovere civico» condiviso, e di una comunità inclusiva che possa guardare al futuro democratico all’orizzonte.
I morti ci comandano
Amici romani, il vostro è un applauso che mi mortifica, mortifica me e mortifica l’amico Valiani. Noi non siamo qui per cercare delle piccole gloriole in un momento in cui ci sono compiti così duri da risolvere. Il vostro applauso lo intendiamo rivolto non alle nostre persone così modeste che hanno il solo merito di aver saputo assumere la responsabilità di quanto facevano, ma ai nostri morti: sono essi che ci comandano e che ci comanderanno ancora nel nostro ulteriore cammino, e il vostro saluto lo intendiamo rivolto, oltre che a loro, ai nostri compagni del Nord, non solo a quelli del nostro partito, ma a tutti coloro che con noi hanno lottato anche fuori dai nostri quadri e che hanno combattuto con lo stesso valore e con lo stesso spirito.
In questo senso noi contraccambiamo questo saluto a voi, amici di Roma, che rappresentate, per noi che veniamo da Milano, un po’ tutta l’Italia. E per noi l’Italia è una sola; per noi non esiste un Nord e un Sud, siamo tutti italiani nello stesso modo e facciamo solo una distinzione fra gli italiani che vogliono la libertà e quelli che non la vogliono. Soltanto questo divide gli italiani. Ma se potessi è un abbraccio che vorrei portare da Milano fino all’ultimo compagno nostro in fondo alla Sicilia. Perché questa lotta per la libertà ha stabilito in Italia un’unità morale come non vi è mai stata dal nostro Risorgimento in avanti.
Gli amici di Roma mi hanno impegnato… a tradimento a raccontarvi qualche cosa del movimento della resistenza. Io non sono un uomo politico, non sono capace di arti oratorie e per la verità non so neppure parlare in pubblico, anche se questo è composto di amici sinceri come voi: parlare è per me un sacrificio e un vero e proprio tormento, un barbaro tormento anche perché penso che voi ne abbiate già abbastanza di sentir parlare di partigiani, con tutta la retorica che se ne è fatta. Invece gli amici di qui mi dicono che voi non conoscete molto del movimento e della sua storia. E allora mi debbo arrendere al sacrificio che mi chiedete. Vi prego però di accontentarvi che vi faccia un piccolo, modesto rapporto di quanto è stato fatto. Questo rapporto sarà poco preciso perché non ho con me la documentazione necessaria per precisare con qualche cifra la misura dello sforzo compiuto e l’importanza dei risultati conseguiti.
Voi vivete da qualche tempo in un regime (come dire?) di inflazione declamatoria; e permettete allora che vi faccia un rapporto in uno stile da ragioniere, togliendo da esso tutto quanto possa sollecitare i vostri applausi.
Nascita del movimento partigiano
Immagino che voi possiate facilmente comprendere come sia nato il nostro movimento partigiano: nacque per germinazione spontanea nei giorni del collasso, dello sfacelo. Molti furono i soldati che allora si diedero alla macchia e ad essi si aggiunsero pochi ufficiali che avevano lo stesso spirito di indipendenza. A questi primi nuclei si sono aggiunti poi professionisti, studenti, operai spinti tutti dallo stesso moto psicologico, dalla stessa sensazione che occorresse lottare con le armi per lavare una vergogna, una vergogna nazionale. Si sono formate in questo modo le prime bande nelle valli alpine e si formarono i primi Comitati di liberazione nazionale che ebbero il loro punto di unione nel CLN di Milano: questo decise di darsi un ordinamento militare e un comando militare del quale feci parte anch’io.
La stessa cosa, in maniera forse meno programmatica, avvenne nelle altre regioni, soprattutto in Piemonte dove il movimento della resistenza prese subito un grande impulso e fu diretto con molto vigore.
Cominciarono subito i primi scontri. E i primi scontri sono stati atroci. Nella provincia di Cuneo si ebbero rappresaglie feroci. Nei tedeschi vi fu immediatamente il freddo, crudele proposito di estirpare sul nascere e dalle radici questo movimento partigiano. Nel Novarese, nel Bresciano, vi sono stati combattimenti accaniti, nei quali i nostri si sono portati generalmente bene e in alcuni punti molto bene. Avemmo perdite crudeli, ma acquistammo la convinzione che c’era in tutti una capacità combattiva ragguardevole e che il movimento insurrezionale, che si prevedeva immancabile, ci avrebbe trovato con le armi impugnate. Questa sensazione ci fece superare le prime incertezze e le grandi difficoltà incontrate e, passata questa prima fase di incertezze e di disorientamento, abbiamo cominciato il lavoro di organizzazione. Questo lavoro ha marciato piuttosto lentamente nell’inverno, per le difficoltà del soggiorno e della lotta sulle montagne. Non ci scoraggiammo e ci parve di aver raggiunto un risultato veramente notevole quando, nel febbraio ’44, potemmo annoverare circa novemila uomini raccolti in formazioni, per modo di dire, regolari. Da noi questi uomini erano male armati, meglio armati erano in Piemonte, dove i partigiani avevano potuto con maggiore facilità impadronirsi di armi. Ci pareva di avere già un esercito di una certa importanza, ma, passato l’inverno e divenuta più facile la vita dei partigiani nelle vallate, e avuti i primi lanci di armi e di equipaggiamenti dagli alleati, potemmo organizzarci meglio e le nostre file si accrebbero con rapidità.
Il governo fascista pensò allora di darci esso stesso un largo aiuto col richiamo delle classi: era tutta gente che accorreva a noi, ma non avevamo armi ed equipaggiamento sufficienti e l’afflusso di tanti nuovi elementi rappresentò per un certo tempo più un peso che una utilità. Disponemmo allora che si formassero nelle vallate dei campi di istruzione, ma questo nostro desiderio fu fortemente inceppato dal nemico che intensificò la lotta contro i partigiani. Fascisti e tedeschi, passato il primo momento di incertezza in cui non riuscivano ad afferrare il bandolo del movimento partigiano, si gettarono poi risolutamente alla offensiva con rastrellamenti su vasta scala e battute nelle montagne con reparti molto forti, provvisti di autoblinde e anche di cannoni. I risultati di queste offensive furono per noi disastrosi, ma il movimento partigiano era diventato ormai una specie di gramigna che non si sradica più: battuta una formazione in una zona, se ne riformava un’altra nella zona vicina e poco dopo risorgeva nella zona stessa ove prima era stata dispersa, tanto che nell’estate del ’44 potevamo contare su di un complesso di ottantamila partigiani raggruppati in bande che poi si accrebbero fino ad un massimo di centomila uomini un po’ meglio armati di prima. Le bande armate di montagna erano affiancate da formazioni territoriali di partigiani costituite nella pianura e sempre in aumento, tanto che nel colmo dell’estate raggiungemmo i duecentomila mobilitati cui si univano anche le formazioni cittadine.
Organizzazione militare del movimento partigiano
Eravamo intanto riusciti a dare una forma quasi regolare all’organizzazione militare. Il Comitato militare che si era costituito in un primo tempo fu da noi trasformato in Comando militare provvisto di regolari servizi: un ottimo servizio di informazioni degno di un esercito regolare, organizzato con grande ……….
Ferruccio Parri
…
BIOGRAFIA
Fu uno dei principali protagonisti dell’antifascismo in Italia. Rifiutata la tessera del PNF fu costretto a lasciare l’insegnamento e si dedicò subito all’attività di antifascista, per la quale fu più volte arrestato. Insieme ai Rosselli organizzò l’espatrio di Filippo Turati e Sandro Pertini. Negli anni Trenta mantenne i contatti con i gruppi antifascisti italiani che si erano formati in Francia, in particolare con Giustizia e Libertà. Dopo l’armistizio del 1943, con l’invasione dell’Italia da parte dei nazisti, fu uno dei capi e organizzatori della resistenza all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale. Diventò il leader del Partito d’Azione e nel 1945 fu Presidente del Consiglio. Il suo governo di unità nazionale però, lacerato dai contrasti tra partiti eterogenei, durò poco. Nel 1946 uscì dal Partito d’Azione e con La Malfa fondò il Partito della democrazia Repubblicana, che poi in seguito confluì nel Partito Repubblicano, e venne eletto come deputato nell’Assemblea Costituente. Fu senatore di diritto nella prima legislatura appoggiando il primo governo De Gasperi. Nel 1953 abbandonò il PRI, in contrasto con la decisione di votare la nuova legge elettorale definita poi “legge truffa”, e diede vita con Calamandrei al Movimento di Unità Popolare che, pur ottenendo un risultato elettorale deludente fu determinante per far mancare il quorum necessario per far scattare il premio di maggioranza alla coalizione vincente. Nel 1963 venne nominato senatore a vita.
