Franco Leggeri-Castelnuovo di Farfa “l’Acchiesola” e il paradosso dell’algebra astratta-
-Brano da “Murales Castelnuovesi” di Franco Leggeri-
Franco Leggeri-Castelnuovo di Farfa – Brano da Murales Castelnuovesi -“l’Acchiesola” e il paradosso dell’algebra astratta-Muoversi nelle intuizioni e immergersi nei problemi irrisolti . Era questa l’equazione che sia i bambini e sia i giovani castelnuovesi degli anni ’50 dovevano risolvere in assenza dei media : radio, televisione , giornali e cinema.I media che dovevano essere vitamina e “stimolatori” della fantasia e creatività per le giovani menti castelnuovesi non esistevano ancora per tutti, sino al giorno in cui fu aperta la “scatola magica” della “piccola-grande “ sala cinematografica “su nell’Acchiesola”, ora Aula consigliare .Questa sala fu una prima miniera della fantasia , in Bianco e Nero, per le giovani menti castelnuovesi. Fu il cinema, per la sua capacità di “parlare” ad ogni pubblico : dal proletario, la maggioranza di noi castelnuovesi, sino a quello “aristocratico” .Proprio per il suo linguaggio, il cinema è un luogo comune nel senso di condiviso. Il cinema è allo stesso tempo un formidabile mezzo per la trasmissione, sia di mentalità che di ideologie, sia che si presenti nella forma di documentario e sia come finzione. Con il cinema, molti di noi giovani scoprimmo la grande città e l’esotismo di luoghi lontani. Scoprimmo le melodie delle colonne sonore, la sottolineatura e il clima da suspense che solo la musica e il gioco delle luci sanno evidenziare. Il vento prese “voce” e scoprimmo il canto dei fiumi e del mare. Ho nella memoria una presenza reale dell’attesa per l‘inizio del film, poi il silenzio e le immagini “enormi” proiettate sullo schermo che ci raccontavano una storia . Devo dire che ero affascinato! Ricordo, per esempio ,la “fantasiosa e furbesca” storia di un assalto alla diligenza e gli spari delle “colt”. E così che provai a risolvere l’equazione del paradosso dell’algebra astratta. La fantasia veniva , man mano, trovando i passaggi giusti nelle semplificazioni, tra realtà, finzione ed emozione, sino al coinvolgimento e all’identificazione nei personaggi del film . Fu allora che scoprimmo il Far West ( poi imparammo che il West era l’Ovest delle grandi praterie) e fu così che riuscimmo, in questa “Grande-minuscola sala”, a provare l’emozione di essere partecipi di una avventura sino a scoprire che , alla fine, “arrivava sempre il settimo cavalleria” e tutto aveva un lieto fine.
P.S.“Su nell’Acchiesola” noi “monelli de Castellu” quelli della generazione del dopoguerra abbiamo votato per la prima volta, perché “l’Acchiesola” era adibita, sin dall’800 , a sede di seggio elettorale. E’ qui che per molti Castelnuovesi ebbe inizio la speranza del “biennio rosso” del 1919 -1921 ,con il voto al Partito Socialista Italiano di Filippo Turati . In questa sala fu pronunciato, per la prima volta a Castelnuovo, il voto alla Lista “Falce, Martello e Libro”. Di queste elezioni del 1919 ne ho raccolto e trascritto la testimonianza diretta così come mi è stata raccontata dal nostro compaesano Fiore Tancioni che , assieme ad altri compaesani da me intervistati, ne fu testimone . Ma questa è una storia che tratto in un capitolo del libro “Castenuovo, la riva sinistra del Farfa”.
Un’immagine, una fotografia, alcune parole ci aprono a ricordi che pensavamo di aver dimenticato… Antonio Vivaldi –Qui è una lapide appesa ad una chiesa (si chiama della Pietà ed è ben visibile dalla Riva degli Schiavoni a due passi da Piazza San Marco) a ricordarmi chi in questo luogo passò gran parte della sua vita a suonare il violino e a dirigere i concerti che lui stesso componeva. Di lui oggi si sa quasi tutto anche se un oblio prolungato durato 200 anni ne aveva fatto scomparire la memoria. Forse avrete già intuito a chi alludo: lui è Antonio Vivaldi, uno dei più grandi compositori del suo tempo… (Venezia 1678-Vienna 1741).
Ma non starò certo a raccontarvi la sua storia che, pur interessante, immagino già conoscerete, anche se certe parti della sua vita, forse, sono rimaste ancora nell’ombra. Quello che cercherò di fare sarà un breve viaggio nella Venezia della sua decadenza, alla ricerca del suo stile, tra quello spazio che va dalla fine del 1600 ai primi decenni del 1700, tempo in cui Vivaldi visse e dove seppe esprimere tutto il suo genio.
Sembrerà curioso sapere che, nonostante la città non fosse più la stessa dei secoli precedenti (in quanto a ricchezza e potenza bellica) e faccia fatica a fronteggiare le calamità verificatesi più volte (la più gravosa fu l’epidemia di peste che il secolo prima aveva decimato la sua popolazione) si aprono nuovi teatri, dove la gente si precipita: per divertirsi, o per dimenticare. Emergono figure di scrittori divenuti poi in seguito famosi: Carlo Goldoni, i fratelli Gozzi, Giacinto Gallina…
Ma quanto accade in città non è ancora, per Vivaldi, motivo di interesse. Iniziò qui la sua storia quando, uscito dal seminario, ha già 25 anni, ma soprattutto è un sacerdote. Sembra però che la vita ecclesiastica non sia stata quella adatta a lui. Il pretesto, o la causa, che lo allontana dai suoi obblighi sacerdotali è una malattia di cui soffriva fin da ragazzino e diagnosticata allora come « strettezza de petto » (un’asma bronchiale). Per il giovane Antonio la dispensa dal dire messa fu una vera fortuna che gli consentì di dedicarsi esclusivamente alla musica, unica ragione della sua vita. Ma al periodo passato in seminario Vivaldi sarà sempre grato: gli consentì di studiare e approfondire la conoscenza della musica, imparando a suonare il violino e a perfezionare una tecnica virtuosistica, da molti definita insuperabile.Ma, in cuor suo, Vivaldi si sente attratto dalla composizione. Scrive musica, anzitutto quella strumentale, che sottopone al padre (suona il violino nella Cappella Marciana, l’unica istituzione musicale della città), ma non trova estimatori. Il suo sogno di dirigere un giorno la Cappella Marciana si infrange quasi subito. Gli unici che si accorgono di lui sono i membri del direttivo dell’Oratorio della Pietà, luogo di carità istituito già nel lontano 1300. Lì verrà accolto nell’organico degli insegnanti come « maestro de violin » e compensato con 40 ducati annui, aumentati poi a 100 per l’incarico aggiuntivo di maestro concertatore.
Questa assunzione presso l’oratorio sarà la sua fortuna. Tra l’impenetrabile silenzio delle sue mura, lavorerà per decenni portando avanti la sua non dichiarata “rivoluzione musicale”, dando vita a tutto il suo estro creativo, mettendo la sua musica su un piano che allora, ma anche oggi, sorprese tutti per le evidenti novità che introdusse. Dagli studi fatti al seminario Vivaldi si era accorto di come tutto ciò che aveva appreso appartenesse ad un’epoca ormai spenta. Le dinamiche espressive dei concerti che ascoltava risentivano della lentezza con cui venivano eseguiti. Certi strumenti, come il clavicembalo, non potevano esprimere più nessuna nuova potenza sonora, ragione che lo spinse, progressivamente, ad escluderlo dagli strumenti della sua orchestra a favore degli archi e dei fiati di cui intravvedeva nuovi e più importanti sviluppi. Nelle sue partiture emergono nuovi simboli dove si riconoscono ben tredici graduazioni che stabiliscono le intensità dei “piani” e dei “forti”. Nel solo tempo “allegro”, 18 sono le variazioni sonore a riprova che tutto era stato da lui vagliato e migliorato.
