Roma Capitale-Villa Borghese- Riapre al pubblico la Loggia dei Vini-
Roma Capitale-A Villa Borghese -Riapre al pubblico la Loggia dei Vini-L’apertura, ad accesso gratuito per tutti, sarà valorizzata dal progetto d’arte contemporanea LAVINIA, a cura di Salvatore Lacagnina, concepito per dialogare con lo spazio della Loggia e con tutte le fasi di rifacimento.
Il progetto, realizzato da Ghella e promosso da Roma Capitale, Assessorato della Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con la collaborazione di Zètema Progetto Cultura, è stato presentato alla presenza dell’assessore alla Cultura di Roma Capitale Miguel Gotor, della direttrice della Direzione Patrimonio artistico delle Ville storiche della Sovrintendenza Capitolina Federica Pirani, del direttore dei Rapporti Istituzionali, Comunicazione e Sostenibilità di Ghella Matteo d’Aloja e del curatore Salvatore Lacagnina.
Il nome LAVINIA è un omaggio a Lavinia Fontana, tra le prime artiste riconosciute nella storia dell’arte, presente nella collezione Borghese dai primi del Seicento. Il progetto prevede l’esposizione, fino al 26 gennaio 2025, delle opere site specific degli artisti Ross Birrell & David Harding, Monika Sosnowska, Enzo Cucchi, Gianni Politi, Piero Golia, Virginia Overton.
La Loggia dei Vini a Villa Borghese, originale ed elegante architettura a pianta ovale impreziosita da decorazioni e affreschi, edificata tra il 1609 e il 1618 per volontà del cardinale Scipione Borghese e utilizzata per riunioni e feste conviviali durante il periodo estivo. La Loggia dei Vini fa parte di un complesso architettonico che comprende anche la sottostante Grotta, destinata alla conservazione dei vini e collegata al Casino Nobile di Villa Borghese attraverso un passaggio sotterraneo. Da tempo chiusa al pubblico, dopo alcuni interventi compiuti nel corso del Novecento, la Loggia torna ora a rivivere al termine del primo dei tre lotti di restauro che ha interessato la volta interna, con le cornici in stucco e l’affresco centrale – realizzato dal pittore Archita Ricci e raffigurante Il Convito degli dei – i pilastri, danneggiati da infiltrazioni d’acqua e le scale d’accesso.
Il restauro, realizzato grazie a una donazione di Ghella, con la cura scientifica della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, è effettuato da R.O.M.A. Consorzio. I prossimi due interventi saranno dedicati alla restituzione degli intonaci dei pilastri interni e della parte esterna dell’edificio, al ripristino dell’emiciclo e della sua pavimentazione in cotto.
Per dare ulteriore valore al progetto di restauro e far dialogare il pubblico con la Loggia, lo spazio sarà animato con opere, performance, letture, laboratori e attività didattiche, orchestrate secondo una narrazione unitaria.
Per questo nasce LAVINIA, un nuovo programma d’arte contemporanea concepito per dialogare con lo spazio della Loggia e con le fasi di restauro. LAVINIA aspira a entrare silenziosamente nella vita quotidiana, si rivolge a chi passeggia nel parco, evitando qualsiasi forma di «auctoritas». Mette in discussione le nozioni di arte pubblica e di tradizione, il rapporto fra arte e architettura, apre al potenziale dello storytelling.
Nella Loggia, suggestivo luogo di ricevimenti, venivano serviti, al fresco della penombra, vini pregiati e prelibati sorbetti; proprio per questo, ogni inaugurazione di LAVINIA sarà associata a un gusto di gelato ideato appositamente per l’occasione. Il primo gusto è “arancia e erba cedrina”.
INFORMAZIONI PER IL PUBBLICO
LAVINIA – LOGGIA DEI VINI A VILLA BORGHESE
Dal 19 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025
Ingresso gratuito
Orari: dal giovedì alla domenica
dalle 9:00 alle 19:00 fino al 26 ottobre 2024
dalle 9:00 alle 17:00 dal 27 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025
È considerata la prima architetta della Cina moderna. Suo marito era il famoso Liang Sicheng, conosciuto come il padre dell’architettura cinese moderna. Insieme hanno lavorato alla riscoperta e al restauro di siti archeologici cinesi, hanno collaborato alla creazione del dipartimento di architettura della Northeastern University di Shenyang nel 1928 e, dopo il 1949, hanno insegnato come docenti alla Università Tsinghua di Pechino. L’artista americana Maya Lin è sua nipote, figlia di Henry Lin, fratello minore di Huiyin.[2][3]
Primi anni
Lin Huiyin nacque ad Hangzhou, nella provincia di Zhejiang, il 10 giugno 1904. Era figlia di Lin Changmin, un importante funzionario del governo Beiyang, e di sua moglie He Xueyuan.[4][5][6]
Nei primi anni 1920 viaggiò con il padre a Londra, dove conobbe il poeta cinese Xu Zhimo, con il quale ebbe una breve relazione, e successivamente negli Stati Uniti. Nel 1924 sia Lin che il suo futuro marito Liang Sicheng, il cui matrimonio insieme era già stato organizzato dalle rispettive famiglie, si iscrissero all’Università della Pennsylvania. Lin avrebbe voluto frequentare la facoltà di architettura come Liang, ma non venne ammessa in quanto considerata non adatto ad una ragazza: infatti per completare i loro progetti talvolta gli studenti dovevano lavorare anche di notte, e per una ragazza era considerato sconveniente farlo senza la presenza di un accompagnatore. Si laureò così nel 1927 alla facoltà di belle arti, riuscendo nel frattempo a seguire alcuni corsi di architettura. In seguitò trascorse un semestre all’Università Yale, studiando scenografia.[3][5][6][7]
Il matrimonio con Liang Sicheng e il ritorno in Cina
Nel 1928 Lin Huiyin e Liang Sicheng si sposarono in Canada, e da quel momento lavorarono sempre insieme. Tornati in Cina quello stesso anno, contribuirono alla creazione del dipartimento di architettura dell’Università Nordorientale di Shenyang, al tempo la seconda scuola di architettura del paese, e Lin progettò una stazione ferroviaria nella città di Jilin.[5][6][8][9]
Nei primi anni 1930 si trasferirono a Pechino e iniziarono a organizzare spedizioni nell’entroterra per studiare e preservare esempi dell’antica architettura cinese. Tra le loro scoperte più notevoli vi fu il tempio di Foguang, che datarono come risalente al tempo della dinastia Tang, inserito nel 2009 tra i siti patrimonio dell’umanità dell’UNESCO come parte del Monte Wutai. Le difficili condizioni degli studi sul campo minarono però la salute di Huiyin, che si ammalò di tubercolosi.[6][10]
Nel 1937, a causa dello scoppio della seconda guerra sino-giapponese, Lin e Liang dovettero interrompere le loro spedizioni e si ritirarono con i due figli in un cottage vicino a Kunming. A partire dal 1949 insegnarono architettura alla Università Tsinghua di Pechino, ma Lin morì a causa della tubercolosi nel 1955.[6][7][11]
L’inverno ha una sua ragione il freddo è come un fiore – un fiore ha il suo profumo, l’inverno un pugno di ricordi. L’ombra di un ramo secco, come un esile fumo azzurro, dipinge una sola pennellata sulla finestra del pomeriggio. Al freddo, la luce del sole diventa pallida e lentamente si inclina. E così bevo il mio tè in silenzio come in attesa che un ospite parli.