Oliviero Toscani, il nostro Ansel Adams?Articolo del fotografo Marco Scataglini
La recente scomparsa di Oliviero Toscani mi ha fatto molto riflettere. E’ stato davvero il nostro Ansel Adams, ovviamente non dal punto di vista fotografico – mai due fotografi sono stati tanto diversi – quanto da quello della fama.
Oliviero Toscani
Come ho scritto in un recente post, a differenza di musicisti o anche esponenti di altre arti, i fotografi sono abituati al fatto che poche persone conoscano davvero i “propri eroi”e così i nomi di Luigi Ghirri o di Mimmo Jodice, di Walker Evans o Stieglitz, non dicono granché alle persone che non appartengono al nostro mondo. E non è qualcosa che riguarda solo l’Italia, ovviamente, anzi è generalizzata. Nel mondo anglosassone, e non solo, c’è un unico esempio di fotografo noto quasi a tutti: Ansel Adams, appunto.
E non tanto per le sue fotografie (anche) quanto per il suo impegno ecologista, le sue battaglie per la salvaguardia della natura e la creazione di Parchi Nazionali, e per essere stato anche il fotografo che nel 1979 ha realizzato il ritratto ufficiale del presidente Jimmy Carter (a colori!), recentemente scomparso.
Presidente Jimmy Carter-Foto di Oliviero Toscani
In Italia la stessa sorte è toccata a Oliviero Toscani. Della sua morte ne parlano giornali, radio e televisioni – da giorni – con ricordi, testimonianze, coccodrilli scritti in precedenza, visto che Toscani era da tempo malato. Di tutte queste testimonianze di autentica stima e affetto mi ha colpito il fatto che l’elemento strettamente fotografico rimanesse quasi sullo sfondo.
A parte, s’intende, chi scrive di fotografia e riconosce in Toscani uno dei maestri, gli altri ne sottolineano il carattere estroso, polemico, sempre sopra le righe, i diversi processi subiti per diffamazione e così via. La sua vita è stata un susseguirsi di dichiarazioni urticanti ma mai banali, una continua ricerca dell’autentico, senza nascondersi dietro il “politicamente corretto”. Era indubbiamente un uomo libero. Tuttavia leggendo o ascoltando le lamentazioni per la sua morte, ho avuto sempre l’impressione che non si parlasse tanto di un fotografo, quanto di un personaggio pubblico qualunque, di un “intellettuale” sui generis, un po’ come quando si parla di Sgarbi non si pensa al fatto che sia un critico d’arte, ma un acceso polemista.
E invece Toscani non sarebbe stato quel che è stato se non fosse stato soprattutto un fotografo. Quel che aveva da dire – per davvero – lo ha detto con le sue foto. O meglio, per essere più precisi, con le idee dietro le sue foto. Perché di fatto, sebbene immediate e dirette, le sue immagini erano molto concettuali, ma non il “Concettuale” con la “C” maiuscola dei soliti “Artisti” (con la A maiuscola anch’essi) ma un concettuale fatto per essere compreso, chiaro, con pochi fraintendimenti.
Foto di Oliviero Toscani
Questo perché Toscani non amava i giri di parole ma in particolare detestava i “giri d’immagine”, insomma le sue foto dovevano dire quel che avevano da dire sbattendotelo in faccia. Per questo scandalizzavano e però sono rimaste nella nostra memoria anche dopo molti anni, basti pensare a tutte le pubblicità della Benetton. Foto come quella dei tre cuori umani, di tre origini diverse (un africano, un europeo e un asiatico) rendevano perfettamente l’idea del fatto che dentro siamo fatti tutti allo stesso modo. Colpiva, infastidiva pure, ma era immediatamente comprensibile. E lo stesso vale per le sue foto di condannati a morte, per il bacio tra un prete e una monaca e così via.
La verità però è che Toscani ha legato la sua fama a immagini come queste, ma era anche molto altro. Ho vecchie riviste degli anni ’70 con la pubblicità della Olympus OM 2 dove un giovane Toscani ne illustrava le meraviglie nell’uso per il reportage, genere a cui allora si dedicava. Era in grado di raccontare luoghi e persone, di immergersi in realtà complesse come – per citare un progetto relativamente recente, del 1996 – il paese di Corleone e di trarne così un catalogo Benetton che era contemporaneamente una storia basata sui volti delle persone, sui loro gesti, sui loro atteggiamenti e appunto la promozione di un marchio iconico.
Fotocamere Olympus-Foto di Oliviero Toscani
Se dovessimo dire che fotografo era, probabilmente dovremmo considerarlo un ritrattista: sapeva cogliere l’essenza di chi aveva davanti, ma ci metteva molto del proprio, e sapeva fondere le due cose con efficacia, specialmente perché – come ricorda Andrea Scanzi in un suo articolo – non gli riusciva proprio di mentire. Motivo per cui ebbe molte critiche, ad esempio, per un servizio sulla ex-ministro Maria Elena Boschi uscito su “Maxim” e in cui non avrebbe reso adeguatamente il suo soggetto. Insomma, lo si accusava di non aver ripreso la Boschi per quello che il pubblico si aspettava: elegante e sexy. Non è questo il ruolo di un fotografo, sembrerebbe di poter dedurre da tali critiche, trasformare tutto in “Glamour”?
Poteva piacere o meno (ad esempio non è mai stato uno dei miei fotografi di riferimento) ma difficilmente se ne poteva disconoscere il ruolo avuto per scuotere la sonnolenta fotografia italiana, e per questo basti pensare alla sua straordinaria rivista “Colors”, realizzata per i Benetton a partire dal 1991, ampiamente anticipatrice di tante riviste che oggi si atteggiano a “cosa nuova”.
Mi rendo conto che anch’io sto scrivendo una sorta di elegia su Toscani, non era il mio intento. Quello che mi premeva sottolineare è l’importanza del suo ruolo, soprattutto per far conoscere la fotografia fuori dai soliti recinti più o meno intellettuali. Veniva sempre chiamato “fotografo” anche quando nelle interviste lo si sollecitava a parlare di altro. Era comunque la voce di un fotografo quella che rispondeva, una voce che non poteva essere disgiunta da quello sguardo sensibile, attento, ironico, istrionico. E in quanto fotografo ha anche cercato costantemente di far crescere i giovani che si affacciavano a questo mondo, come Adams è stato un vero ambasciatore della nostra arte presso il grande pubblico. Questo gli ha inimicato tanti fotografi che vedevano in lui una sorta di antitesi a quello che dovrebbe essere il ruolo del serio intellettuale che si esprime con le immagini.
Foto di Oliviero Toscani
Ma la verità è anche che Toscani era inimitabile. Non lo dico nel senso che realizzava fotografie tecnicamente inarrivabili, anzi. Il fatto è che erano foto davvero “sue”, in cui il ruolo del fotografo, la sua prorompente personalità, erano parte integrante del soggetto.
I fotografi amatoriali amano Ghirri – e quelli della sua “scuola” – perché pensano di potersi ispirare a lui, perché il suo approccio può essere “copiato”, anche se il più delle volte con risultati francamente non proprio apprezzabili. Fatto sta che la Rete è piena di fotografie “alla Ghirri”, di foto di architettura “alla Basilico”, di foto di paesaggi “alla Guidi” e così via. Ed è singolare pensare che questi tre fotografi che ho citato come esempio in realtà siano poco noti al pubblico generalista, che invece conosce Toscani. Viceversa nessun fotografo si sogna di imitare Toscani perché è sostanzialmente impossibile se non si diventa almeno un po’ come lui era. La corrispondenza tra le sue immagini e il suo modo di essere era quasi perfetta.
Sia chiaro, ogni fotografo è unico e inimitabile, ma – permettetemi la forzatura semantica – Toscani era il più unico di tutti, specialmente quando non premeva il pulsante di scatto della fotocamera. Per questo ho spesso incontrato fotografi che non lo apprezzavano, sostenendo che era soprattutto un “personaggio”, più che un artista o “un creativo”, parola che tra l’altro Toscani detestava. Uno buono per stare in televisione o alla radio, per scrivere libri ironici (come “Non sono obiettivo“, uscito per Feltrinelli nel 2001, il cui titolo dice tutto) ma scontato e banale dal punto di vista meramente tecnico. E si sa che i fotoamatori guardano soprattutto l’aspetto tecnico, invece di quello intellettuale.