Dentro all’Oratorio spetta a lui scegliere tra le allieve le più meritevoli (non sorprenda questo fatto ma l’istituto raccoglieva solo ragazze, abbandonate in tenera età). Per disciplina interna sono tenute al rispetto e all’obbedienza e lui non chiede di più: l’impostazione musicale ottenuta porterà nel giro di qualche anno le sue allieve al massimo grado di perfezione, superando, per capacità, l’orchestra ed il coro della stessa Cappella Marciana. A Vivaldi molti guarderanno con rinnovato interesse. Dall’estero gli giungeranno richieste per poter partecipare alle sue lezioni, domande che non sempre furono concesse.
Dal libro di Walter Kolneder Vivaldi (edit. Rusconi), a proposito della sua musica, leggo : «… le prime opere di questo genere dovettero apparire al pubblico come rivelazioni di una nuova umanità, l’ampiezza degli sviluppi dovette produrre un effetto tale da mozzare il respiro».
Che cosa aveva di così travolgente la musica di Vivaldi su chi l’ascoltava? Anzitutto quella gran massa di suoni eseguiti a ritmi elevati per quei tempi (ma ci sorprendono anche oggi!), poi le variazioni tonali, l’uso degli archi così sorprendente, frutto di una tecnica eccelsa in possesso delle sue allieve, e le novità messe in atto dallo stesso Vivaldi che aggiungeva difficoltà crescenti allo svolgimento dei suoi concerti. Sorpresero tutti le “martellate”, così definite allora, quelle specie di frustate buttate addosso alle corde degli archi, con gesti eseguiti soprattutto dalle violiniste, che le impegnarono anche fisicamente, in una fatica nuova ma esaltante. Tutto, alla fine, produceva un effetto estraniante, che stordiva piacevolmente chi ascoltava.
Nel corso degli anni successivi, Vivaldi comincerà a comporre anche per le corti europee più importanti. La sua musica aveva raggiunto le vette più alte guadagnata in anni di silenzioso lavoro. Il re di Francia Luigi XV per il compleanno del figlio Delfino chiese a Vivaldi una cantata. “La Senna festeggiante”, così si chiama, fu composta ed eseguita nel 1726, tra la compiaciuta contentezza dei convenuti.
Ma ad impreziosire i suoi rapporti di quegli anni va ricordata l’amicizia e stima di J. S. Bach il quale intuì, e fu forse l’unico, l’enorme portata del rinnovamento messo in campo dal “prete rosso”; lo apprezzò così tanto che trascrisse alcune sue sonate portandole alla sola voce del clavicembalo (Bach era innamorato di questo strumento scrivendo per lui decine e decine di pezzi). Si sa della loro corrispondenza e di come Bach studiasse gli spartiti di Vivaldi. Tracce dell’influenza vivaldiana si possono trovare nei Concerti Brandeburghesi.
Di Vivaldi esiste un unico disegno fatto da Pier Leone Ghezzi nel 1723 quando giunse a Roma. Aveva allora 45 anni. Dal profilo si nota la grande massa dei suoi capelli (erano rossi e arricciati), gli cadono sulle spalle. L’ampia fronte fa scendere lo sguardo sul naso aquilino, poi sulle labbra, forse sottili. Più volte ho cercato di immaginarlo Vivaldi. Alto circa un metro e settanta, dentro al suo lungo abito nero, col breviario stretto sotto al braccio, la mente che inseguiva le sue musiche, il suo passo veloce per tornare all’Oratorio e metterle nel foglio pentagrammato. Di lui Charles De Brosse disse che era più veloce a scrivere un concerto di quanto non facesse un copista a ricopiarlo…
Tralascio ciò che fece Vivaldi nei decenni successivi dove si dedicò quasi esclusivamente alla musica profana, scrivendo più di 90 fra opere e cantate. Potrà sorprendere questo cambio di indirizzo, ma Vivaldi aveva capito che le nuove tendenze che circolavano in città volevano altro. La musica sacra, che gli aveva dato la notorietà, non era più richiesta come prima. In questa sua nuova veste Vivaldi si dedicherà anima e corpo in un lavoro che sembrava non aver mai fine. La grande produzione del “prete rosso” ammonta a più di 750 composizioni, ma ciò non deve sorprendere perché ogni compositore dell’epoca aveva come requisito necessario, quello di saper scrivere musica con continuità. Allora, nelle chiese e nelle sale da concerto, non era previsto che una stessa musica fosse suonata due volte.
Vivaldi avverte che il suo tempo sta per scadere. A Venezia altri sono i compositori le cui musiche trovano maggiori consensi. Si fanno largo Benedetto Marcello, Tommaso Albinoni e per Vivaldi gli spazi si vanno restringendo. Molti non approvano che un prete, come continuava ad essere lui, dovesse vestire anche i panni dell’impresario e uomo d’affari. (Per gli accordi presi con il Teatro di S. Angelo e per garantire i contratti con le maestranze con cui era venuto a collaborare, Vivaldi si prese cura di tutta la gestione). Ma erano troppe le voci contrarie per poter respingere i pregiudizi più velenosi.
Vivaldi lasciò per sempre Venezia accogliendo l’invito di Carlo VI d’Asburgo che lo volle alla sua corte a Vienna. Era il 1728. Nella capitale asburgica rimase fino al 1741, anno della sua morte, un anno dopo la morte del sovrano Carlo VI che lasciò il nostro Vivaldi in condizioni economiche precarie. Fu sepolto nel cimitero dell’ospedale in una fossa comune. Le note del suo funerale , trascritte nel registro parrocchiale così dicono: «Si è constatata la morte del molto reverendo Sig. Antonio Vivaldi prete secolare età 60 anni, avvenuta per infiammazione interna, nella casa Satler presso la porta di Carinzia.» Si concluse così la vita di uno dei più grandi musicisti del 700.
Ed il suo stile? Vi chiederete. Già… Sta tutto nei fogli pentagrammati, negli ascolti ripetuti che ce lo rivelano puntualmente. Se confrontati con altre composizioni dell’epoca, si potrà intuire quasi subito nei duetti fra l’assolo del violino e l’orchestra, fra soprano e contralto, fra flauto dolce e orchestra.
Per quanti volessero farsi un’idea più precisa della musica di Vivaldi potrei suggerire l’ascolto di alcuni brani che, a mio avviso, sono tra i più significativi della sua arte.
Tra le Quattro Stagioni scelgo L’Estate (LINK). Poi passo ai Concerti di Dresda, allo Stabat Mater (Philippe Jaroussky LINK), al Concerto Grosso in fa minore, il Concerto per flauto dolce e orchestra RV 443, la Cantata Juditha Triumphans. Aggiungo, e lo consiglio vivamente, il bellissimo documentario girato dalla BBC che ha per titolo Gloria at Pietà. All’ascolto del celeberrimo brano, si aggiungono le immagini, e la ricostruzione fedele delle atmosfere dei concerti vivaldiani all’interno della chiesa della Pietà.
Massimo Rosin nato a Venezia nel 1957. Appassionato di cinema, musica, letteratura, cucina, sport (nuoto in particolare). Vive e lavora nella Serenissima.