1936
Lin Huiyin, la prima architetta della Cina moderna che amava scrivere poesie
Mentre firmava progetti e pianificava Pechino, si dilettava con la letteratura
(da ‘The collected poems of Lin Huiyin‘, 1985)
Lin Huiyin (林徽因, Lín Huīyīn),conosciuta anche come Phyllis Lin o Lin Whei-yin durante il periodo trascorso negli Stati Uniti (Hangzhou, 10 giugno 1904 – Pechino, 1 aprile 1955)
[ Poetessa, scrittrice, architetto e storica dell’architettura cinese, autrice di poesie, saggi, racconti e opere teatrali apprezzati per la loro sottigliezza, bellezza e creatività. ]
Persino Omero celebrava la bellezza eburnea di Penelope, complice la dea Atena la fece più bianca nella carnagione al ritorno di Ulisse.
《Poi la rese più alta e maestosa a vedersi,
più bella l’aveva fatta la dea, più bianca dell’avorio intagliato;
fatto questo la divina tra le Dee se ne andò via.
Nella stanza giunsero le ancelle dalle bianche braccia, facendo rumore: allora il dolce sonno la lasciò; lei si accarezzò le guance con le mani…》
Odissea libro XVIII
Persino Omero celebrava la bellezza eburnea di Penelope, complice la dea Atena la fece più bianca nella carnagione al ritorno di Ulisse.
Questo mito del candore epidermico era il segno di una pelle virginea, nemmeno profanata dal sole, e nella storia ebbe fasi alterne finendo per ribaltare il senso di un candore che sapeva di chiuso e malato come nel caso de “La signora delle camelie” .
Più che una storia di cosmesi è una storia di costume.
Per tutta l’antichità e sino all’ottocento per la classe aristocratica il segno esteriore di ricchezza era la pelle bianca.
Una pelle abbronzata era sintomo di povertà, poiché solo chi svolgeva lavori umili e manuali era in qualche modo costretto a vivere sotto il sole, con l’ovvio risultato di aver una pelle scura. Mentre coloro che erano ricchi potevano permettersi di non lavorare, o di svolgere impegni direttivi comodamente seduti tra le stanze dei palazzi, evitando dunque il contatto con il sole.
Abbiamo testimonianza che già ai tempi dei Romani, le patrizie, ovvero le donne appartenenti alla classe più abbiente, avevano l’abitudine di proteggersi dai raggi del sole per mezzi di ombrellini. Le varie raffigurazioni femminili di epoca medioevale che ci sono pervenute sempre immortalano donne, per lo più di fattezze angeliche, con pelli bianchissime. Ancora nel 1500 Guido Reni dipinge una lotta di classe tra degli amorini abbronzati, che appunto rappresentavano i plebei, e degli amorini pallidi, indicanti la classe abbiente. E così in tutta la storia dell’arte sino alle donne paffute dell’800 per terminare con le donne atletiche di inizio ‘900. Tutte sempre con un unico segno distintivo, la pelle bianca. E va detto che, come accadeva fino a pochi anni fa per la tintarella perfetta, talvolta anche nell’antichità l’avere la pelle bianca si trasformava in una ossessione al punto da giungere ad utilizzare prodotti chimici – spesso nocivi – pur di sbiancare ulteriormente la cute.
Lo spartiacque fu l’anno 1903 quando Niels Ryben Finsen ottenne il premio Nobel per aver scoperto che la fototerapia, ovvero la terapia basata sull’uso della luce, era in grado di curare le malattie infettive, alcune delle quali tra l’altro, come lupus e rachitismo, erano prodotte dalla mancanza di vitamina D che non veniva assorbita dal corpo delle persone proprio per la mancanza di esposizione al sole.
L’avvento della fototerapia abbinato alla rivoluzione industriale, che come già detto portò le classi meno abbienti a spostarsi a lavorare dai campi alle fabbriche perdendo così la loro caratteristica di lavorare sotto il sole e di conseguenza il colorito scuro della pelle, creò le basi per lo sviluppo della cultura dell’abbronzatura. I medici infatti iniziarono a ricettare ai loro pazienti periodi di esposizione al sole per curare o per prevenire malattie.
Tuttavia la tintarella divenne una moda grazie alla stilista francese Coco Chanel che negli anni 20 del diciannovesimo secolo, tornando da un periodo di ferie in Costa Smeralda, per il colorito della sua pelle abbronzata fece tendenza tra le sue clienti, le quali vollero emularla. Ulteriore elemento impulsivo fu l’avvento della televisione a colori nei successivi anni 30 che iniziò a mostrare donne bellissime e rigorosamente abbronzate. Infine fu con la fine della seconda guerra mondiale quando i militari americani tornarono dalla Europa nel paese natio, abbronzati, che la tintarella venne identificata con la lotta per la democrazia, poiché colore caratteristico di coloro che lottarono per essa.
Da allora fu un continuo percorso in ascesa, fino all’eccesso. L’essere abbronzato era lo status che distingueva i ricchi che potevano permettersi ferie in località balneari o di montagna, rilassandosi al sole, a differenza degli operai che lavoravano nel chiuso delle fabbriche rimanendo bianchi.
L’era moderna ha quindi fatto un passo indietro, togliendo dalla carnagione chiara l’etichetta di povertà e giungendo infine probabilmente alla giusta via di mezzo: l’assenza di sole ammala il corpo così come l’eccesso, da qui lo sviluppo di una nuova cultura volta ad educare in merito al corretto modo di prendere il sole rispetto alle caratteristiche genetiche del proprio corpo.
Foto: Louis Jean Lagrenee – Penelope che legge una lettera da Odysseus.
La masseria delle allodole-Film sul genocidio armeno
Dai fratelli Taviani un coraggioso recupero della storia. Il loro genocidio armeno parla di tante altre tragedie
Descrizione del Film sul genocidio armeno -E’ la saga dei due fratelli Avakian, che facendo scelte di vita diverse, preparano due destini tragicamente opposti di vita e di morte, per i loro figli. Il fratello maggiore, Assadour, lascia l’Armenia da ragazzo per andare a studiare medicina a Venezia. Diventa un medico di successo a Padova, si sposa con una nobildonna e ha due figli. Il fratello più tranquillo, Aram, legato alle tradizioni familiari, nella sua farmacia nel villaggio natale in Anatolia, fa conoscere le novità occidentali, ma la sua numerosa famiglia incarna i valori e la cultura del popolo armeno. Dopo molti anni di lontananza, nel 1915 i due fratelli combinano una rimpatriata: Assadour con la famiglia si prepara a tornare in Anatolia con due automobili, carico di doni e di nostalgia. Aram arreda con eleganza la “masseria delle allodole”, la villa in campagna, preparando per tutti loro un’accoglienza memorabile. Ma l’incontro con questi familiari italiani non avverrà mai. Si scoprirà più tardi, infatti, che sono stati coinvolti nell’orrendo genocidio perpetrato sugli armeni dai turchi, alleati dei tedeschi, nel corso della prima guerra mondiale.
Tratto da: liberamente ispirato al romanzo omonimo di Antonia Arslan
Produzione: GRAZIA VOLPI PER AGER 3, RAI CINEMA, EAGLE PICTURES, NIMAR STUDIO (SOFIA), SAGRERA TV, TVE (MADRID), FLACH FILM, FRANCE 2 CINEMA, CANAL+, 27 FILMS PRODUCTION, ARD DEGETO (PARIGI)
Distribuzione: 01 DISTRIBUTION
Data uscita: 2007-03-23
NOTE
PRESENTATO COME EVENTO SPECIALE AL 57MO FESTIVAL DI BERLINO (2007).- FILM REALIZZATO CON IL CONTRIBUTO DI MIBAC.- CANDIDATO AI NASTRI D’ARGENTO 2007 PER: MIGLIOR SCENOGRAFIA E COSTUMI.