Ho sempre risposto che il personaggio e il fotografo, le parole e le fotografie in Toscani erano un tutt’uno, lo rendevano una miscela perfetta e per certi versi esplosiva di leggerezza e profondità, di caustica polemica e insondabile ironia. Un fotografo di altri tempi eppure contemporaneo, direi necessario.
Foto di Oliviero Toscani
Qualche mese fa, al Festival di Reggio Emilia, c’era una sua mostra risalente alla fine degli anni ’90: una serie di fotografie di cacche (Toscani ha sapientemente intitolato il progetto “Cacas“), insomma escrementi sia umani che animali. Le foto sono su fondo bianco, semplici, ben realizzate, ma con una potenza eccezionale. Dopo i primi facili sorrisini, ed ecco la parte divertente e divertita dell’operazione, lo spettatore entra in un tumulto di riflessioni e considerazioni, ed è questa la parte profonda – irriverente ma mai autocompiaciuta – di ogni progetto del fotografo milanese. Scommetto che avrà considerato questa serie di immagini una galleria di ritratti dei suoi detrattori, ma in verità ha poi scritto che “la cacca è l’unica cosa che l’essere umano fa senza copiare gli altri, non c’è niente di più personale e ogni volta è un’opera d’arte“. Capito cosa significa essere Oliviero Toscani? Intellettuale senza fare l’intellettuale, profondo apparendo superficiale. Saper giocare con le contraddizioni come un prestigiatore o un circense. Appunto: unico.
E certo: ci vuole anche il coraggio. Vorrei veder voi mettervi lì a collezionare cacche fresche (e scommetto odorose) e a fotografarle con tutto l’armamentario di “bank” e stativi, per poi farsi ridere dietro.
Per questo, per la sua indiscutibile capacità di farci riflettere e arrabbiare è stato davvero un maestro della fotografia, la cui verve indubbiamente ci mancherà.
Faro di Posizione.Teresa Wilms Montt: la poetessa libera e reclusa-Non dormo ancora, è tardi ma inquietamente cerco versi quasi per placare la mia sete insaziabile di bellezza. Inciampo sul web sui suoi versi, ne resto rapita. Sì, è la dinamica dell’amore. Leggo voracemente la poesia in cui Teresa si presenta. Nome, cognome e biografia condensate in versi struggenti. Fanno male, sembrano arrivare allo stomaco come un pugno. Una poetessa cilena che muore suicida a soli 28 anni a Parigi con una dose eccessiva di droga. Guardo il suo volto. E’ di una bellezza commovente.
I suoi lineamenti sono così delicati. Occhi profondi e intensi, labbra carnose, corpo sinuoso. Bella e opulente nel suo amare senza misura. Ribelle e insofferente ai conformismi, alle castrazioni, alle oppressioni di chi la vuole donna obbediente, forse solo moglie, forse solo madre. Teresa lo è. Madre di due bellissime bambine che in una foto di archivio stringe tra le braccia, come il migliore frutto delle sue opere. Ha scritto molto nella sua breve vita. La scrittura l’ha divorata e salvata.
Come l’amore. Storia infelice e tragica quella della nostra poetessa di cui forse troppo poco si parla o si conosce. Eppure in una notte di ottobre i suoi versi sembrano arrivare dritti come un proiettile sparato dal passato verso il futuro. Narra da visionaria una storia che si ripete sempre uguale. Una donna che ha vissuto perfino la reclusione in un monastero, forzatamente, come punizione. Privata delle sue due figlie. Poetessa martoriata perché l’eccesso di gelosia del marito l’ha segnata a fuoco con la violenza atroce della separazione dalle figlie.
Per cinque anni Teresa non le vedrà più. Lì si insinua il primo tentativo di suicidio. Non muore, la vita la pretende ancora. Fugge dal monastero e da quella reclusione forzata, grazie ad un amico poeta. Diventerà il suo migliore amico. Che poi una parte della critica lo voglia amante di Teresa, poco importa. L’ha aiutata a salvarsi. La nostra poetessa viaggia in lungo e largo per il mondo. Salotti letterari, salotti di politici anarchici dove incontra e conosce tanti uomini del suo tempo, intellettuali, poeti, scrittori, filosofi.
Legge e scrive. Escono le prime raccolte e sono poesie segnate dal dolore, dall’amore profondo e carnale, dal disagio esistenziale, dalla mancanza struggente delle figlie, da un senso di inadeguatezza verso il mondo, di estenuante stanchezza e solitudine come Teresa avesse cento anni. Ne ha meno di trenta. La reclusione e quel terribile tradimento da parte del marito che l’ha voluta castrare e punire, quel marito che ha sposato a soli diciassette anni, contro il volere dei genitori, l’hanno marchiata in maniera incontrovertibile.
E’ rotta già segnata. Cova in segreto un male di vivere che la porterà a non reggere più un ulteriore atroce distacco dalle figlie che riabbraccerà a Parigi dopo cinque anni. Trova pace ma per poco. Quando le figlie con il nonno paterno vanno via da Parigi, Teresa sprofonda in uno stato depressivo senza via d’uscita. Tra droghe sempre più pesanti, alcol e sofferenza, si spegne nella notte di natale del 1821, sola per overdose. Vola leggera la sua anima resa pesante dalla condanna, dal giudizio, dalla colpa. Una donna e poetessa che avrebbe dovuto scegliere tra l’amore che incontrerà oltre il matrimonio, per un uomo che lei chiamerà Anuarì, suicida anche lui, poiché crederà di non essere corrisposto e la vita di una donna “per bene”. Sposata, devota e fedele, esclusivamente madre, senza alcuna velleità letteraria e poetica.
Senza amici, senza salotti, senza viaggi, senza lettere d’amore scritte per chi ama senza resa, senza versi che in maniera prolifica fa gemmare dal suo corpo che fragile non è, nonostante le violenze. Teresa resiste infatti a tutto. Alla non comprensione dei suoi genitori aristocratici, al non amore del marito, all’amore profondo segnato dalla morte per Anuarì, alla reclusione forzata. Teresa resiste a tutto ma non a quella amputazione di utero.
Non a quel rapimento brutale delle figlie. Non al tradimento più bieco, subdolo e sadicamente fonte di compiacimento per chi giurava di amarla. Resiste e sopporta tutto, fuorché essere defraudata delle sue figlie. L’hanno colpita non solo nella sua femminilità sacra e inviolabile, nella sua capacità di procreare e generare vita; l’hanno violentata nel peggiore dei modi. Le hanno impedito di essere madre perché una donna di pensiero, una donna intellettuale, una donna che amava e viveva di poesia.
D’impeto mi viene in mente la mia poetessa, Alda Merini. Anche a lei proprio il marito Ettore Carniti ha inflitto il manicomio e l’ha brutalmente sottratta all’amore delle sue quattro figlie. Dieci anni di orrore. Teresa cinque. Ma il dolore dell’anima non segue il corso cronologico. Dieci anni non fanno più male di cinque. E’ il gesto vile di sopraffazione e violenza che strazia prima le viscere, poi l’anima, poi il corpo. Sopravvivere è impresa per poche. Alda ce la fa. Teresa no.
Eppure entrambe si aggrappano all’amore e alla poesia. Entrambe cantano il dolore per sublimarlo, per renderlo materia magmatica ma sopportabile. Vi sono decenni importanti di distanza tra le due poetesse. Poco importa. Hanno vissuto traumi feroci simili. E hanno lasciato versi che non si scordano. Mi affiorano quelli di Alda Merini: “E va bene anche così, aggrappata al muro con te che prendi la mira con una pistola caricata a tradimenti. Forse mi vuoi sparita o forse non mi vuoi più, ma io sono quell’amore che ha reso immortale i tuoi occhi e solitudine infelice questi piccoli giorni della mia vita.”Adesso tornano ad eco i versi autobiografici di Teresa: “Sono Teresa Wilms Montt e anche se sono nata cento anni prima di te, la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua.
Anche io ho avuto il privilegio d’essere donna. E’ difficile essere donne in questo mondo. Tu lo sai meglio di tutti. Ho vissuto intensamente ogni respiro e ogni istante della mia vita. Ho distillato una donna. Hanno cercato di reprimermi ma non ci sono riusciti con me. Quando mi hanno voltato le spalle, io ci ho messo la faccia. Quando mi hanno lasciato sola, ho dato compagnia. Quando hanno voluto uccidermi, ho dato vita. Quando hanno voluto rinchiudermi, ho cercato la libertà. Quando mi amavano senza amore, ho dato ancora più amore.