La volpe e il sipario. Poesie d’amore di Alda MERINI-
Dal libro di Alda Merini,”La volpe e il sipario”, uscito nel 1997 in edizione non venale e poi nel 2004 da Rizzoli, rappresenta uno dei momenti più alti dell’opera di un’artista amatissima. È una raccolta compatta e unitaria della maturità di Alda Merini, una collezione di versi nei quali si aggira una volpe esile e feroce, capace di squarciare il sipario della quotidianità. “La volpe e il sipario” è, prima di ogni altra cosa, nuda poesia d’amore: ogni sua parola afferma sull’angoscia, sulla sofferenza, sulla follia – la forza dirompente dell’esserci e dell’amare. C’è un’energia, in queste pagine, che merita di raggiungere un ampio pubblico di lettori; e un’infinita capacità dì stupirci con una scandalosa dichiarazione di felicità: la felicità impossibile dì essere poeta.
Alda Merini-Biografia-Poetessa, nata a Milano il 21 marzo1931 e morta ivi il 1° novembre 2009. È considerata una delle più importanti voci liriche del Novecento italiano ed è stata candidata al premio Nobel per la letteratura nel 1996 dall’Académie française e nel 2001 dal Pen Club italiano.
Esordì nel 1950 sull’Antologia della poesia italiana 1909-1949 dietro suggerimento del curatore Giacinto Spagnoletti. La prima raccolta di versi, La presenza di Orfeo, venne pubblicata nel 1953. Il grande favore di pubblico e critica ottenuto dall’opera spinse l’editore Scheiwiller a ripubblicare il testo nel 1993 insieme alle successive raccolte Paura di Dio (1955), Nozze romane (1955) e Tu sei Pietro (1961). Nel 1958 Salvatore Quasimodo, al quale M. era legata da un rapporto di amicizia, pubblicò alcune liriche della poetessa nel volume Poesia italiana del dopoguerra (1958). Al centro della sua poetica, evidente fin dagli esordi e costante nella produzione successiva, vi è l’espressione del proprio vissuto, quell’esperienza di vita che traspare nei frammenti di una dolorosa autobiografia. I versi, tuttavia, non si riducono a un mero solipsismo autoreferenziale, ma si fanno portavoce di una sofferenza che diventa sentire collettivo. I riferimenti personali, tradotti in una brutale e cruda esternazione dei sentimenti, si intensificarono nella produzione successiva al lungo periodo di internamento manicomiale iniziato nel 1965 e proseguito fino al 1972, con riprese nel 1973 e nel 1978. Il tragico ricovero fu alla base di un silenzio durato circa vent’anni e interrottosi con la pubblicazione di Destinati a morire. Poesie vecchie e nuove (1980). Nel 1979 avviò la stesura di alcuni tra i suoi componimenti più intensi pubblicati nella raccolta La Terra Santa (1984), riedita qualche mese dopo con il titolo La Terra Santa e altre poesie, opera che le valse il premio Cittadella nel 1985 e il premio Librex-Guggenheim ‘Eugenio Montale’ nel 1993. Questa raccolta segna il passaggio verso una poetica potente e violenta, esito della devastante esperienza manicomiale, qui paragonata al viaggio del popolo eletto verso la Terra Santa: l’espressione lirica diventa veicolo per una rappresentazione della realtà trasfigurata dal male della follia.
La dolorosa testimonianza degli anni trascorsi in manicomio fu riportata in L’altra verità. Diario di una diversa (1986), primo testo in prosa di Merini. Seguirono numerose altre pubblicazioni come Fogli bianchi (1987), Testamento (1988), Vuoto d’amore (1991) e Ballate non pagate (1995). Nel 1996 ottenne il premio Viareggio. Il secolo si chiuse con l’edizione di una nuova antologia poetica, Fiore di poesia – 1951-1997 (1998), curata da Maria Corti ed edita da Einaudi, presso cui venne stampata anche Superba è la notte (2000).
I primi anni Duemila mostrarono uno spostamento dei motivi ispiratori verso tematiche religiose; sotto l’egida di queste nuove suggestioni furono pubblicate: L’anima innamorata (2000) e Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (2001). Da qui in poi la produzione di M. divenne straripante: arrivò a scrivere, tra il 2001 e il 2004, più di trenta raccolte poetiche.
Nel 2005 fu pubblicato Nel cerchio di un pensiero (Teatro per voce sola), che raccoglie 53 poesie dettate al telefono da M. a Marco Campedelli. I componimenti sono lasciati privi dei segni di interpunzione a sottolineare anche graficamente la trasmissione orale dei testi. Il carnevale della croce (2009), raccolta di poesie d’amore e religiose, fu l’ultima opera curata dalla poetessa che, tuttavia, non riuscì a vederla stampata.
si dedicò anche alla prosa pubblicando, oltre al già citato testo L’altra verità, Delirio amoroso (1989), Il tormento delle figure (1990), Le parole di Alda Merini (1991) e La vita facile (1996). Intenso fu poi il rapporto con l’universo musicale: nel 1994 iniziò la collaborazione con il cantautore Giovanni Nuti che metterà in musica numerosi versi della scrittrice; nel 1999 M. prese parte con Enrico Ghezzi e Manlio Sgalambro al CD del gruppo rock Bluvertigo Canone inverso, incontro tra musica e poesia. Infine nel 2004 Milva pubblicò l’album Milva canta Merini.
Bibliografia: G. Spagnoletti, Alda Merini: da La presenza di Orfeo a La Terra Santa, in Poesia italiana contemporanea, Milano 2003, pp. 634-44; A. Cortellessa, Alda Merini, la felicità mentale, in Id., La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Roma 2006, pp. 158-63; G. Ferroni, prefazione a Come polvere al vento, Lecce 2009, pp. 5-11; G. Ravasi, Lettere imprecise spedite all’amato, «L’Osservatore romano», 2-3 novembre 2009, p. 5; P. Di Stefano, A.M., la poetessa dei Navigli che cantò i poveri, l’amore e l’inferno, «Corriere della sera», 2 novembre 2009; G. Manganelli, prefazione a L’altra verità: diario di una diversa, Milano 2010.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Il “Berlinguer rivoluzionario” che vogliamo ricordare
-articolo di Alba Vastano-Enrico Berlinguer-La storia del segretario del Pci e i temi cardine della politica berlingueriana nel libro di Guido Liguori. L’uomo e il politico che ha contribuito alla costruzione del Partito Comunista Italiano negli anni Settanta e Ottanta. Da funzionario togliattiano alla segreteria di Luigi Longo.
La storia del segretario del Pci Enrico Berlinguer e i temi cardine della politica berlingueriana nel libro di Guido Liguori. L’uomo e il politico che ha contribuito alla costruzione del Partito Comunista Italiano negli anni Settanta e Ottanta. Da funzionario togliattiano alla segreteria di Luigi Longo. Il compromesso storico e la questione morale. La politica internazionale. L’invito rivolto ai giovani, ma soprattutto la svolta finale a Sinistra.
Come non ricordarlo nel trentennale della sua scomparsa. Come non ricordarlo sempre. Come non ripercorrere oggi con la memoria quegli anni della nostra gioventù in cui c’era lui. Ripercorrerli per avere delle risposte a quel che é stato l’uomo e il politico, a quel che è stato il Partito Comunista Italiano. E il feedback della sua storia, della storia del partito di quel periodo è sicuramente positivo e vincente.“Un uomo introverso e malinconico, di immacolata onestà e sempre alle prese con una coscienza esigente”, lo ricordò così Indro Montanelli, in occasione dei suoi funerali nel 1984. Gli anni Settanta del Novecento sono stati per la storia del comunismo italiano gli anni di Berlinguer, anni che hanno segnato la storia della nostra “bella gioventù”. Berlinguer ci faceva sognare un’Italia migliore “..un’Italia che non era famosa solo per il cibo e per il vino, ma anche per la ricerca di un’originale coniugazione di democrazia e socialismo che suscitava interesse e rispetto in tutto il mondo”.