CRITICA
“‘La masseria delle allodole’ è molto, molto interessante, ricco di meravigliose immagini, recitato da un cast internazionale (i più bravi sono André Dussolier e Mohamed Bakri). E segnato dall’inconfondibile grandioso stile dei Taviani, inasprito dal senso di rivolta verso la persecuzione degli armeni e verso gli assassinii di massa dei giorni nostri.” (Lietta Tornabuoni, ‘La Stampa’, 14 febbraio 2007)
“Forte, sincero, pietoso: ecco ‘La masseria delle allodole’, l’atteso film dei fratelli Taviani sul genocidio degli armeni. (…) Nessuna pressione esterna e, alla fine, solo il silenzio con cui i giornalisti in sala hanno accompagnato lo sguardo su questo film dall’argomento forte, scenograficamente calligrafico e teatralmente interpretato. Una pellicola dagli alti additivi di fiction e di pathos che, pur articolandosi anche lungo microcosmi familiari allargati e storie d’amore ‘miste’, cerca il rimbalzo per arrivare a rappresentare il capitolo tragico di un intero popolo, senza per questo ideologizzarne la memoria, ma senza nemmeno risparmiare qualche crudezza nella messinscena. (…) E allora niente premeditazioni politiche, solo il tentativo di raccontare una verità documentata storicamente per farla riemergere dalla feritoia-tabù in cui era stata inabissata, abbracciando una prospettiva defilata e sentimentale.” (Lorenzo Buccella, ‘L’Unità’, 14 febbraio 2007)
“‘La masseria delle allodole’ non ha nulla dei film che hanno reso giustamente illustre, anche se spesso contestato, il nome dei Taviani. Inquadrature sempre ravvicinate uso tv; doppiaggio alla meno peggio degli attori non italiani (Tchéky Karyo, Moritz Bleibtreu, Angela Molina, André Dussollier, Paz Vega, Arsine Khanjan) e recitazione enfatica degli altri; provincialismo dei bambini (si sente un ‘subbito’); sfondi di cartapesta; inverosimiglianze. Questi sarebbero pessimi requisiti in ogni circostanza, ma sono micidiali quando si pretende di ricostruire, con tanta disinvoltura, un ‘genocidio’ che i turchi tuttora negano. Comunque, se i prossimi film che si occupano della controversia, avranno la forza drammatica della ‘Masseria delle allodole’, l’onore di Enver Pascià – considerato il promotore delle stragi di armeni – sarà al sicuro. Coproduzione italo-bulgaro- spagnola, ‘La masseria delle allodole’ ha da una parte l’impronta anonima dei film per tutti fatti per non piacere a nessuno; dall’altra – specie nell’inizio arcadico – evoca il ‘Giardino dei Finzi Contini’, che Vittorio De Sica, ormai vecchio, diresse addormentandosi sulla macchina da presa, dopo notti insonni al casinò. Però vinse l’Oscar. Ai fratelli Taviani si può solo fare lo stesso augurio.” (Maurizio Cabona, ‘Il Giornale’, 14 febbraio 2007)
“Forse non bisognerebbe cercare di rinchiudere tragedie così grandi, come il massacro degli Armeni, in un film, in una storia: si rischia sempre di dire troppo o troppo poco, di banalizzare o di schematizzare. Succede anche con ‘La masseria delle allodole’, che i fratelli Taviani hanno tratto dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan. Forse per una scelta di stile che guarda soprattutto a una destinazione televisiva di tipo generalista. E che finisce per evidenziare quella mancanza di originalità e rigore che in passato aveva contraddistinto le letture storiche fatte dai due registi. Adottando per questo film il punto di vista del romanzo, che fa vivere il dramma del genocidio attraverso le peripezie della famiglia Avakian, i Taviani scelgono di ‘spiegare’ per immagini una tragedia epocale, con diverse sfumature di coinvolgimento nelle file turche e contraddittori atteggiamenti in quelle armene, ma finiscono irrimediabilmente per stemperarne la forza emotiva e spettacolare. Solo in una scena la capacità di sintetizzare in un’immagine tanti discorsi torna a farsi ammirare: è quando una madre, che ha partorito un maschio durante la deportazione verso Aleppo, è costretta a chiedere aiuto a un’amica perché le è stato ordinato di uccidere il neonato. Basta quell’inquadratura senza parole per dire l’atrocità del genocidio armeno. Il resto è solo inerte illustrazione.” (Paolo Mereghetti, ‘Corriere della Sera’, 14 febbraio 2007)
“Tutti sappiamo o crediamo di sapere molto della Shoah avendo letto al riguardo migliaia di parole e visto montagne di immagini, fisse o in movimento, autentiche o fittizie. Mentre sul massacro degli armeni ma il discorso vale per molte pagine atroci, anche recenti abbiamo quasi sempre nozioni vaghe. Parole, più che immagini. Dati, più che emozioni. In questo senso il film che i fratelli Taviani hanno tratto dal romanzo omonimo di Antonia Arslan, ‘La masseria delle allodole’, dovrebbe fare finalmente da apripista, per così dire, a una maggior conoscenza del genocidio armeno. Impossibile, dopo averlo visto, dire non sapevamo, non immaginavamo. Nella storia (vera) della famiglia Avakian c’è infatti tutto (o quasi) ciò che occorre sapere. (…) Eppure a questo film sontuosamente ambientato e fotografato manca qualcosa di fondamentale al cinema (un po’ meno in tv, che ci sembra la destinazione più naturale dell’opera). E cioè quel sapore di verità che a volte si condensa in un gesto, una voce, uno sguardo, ma che raramente troviamo in questa grande coproduzione europea interpretata da un cast italo-franco-ispano-tedesco cui si aggiunge la armeno-canadese Arsinée Khanjian, moglie e musa di quell’Egoyan che con ‘Ararat’ raccontò, più che la tragedia degli armeni, la difficoltà del raccontarla.” (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 15 febbraio 2007)
“Purtroppo il film tende a schematizzare la rilettura storico-sentimentale, un po’ sulla scia delle fiction da guardare distrattamente in tv durante la cena domenicale: le tragiche peripezie della famiglia Avakian, corredate dagli svariati atteggiamenti in seno al popolo armeno e dai differenti gradi di coinvolgimento dei turchi «pulitori etnici», riescono solo sporadicamente a centrare l’ambizioso obiettivo artistico. Nonostante l’apprezzabile impegno degli interpreti – tutti dignitosi, con note particolari di merito per Paz Vega, Alessandro Preziosi, Mohammad Bakri, Mariano Rigillo e Christo Jivkov – le sequenze che impongono un segno stilistico forte alla sbrigativa routine (spesso a macchina fissa) degli sfondi e dei dialoghi si contano sulle dita di una mano.” (Valerio Caprara, ‘Il Mattino’, 15 febbraio 2007)
Articolo di Massimo Monteleone-23 marzo, 2007-Come sempre, nel cinema dei fratelli Taviani, il dramma storico-politico-collettivo viene raccontato attraverso le vicende e i destini di alcuni personaggi, dei componenti di una famiglia, di un nucleo ristretto. Perchè la Storia è fatta dalle persone, su cui però troppo spesso si accanisce la disumanità di strategie politico-ideologiche che annullano ogni rispetto etico e umano. La masseria delle allodole, tratto dal romanzo dell’italo-armena Atonia Arslan, non vuole essere – secondo i due registi – un accurato quadro storico. Anche se la denuncia del genocidio armeno nel 1915 da parte del partito dei “Giovani Turchi” è centrale nella narrazione, risulta evidente che i Taviani guardino al massacro del passato come esempio negativo e radice di analoghe intolleranze e tragedie posteriori: dall’Olocausto degli Ebrei ad opera dei nazisti fino alla “pulizia etnica” nell’ex-Jugoslavia e ai conflitti politico-religiosi del presente. La didascalia alla fine del film ricorda che “Il popolo armeno attende ancora giustizia” per ciò che ha subìto durante la Grande Guerra. Il romanzo e il film fanno riemergere questa verità taciuta e rimossa colpevolmente dalla Turchia. Un film necessario, dunque, con pagine dure di forte tensione e macabra crudezza (la strage dei maschi – bambini e adulti – rifugiatisi nella masseria e ancora ignari dell’ordine di sterminarli). Fra gli interpreti del cast multilinguistico si distinguono per intensità Paz Vega, Tcheky Karyo, Arsinee Khanjian, Andrè Dussolier e Mohammad Bakri. L’impegno e la moralità dell’opera sono fuori discussione. Però, trattandosi di una coproduzione europea che coinvolge enti televisivi, i Taviani hanno preferito un registro espressivo realistico che tende alla “fiction” TV. Hanno tralasciato quasi del tutto (ad eccezione dell’iniziale presagio di sangue e di certe inquadrature oniriche) lo stile che li ha resi maestri fra gli anni ’60 e gli ’80: il realismo trasfigurato in Mito, lo straniamento epico-brechtiano, le visioni metaforiche e meta-storiche, l’insolito connubio fra tentazione mélo e pamphlet politico-letterario. In una parola: la poesia. La masseria delle allodole non è Allonsanfan, Kaos o La notte di San Lorenzo. Certo, la tragedia evocata surclassa per importanza le esigenze dell’Arte. Ma i capolavori dei Taviani testimoniano che si può essere poeti drammatici e non solo narratori.