Quando hanno cercato di zittirmi, ho urlato. Quando mi hanno picchiato, ho risposto. Sono stata crocefissa, morta e sepolta, dalla mia famiglia e la società. Sono nata cento anni prima di te comunque ti vedo uguale a me. Sono Teresa Wilms Montt e non sono adatta alle signorine.” Niente altro da aggiungere. Aveva ragione Teresa, alla luce di una violenza che dura e si perpetra immutabile sulle donne da secoli, senza alcun reale cambiamento. “Le leggi dello Stato, non sono quelle del cuore”, mi sovviene Antigone.
L’uomo non impara. Ripete lo stesso copione. Il percorso verso la parità di genere è tutto roba da scrivere per addetti ai lavori: psicologi, psicoterapeuti, criminologi, forze dell’ordine, magistrati, giudici, avvocati e sì, anche intellettuali, giornalisti, scrittori, poeti e docenti. Ma siamo nel 2023 e di donne uccise, violentate, calpestate, usate, ridotte a cose inerti, annullate, defraudate della loro dignità, femminilità, maternità, ce ne sono tante, troppe. Ogni giorno è la conta della vergogna disumana.
Resta un numero antiviolenza: 1522. Resta la voce straziante di un coro di poetesse e scrittrici che come Teresa hanno avuto il coraggio di dire no e di scriverlo senza reticenze. In quel “non sono adatta alle signorine” non crediate che faccia allusione alle donne ancora in giovane età. Io da donna e scrittrice vedo ahimè, una sferzata feroce contro quegli uomini che si illudono di essere padroni della vita delle donne in quanto “signorine”.
Fragili, vulnerabili, non idonee a scrivere la storia, non all’altezza di esprimere il proprio libero pensiero. Ma le signorine, signori uomini, siete voi, paradossalmente, quando vivendo in questa patologica illusione di dominare e possedere le donne, non fate altro che perpetrare la vostra fragilità emotiva, la vostra abissale insicurezza, la vostra ferocia narcisistica. Teresa muore nel 1821. Ne moriranno ancora chissà quante ma “l’armonia vince di millesecoli il silenzio”.
La Poesia resta e resiste. Un grazie al mio amato Foscolo va elargito. Anche se non hanno potuto cambiare il destino delle donne, mi auguro che qualche sussulto interiore lo provochino ancora oggi, Teresa Montt, Alda Merini, Maria Fuxa, Camille Claudel e tutte le altre. Spero che chi legga qualche domanda se la ponga. Qualche fremito lo provi, in nome di tutte le donne che pur subendo la lettera scarlatta della colpa mai commessa e l’onta ingiusta della punizione, il coraggio di sferzare il sistema e di dire no ce lo hanno avuto e continuano ad averlo.
Bia Cusumano
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes. Poetessa, Femminista ed anarchica(Viña del Mar, Cile, 8 settembre 1893 – Parigi, Francia, 24 dicembre 1921) è stata una scrittrice, poeta e anarchica cilena. È considerata un’antesignana del femminismo-anarchico.PARIGI 24 dicembre 1921-La notte di Natale del 1921, a Parigi, muore suicida, per overdose di Véronal, Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes.-Poetessa, femminista e anarchica cilena-Biblioteca DEA SABINA- Le figlie, che non vedeva da 5 anni, avevano appena lasciato la città. Aveva 28 anni, era una nobildonna, intellettuale cilena, che aveva lottato per il riconoscimento dei propri diritti, dopo che il marito (sposato per amore quando aveva 17 anni) l’aveva portata di fronte ad un tribunale con l’accusa di adulterio. I giudici l’avevano fatta rinchiudere in un convento, dal quale lei riuscì a fuggire, con l’aiuto del suo amante. Dovette adottare pseudonimi maschili per pubblicare.
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Poetessa, femminista, anarchica, così è definita oggi. Lei, invece, scrisse questa “Autodefinizione”:
Sono Teresa Wilms Montt
e anche se sono nata cento anni prima di te,
la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua.
Anche io ho avuto il privilegio d’essere donna.
E’ difficile essere donne in questo mondo.
Tu lo sai meglio di tutti.
Ho vissuto intensamente ogni respiro e ogni istante della mia vita.
Ho distillato una donna.
Hanno cercato di reprimermi ma non ci sono riusciti con me.
Quando mi hanno voltato le spalle, io ci ho messo la faccia.
Quando mi hanno lasciato sola, ho dato compagnia
Quando hanno voluto uccidermi, ho dato vita.
Quando hanno voluto rinchiudermi, ho cercato la libertà.
Quando mi amavano senza amore, ho dato ancora più amore.
Quando hanno cercato di zittirmi, ho urlato.
Quando mi hanno picchiato, ho risposto.
Sono stata crocefissa, morta e sepolta,
dalla mia famiglia e la società.
Sono nata cento anni prima di te
comunque ti vedo uguale a me.
Sono Teresa Wilms Montt,
e non sono adatta alle signorine.
“Inquietudini sentimentali”
Con il capo reclino fra le braccia, in affannosa insonnia,
ripeto, come un bimbo, una prece: il tuo nome.
Sì, Anuarì, ho tanta voglia di dormire; provo lo stesso languido
sopore che turbò la tua anima prima che eternamente
si estinguesse il tuo sguardo adorato.
Come in un’orazione, le mie labbra van ripetendo, sillaba
per sillaba, il rosario sgranato del tuo nome, e le mie
mani giacciono protese al nido tiepido dei tuoi capelli
per cercare un rifugio ove morire. Anuarì! Anuarì!
Simili al brulicare di una fonte sgorgano dal mio seno
implorazioni e grida di dolore. Il caos le inghiotte tutte,
prima che possano arrivare a te. (…)
Senza di te la vita è qualcosa di tetro, un ignobile straccio che mi segue.
Da “Poesia”, n.229, luglio/agosto 2008, traduzione di Cristina Sparagana.
Tu, così forte e bello, col tuo viso sereno e la tua fronte
sempre fissa al cielo.
Anuarí, il dolore non uccide, il dolore non reca la pazzia;
ma sprofonda nell’anima come un corpo di piombo in
un sisma infinito. Turbata, ascolto nelle lunghe notti
l’eco della mia voce che ti cerca attendendo nel buio
una risposta. Poi, la nera realtà mi percuote furente.
Forse l’anima tua pure è svanita? No! Ma com’è possibile
che tanta forza, tanto ardore astrale, possa perire
nell’eterno gelo?
(Teresa Wilms Montt, in POESIA 278, gennaio 213, Vite di poeti)
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Stefano Beccastrini:CHI E’ STATA TERESA WILMS MONTT
Nata nel 1893 a Vina del Mar (Cile), Teresa Wilms Montt è stata una delle più grandi scrittrici del Novecento latinoamericano. Fin dall’adolescenza fu innamorata della vita, dell’amore, della poesia e della musica (soprattutto del melodramma italiano: la sua eroina preferita fu la pucciniana Tosca). Ribelle, femminista, impegnata nel movimento anarchico e socialista, viaggiò il mondo (Buenos Aires, New York, Madrid, Londra, Parigi) dopo esser fuggita dal Cile, ove la famiglia di suo marito l’aveva fatta rinchiudere in un convento. Ovunque si recò, attirò su di sé passione e ammirazione, segnando con la sua elegante e fascinosa presenza gli ambienti culturali – sia sudamericani che europei – che andavano aprendosi all’avanguardia letteraria e politica. Le pesò molto la lontananza forzata dalle due amatissime figlie. Le reincontrò fugacemente, dopo molti anni di distacco, a Parigi nel 1920. Fu l’ultima volta: da allora la gran voglia di vivere, di amare, di scrivere di Teresa si spense. Ella si recluse volontariamente in una stanza dell’Hotel Montaigne, ove alfine decise di uccidersi, con una forte dose di Veronal. Morì dopo esser stata inutilmente ricoverata all’Ospedale Laennec: era la vigilia di Natale del 1921.
E’ sepolta nel cimitero parigino di Pére Lachaise. Se capitate a Parigi, andate a trovarla…
La tua canzone si leva con monotona cadenza, o vita,
ed essa esalta il mio desiderio di morte.