Così descrive quel periodo felice, Guido Liguori nella premessa del suo ultimo saggio “Berlinguer rivoluzionario”, edito da Carocci. E ci voleva questo saggio. Ci voleva per pensare, per ricordare e per riflettere sul senso che davamo alla politica, su cosa significava un tempo essere comunisti. L’appartenenza a un partito in cui non c’erano altre forze che quella dell’unità e della lotta di classe, soprattutto non c’erano tante sinistre, né divisioni in correnti. Non c’era altro che la lotta di classe per contrastare il capitalismo e per conquistare l’egemonia in un paese già allora dilaniato dalla corruzione. Di quel comunismo, di quel modo di fare le nostre lotte, Berlinguer ne era il protagonista. Un politico in “totus”. Soprattutto un uomo di grande integrità morale e intellettuale che ha saputo coinvolgere le masse popolari. Vi era un tempo quindi, il tempo di Berlinguer, in cui la politica era una cosa seria e priva di interessi personali, un tempo in cui le idee erano gli ideali, i nostri ideali da sventolare con orgoglio e con convinzione. E, riferendosi alla possibilità reale di fare una buona politica, scrive Liguori “ ..chi si sacrifica per essa e a essa dedica la vita, è un uomo da rispettare, come fu rispettato universalmente, quel comunista forte e timido insieme che fu Enrico Berlinguer”.
Già dalla copertina del libro curiosità e attrazione per i contenuti sono inevitabili. Perché l’uomo del compromesso storico e del sostegno ai governi di solidarietà nazionale viene definito un rivoluzionario? In realtà l’autore, nel suo libro avanza molte riserve sul compromesso storico, pur riconoscendo le motivazioni che spinsero tutto il Pci a proporlo alla Dc. È soprattutto nel secondo Berlinguer, quello dei primi anni Ottanta che riconosciamo il politico “rivoluzionario”, citato così dall’autore. Non solo l’uomo della ‘questione morale”, ma il fautore dei grandi movimenti dell’epoca, come sono stati il movimento femminista e quello pacifista, ma anche quello ecologista, oltre a quello operaio. Questa è stata la migliore politica di sinistra di Berlinguer, quella più viva e vivace, quella che più è rimasta nel cuore del Pci.
Fra una presentazione e l’altra della sua ultima opera letteraria su Berlinguer, Guido Liguori, docente universitario dell’Universita’ della Calabria, scrittore e saggista di molti testi gramsciani, si è fermato a parlarne, il 15 novembre, anche alla “BiblioGramsci”, la biblioteca popolare del circolo Prc di Valmelaina-Tufello, “nata” il quattro ottobre scorso. Intervistato da Valerio Strinati, presidente dell’Università popolare “Antonio Gramsci”, ha risposto con un’accurata analisi sui punti cardine della politica berlingueriana. «Partire dalle questioni internazionali per delineare la figura di Berlinguer è giusto e necessario. Berlinguer ha sempre avuto una vocazione per la politica internazionale, perché negli anni Cinquanta il giovane segretario faceva parte della Fgci e per un paio d’anni fu il principale esponente del movimento che comprendeva tutti i giovani comunisti a livello mondiale. Tant’è che fa la spola tra Budapest (sede dell’organizzazione) e l’Italia. Ha modo quindi di conoscere, fin da giovane, il mondo sovietico e il mondo del comunismo internazionale e di avere rapporti con i compagni dell’Unione sovietica». Liguori poi prosegue sulla scelta di Longo di affidare la direzione del partito a Berlinguer: «All’indomani dei fatti di Praga, Berlinguer scavalca il candidato numero uno, Giorgio Napolitano, e viene scelto come futuro segretario del Pci, proprio per la sua esperienza internazionale. Napolitano non aveva, né la frequentazione, né la capacità che aveva Berlinguer di dialogare con i sovietici e di non cedere alle loro pressioni». «Ovviamente questo è un processo contradditorio», continua l’autore. «Il fatto di rivendicare l’autonomia dei comunisti italiani e poi sempre più negli anni di marcare l’importanza della visione del partito comunista italiano, fa sì che la divisione con l’Unione Sovietica cominci ad essere una divisione di fondo sull’idea di socialismo da costruire nella democrazia». Liguori ricorda al proposito il famoso “Memoriale di Yalta” che Togliatti scrive pochi giorni prima di morire, da consegnare ai sovietici, in cui ribadiva la possibilità di raggiungere il socialismo attraverso vie diverse dal modello dell’Urss.
Il saggio di Liguori è davvero un tuffo in quel ventennio di storia vissuta con passione, una storia che non va dimenticata. Si potrà riattualizzare il pensiero del segretario del Partito Comunista Italiano in questa “povera” Italia e in una possibile (?) altra Europa? E nella ricorrenza del trentennale della sua morte, strumentalizzata da alcune correnti politiche che hanno paragonato il compromesso storico alle larghe intese, come ricordare onestamente Berlinguer? «Non è detto che bisogna fermarsi a Berlinguer e alle sue idee, ma sicuramente esse non vanno rimosse o mal interpretate. Bisognerebbe rileggere tutto ciò che lui ha scritto per renderci conto che le sue sono idee ancora importanti e valide che hanno ancor oggi molto da insegnarci», pensa l’autore.
E un invito ai giovani dall’autore (nella premessa del libro). “Mi piacerebbe che anche i più giovani, le ragazze e i ragazzi di oggi, imparassero a capire chi è stato e che cosa ha pensato Berlinguer. Vorrei che innanzitutto loro fossero i destinatari di questo libro”.
Autore dell’Articolo Alba Vastano “La maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il Re. Non si rende conto che in realtà è il re che è il Re, perché essi sono sudditi” (Karl Marx)-
Rainer Maria Rilke, nome completo René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke (Praga, 4 dicembre 1875 – Montreux, 29 dicembre 1926), è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema.
È considerato uno dei più importanti poeti di lingua tedesca del XX secolo. Autore di opere sia in prosa che in poesia, è famoso soprattutto per le Elegie duinesi (iniziate durante un soggiorno a Duino), i Sonetti a Orfeo e I quaderni di Malte Laurids Brigge.
Poesia di Rainer Maria Rilke
La nascita di Gesú –
Se tu non fossi stata, in tua fattura, solo umiltà, — come poteva, o Donna, accader l’ineffabile prodigio, che illumina la Notte all’improvviso? L’Iddio che era in corruccio con le genti, s’è conciliato…. E viene al mondo in te.
Forse piú grande lo sognavi, Madre? Che vuol dire grandezza? Ogni oltre limite ed ogni oltre misura della terra, ch’Egli sovrasta e annulla, il suo destino va diritto nel mondo, ora, per vie finanche ignote ai trànsiti degli astri.
Guarda! Sono grandi questi Re. Travolsero innanzi al tempio del tuo Grembo santo i piú ricchi tesori della terra…. E tu forse stupisci, umile, ai doni. Ma guarda! Fra le pieghe dello scialle, il tuo Pargolo, già, tutto trascende. L’ambra che va lontano sui navigli, l’oro contesto in fulgidi gioielli, l’incenso che si esala e che c’inebria, passano, Donna. E lascian solamente amarezza d’inutili rimpianti….