Via Appia. La strada che ci ha insegnato a viaggiare-
Un racconto con le straordinarie fotografie realizzate da Andrea Frazzetta-
Roma- La mostra “Via Appia la strada che ci ha insegnato viaggiare “ è aperta fino al 1° dicembre 2024 al Complesso di Capo di Bove sito al IV miglio dell’Appia antica.La mostra ospita una stanza immersiva che accompagna lo spettatore lungo un percorso unico al mondo, tra passato e presente, in un racconto per immagini di grande potenza, costruito con le straordinarie fotografie realizzate da Andrea Frazzetta nel corso del suo viaggio condotto da Roma fino a Brindisi per National Geographic.
Accompagnati in cuffia dal racconto di Giovanni Carrada (autore RAI per Superquark e Noos, esperto nella divulgazione e comunicazione del patrimonio culturale), guidati dalle voci di Francesco Prando nella versione in italiano ed Edwin Alexander Francis in quella inglese, nella proiezione immersiva su doppio schermo, realizzata con la regia di Raffaella Ottaviani, si viene travolti in un coinvolgente percorso tra archeologia, paesaggio, persone e storie. Il viaggio del fotografo diventa il nostro viaggio nella bellezza e nella storia, attraverso un territorio segnato dall’antico ma anche dalla modernità, in un percorso ricco di stimoli che attraversa quattro regioni, collega il Tirreno all’Adriatico, conduce verso Oriente.
Partendo dal basolato romano, affiancato da sepolcri monumentali e resti delle grandiose ville imperiali, si ha l’impressione di ‘entrare’ nelle fotografie di Andrea Frazzetta e di vivere con lui il viaggio lungo i 540 chilometri che separano Roma da Brindisi, tra i restauratori all’opera nella Villa dei Quintili, gli invitati di un matrimonio nella piazza di Terracina, le vivaci scolaresche che si rincorrono tra le colonne di Minturno. Lungo il tragitto ci si perde tra le gallerie dell’anfiteatro di Capua, nelle immense distese di grano della Campania Felix, tra i campi eolici, gli uliveti, le gravine. Si resta incantati dai colori e dalla luce di Taranto e ci si ritrova a ballare la pizzica a Mesagne, per arrivare infine, carichi di emozione, al porto di Brindisi dominato dall’iconica colonna che oggi segna la fine del nostro viaggio ma che apre lo sguardo alla Grecia e all’Oriente, facendoci d’un tratto comprendere tutta la forza della Regina Viarum.
-Enrico Brignano in scena al Teatro Sistina con “I 7 Re di Roma”
Roma-A trentacinque anni dalla sua storica prima rappresentazione, Enrico Brignano riporta sul palco del Teatro Sistina la leggendaria opera musicale “I 7 Re di Roma”, scritta da Gigi Magni e musicata da Nicola Piovani. Questa attesissima nuova edizione debutterà proprio sul palco del prestigioso Teatro Sistina di Romadall’8 ottobre al 1° dicembre 2024, regalando al pubblico romano un’esperienza unica e coinvolgente.
Enrico Brignano, con la sua ineguagliabile comicità e presenza scenica, interpreterà i sette re di Roma, in un susseguirsi di travestimenti che porteranno il pubblico a rivivere le epoche e le storie della fondazione della Città Eterna. L’adattamento del testo, curato da Manuela D’Angelo, garantisce una fusione perfetta tra il rispetto per l’opera originale e la sensibilità moderna, assicurando uno spettacolo adatto al pubblico contemporaneo.
Sul palco, Brignano sarà affiancato da un cast stellare, tra cui Michele Gammino nel ruolo di Giano, una figura divina e narratore che guiderà il pubblico in questo viaggio tra mito e realtà. Accanto a loro, talenti del calibro di Pasquale Bertucci, Giovanna D’Angi, Ludovica Di Donato, Michele Marra, Simone Mori, Ilaria Nestovito, Andrea Perrozzi, Andrea Pirolli, Emanuela Rei ed Elisabetta Tulli. Quando
Data/e: 8 Ottobre 2024 – 1 Dicembre 2024
Orario: 20:30 – 22:30 (La domenica alle 16.00)
Dal 1998 al 2000 interpreta il ruolo di Giacinto in Un medico in famiglia; la serie TV gli offre una maggiore visibilità e soprattutto un riconoscimento da parte del pubblico che lo segue anche in teatro; del 1999 è il primo spettacolo tutto suo, Io per voi un libro aperto, da Ostia Antica, trasmesso in diretta anche da Mediaset su Canale 5. Nel 2000 gira il suo primo film da regista e protagonista Si fa presto a dire amore, al fianco di Vittoria Belvedere. Inizia l’ascesa nel mondo dello spettacolo grazie alle tournée estive di teatro e cabaret e nel 2001 Carlo Vanzina lo sceglie per il ruolo di Francesco nel film South Kensington, dove recita al fianco di Rupert Everett.