Il silenzio estende il suo cristallo opaco dentro l’anima,
ove giace una passione ormai spenta…
Teresa Wilms Montt
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Siete poetas suicidas
Hay una primavera en cada vida – Antología de poetas-suicidas fue propuesta en la asignatura de «Tipologías de la Edición» del máster en Estudios Editoriales (Universidad de Aveiro, Portugal).
Esta no será más una antología de elección de poemas que condensen toda la obra poética de las siete poetas-suicidas presentadas, enseñando trazos psicológicos referentes a perturbaciones y recalcaduras que originarían su trágico final de vida. Por el contrario. La selección poética intentará señalar los temas alusivos a la esperanza, pasión, amor, alegría, felicidad, transformación, sensualidad, fuerza y arrojo. Como el verso de Florbela Espanca elegido para el título supone, se enfocará el lado luminoso, fuerte y fértil de las siete autoras. A pesar de que la expresión poetas-suicidas pueda no coadunarse con la intención basilar de esta antología, su utilización transmite el peso simbólico emanado de la relación umbilical entre la poesía, la muerte y la vida.
Por orden cronológico de nacimiento, las poetas escogidas son: Alfonsina Storni (Argentina), Teresa Wilms Montt (Chile), Florbela Espanca (Portugal), Anne Sexton y Sylvia Plath (Estados Unidos), Alejandra Pizarnik (Argentina) y Ana Cristina Cesar (Brasil).
Sandra Santos
AUTODEFINICIÓN
Soy Teresa Wilms Montt
y aunque nací cien años antes que tú,
mi vida no fue tan distinta a la tuya.
Yo también tuve el privilegio de ser mujer.
Es difícil ser mujer en este mundo.
Tú lo sabes mejor que nadie.
Viví intensamente cada respiro y cada instante de mi vida.
Destilé mujer.
Trataron de reprimirme, pero no pudieron conmigo.
Cuando me dieron la espalda, yo di la cara.
Cuando me dejaron sola, di compañía.
Cuando quisieron matarme, di vida.
Cuando quisieron encerrarme, busqué libertad.
Cuando me amaban sin amor, yo di más amor.
Cuando trataron de callarme, grité.
Cuando me golpearon, contesté.
Fui crucificada, muerta y sepultada,
por mi familia y la sociedad.
Nací cien años antes que tú
sin embargo te veo igual a mí.
Soy Teresa Wilms Montt,
y no soy apta para señoritas.
AUTO-DEFINIÇÃO
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Sou Teresa Wilms Montt
e ainda que tenha nascido cem anos antes de ti,
a minha vida não foi assim tão diferente da tua.
Eu também tive o privilégio de ser mulher.
É difícil ser mulher neste mundo.
Tu sabe-lo melhor que ninguém.
Vivi intensamente cada intervalo e cada instante da minha vida.
Transpirei mulher.
Quiseram reprimir-me, mas não o conseguiram.
Quando me viraram as costas, eu dei a cara.
Quando me deixaram sozinha, fiz companhia.
Quando quiseram matar-me, dei vida.
Quando quiseram fechar-me, procurei liberdade.
Quando me amavam sem amor, eu dei mais amor.
Quando quiseram calar-me, gritei.
Quando me golpearam, contestei.
Fui crucificada, morta e sepultada,
pela minha família e pela sociedade.
Nasci cem anos antes de ti
no entanto sou igual a ti.
Sou Teresa Wilms Montt,
e não sou apta para madames.
ALTA MAR
De tanta angustia que me roe, guardo un silencio que se unifica a la entraña del océano.
En la noche cuando los hombres duermen, mis ojos haciendo tríptico con el farol del palo mayor, velan con el fervor de un lampadario ante la inmensidad del universo.
El austro sopla trayendo a los muertos cuyas sombras húmedas de sal acarician mi cabellera desordenada.
Agonizando vivo y el mar está a mis pies y el firmamento coronando mis sienes.
ALTO MAR
De tanta angustia que me rói, guardo um silêncio que se unifica às entranhas do oceano.
De noite quando os homens dormem, os meus olhos fazendo tríptico com a luz do cajado, velam com o fervor de um candelabro ante a imensidão do universo.
O austro sopra trazendo os mortos cujas sombras húmidas de sal acariciam os meus cabelos desordenados.
Agonizando vivo e o mar está a meus pés e o firmamento coroando as minhas têmporas.
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
BELZEBUTH
Mi alma, celeste columna de humo, se eleva hacia
la bóveda azul.
Levantados en imploración mis brazos, forman la puerta
de alabastro de un templo.
Mis ojos extáticos, fijos en el misterio, son dos lámparas
de zafiro en cuyo fondo arde el amor divino.
Una sombra pasa eclipsando mi oración, es una sombra
de oro empenachado de llamas alocadas.
Sombra hermosa que sonríe oblicua, acariciando los sedosos
bucles de larga cabellera luminosa.
Es una sombra que mira con un mirar de abismo,
en cuyo borde se abren flores rojas de pecado.
Se llama Belzebuth, me lo ha susurrado en la cavidad
de la oreja, produciéndome calor y frío.
Se han helado mis labios.
Mi corazón se ha vuelto rojo de rubí y un ardor de fragua
me quema el pecho.
Belzebuth. Ha pasado Belzebuth, desviando mi oración
azul hacia la negrura aterciopelada de su alma rebelde.
Los pilares de mis brazos se han vuelto humanos, pierden
su forma vertical, extendiéndose con temblores de pasión.
Las lámparas de mis ojos destellan fulgores verdes encendidos
de amor, culpables y queriendo ofrecerse a Dios; siguen
ansiosos la sombra de oro envuelta en el torbellino refulgente
de fuego eterno.
Belzebuth, arcángel del mal, por qué turbar el alma
que se torna a Dios, el alma que había olvidado las fantásticas
bellezas del pecado original.
Belzebuth, mi novio, mi perdición…
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
BELZEBUTH
A minha alma, celeste coluna de fumo, eleva-se até
à abóbada azul.
Levantados, implorando, os meus braços, formam a porta
de alabastro de um templo.
Os meus olhos extáticos, fixos no mistério, são duas lâmpadas
de safira em cujo fundo arde o amor divino.
Uma sombra passa eclipsando a minha oração, é uma sombra
de ouro ornado de chamas impetuosas.
Sombra formosa que sorri oblíqua, acariciando os sedosos
caracóis dos enormes cabelos luminosos.
É uma sombra que observa com um olhar de abismo,
em cuja margem se abrem as flores rubras de pecado.
Chama-se Belzebuth, sussurrou-mo na cavidade
da orelha, produzindo-me calor e frio.
Gelaram-me os lábios.
O meu coração converteu-se rubro de rubi e um ardor de frágua
me queima o peito.
Belzebuth. Passou Belzebuth, desviando a minha oração
azul até à negrura delicada da sua alma rebelde.
Os pilares de meus braços converteram-se humanos, perdem
a sua forma vertical, estendendo-se com tremores de paixão.
As lâmpadas de meus olhos reluzem fulgores verdes acesos
de amor, culpados e devotos a Deus; seguem
ansiosos a sombra de ouro envolta no torvelinho refulgente
de fogo eterno.
Belzebuth, arcanjo do mal, porquê turvar a alma
que se volta para Deus, a alma que havia esquecido as fantásticas
belezas do pecado original.
Belzebuth, o meu noivo, a minha perdição…
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
María Teresa de las Mercedes Wilms Montt, seconda di otto sorelle, era nata nel 1893 a Viña del Mar (Cile) in una famiglia benestante.
María Teresa iniziò preso a ribellarsi ai genitori e a mostrare una certa insofferenza verso la vita borghese.
Fece molto scalpore la scelta di sposarsi, contro la volontà dei suoi genitori, con un funzionario di stato con il quale ebbe due figlie, Elisa e Sylvia Luz. La famiglia visse nella capitale cilena prima e ad Iquique poi, nel nord del paese.
In questa città María Teresa si immerse nella scrittura ed entrò in contatto con influenti artisti dell’epoca che la introdussero agli ideali femministi e anarchici a cui restò fedele per tutta la sua vita. Sempre in questo periodo iniziò a pubblicare alcuni scritti sotto pseudonimo. A causa delle sue amicizie e della relazione con il cugino del marito, venne richiamata a Santiago e fu reclusa in un convento. Disperata per la separazione dalle figlie, cadde in una profonda depressione e tentò il suicidio nel marzo del 1916.