Ma il Bimbo che ti splende, ora, nel grembo (domani lo saprai!) conduce e dona la Gioia che non passa e che si eterna.
Rainer Maria Rilke
(Traduzione di Vincenzo Errante)
da “La vita di Maria, 1912”, in “Rainer Maria Rilke, Liriche scelte e tradotte da Vincenzo Errante”, Sansoni, 1941
∗∗∗
Geburt Christi
Hättest du der Einfalt nicht, wie sollte dir geschehn, was jetzt die Nacht erhellt? Sieh, der Gott, der über Völkern grollte, macht sich mild und kommt in dir zur Welt.
Hast du dir ihn größer vorgestellt?
Was ist Größe? Quer durch alle Maße, die er durchstreicht, geht sein grades Los. Selbst ein Stern hat keine solche Straße. Siehst du, diese Könige sind groß,
und sie schleppen dir vor deinen Schoß
Schätze, die sie für die größten halten, und du staunst vielleicht bei dieser Gift —: aber schau in deines Tuches Falten, wie er jetzt schon alles übertrifft.
Aller Amber, den man weit verschifft, jeder Goldschmuck und das Luftgewürze, das sich trübend in die Sinne streut: alles dieses war von rascher Kürze, und am Ende hat man es bereut.
Aber (du wirst sehen): Er erfreut.
Rainer Maria Rilke
da “Das Marien-Leben”, Leipzig: Insel Verlag, 1912
Dipinto allegato è Opera dell’Artista Hans Bachmann-Titolo:”A Christmas Carol In Lucerne” anno 1887 –
Rainer Maria Rilke, nome completo René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke (Praga, 4 dicembre 1875 – Montreux, 29 dicembre 1926), è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema.
È considerato uno dei più importanti poeti di lingua tedesca del XX secolo. Autore di opere sia in prosa che in poesia, è famoso soprattutto per le Elegie duinesi (iniziate durante un soggiorno a Duino), i Sonetti a Orfeo e I quaderni di Malte Laurids Brigge.
Rilke viene oggi riconosciuto come il maggior poeta tedesco dell’età moderna, come uno dei più grandi interpreti lirici della spiritualità moderna, ma la sua opera si ricollega più che altro al secolo precedente, ai simbolisti francesi (di cui tradusse anche diverse opere) e al clima decadente di fine Ottocento/inizio Novecento.
I temi di fondo delle opere di Rilke sono la religiosità, profondamente influenzata dall’ambiente cattolico della sua famiglia, ma che si modifica nelle opere seguenti ai viaggi in Russia in cui era venuto a contatto con l’anziano Tolstoj, cioè in Storie del buon Dio e nel Libro delle ore (in tedesco: Das Stundenbuch, 1899-1903).
Qui il Dio di Rilke appare panteistico e presente in tutte le cose, e la sua religiosità sembra più di tipo lirico-simbolico. Accanto a ciò l’altro grande elemento dell’uomo senza casa, presente anche in Franz Kafka, un uomo privo quindi delle certezze basilari sulla sua vita e che soffre profondamente per questa sua condizione.
A partire dal Libro delle immagini (Das Buch der Bilder, 1902 seconda edizione del 1906) la sua poesia prende una via nuova, sulla quale si sente l’influenza delle altre arti, pittura e scultura con le quali era venuto a contatto soprattutto nel suo soggiorno parigino; il poeta non vuole più parlare ma cerca una soggettività facendo parlare le cose, gli uomini, gli animali, ottenendo i suoi esiti più alti nelle Poesie Nuove (Neue Gedichte, 1907).
In seguito la produzione di Rilke sarà sempre più simbolica-profetica e filosofica, di non facile comprensione. Di particolare interesse per la sua poetica è il concetto di «spazio interno del mondo», quel «Weltinnenraum» che Rilke vede estendersi attraverso tutti gli esseri.
Nina G. Jablonski,NELLA PELLE DELL’ALTRO, Saggio edito da Bollati Boringhieri.
Articolo di Esperance H. Ripanti
Nina G.Jablonski arriva in Italia con un saggio illuminante che aiuta a riflettere su un tema dibattuto ma mai affrontato così a fondo: la pelle. Tra preistoria, vitamina D e pregiudizi.
Quanta importanza ha avuto il colore della pelle negli anni? Quante descrizioni? Quali ruoli? Quante discussioni? Quale valore profondo e decisivo l’essere umano del passato e del presente gli ha attribuito? L’antropologa Nina Jablonski (Hamburg, NY, 1966) dopo anni di docenza presso la Pennsylvania State University e numerose ricerche sulla pigmentazione della pelle umana ha scritto un testo chiaro ed esaustivo sull’argomento. Colore vivo (Bollati Boringhieri, 2020) è stata una gradevole novità sugli scaffali della divulgazione scientifica e sociologica. Un trattato, una guida per incamminarci – privi di preconcetti e diffidenza – nel lungo e complesso cammino all’interno della pelle umana.
Un lavoro accademico che da anni si incrocia con la battaglia di sensibilizzazione verso tematiche fondamentali per il mondo occidentale attuale: la diversità e il razzismo. Con Colore vivo l’antropologa statunitense studia e narra nel dettaglio la storia dell’evoluzione della pigmentazione cutanea. Lo fa attraverso la storia; partendo dalla preistoria studiata sui libri da tutti e seguendo con un filo immaginario, ma sempre preciso e chiaro, le migrazioni e le modifiche delle diverse popolazioni in base ai territori scelti, all’esposizione solare e alle abitudini quotidiane. Un viaggio cronologicamente affascinante ed educativo. La possibilità di riguardarsi indietro e comprendere o riscoprire nozioni non solo biologiche o storiche ma anche sociali, umane.
Come il colore della pelle condiziona tutt’ora la società e i comportamenti tra le diverse popolazioni? Quanto influisce nei rapporti, nelle relazioni e nella quotidianità sempre più “mescolata”? Jablonski riesce a rispondere a queste domande con rigore accademico ma senza mai dimenticare l’idea di divulgazione. Immagini, box di approfondimento e curiosità tengono compagnia il lettore per tutta la durata della lettura. E seppur l’impatto visivo risente leggermente delle immagini in bianco e nero, la scrittura del testo è costantemente efficace e immediata. Si passa dall’aspetto biologico al piano storico con naturalezza, senza mai tralasciare gli aspetti comportamentali e scientifici legati proprio alla questione “colore della pelle” che negli anni sono sfociati poi in vere e proprie discriminazioni razziali.
Un testo accessibile, una lettura che arricchisce e non si dimentica di aiutare il lettore italiano ad entrare in punti di vista lontani e differenti; ragionamenti che da occidentale e in maggioranza portatore di pelle bianca, caucasica non è portato a fare. Nei capitoli “Aspirare al bianco” e “Desiderare il nero” è illuminante l’esercizio che la scrittura e le nozioni riportate dall’antropologa permettono di fare a chi è profondamente convinto di non aver alcun tipo di pregiudizio razziale o di essere vissuto in un ambiente privo da esso. Jablonski con Colore vivo riesce a far entrare il lettore curioso nella pelle dell’altro e ad aumentare la consapevolezza dell’involucro che ci protegge e ospita in tutte le nostre diversità e bellezze.