Interrompe la carriera cinematografica per dedicarsi maggiormente alla sua vera passione, il teatro, e così scrive e interpreta diversi spettacoli prima di tornare nuovamente sul grande schermo al fianco di Vincenzo Salemme e Giorgio Panariello con i quali girerà altri film negli anni successivi. Nel 2007 conduce un quiz su Rai 2, dal titolo Pyramid, con Debora Salvalaggio. Dal 2007 al 2011 fa parte del cast dei comici di Zelig. Nel 2008 interpreta una piccola parte nel film Asterix alle Olimpiadi, e insieme a Fiorello e Fabrizio Frizzi, ha partecipato ad un progetto a sfondo benefico per realizzare un centro di supporto ai bambini affetti da gravi patologie e alle loro famiglie.[2]
Inoltre è una seconda volta ospite (e vittima) a Scherzi a parte, condotto questa volta da Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu. Sabato 28 aprile 2012 ha fatto parte della giuria speciale nel talent show Amici di Maria De Filippi. Grazie al successo ottenuto dal suo primo monologo, sarà presente nel programma in tutte le serate successive in veste di comico. Il 19 maggio durante la finale all’Arena di Verona condanna gli assassini dell’attentato alla scuola di Brindisi: “Non siete uomini e non siete nemmeno bestie perché loro queste atrocità non le commettono. Mi auguro che finiate nella caldaia dell’Inferno”.
Il 17 agosto 2013 riceve a Catanzaro il “Riccio d’argento” della 27ª edizione di Fatti di musica per il nuovo spettacolo Il meglio d’Italia. Sempre nel 2013 viene scelto per doppiare il pupazzo di neve parlante Olaf nel film DisneyFrozen – Il regno di ghiaccio. Dal 28 febbraio 2014 conduce per quattro venerdì il programma su Rai 1Il meglio d’Italia.
Dopo aver fatto il giurato a 60 Zecchini e Italia’s Got Talent ed essere stato una presenza costante a Che tempo che fa,[3] nel 2020 su Rai 2 lancia Un’ora sola vi vorrei, one man show che riprende il suo spettacolo teatrale partito nel 2019 e al quale partecipa anche la compagna Flora Canto. Due anni dopo su Prime Video viene pubblicato un suo spettacolo registrato all’Auditorium Parco della Musica di Roma dopo lo stop dovuto alla pandemia COVID-19. Nello stesso periodo torna a teatro con un nuovo show, Ma … diamoci del tu!.[4] Lo spettacolo viene riproposto anche negli anni seguenti e nel 2024 si allarga ai palcoscenici di diverse paesi stranieri (Paesi Bassi, Germania, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Svizzera e Spagna).[5]
Roma-Apertura Straordinaria dei Sotterranei di Fontana di Trevi
Roma-sabato 19 ottobre ore 13.10 “Sotterranei di Fontana di Trevi: Antica Città dell’Acqua del Vicus Caprarius. Apertura Straordinaria” Hotel Trevi, Vicolo del Babuccio 20/21.
In occasione dell’Apertura Straordinaria – luoghi solitamente chiusi al pubblico e visibili eccezionalmente Solo per le nostre visite- visiteremo tre piani di un quartiere ormai nascosto, posto sul lato orientale di Via del Corso: i Sotterranei di Fontana di Trevi. Entreremo in ambienti risalenti al I sec. d.C., osserveremo le tecniche edilizie e i materiali utilizzati, capiremo l’importanza dell’area archeologica in questione. Narrerò le diverse funzioni che il luogo ha avuto nei secoli, la trasformazione da botteghe e complesso abitativo intensivo – a lussuosa domus di cui si conservano i n situ reperti di rivestim enti marmorei parietali e un pavimento musivo in tessere di marmi policromi. Cammineremo sul suolo di ambienti adiacenti al Vicus Caprarius e comprenderemo la vicinanza dell’Acquedotto Vergine. Sosteremo infine nel piano rialzato risalente all’età Medioevale ed ammireremo la struttura dall’alto. Capiremo meglio la storia della magnifica Fontana di Trevi e la stratificazione dei secoli… un percorso unico!
Costo: Euro 18 (ingresso, prenotazione, visita guidata e cuffie)
Riduzioni: Euro 17 – studenti 18/25 anni, insegnanti
Euro 15- ragazzi 14/18 anni
Euro 14- ragazzi under 14 anni, studenti universitari di Archeologia
Appuntamento davanti l’ingresso Hotel Trevi, vicolo del Babuccio 20/21
Prenotazione Obbligatoria entro Venerdi 18 ottobre
Termineremo la visita guidata alle ore 14.30 circa
Non è possibile partecipare alla visita se il cliente manifesta i sintomi del Covid 19 o stato febbrile.
E’ richiesto sempre il pagamento anticipato per evitare contatti personali.
E’ gradita la prenotazione almeno il giorno prima della data scelta.
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«una certa dose di meledicenze, un po’ di veleno, alcuni aneddoti e pettegolezzi… Scrivo del mio tempo» Sergej M. Ejzenstejn
«Ma c’è stata la vita?…Si direbbe ci sia stata. Vissuta in modo acuto, allegro, doloroso, addirittura vivida in alcuni momenti,indubbiamente pittoresca, e tale che non la cambierei con nessun’altra» Sergej M. Ejzenstejn
Il bisogno di scrivere prende forma precocemente in Ejzenstejn, che sin dal 1917-1918 annota in quaderni e su foglietti improvvisati ogni sorta di riflessione: da considerazioni sul teatro a impressioni tratte dalle letture fatte, da divagazioni filosofiche a piccoli aneddoti buffi.
Nel 1946, sulla soglia dei cinquant’anni, mentre si accinge a scrivere le proprie memorie, egli nota come per tutta la vita, nel suo lavoro, si sia occupato «di opere à thèse» dimostrando, spiegando, insegnando. Mentre «qui», dichiara, «voglio girovagare per il mio passato, come amavo fare per antiquari e rigattieri del mercato Aleksandrovskij a Piter, per i bouquinistes dei lungosenna a Parigi, per Amburgo o Marsiglia di notte, per le sale dei musei delle cere».
Ecco allora che in queste pagine letture e stralci di vita vissuta s’intrecciano; Dumas e Hugo, Zola e Balzac si profilano nelle sale borghesi della casa paterna, Maeterlinck e Schopenhauer si stagliano sullo sfondo della guerra civile, le città d’Europa e d’America sono evocate ora attraverso incontri fortuiti con artisti di fama, da Pirandello a Cocteau, da Zweig a Joyce, ora tramite associazioni libere con temi ed eventi storici legati ai luoghi visitati: la polizia americana e francese e le tecniche del romanzo giallo, le millenarie piramidi dello Yucatan e la Chiesa ortodossa medievale, gli esordi teatrali e cinematografici a Riga e Pietrogrado, i ricordi d’infanzia sul Baltico, le prime impressioni della Rivoluzione, il fronte e la guerra civile nella Russia bianca, le emozioni per i successi professionali all’estero e in patria, i viaggi… Così la vita del grande regista «sfreccia nella memoria come un film con dei vuoti, dei pezzi spariti, con scene incollate in modo sconnesso, come un film la cui “idoneità alla distribuzione” sia pari al trentacinque per cento».
Eppure, lo scrittore Ejzensˇtejn non ci ha mai parlato in modo così chiaro. Giacché solo qui, e forse nei primi giovanili appunti «per sé», egli scrive senza altra finalità se non quella, appunto, di «scrivere». Nei suoi intenti c’è dunque l’idea di afferrare, tramite la scrittura, episodi, incontri, attimi,
immagini di quella vita che spesso noi tutti «percorriamo al galoppo, senza guardarci intorno, come un trasbordo dopo l’altro», e dalla quale, «come dal finestrino di un treno, sfrecciano via frammenti d’infanzia, pezzi di gioventù, scampoli di maturità».