Fu un suo celebre amico, lo scrittore Vincente Huidobro, ad aiutarla a fuggire dal monastero. I due andarono a Buenos Aires, dove iniziò a frequentare i circoli intellettuali femministi e pubblicò degli scritti in cui trattava di temi a lei cari, dalla spiritualità all’erotismo. Dopo qualche mese prese la decisione di trasferirsi a New York per lavorare come infermiera della Croce Rossa, ma la fortuna l’abbandono ancora una volta: venne scambiata per una spia tedesca e le fu impedito di mettere piede sul suolo statunitense.
Sconsolata, venne deportata in Spagna. Anche a Madrid, María Teresa entrò rapidamente in contatto con scrittori e artisti dell’epoca e continuò a scrivere con lo pseudonimo di Teresa de la Cruz. Nel circolo di intellettuali che frequentava c’era Julio Romero de Torres, un pittore di Córdoba che ne fece la sua musa ispiratrice, usandola più volte come soggetto dei suoi lavori.
Dopo un breve incontro con le figlie nel 1920, Teresa continuò la sua ricerca intellettuale e viaggiò spesso a Londra e Parigi, ma non riuscì mai a superare il dolore della separazione. Morì la vigilia di Natale del 1921 in un hotel di Parigi per una overdose di barbiturici.
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes
Maria Teresa Wilms Montt de las Mercedes (Viña del Mar, Cile, 8 settembre 1893 – Parigi, Francia, 24 dicembre 1921) è stata una scrittrice, poeta e anarchica cilena. È considerata un’antesignana del femminismo-anarchico.
Femminista ed anarchica
Tra il 1912 e il 1915 risiede ad Iquique, una città allora in piena espansione. La gelosia del marito e il maschilismo imperante negli ambienti intellettuali la spingono verso una vita errabonda, ma comunque ricca e stimolante. Mantiene una stretta amicizia con artisti e intellettuali influenti, come il poeta Victor Domingo Silva. Pubblica i suoi primi testi con lo pseudonimo di Iquique Tebal o Tebal.
In questa fase incontra donne e sindacalisti del nascente movimento operaio e aderisce agli ideali femministi e anarchici, grazie all’influenza esercitata dalla spagnola femminista Zarraga Betlemme e del lavoro dell’attivista cileno Luis Emilio Recabarren. In questa fase è anche vicina agli ambienti della massoneria.
Tornata a Santiago, il marito scopre la sua relazione extraconiugale con Vicente Zañartu Balmaceda e spinge la sua famiglia per rinchiuderla in convento. Depressa per la situazione, Maria Teresa mette in atto il suo primo tentativo di suicidio il 29 marzo 1916.
Nel mese di giugno del 1916, Vicente Huidobro l’aiuta a fuggire dal convento e con lei ripara a Buenos Aires. Il suo soggiorno in questa città gli permette di incontrare un cosmopolita circolo intellettuale che avrà su di lei una grande influenza.
Nel 1917 pubblica Inquietudes Sentimentales e Los Tres Cantos. Emigrata a New York, vorrebbe lavorare per la Croce Rossa, ma le autorità statunitensi la bloccano ad Ellis Island perché sospettano possa essere una spia tedesca (la sua famiglia è di origine tedesca).
Attività intellettuali a Madrid e Parigi
Si trasferisce in seguito in Spagna, a Madrid, dove vive da bohèmien e incontra numerosi scrittori. Celandosi dietro lo pseudonimo di Teresa Cruz pubblica diverse sue opere: En la Quietud del Mármol e Mi destino es errar.
Nel 1920 si stabilisce a Parigi, dove in seguito viene raggiunta dalle sue figlie che non vedeva da cinque anni. Dopo la loro partenza per il Cile, Maria Teresa cade preda di una forte crisi depressiva.
La notte di Natale del 1921, muore suicida per overdose di Véronal. Aveva soli 28 anni.
Claudia Piermarini-” I SOLDATI DEL POPOLO”-Editore Red Star Press-
Descrizione del libro di Claudia Piermarini -Prefazione di Pasquale Iuso–Quando, alla fine della prima guerra mondiale, i contadini scesero in piazza per protestare contro la mancata distribuzione delle terre e, in città, gli operai occuparono in armi le fabbriche e gli altri luoghi di lavoro, l’intero ordinamento politico italiano venne sconvolto dalla domanda di un nuovo ordine sociale, presto raccolta dall’organizzazione paramilitare degli Arditi del Popolo: l’unico, e spesso insuperabile baluardo contro l’avanzata reazionaria del fascismo.
Claudia Piermarini I SOLDATI DEL POPOLO
E, se i tumulti dei protagonisti del «biennio rosso» vennero soffocati nel sangue, non meno duri furono i provvedimenti emanati contro tutti quei partigiani che, una volta sconfitto il nemico nazista, avrebbero voluto continuare a combattere fino a conseguire l’obiettivo di una nuova patria socialista, finalmente slegata dalla dittatura della proprietà privata e non più assoggettata agli interessi del grande capitale.
Ancora alle soglie degli anni Cinquanta, mentre gruppi come quello milanese della Volante Rossa si impegnavano in atti eclatanti di «giustizia proletaria», l’intero Paese insorse alla notizia dell’attentato organizzato ai danni di Palmiro Togliatti: una scintilla in grado di infiammare la prateria del malcontento popolare costringendo lo stesso Partito comunista a una difficile opera di mediazione per evitare la «fuga in avanti» a cui una moltitudine di italiani era assolutamente disposta.
Avvincente ed esaustivo, I soldati del popolo di Claudia Piermarini racconta la storia eretica degli Arditi, dei partigiani e dei ribelli italiani: uomini e donne ingiustamente dimenticati sebbene, al di fuori da ogni schema e da qualunque direttiva di partito, lottarono e morirono nel nome della giustizia e della libertà.
Volante_Rossa-
La storia della Red Star Press
Quella della cooperativa editoriale Red Star Press è la storia di un piccolo gruppo di lavoratrici e lavoratori che, dopo aver prestato a lungo il proprio braccio e la propria mente all’industria editoriale, prendono la decisione di fare una cosa diversa: creare loro stessi, e senza padroni, una casa editrice in grado di dare il giusto spazio ai temi relativi alla storia e alla memoria del movimento operaio. Correva l’anno 2012 e, nel mese di aprile, vedeva la luce il primo titolo con la stella in copertina.
Si trattava de “Il libretto rosso della Resistenza”, destinato a inaugurare la collana “I libretti rossi”, pensata per offrire in chiave divulgativa i testi dei giganti del pensiero politico rivoluzionario e in modo sintetico quelli che sono stati i grandi momenti di riscossa popolare. Insieme ai “Libretti rossi”, nel giro di pochi mesi arrivano in libreria e negli infoshop di movimento i volumi della collana “Unaltrastoria” e “Tutte le strade”: libri concepiti per durare nel tempo, concentrandosi, rispettivamente, sulla storia delle grandi lotte di liberazione e, in modo meno convenzionale, su generi come il reportage, la biografia, il memoir, il fumetto, la narrativa e la poesia, per tradurre con la carta e con l’inchiostro quelle che sono le aspirazioni di cambiamento provenienti da ogni tempo e da ogni paese. Con gli anni, a questa programmazione, si sono affiancati i contenuti ospitati nelle collane “Le Fionde” (saggistica politica), “Barrio Chino” (urbanistica, geografia sociale e antropologia urbana) e, dedicata ai bambini e alle bambine, la nuova collana “Red Star Kidz”: materiale che, fedeli alla nostra vocazione “stradaiola”, abbiamo avuto l’occasione di diffondere nel corso dei principali appuntamenti dedicati ai libri in giro per l’Italia. costruendo un punto di riferimento orgogliosamente antifascista, antisessista e antirazzista agli ingranaggi collettivi della memoria.
Ci sono altri temi particolarmente cari alla Red Star Press. La musica, la controcultura e lo sport popolare – un campo rispetto al quale, dalla Red Star, nasce l’etichetta Hellnation Libri – e poi l’arte contemporanea e ipercontemporanea, di cui, in modo sistematico, si occupa l’altra etichetta della cooperativa: Bizzarro Books.
Nella sede di viale di Tor Marancia 76, a Roma, in ogni caso, la Red Star Press non si occupa solo di libri. Dalla serigrafia, infatti, escono le t-shirt ispirate alle pubblicazioni e fedeli alla stessa linea editoriale: pensiamo ciò che siamo e stampiamo ciò che pensiamo; e ciò che siamo lo indossiamo! O, convinti che muri puliti possano solo significare popoli muti, lo appendiamo: come accade con le grafiche dedicate ai grandi personaggi della storia popolare.