Colore vivo, Nina G. Jablonski, Bollati Boringhieri, 2020, 352 p., 25 euro
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Nina G. Jablonski è docente di Antropologia presso la Pennsylvania State University. Tra i primi membri eletti della Fletcher Foundation, «per i suoi sforzi tesi a migliorare la comprensione pubblica del significato del colore della pelle», è stata anche onorata della Guggenheim Fellowship. Le sue ricerche sulla pigmentazione della pelle umana hanno stabilito la relazione di equilibrio evolutivo tra il colore della pelle, la produzione di vitamina D e l’intensità dei raggi ultravioletti in ogni luogo specifico del pianeta. I suoi studi paleontologici, inoltre, hanno portato al primo ritrovamento di fossili di scimpanzé. Oltre alla sua ampia produzione scientifica specialistica, ha pubblicato Skin. A Natural History (2006). Colore vivo è il suo primo libro tradotto in italiano.
ROMA Municipio XI-Ponte Galeria-La Necropoli della Piana del Sole-via Castel Malnome
Fotoreportage di Franco Leggeri
– foto del 3 giugno 2017-
ROMA- Municipio XI(ex-XV) Ponte Galeria-foto e articolo pubblicato il 3 giugno 2017-Piana del Sole-Fregene-Percorrendo la congiungente Via della Muratella, che da Ponte Galeria costeggia la Piana del Sole in direzione Fregene, all’altezza di Via di Castel Malnome, su di un’area di circa 3000 metri quadrati, è possibile vedere gli scavi archeologici che hanno portato alla luce 300 tombe di una Necropoli romana risalente al II secolo d.C. Grazie all’intervento della Guardia di Finanza, e precisamente al II Gruppo operativo al comando del Tenente Colonnello Pirluigi Sozzo, è stato possibile recuperare monete d’oro, boccali, olette in ceramica,degli orecchini d’oro, lucerne e una collana e altri elementi di corredo delle tombe che erano state depredate dai tombaroli. Bisogna evidenziare che la Guardia di Finanza ha scarsissime risorse a disposizione per questo tipo di attività, ma nonostante ciò riesce a conseguire sempre ottimi risultati nella salvaguardia del nostro immenso Patrimonio Archeologico. La Dott.ssa Laura Cianfruglia, responsabile archeologico del XI (ex-XV)Municipio, ha dichiarato che:” Grazie a questo ritrovamento è oggi possibile, in parte, arricchire il quadro delle nostre conoscenze e precisamente l’aspetto che questo tratto di campagna doveva avere in età romana. Con l’età imperiale e la realizzazione poco più a nord del Porto di Claudio e, successivamente, il porto di Traiano, tutta l’area venne investita da un processo di profonda trasformazione, funzionale alla nuova vocazione dell’area.”
Il Sopraintendente Dott. Angelo Bottini ha precisato che: “La quantità dei materiali ritrovati non è molto rilevante , ma grandi sono le possibilità di approfondire la ricerca storica”.
L’area della Piana del Sole è ricca di siti archeologici che vanno dall’età preistorica, all’età del ferro sino all’epoca etrusca e poi romana.
Nota e Report fotografico di Franco Leggeri pubblicato del 3 giugno 2017-–
Frank Dikötter-La Cina dopo Mao-Nascita di una superpotenza- Marsilio Editori Venezia
DESCRIZIONE
«Per decenni ci hanno raccontato che la Cina ha imboccato la strada che la porterà a diventare addirittura una democrazia compiuta, che le riforme politiche seguiranno quelle economiche». Crescita in declino, esplosione del debito, crisi del mercato immobiliare, per non parlare della politica «zero Covid», raccontano invece un’altra storia.Forte di una conoscenza diretta fondata su decenni di studi e grazie all’accesso a una sterminata mole di documenti provenienti da archivi interni e ai diari segreti di un dissidente per anni a stretto contatto con i vertici del Partito, Frank Dikötter offre un resoconto dettagliato del corso irregolare e talvolta caotico delle strategie economiche e sociali nella Repubblica Popolare. Descrive le brusche svolte da una crescita frenetica al ridimensionamento, dalle riforme dei primi anni ottanta alla feroce repressione, fino alle tante contraddizioni di un paese in cui «l’economia oggi si basa tutta sulla speculazione», con i rischi che questo comporta per il precario equilibrio internazionale. Esaminando il fallimento di scelte come la politica del figlio unico e il ruolo della Cina nel crollo finanziario del 2008, l’autore passa al vaglio le tante manifestazioni di una dittatura sempre più radicata, con appelli alla popolazione a respingere le «idee occidentali» di Stato di diritto e separazione dei poteri, un apparato di sorveglianza tentacolare e il sistema di controllo sui media più sofisticato al mondo. Una sfida non da poco, scrive Dikötter, «attende il Partito comunista: affrontare i problemi strutturali di lunga data, che lui stesso ha creato, senza cedere il monopolio del potere e il controllo dei mezzi di produzione. Somiglia molto a un vicolo cieco».
Nota sull’Autore-Frank Dikötter ha insegnato Storia moderna della Cina presso la School of Oriental and African Studies della University of London e, dal 2006, è professore di Discipline umanistiche all’Università di Hong Kong. Autore di numerosi saggi tradotti in tutto il mondo, i suoi volumi hanno rivoluzionato lo studio della Cina moderna, in particolare la «Trilogia del popolo» in cui documenta l’impatto del comunismo sulla vita della gente. Il primo volume della trilogia ha vinto nel 2011il Samuel Johnson Prize for Non-Fiction, il più prestigioso premio per la saggistica britannica; nel 2014il secondo è stato selezionato per il Premio Orwell e l’ultimo, nel 2017, per il penHessell-Tiltman Prize.
Poesie di Janet Frame- da Parleranno le tempeste. Poesie scelte-
A cura e traduzione di Francesca Benocci ed Eleonora Bello-Gabriele Capelli Editore
Janet Frame (Dunedin 1924–2004) è stata una tra le più importanti scrittrici neozelandesi. Candidata due volte al premio Nobel, l’ultima nel 2003, è soprattutto nota per il film di Jane Campion Un angelo alla mia tavola tratto dalla biografia omonima. Nata in una famiglia indigente, riesce a diplomarsi come insegnante ma è successivamente bollata come non “normale” e non idonea all’insegnamento. Diagnosticata schizofrenica, viene internata per otto anni in manicomio dove è sottoposta a 200 elettro-shock e minacciata di lobotomia. A darle forza e libertà sarà la scrittura e i riconoscimenti che il mondo letterario inizia a tributarle arrivando a essere tradotta in tutto il mondo. Non così per le sue poesie, amatissime ma raramente tradotte. Oltre a Un angelo alla mia tavola, sono stati pubblicati in italiano i romanzi Gridano i gufi, Volti nell’acqua e Verso un’altra estate. Parleranno le tempeste è la prima raccolta di poesia tradotte in italiano.
Provati estate primavera autunno inverno,
datemi il grande freddo per sempre,
ghiaccioli su tetti muri finestre il sogno
marmoreo perpetuo integrale di un mondo e di persone ghiacciati
nella più nera delle notti, così nera da non riuscire a distinguere
il sogno perpetuo integrale marmoreo.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé.
Un tempo
Un tempo la brezza calda della gente
che filtrava sotto la porta chiusa che mi separava da loro
cambiava la fiamma, influenzava
la forma dell’ombra,
mi bruciava ribruciava dove facevo
tavolette di cera nell’oscurità.
Poi oltre la porta era solo silenzio.
Le gazze ladre tappavano il buco della serratura
attraverso cui rassicuranti becchi di luce avevano pizzicato briciole.
Un inverno che non ho mai conosciuto
ha sigillato le crepe con un male chiamato neve.
Cadeva così pura
dal nulla, in fiocchi accecanti.
Oltre la porta era solo silenzio.
Io indugiavo nel mio rituale solitario.