È lui stesso, in apertura delle Memorie, ad annotare: «Come vorrei esaurire il capitolo riguardante la mia vita con tre parole! “Visse, meditò, si appassionò”. E che queste pagine possano servire a descrivere ciò di cui ha vissuto, su cui ha meditato e a cui si è appassionato l’autore».
Biografia di Sergey Michajlovic Ejzenstejn (1898-1948), massimo interprete del cinema russo e geniale innovatore della teoria cinematografica, iniziò il suo lavoro creativo come scenografo e regista teatrale (Il messicano, 1920-21; Anche il più saggio sbaglia, 1923; Mosca ascolti?, 1923; Maschere antigas, 1923-24). Il suo primo film è Sciopero (1924). Seguono: La corazzata Potëmkin (1925); Ottobre (1924); Il vecchio e il nuovo (La linea generale) (1926-29); Qué viva Mexico! (1930-31), incompiuto; Il prato di Bezin (1937), incompiuto; Aleksandr Nevskij (1938); Ivan il Terribile (I parte 1944, II parte, nota col titolo La congiura dei Boiardi, 1946). Dal 1928 fu anche insegnante di regia all’Istituto statale di cinematografia. Nel 1940 mise in scena La Valchiria di Wagner al teatro Bol’soj di Mosca. Al lavoro creativo di Ejzenstejn si affianca, fin dall’inizio, una straordinaria produzione di testi teorici nei quali l’indagine sul cinema si svolge, di regola, nel contesto di una penetrante riflessione sull’arte che oggi possiamo considerare senz’altro come uno degli episodi salienti del pensiero estetico moderno.
Il 5 febbraio 2004 all’età di 85 anni ci lasciava Nuto Revelli. Ha saputo scrivere della guerra come pochi in Italia, una guerra vissuta sia da ufficiale dell’esercito che da partigiano. Ha passato il resto della vita a lavorare sulla memoria e a raccogliere le testimonianze di vita di quella che riteneva la sua gente. Questo articolo riflette su una parte della sua eredità.
Sono rimasto sull’uscio per qualche minuto. Entrando mi pareva di disturbare. Anche se in quel piccolo studio con le pareti rivestite di legno, non c’era nessuno.
Non ero mai stato prima nella casa di Nuto Revelli in corso Brunet 1 a Cuneo. Oggi è la sede della fondazione che porta il suo nome. Laddove c’era la camera da letto condivisa con l’amata Anna, sono ora conservati i documenti di una vita che compongono l’archivio in fase di riordino. La stanza del figlio Marco si è invece trasformata in un ufficio. Mentre il salotto non sembra aver mutato destinazione d’uso: gli amici di un tempo lo ricordano come luogo di lunghe chiaccherate.
Se una persona l’hai conosciuta esclusivamente attraverso le parole dei suoi libri, fa un certo effetto essere a un paio di metri dalla sua macchina da scrivere. Per questa ragione tentenno sull’uscio, osservo da lì le foto in bianco e nero, i tanti libri riposti nella libreria sulla destra. Molti dei titoli rimandano al chiodo fisso, probabilmente la ragione principale per cui Nuto Revelli ha dovuto scrivere: la guerra, in tutte le sue forme.
Rimango lì, a quella che ritengo essere la giusta distanza.
Le tante vite di Nuto
Revelli è stato prima un ufficiale dell’esercito italiano, convinto alla guerra da un’educazione in anni di fascismo. Poi partigiano, convinto dalla guerra, quella combattuta, e dalla ritirata nel ghiaccio della Russia. Nella vita in borghese degli anni ‘50 è diventato commerciante di ferro, inizialmente per necessità, dopo come “scusa” per evitare di essere definito intellettuale, storico, scrittore. Ritrosia tutta cuneese da una parte, consapevolezza profonda da un’altra: la sua scrittura – più che vocazione o vezzo – è stato uno strumento, l’unico, con cui provare a estinguere il debito contratto. Una cambiale da onorare, un «pagherò»: «Ricorda – mi dicevo – ricorda tutto di questo immenso massacro contadino, non devi dimenticare niente».
I creditori di Nuto erano i tanti soldati che aveva visto morire al fronte, i partigiani in battaglia con lui nelle valli cuneesi e i loro genitori ad attendere notizie nelle povere case. Per lo più contadini i primi, i secondi e i terzi. Solo così si può capire perché Nuto arrivi a intraprendere, dopo i libri in cui racconta la guerra e la resistenza, il viaggio nel “mondo dei vinti”. Di come, a un certo punto, il suo chiodo fisso sia testimoniare le conseguenze di una guerra inedita, combattuta senza clamore né armi ma così intensa da mettere a rischio un’intera civiltà, un’intera cultura: quella contadina. Il debito contratto si poteva estinguere solo alimentando una memoria negata, solo concedendo voce e assicurando «un nome e un cognome ai testimoni».
Duecentosettanta storie di vita. Sette anni di ricerca. E poi il secondo viaggio, altri anni, il ritornare per sentire le voci al femminile: “l’anello forte” silenzioso ma sempre presente.
E una fortissima sensazione d’urgenza, quella che ricorda Marco Revelli pensando a suo padre negli anni a cavallo tra il decennio sessanta e tutti gli anni settanta. Le sere quasi sempre rintanato nel suo studio ad ascoltare le voci dei suoi testimoni e prendere annotazioni. E poi tutti i fine settimana vederlo prender l’auto armato solo del suo fidato magnetofono: «la scatola che ascolta e scrive tutto». Le valli, le colline e la pianura cuneese battute palmo a palmo per fotografare con parole ciò che per Nuto aveva tutte le caratteristiche di un «genocidio». Laddove non erano riusciti i due conflitti mondiali e la continua emigrazione, erano arrivate la modernizzazione e l’industrializzazione. Un «esodo» che dalle montagne e dalle aree più marginali spingeva le persone verso la città e la fabbrica. Interi territori abbandonati, le case lasciate lì ferme nel tempo come dopo un terremoto.
Era facile nel 1977 quando per i tipi di Einaudi uscì Il mondo dei vinti, ed è facile ora, liquidare Nuto Revelli col ritratto del nostalgico, del cantore dei “bei tempi andati”. È una scorciatoia per evitare il confronto con ciò che ha scritto e le storie che ha portato fuori dall’oblio. Nuto però non era contro l’industria di per sé, non ha mai creduto alla «libertà dei poveri» ma era preoccupato dall’«industria che aveva stravinto», dall’imposizione di una monocultura economica e dall’assenza del limite: «La terra gialla, intristita dai diserbanti, mi appariva come il simbolo dei vinti. Il mio chiodo fisso era che si dovesse salvare un equilibrio tra l’agricoltura e l’industria prima che fosse troppo tardi».
Resistenze, lucciole e masche
Prima erano serviti i fucili e le bombe. Dopo solo un registratore e delle parole da mettere in fila le une alle altre. Una resistenza che continua in altre forme, per certi versi molto più complessa. Il Nuto comandante partigiano a capo di un gruppo di ragazzi nascosti nelle montagne, è diventato il Nuto cercatore che si avvale di una brigata di mediatori: gente in grado di portarlo a conoscere uomini come in esilio nelle proprie valli. Con loro Nuto arrivava in luoghi sperduti a parlare con testimoni autentici ‘dl’aut secul. I mediatori, figure che meriterebbero romanzi, erano conoscitori eccellenti del proprio territorio e della sua gente, garantivano a Nuto il lasciapassare: quella fiducia iniziale senza la quale al forestiero non si confessava alcunché.