Questa, in sintesi, è la storia della Red Star Press. E identici sono i motivi che ispirano il suo lavoro. Affinché l’editoria torni a dare spazio ai sogni. In attesa di assaltare il cielo.
Contatti
Red Star Press Viale di Tor Marancia 76 Roma, Italia CAP 00147
Pierluigi Panza- La Scala- Architettura e città- Marsilio Arte-
Il libro La Scala di Pierluigi Panza ci restituisce il fascino e la complessità di un teatro che è uno dei centri culturali più importanti del mondo.
«La maggior parte degli amanti dell’opera rimane sorpresa quando vede il Teatro alla Scala per la prima volta. A prima vista si rimane colpiti dalla sua bellezza formale, dall’equilibrio tra una pretesa di opulenza (i drappeggi, le colonne, la cornice del palcoscenico, il palco centrale, il lampadario) e una certa sobrietà (gli stucchi, l’illuminazione, le parti dorate che non sembrano mai eccessive). Dopo pochi secondi, è impossibile non pensare agli artisti, ai compositori, ai coreografi, ai direttori d’orchestra, ai cantanti e ai ballerini che, sera dopo sera, hanno forgiato la leggenda del Teatro alla Scala». Dominique Meyer, Sovrintendente e Direttore Artistico del Teatro alla Scala.
Nel volume La Scala. Architettura e città, Pierluigi Panza racconta la storia architettonica del Teatro alla Scala, dalla nascita con Giuseppe Piermarini agli scenari attuali con Mario Botta a quelli futuri. Il teatro è sempre stato specchio delle trasformazioni della città, della società, del gusto e le ha, a sua volta, determinate. La pubblicazione, edita da Marsilio Arte, ripercorre la storia dell’edificio dai tempi di Maria Teresa d’Austria a quelli di Napoleone, poi del Regno d’Italia e della Repubblica. Rispetto per la storia e spirito di innovazione sono stati gli elementi dello sviluppo del teatro attraverso trasformazioni strutturali, tecniche ed estetiche che lo hanno mantenuto fedele alla propria identità, pur modernizzandosi e modellandosi ai riti e ai costumi dei tempi.
Nella prefazione, Dominique Meyer sottolinea il perfetto equilibrio tra sobrietà e opulenza, nonché l’efficienza tecnica di un luogo che ha contribuito a rendere Milano un raffinato e prestigioso polo artistico-culturale nel panorama europeo. Meyer instaura un parallelismo tra la società milanese, «più preoccupata del fare che dell’apparire», e la struttura architettonica dell’edificio.
Il volume, introdotto da Mario Botta, si articola in 11 capitoli, che ripercorrono più di tre secoli di storia: costruito nel 1776, il Teatro nasce a seguito di due distruzioni e due rifiuti. La prima distruzione fu accidentale – l’incendio del teatro che sorgeva all’interno di Palazzo Ducale (poi chiamato Palazzo Reale), la seconda fu voluta – la decisione di abbattere la chiesa di Santa Maria alla Scala. I rifiuti furono quelli di Luigi Vanvitelli e Christoph Willibald Gluck, i quali permisero l’arrivo alla corte di Milano, rispettivamente, di Giuseppe Piermarini (1734-1808) e Antonio Salieri (1750-1825).
Il racconto di Panza prende in esame le tappe fondamentali e le vicissitudini del Teatro, passando per l’epoca risorgimentale e romantica, il Novecento sino alla contemporaneità. Particolare attenzione è dedicata all’ultimo ventennio, caratterizzato da continue opere di ammodernamento, restauri e ampliamenti. Durante l’intervento di realizzazione del 2002 e 2004 Mario Botta ha realizzato i due nuovi volumi dell’ellisse e della torre scenica, mentre l’interno è stato oggetto di un restauro conservativo e del rifacimento del palcoscenico. Ora si sta concludendo la seconda fase dei lavori, con gli ammodernamenti che richiede la società globale e con l’apertura della nuova torre su via Verdi, all’interno della quale la Sala prove dell’orchestra è uno scrigno alto quattordici metri, posto a meno diciotto dal livello stradale.
Il volume è arricchito da un cospicuo corredo fotografico e didascalico, indispensabile per comprendere l’evoluzione di un edificio: schizzi, disegni, bozze di progetti, fotografie degli esterni e degli interni, rendering sono alcuni degli strumenti adoperati per rendere la pubblicazione un vero e proprio omaggio a quello che Stendhal definiva «il più bel teatro del mondo».
Pierluigi Panza, autore del volume pubblicato da Marsilio Arte e intitolato “La Scala. Architettura e città”, ripercorre insieme a noi la vicenda della celeberrima istituzione milanese-
Pur avendo alle spalle una storia secolare e alterne fortune, il Teatro alla Scala resta un emblema di Milano. A narrare il suo legame con la città e la sua veste architettonica è Pierluigi Panza, autore del libro targato Marsilio Arte. Gli abbiamo fatto qualche domanda.
Il Teatro alla Scala è da sempre un simbolo e una destinazione della vita culturale di Milano. Come descriverebbe, in poche righe, la storia delle sue trasformazioni?
Le trasformazioni del Teatro alla Scala seguono quelle politico-sociali e, a loro volta, si plasmano e determinano lo sviluppo urbano della città. Milano si riflette nella Scala e la Scala in Milano. L’episodio più evidente di questa relazione è la nascita, a metà Ottocento, di piazza della Scala per dare un adeguato spazio antistante al teatro e per far sì che i due poli del centro laico della città ‒ costituiti dal palazzo del Comune e dal teatro ‒ si affacciassero uno di fronte all’altro. Anche la scelta di ricostruire la Scala come primo edificio pubblico distrutto dai bombardamenti nel 1943 testimonia questo legame.
Il volume pubblicato da Marsilio Arte offre una “rivisitazione storico-morfologica della Scala”, come l’ha definita Mario Botta nell’introduzione. Che cosa l’ha ispirata a compiere questa impresa editoriale e come ha costruito la narrazione che la caratterizza?
Riassumo nella mia figura almeno due caratteristiche necessarie per realizzare questo volume: dal punto di vista accademico sono uno storico dell’architettura e per il Corriere della Sera seguo da trent’anni anche le attività del Teatro alla Scala. Dunque, quando si è avanzata l’opportunità di scrivere una storia della Scala a conclusione dei lavori condotti da Mario Botta, del quale sono anche amico, ero persona indicata e ho svolto il compito. Ho cercato, secondo le mie convinzioni, di scrivere una storia dell’architettura come correlazione e conseguenza della storia culturale e sociale, come credo che l’architettura sia sempre interpretabile e debba essere affrontata. In questo caso ho tenuto particolarmente conto che il testo fosse narrativo e non tecnico: l’architettura va raccontata come fatto culturale non in maniera autoreferenziale.
Quale ruolo gioca il Teatro alla Scala, dal punto di vista architettonico e non solo, nel panorama milanese odierno?
Dopo gli interventi che si sono susseguiti dal 2002, la Scala costituisce una risposta alle necessità di trasformazione richieste dalla società e dallo sviluppo tecnologico orientata al rispetto per la storia della città europea. Il teatro nasce su un’area religiosa sviluppata in età medioevale, conferisce il nuovo volto neoclassico della Milano teresiana, reca le tracce dei cambiamenti politici ottocenteschi che portano alla nascita dello Stato unitario quindi i travagli del “Secolo breve” fino alla postmodernità. Al contrario di altre aree del mondo nelle quali il globalismo finanziario opera, più facilmente, per demolizioni e sostituzioni, qui si tiene tutto. La città europea è un territorio della memoria e anche il teatro ha cercato di essere – non sempre riuscendoci nella sua storia – un palinsesto di stratificazioni successive. Noi parliamo spesso del teatro del Piermarini, ma dopo Giuseppe Piermarini sono stati molti gli architetti che hanno dato forma al teatro e voglio ricordarne, almeno, altri tre: Alessandro Sanquirico, Luigi Lorenzo Secchi e, appunto, Mario Botta.
Come immagina il futuro del Teatro alla Scala?
Il futuro è già partito. La sovrintendenza di Dominique Meyer ha colto le sollecitazioni che, di nuovo, venivano dalla società globale come quella della ecosostenibilità, della inclusività, della trasformazione digitale e della trasmissione in streaming. Nel Terzo millennio l’architettura non si confronta più solo con lo spazio fisico, ma anche con le componenti immateriali. Sarà questa la prospettiva che dovranno seguire anche i nuovi laboratori della Scala che si dovranno costruire nell’ex zona industriale di Rubattino. Questo sarà l’intervento del prossimo futuro che riguarderà il teatro.