Effetti personali
Un amo dentro a un portafoglio di plastica strappato,
una vite arrugginita, un folletto della Cornovaglia,
del mio primo libro un volantino spiegazzato,
alti il doppio, o morti, nelle foto di famiglia
i bambini, un orologio d’argento con la cassa rotta
“Resistente agli urti” ma non era l’orologio che il piccolo Levìta
aveva, nell’inno, nella sera silenziosa fatta
di oscuri cortili del tempio e luce sbiadita…
anche se mio padre si chiamava Samuel. Che udito debbo avere,
e perché, mi chiedevo un tempo, per sentire il Verbo?
… un chiodo lucido… la lettera di un nuovo amore,
una spilla ossidata appartenuta a mia madre.
Poi, quasi adescasse dall’ultima marea questo ciarpame infranto,
la bella mosca schiuma-onda da pesca, di mio padre il vanto.
Parleranno le tempeste
Parleranno le tempeste; di loro puoi fidarti.
Sulla sabbia il vento e la marea scrivono
bollettini di sconfitta, gusci imperfetti
presso il memoriale liscio d’alberi d’altura,
alghe, uccello lacero, rasoio affilato, corno d’ariete, conchiglia.
Dacci le notizie dicono gli asceti leggendo
e rileggendo dieci miglia di spiaggia; tra gusci vuoti, guarda,
bruciano nella stampa del sale, storie
d’inondazione: come abbandonai casa e famiglia.
Rasoio: come tagliai la gola alla luce del sole.
Corno d’ariete: come caricai danzando alla luce lanosa del sole.
Conchiglia: come la mia vita salpò su un’oscura marea.
Francesca Benocci è nata a Sinalunga, in provincia di Siena, il 17 maggio 1985. Dopo infinite peripezie geografiche e un corso di studi in medicina messo prematuramente da parte, approda alla facoltà di Lettere e Filosofia di Siena. Si iscrive al corso di laurea in “Lingue, letterature e culture straniere” laureandosi nel 2010 in inglese e russo. Scrive una tesi che ha come oggetto la “comparazione” tra due traduzioni italiane di uno stesso testo in inglese. Ha completato, sempre presso l’Università di Siena, un master in traduzione ed editing di testi letterari e ha iniziato un dottorato in Translation Studies alla Victoria University of Wellington, in Nuova Zelanda.
Eleonora Bello (1985) ha conseguito una laurea triennale in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Milano, dove ottiene anche il Master di primo livello PROMOITALS (Didattica dell’Italiano come lingua seconda e straniera). Successivamente ottiene il Master di secondo livello all’Université de Franche-Comté (Besançon, Francia) in Letteratura e Cultura Italiana. Ha insegnato italiano come lingua straniera a Milano, Città del Messico e Besançon.
Janet Frame: scrittura e follia scritto da Ivana Daccò
Una che che ce l’ha fatta ad uscire dal manicomio, un po’ per fortuna, molto per determinazione. Per capacità. Un genio.
Mentre leggo “Un angelo alla mia tavola”, autobiografia di Janet Frame, mi si impone il riflettere sul fatto che la sua opera e la qualità della sua figura di donna vengono, e sono, legate alla sua storia di sofferenza psichica; e la riflessione si allarga allo stereotipo che propone come pressoché inevitabile la relazione tra una sensibilità fuori dell’ordinario, che sa tradursi in parole, e la malattia mentale, quantomeno la precarietà di quel tanto di equilibrio richiesto (e non potrebbe essere diversamente) dalle convenzioni sociali, dall’epoca e dalla società in cui si vive.
E’ uno stereotipo che colpisce, non solo ma in particolare, le donne; e il tema della presenza, ad esempio, di suicidi tra le scrittrici o, come nel caso di Janet Frame, di malattia mentale, ritorna, più o meno dibattuto, più o meno sostenuto da dati oggettivi, quasi ci fosse una richiesta sociale che prescriva questo. ‘Genio e sregolatezza’ certo ma, per le donne, sembra si chieda qualcosa di più.
Non voglio, qui, raccontare la storia di vita della Frame, che è bene lasciare al libro, al suo diretto racconto che spero a breve di riuscire a proporre, se non per il ‘non dettaglio’ di anni di vita, tra i venti e i trent’anni di età, trascorsi al manicomio prima che, a seguito del suo successo di scrittrice, tale diagnosi non venisse, diciamo, revocata e le venisse restituita la libertà personale.
Vero, la sua biografia dice, a proposito della fine dell’esperienza manicomiale, che è stata riconosciuta come <errata> la diagnosi di schizofrenia che le era stata ascritta ed è stato tirato un rigo sui duecento elettroshock subiti e sulla lunga esperienza di reclusione, per non dir altro. E allora va bene, diciamo che la diagnosi era sbagliata; oppure che la schizofrenia non esiste; che, forse, è altra cosa e non si cura con gli elettroshock, come pure avviene ancora in molte parti del mondo. Diciamo che sono il regime manicomiale e la supposta cura a causare la devastazione mentale e fisica delle persone affette da questa malattia. Problema complesso.
Ma il tema che, mentre leggo, mi si pone è un po’ diverso. Il tema sta nel fatto che, in qualche modo, sembra sia difficile che non venga correlata alla pseudo o vera malattia di cui Janet Frame (non) soffriva, la sua particolare sensibilità, la visione che lei stessa esprimeva della sua vita, di cui diceva che era scissa tra “questo mondo” e “quel mondo”, tra la vita che conduceva in quello che chiamava il suo mondo, ricco di sensazioni, colori, emozioni, riservate a lei sola, da tradurre in scrittura, da contenere, forse, attraverso la parola scritta, e dunque mediata, e la vita che conduceva nel mondo di tutti, dentro le regole, gli impegni che la società richiede, dove si muoveva comunque con la necessaria competenza – e con la fatica, va detto, che ciò comportava per lei, donna introversa, timida, a disagio nelle relazioni con gli altri.
Ed ecco aprirsi l’estrema aporia che vuole far convivere, nella mente di una ‘pazza’ (con tutto ciò che il senso comune associa a tale condizione), una sensibilità fuori dell’ordinario, un pensiero preda di visioni, emozioni di grande forza, stati d’animo difficili da controllare e l’estremo rigore, la capacità tecnica, la cura, la continuità di impegno richiesti dalla scrittura. Tutte cose che mal si sposano con una mente devastata.
E colpisce come, ancora, viva una forma di malinteso romanticismo, fuori tempo e fuori contesto, che fa amare, quasi desiderare, sembra, la figura dell’artista caratterizzato da eccessi (nel vivere, nel sentire, nel comportarsi) che diventano disagio mentale fino ad arrivare alla pazzia, e fino al comportamento suicidario, in particolare quando l’artista è donna.
Non sono infrequenti i luoghi comuni che associano la letteratura al femminile alla pazzia, che indicano un tasso di suicidi particolarmente elevato tra le scrittrici. Poi, al dunque, tutti pronunciano un solo nome: Virginia Woolf. Janet Frame è fortunatamente morta anziana, per una malattia, nella sua città natale di Dunedin in Nuova Zelanda.
Eppure. Qualcosa sembra esserci, potrebbe, e il nome della Woolf non è il solo, nel computo delle morti cercate. L’elenco potrebbe essere lungo – limitandoci al ‘900 vengono alla mente le poetesse Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Alfonsina Storni, l’americana Silvia Plath. Possiamo aggiungere Marina Cvetaeva, Alejandra Pizarnik, Violeta Parra. Sibilla Aleramo ha a suo carico un tentativo fortunatamente fallito mentre ha evitato tale esito, ma pagando con una vita di grande sofferenza, la sudafricana Bessie Head; e non è stata facile la vita, e la storia manicomiale di Alda Merini.