Non è eccessivo raccontare questo lavoro di ascolto e di emersione come una diversa forma di resistenza. Ha senso se si crede che la modernizzazione e la civiltà dei consumi siano arrivate su quelle persone con la stessa violenza di un’imposizione e con la conseguenza di un lento annichilimento. Riecheggiano le argomentazioni di Pier Paolo Pasolini e la sua critica a un’ideologia dello sviluppo che definiva, senza mezzi termini, come un «nuovo fascismo». Una tendenza all’omologazione culturale e all’erosione di qualunque residuo di autonomia che, secondo il poeta friulano, nemmeno il fascismo storico o la chiesa erano riusciti a minare.
Il mondo dei vinti di Revelli può essere anche raccontato come un resoconto in presa diretta di questo processo. Però con l’attenzione, e l’attitudine, a evitare astrazioni e il rischio di scivolare nel mito: «Sapevo che la stagione antica delle lucciole e delle cinciallegre era felice soltanto nelle pagine scritte dagli “altri”, dai letterati, dai “colti”».
Anche per questo Nuto predilige le testimonianze dirette con la loro forza di vita raccontata. Nonostante si distanzi dalla nostalgie delle «lucciole» di Pasolini, Nuto trova in realtà nelle baite e nei ciabot il paesaggio umano degli Scritti corsari e delle Lettere luterane. Nelle storie di quei montanari e di quei contadini emerge come il fascismo era passato da quelle parti senza lasciare traccia, di fatto subito nell’indifferenza. La Chiesa era il vero potere storicamente rispettato, anche se un potere esterno, anch’esso accettato più per necessità che per sincera adesione. Prova ne è l’autonoma religiosità e spiritualità di quel mondo popolato di masche, le streghe delle credenze popolari piemontesi.
E poi il dialetto, di cui proprio in quegli anni i giovani hanno iniziato a provare vergogna perché simbolo di arretratezza. Io mi ricordo quando mia nonna si sforzava di parlare con me in italiano: non voleva passare per ignorante. Quella lingua rappresentava invece un codice esclusivo e protetto di una propria rappresentazione delle cose, la garanzia di una biodiversità culturale. Certo era anche una barriera capace di escludere: «chi non parla piemontese è straniero».
Ci ha pensato la «modernizzazione», con il ruolo centrale della televisione, a indebolire, sino quasi alla completa scomparsa, quella cultura millenaria. Ha promosso nuovi, vincenti, modelli antropologici (che poi siamo noi).
La diserzione
Nuto Revelli aveva paura che il «testamento di un popolo» emerso anche con le sue interviste, venisse considerato con il distacco del «documento antropologico» quando invece era, ed è, una «requisitoria urlante e insieme sommessa». Non un materiale buono solo per farci convegni ma un atto di accusa che meritava risposte e nuove consapevolezze. Nuto se la prendeva con chi aveva praticato la «diserzione», con chi stava lasciando quel mondo al suo destino senza fare nulla. Se alle destre e alla Democrazia Cristiana imputava le responsabilità per essere i garanti degli equilibri di quello sviluppo così ineguale e dannoso; dalle forze della sinistra esigeva risposte e linfa nuova perché anche loro «non capivano o fingevano di non capire». Si rendeva conto che anche in quella parte, la sua parte, la forza persuasiva dell’industrializzazione e di quel modello di sviluppo a crescita infinita aveva fatto breccia. I comunisti così come le forze della nuova sinistra dei gruppi extraparlamentari sembravano condividere in quegli anni l’euforia produttivista. È sempre Marco Revelli, all’epoca militante di Lotta Continua, a offrire uno spaccato: «io non capivo l’ostinazione di mio padre, quel dedicare così tanto tempo a un mondo in declino. A me sembrava positivo allora che quelle persone se ne andassero via da quei posti per scendere in fabbrica, da militanti di sinistra poi pensavamo che una volta operai avremmo potuto parlarci mentre diversamente i nostri discorsi non facevano breccia».
In un’intervista a «Nuova Società», Nuto rivolgeva nel settembre del 1977 il suo appello: «Oggi anche un politico di sinistra non sa cosa fare. Ma, se il PCI non risolve certi problemi, in Italia non li risolve nessuno. […] Le parole d’ordine d’allarme non sono state sentite da chi deteneva il potere, ma anche all’interno della sinistra il discorso ha sempre privilegiato l’industria. L’interesse per la discussione sui problemi delle campagne è sempre stato flebile». E in un dialogo su «Ombre Rosse» nel dicembre dello stesso anno spronava: «Un cordone ombelicale la mantiene (la manodopera della Michelin, della Ferrero ndr) collegata alla terra in cui è nata e cresciuta. Se un sindacalista, se il sindacato non conosce questo contesto, tutto quello che sta fuori e prima della fabbrica, parla a questi operai con un linguaggio sconosciuto, e non deve poi stupirsi della sindacalizzazione che non c’è, degli scioperi che non riescono. […] questi operai invece di andare a cercarli davanti alle porte della Michelin, dove escono storditi che cercano d’arrivare a casa prima che sia notte, andateli a trovare in campagna, dove lavorano ancora. Capirete che sono rimasti dei contadini. […] È in campagna che potete parlare della fabbrica».
Parole che ricordano quelle del 2001 di Paolo Rumiz, in La secessione leggera, in cui racconta il fenomeno leghista nel nord Italia: «Le radici non sono affatto una cosa di destra, ma lo diventano eccome quando la sinistra ne ha orrore». E diventa difficile non collegare, non mettere insieme le cose: quanto c’entra a sinistra la subalternità a un modello economico con la fuga dei «naufraghi dello sviluppo» dal proprio popolo?
È tutta qui l’attualità del messaggio di Nuto Revelli, dei suoi appelli urlanti e insieme sommessi alla sinistra perché cambiasse approccio, acquisisse nuove consapevolezze sul modello di sviluppo che stava vincendo. C’era da mettere in discussione un’impostazione, provare a guardare il mondo oltre le lenti dell’operaio della “grande fabbrica”.
Una lezione inascoltata, con il senno di poi, evidente anche nel come a sinistra l’ambientalismo sia arrivato come un oggetto estraneo. Ed è continuata quella difficoltà a parlare a quel mondo che non fosse città, ha pesato su questo una tara della cultura “ufficiale” comunista: l’avversità ai piccoli proprietari terrieri che la vulgata marxista avrebbe voluto veder presto proletarizzati per ingrossare le file del proprio blocco sociale. Negli anni ‘50 una polemica intercorsa tra alcuni intellettuali del PCI e figure come Ernesto De Martino, Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Manlio Rossi Doria e lo stesso Pasolini, testimoniava il perdurare del pregiudizio e del fastidio rispetto ai temi del mondo contadino.
Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, ricorda quell’indifferenza quando era militante della sinistra extraparlamentare: «ricordo una riunione del gruppo del Manifesto in cui Lucio Magri disse: “Cos’ha Petrini che parla sempre di cibo?”. Io parlavo di cibo perché condividevo i ragionamenti di Revelli, avevo visto ciò che scriveva frequentando la gente di una Langa allora ancora povera e il mangiare era il punto d’attacco per parlare con quelle persone».
Un’eredità senza testimoni?
Viene da chiedersi cosa sia rimasto oggi di quell’eredità che quel «testamento di un popolo», rappresentato da Il mondo dei vinti, ha lasciato. Di certo ci sono oggi nuove consapevolezze sui limiti dello sviluppo e sugli squilibri sociali e territoriali. Cresce, seppur troppo lentamente, una coscienza ambientale che impone una revisione delle nostre priorità. Nel senso comune affiora l’idea che un modello economico sempre destinato a crescere sia qualcosa di irrazionale.