Intervista a cura di Arianna Testino
Nota Biografica Pierluigi Panza, scrittore, giornalista e critico d’arte e d’architettura, scrive per il Corriere della Sera e insegna al Politecnico di Milano. Ha all’attivo molte pubblicazioni di storia dell’arte, è membro delle principali accademie italiane e vincitore di numerosi riconoscimenti.
Poesie di Joy Harjo,Poetessa della nazione Mvskoke/Creek-Poesie tradotte da Pina Piccolo
Joy Harjo
Joy Harjoè nata a Tulsa, in Oklahoma nel 1951 e fa parte della nazione Mvskoke/Creek. E’ fra le più importanti voci della poesia contemporanea statunitense e ha ricevuto numerosi premi a livello nazionale. Nel giugno del 2019 ha ricevuto l’incarico di Poet Laureate nazionale degli USA, cioè ambasciatrice per la Poesia. Le poesie tradotte, con l’originale a fronte, sono tratte dall’antologia Not in Our Name: poeti statunitensi contro la guerra, Libro Aperte Edizioni, 2013, per gentile concessione dell’autrice.
Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Joy HarjoPoesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)Poesie di Joy Harjo (trad. Pina Piccolo)
Breve Biografia-Joy Harjoè nata a Tulsa, in Oklahoma nel 1951 e fa parte della nazione Mvskoke/Creek. E’ fra le più importanti voci della poesia contemporanea statunitense e ha ricevuto numerosi premi a livello nazionale. Nel giugno del 2019 ha ricevuto l’incarico di Poet Laureate nazionale degli USA, cioè ambasciatrice per la Poesia. Le sue raccolte di poesia comprendono Conflict Resolution for Holy Beings (W. W. Norton, 2015); How We Became Human: New and Selected Poems (W. W. Norton, 2002); A Map to the Next World: Poems (W. W. Norton, 2000); The Woman Who Fell From the Sky (W. W. Norton, 1994) In Mad Love and War (Wesleyan University Press, 1990); Secrets from the Center of the World(University of Arizona Press, 1989); She Had Some Horses (Thunder’s Mouth Press, 1983); and What Moon Drove Me to This? (Reed Books, 1979). Ha anche scritto un libro di memorie, Crazy Brave (W. W. Norton, 2012), che descrive il suo percorso nel divenire poeta e che nel 2013 ha vinto il premio letterario PEN Center USA per la narrativa creativa nonfiction. E’ anche performer, è apparsa nel canale HBO nella serie Def Poetry Jam e in spazi statunitensi e internazionali. Suona il sassofono con la sua band Poetic Justice e ha lanciato 4 CD di musica originale. nel 2009 ha vinto il Native American Music Award (NAMMY) come migliore artista femminile.
Le poesie tradotte, con l’originale a fronte, sono tratte dall’antologia Not in Our Name: poeti statunitensi contro la guerra, Libro Aperte Edizioni, 2013, per gentile concessione dell’autrice.
Pina Piccolo -traduttrice e scrittrice –
Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com
Beppe Fenoglio- I ventitré giorni della città di Alba-Einaudi editore Torino
Centro Studi Beppe Fenoglio-DESCRIZIONE“Difesero Cascina Miroglio e, dietro di essa, la città di Alba per altre due ore, sotto quel fuoco e quella pioggia. Ogni quarto d’ora l’aiutante si staccava dal telefono e si sporgeva a gridare: – Tenete duro che vi arrivano i rinforzi! – Ma fino alla fine arrivarono solo per telefono. […] Tutti avevano già spallato armi e cassette, ma non si decidevano, vagabondavano per l’aia, al bello scoperto. Pensavano che Alba era perduta, ma che faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quattro o anche più tardi invece che alle due. Sicché il Comandante fu costretto a urlare: – Ritirarsi, ritirarsi o ci circondano tutti! – e arrivava di corsa alle spalle dei più lenti, come fanno le maestre coi bambini delle elementari. Scesero la collina, molti piangendo e molti bestemmiando, scuotendo la testa guardavano la città che laggiù tremava come una creatura.”
In foto il Capitano Fede, Comandante della difesa di Alba nei 23 giorni, insieme a Pinot Gallizio, Teodoro Bubbio, membri del CLN delle Langhe, e i comandanti dei partigiani il primo anniversario della battaglia per Alba libera.«”I ventitre giorni della città di Alba”- sono il primo capitolo di un unico grande libro fenogliano». (Davide Longo). Storie partigiane trattate con piglio disincantato, antiretorico, talora epico-burlesco; storie di Alba e delle Langhe, vicende sanguigne e beffarde, drammi di miserie antiche e di speranze impossibili: con quel suo linguaggio crudo, privo di ostentazione, con quel suo stile asciutto ed esatto, Fenoglio restituisce le prime cronache veramente sincere delle contraddizioni vitali della Resistenza e penetra il «mistero» della spietatezza dei rapporti umani. Con una ‘Presentazione’ di Dante Isella e la cronologia della vita e delle opere.Beppe Fenoglio nacque ad Alba il 1° marzo 1922 e vi trascorse quasi tutta la vita, esclusi i mesi del servizio militare a Roma. L’8 settembre ritorna sulle Langhe, dove combatterà tutta la guerra partigiana, sino alla Liberazione. Si era fatto una profonda cultura letteraria sui poeti e sugli scrittori inglesi, e sulla civiltà anglosassone nel suo complesso, che ammirava come antidoto e rivalsa sulla meschina realtà provinciale del fascismo. Dopo la guerra si impiegò in una ditta vinicola di Alba, per cui tenne la corrispondenza estera. Nell’estate 1962 fu colto dal male inguaribile che lo spense a Torino il 18 febbraio 1963, e che sopportò con stoica fermezza.
Esordí nel 1952 con I ventitre giorni della città di Alba (Einaudi) cui seguí nel 1954 La malora (Einaudi). Nel 1959 apparve il romanzo Primavera di bellezza, diretto riflesso della sua esperienza nell’esercito italiano. Il partigiano Johnny, la grande «cronaca» della guerriglia apparsa postuma da Einaudi nel 1968 ne costituisce il seguito cronologico. Postumi sono apparsi anche il volume di racconti Un giorno di fuoco (che comprende anche il romanzo Una questione privata, Garzanti, 1963) e il romanzo giovanile La paga del sabato (Einaudi, 1969).
Di Beppe Fenoglio Einaudi ha pubblicato: I ventitre giorni della città di Alba, La malora, Il partigiano Johnny, La paga del sabato, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, L’affare dell’anima e altri racconti, Primavera di bellezza, Una questione privata, Un giorno di fuoco, L’imboscata, Appunti partigiani ’44-’45, Diciotto racconti, Quaderno di traduzioni, Lettere 1940-1962, Una crociera agli antipodi, Epigrammi, Tutti i racconti, Teatro, La favola delle due galline e Il libro di Johnny. Nel 2012, negli ET Biblioteca, è uscita la raccolta Tutti i romanzi.
Beppe Fenoglio-
Nota di Noemi Cuffia-Beppe Fenoglio è uno degli scrittori italiani più grandi, liberi, monumentali e innovatori del Novecento. Uno degli autori di più ampio e solido respiro di tutta la nostra letteratura. Fenoglio è lo scrittore schivo, appartato, stroncato in giovane età, a soli quarant’anni, che però ha rivoluzionato il linguaggio, lo spirito, l’epica e il sentire di più generazioni di lettori. Scriveva e pensava in inglese e poi traduceva. Aveva imparato l’italiano sui libri, perché la lingua madre era il piemontese di Alba, dialetto capace di raccontare la guerra, la Resistenza, la giovinezza, il territorio, l’amicizia e l’amore come nessuno. Con dignità, poesia, genio, smarrimento e civiltà.
Fenoglio Nasce ad Alba, in provincia di Cuneo, il 1° marzo 1922. Cresce in una famiglia di lavoratori (il padre è macellaio) e frequenta le scuole. Si iscrive poi alla Facoltà di Lettere di Torino ma nel gennaio 1943 è chiamato alle armi. Nel 1944 si unisce alle prime formazioni partigiane. Pubblicherà solo alcuni suoi lavori di scrittore, poi soccombe alla malattia. Muore il 18 febbraio 1963.
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