D’altra parte il mondo rurale e contadino gode di un rinnovato interesse. Siamo nel bel mezzo di un revival della campagna, dei suoi prodotti e dei suoi protagonisti. Il cibo è al centro della scena.
È la riscossa dei «vinti»?
Chissà cosa penserebbe Nuto di questo cibo diventato spettacolo, di fabbriche contadine e di reality dove ai contadini si cerca moglie. Riderebbe, forse, pensando ai bacialè conosciuti nei suoi giri. Veri e propri mediatori di matrimoni contadini che giravano le cascine con un “campionario” di ragazze con fotografie e indirizzi, che combinavano matrimoni tra i contadini scapoli dell’alta Langa e le ragazze calabresi in cerca di marito, e di nuove vite.
Più che un inedito rispetto per la diversità del mondo contadino, sembra di assistere a un processo di assimilazione. Non proprio il riscatto che immaginava Nuto. Anche se c’è speranza in alcuni giovani che ritornano nelle case abbandonate dei propri nonni, in nuovi stili di vita e in tanti esperimenti che raccontano una diversa possibilità.
C’è da chiedersi infine se quella civiltà contadina abbia preservato o meno alcuni dei suoi caratteri di autonomia culturale su cui era possibile innestare percorsi di sviluppo alternativi. C’è che da chiedersi, insomma, se quel popolo c’è ancora. O se forse «manca».
Un’autonomia e una cultura di cui non bisogna dimenticare anche gli aspetti negativi, gli elementi di arretratezza che nessuno rimpiange. Ma ci sono tratti di quel mestiere di vivere da riscoprire nel nostro mondo zeppo di nevrosi. E servirebbe anche un progetto politico e culturale capace di farsene carico, valorizzando, come in qualche modo chiedeva Nuto, il buono che si scorge in controluce nelle testimonianze dei vinti.
Ci vorrebbe un poco della saggezza inconsapevole dei tanti testimoni di Nuto, come quel montanaro preso ad esempio da Alessandro Galante Garrone in una recensione del luglio 1977. La sua è una domanda, pensata in qualche borgata nascosta nelle nostre Alpi, che oggi ci fa sospirare: «se le fabbriche si fermano a forza di far macchine, che cosa succederà?»
Giacomo Leopardi-la vita raccontata nel film di Mario Martone
Articolo di Alberto Corsani
Per cogliere gli accenti più evocativi del film su Giacomo Leopardi di Mario Martone «Il giovane favoloso», bisognerebbe ascoltare il cd pubblicato nel 1998 da una rivista periodica, che contiene i più celebri «Canti» leopardiani letti da Arnoldo Foà. Il decano degli attori italiani, scomparso lo scorso gennaio, dava una lettura inaspettata di quei testi così celebri e celebrati, fino alla noia proposti agli studenti con il condimento di commenti a volte banalizzanti: una lettura piana, discorsiva, affatto enfatica, perché il contenuto espressivo dei «Canti» è di per sé evocativo, ed essi non richiedono enfasi, anzi richiedono un atteggiamento «amichevole» da parte di chi legge e di chi ascolta.
Ecco, questo era il tono che forse Leopardi ha vanamente inseguito per tutta la sua (breve) vita: il Leopardi interpretato da Elio Germano per il film Martone vive, anzi sopravvive a se stesso, proprio nell’impossibilità di un dialogo disteso e confortevole con chi gli sta attorno e con l’ambiente che lo circonda. Non è, e non può essere, affettivamente coinvolgente il rapporto con un padre immerso nell’astrattezza degli studi, creatore di una biblioteca straordinariamente utile alla formazione dei figli quanto distruttiva della loro infanzia e adolescenza; la madre, così come è descritta, chiunque la vorrebbe dimenticare, anche il vicino di casa, a cui muore la figlia che dalla finestra portava un raggio di luce a Giacomo, e che si sente dire da questa donna tutta fede: è un giorno di gioia quello in cui qualcuno raggiunge Dio.
Ma anche con la natura, che il poeta ha cantato con toni inarrivabili, Giacomo non ha un rapporto accettabile: non solo perché, come emerge dal «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia» e dal «Dialogo della Natura e di un Islandese», essa si presenta ostile nella visione filosofica del recanatese (sulle differenze di visione tra Leopardi e il Manzoni «vicino» a una visione protestante, che considera cioè l’origine del Male più nell’uomo che nella natura, ha molto ben scritto Sergio Givone nel suo libro «Metafisica della peste», Einaudi 2012); nell’invenzione cinematografica di Martone sono gli stessi ambienti, i paesaggi in cui il giovane Giacomo trasmigra ogni volta che riesce ad allontanarsi dalla prigione parentale, a risultargli estranei, pur essendo oggetto dei suoi versi. Qualunque regista di film d’amore o d’avventura si sarebbe premurato di far tagliare il manto «all’inglese», perché facesse da sfondo e non disturbasse lo svolgimento dell’azione. Invece qui i boschi sono disordinati, l’erba è alta, gli sterpi non hanno niente di evocativo, gli intrecci fra i rami si presentano come in effetti sono nella realtà: casuali e privi di senso (fatta salva l’anima biologica della pianta) agli occhi umani. In genere il paesaggio di sfondo precede l’arrivo di Giacomo, che si staglia come una «silhouette», ma sempre estraneo.
Giacomo trovava dentro di sé il senso che mancava alla Natura. Ma dando un senso alla Natura, il giovane poeta perdeva il senso del suo vivere con gli altri. I suoi incontri sono quasi sempre sconfitte: a parte l’impossibilità di avere a che fare con l’altro sesso (l’aspetto non sbagliato ma più scontato del film), anche le presunte amicizie (salvo quella con Antonio Ranieri che, letteralmente, se lo carica sulle spalle come Enea con il padre Anchise, quando Giacomo non riesce a salir le scale) sono tutte strumentalmente concepite dagli interlocutori, sono vacue, accendono nel giovane speranze destinate al nulla. Il circolo fiorentino dei liberali, fra cui spicca uno sprezzante Niccolò Tommaseo, riduce all’ambito politico la considerazione di un poeta mai cresciuto come uomo.
Questa è la condanna di Giacomo: interiormente, fisicamente, sentimentalmente mai compiuto, vede con la mente troppo avanti. E vedere avanti significa anche mettere sul gradino più alto dei concetti quello del dubbio. Ovvio che l’ambiente bigotto di famiglia e di Recanati gli andasse stretto fin dall’adolescenza. Ma ovvio anche che i «progressisti» non potessero accompagnare la sua ansia di senso e di infinito, destinata a non mai risolversi. Non cambia la situazione essere a Firenze o a Roma o a Napoli. Il destino di questo giovane uomo troppo geniale è di saper contemplare e saper interpretare la realtà, senza credere in Dio e ponendo dei grandi limiti alla ragione umana. Così egli diventò un moderno, un uomo che si scopre non adeguato (Kafka arriverà solo un secolo dopo …), che trova un senso universale in uno sguardo dentro di sé, provvisoriamente collocato al di là di una brutta siepe su un colle anonimo come tanti altri. Ma sempre senza lasciarsi coinvolgere dalla realtà stessa: fosse andata diversamente saremmo stati privati di un eccelso poeta e pensatore, e Giacomo sarebbe stato più felice.
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