Solo un abbozzo di elenco impossibile, che comporterebbe comunque la mancanza di tutte quelle che il mondo non ha conosciuto.
Le biografie di queste donne riportano difficoltà di vita talora gravi, che tuttavia difficilmente consentirebbero una correlazione tanto semplicistica, come se il viverle dovesse portare, di per sé, attraverso una relazione diretta e inevitabile, alla pazzia; o come se il cedere alle prove della vita fosse il segno distintivo di un animo elevato, di una sensibilità superiore che tutte le donne che, similmente provate, non hanno ceduto, non possedessero.
Eppure. E’ pensabile che queste grandi scrittrici siano state, pur dentro storie personali difficili, più che sane di mente, ma che il loro mondo le abbia messe alla prova in modo alla fine insostenibile, mponendo loro un sovraccarico di peso per il loro essersi permesse la scrittura, la poesia, deviando dall’assunzione di ruolo prescritta? E’ pensabile che quel di più che la società ha posto sulle loro spalle abbia fatto la differenza?
Janet Frame, I ghiaccioli , da Parleranno le tempeste, Gabriele Capelli Editore (2017)
Districare quei fitti ricci rossi per Janet era un problema come cercare uno spazio di silenzio in cui immergersi per accudire le sue amate parole.
Non era una vita semplice quella che le si presentò, e non lo fu nemmeno in seguito: tre sorelle con cui condividere vestiti, letto e libri, un fratello colpito da continui attacchi epilettici, una maestra che non perdeva occasione per ricordarle la sua povertà, il suo disordine, i suoi abiti sporchi, una madre che tentava di abbellire le povere case – in cui continuamente si trasferivano per seguire il padre ferroviere – con oggetti di fantasia.
Un taccuino – dono dal padre – si trasforma in un’insperata ancora di salvezza nel grigio di quei primi anni, e un libro di fiabe – Le favole dei fratelli Grimm – prestato da un’amica, la introduce in un mondo ricco e senza confini. La fantasia viaggia libera e si lascia andare.
Janet è “diversa”, poco incline alle relazioni, introversa, timida, lo sarà per tutto il resto della sua esistenza con buona pace di chi la voleva cambiare. Scopre il mondo dei libri e tra quelle parole cerca un riparo. I libri aumentano, sempre in prestito, li porta a casa, non li lascia nemmeno per mangiare. Comincia a scrivere sul suo taccuino, scrive a scuola, prime composizioni, primi tentativi di liberare la parola. Non viene presa sul serio: lei è la “strana”, la “matta”. Pubblica sul giornalino della scuola, e non solo; queste prime scritture ricevono un riconoscimento insperato. Cambia maestra. Il nuovo maestro legge con interesse i suoi temi a scuola, il resto che le aleggia intorno non gli interessa minimamente. La incoraggia a proseguire e Janet giura a se stessa che da grande farà la poetessa!
Difficile credere che questo sia stato il background di Janet Frame, autrice neozelandese, due volte proposta per il Premio Nobel.
Un’idea narrativa inserita in una autobiografia, richiesta proprio dal suo maestro, un tentativo di suicidio e Janet la “diversa” finisce per otto lunghi anni in un ospedale psichiatrico sottoposta a quattrocento elettroshock, il “trattamento”, lo chiamano i medici, una “esecuzione” lo definisce lei.
Janet scrive su qualunque pezzo di carta riesce a recuperare e consegna i testi alla sorella durante le rare visite in istituto.
Non volevo che mi accadesse nulla, scriverà in seguito nella sua autobiografia, per questo si rende disponibile, lava, mette la cera, rispetta i suoi turni, ma lo stesso non sfugge al trattamento che le viene somministrato con la stessa regolarità.
Il giorno prima dell’intervento per la lobotomia il medico di Janet annulla l’operazione e prepara le sue dimissioni dall’ospedale. Quei racconti affidati alla sorella durante le rare visite, sono stati inviati a un premio prestigioso e Janet risulta prima. La notizia della vincita e dell’uscita del libro è riportata sul giornale. Il medico la dimette il giorno dopo, Janet non è più persona da manicomio.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé – da Canto
Janet Frame continuò a scrivere racconti, pubblicò con regolarità, vinse molti premi ma la poesia? Che fine aveva fatto la poetessa? Restava “nascosta in bella vista” (Gina Mercer).
Sono invisibile. / Sono sempre stata invisibile / come la povertà in un paese ricco, come i ricchi nelle stanze riservate delle loro case piene di stanze, come le pulci, i pidocchi, come un’escrescenza sottoterra, i mondi oltre il cielo, il vento, il tempo, le idee — l’elenco dell’invisibilità è infinito, e, dicono, non fa buona poesia. Come le decisioni. / Come l’altrove. / Come gli istituti lontani dalla strada di nome Scenic Drive. / Basta similitudini. Sono invisibile.
Oltre alle poesie disseminate nei suoi romanzi, alcuni dei racconti brevi possono essere definiti “poesie in prosa” (Bill Manhire). Pubblicazioni sporadiche su alcune riviste e, nonostante un solo volume di poesia pubblicato durante la sua vita, l’opera in versi comprende ben 170 componimenti!
Non pubblicò mai una seconda raccolta, per diversi motivi. La necessità di guadagnarsi da vivere la condusse a produrre ciò che era più vendibile, i suoi discussi trascorsi psichiatrici, ma anche una certa misoginia di sguardo, un buon numero di guardiani sessisti ansiosi di stroncare e reprimere la poesia di Janet Frame, nonché una polverosa invidia maschile.
La stessa nipote, Pamela Gordon, nel ruolo di esecutrice letteraria in possesso dei suoi manoscritti inediti di poesia e di prosa, ha subito pressioni. E quando tentò di spingerla a pubblicare il volume di poesie prima di morire, Janet rispose: “Non ho bisogno che nessuno mi dica che il mio lavoro è buono. Fallo dopo che sarò morta.”
Gli dei
Chi ha detto che gli dei non hanno bisogno di sognare? /Fanno più sogni di tutti e più cupi / con gli occhi notturni che infiammano un regno / che il loro risveglio piange, perduto.
[…]
Più sono solitari i loro picchi di nuvole / più vicini si fanno i loro sogni/ a scaldare colline deserte e popolate / – gli dei più di tutti hanno bisogno di sognare.
E nonostante la sua figura di poetessa sia stata trascurata e quasi dimenticata (per anni non è stata più pubblicata), oggi la sua poesia è tornata ad essere tradotta e pubblicata. Parleranno le tempeste – il volume da cui sono tratte alcune poesie qui presenti – è la terza edizione di poesie scelte e tradotte a vedere la luce negli ultimi anni.
Le poesie di Janet Frame (1924 – 2004) colpiscono per la chiarezza, il controllo, la precisione con cui riescono a definire aspetti dell’animo, della psiche, del comportamento umano. Riesce a mettere a fuoco con esattezza e piena responsabilità, con una padronanza sorprendente figurazioni metaforiche, che sono intese a chiarire, a definire aspetti dell’esistere, dello stare, dell’andare, del morire. Lo scontro costante, quotidiano, l’opposizione tra luce e buio, tra il visibile e l’invisibile che pure permane sono dichiaratamente i suoi temi portanti. È evidente la sua abilità nel provocare sentimenti in chi legge. Il suo talento nel filtrare e amplificare i più complessi sentimenti, il nascosto, lo straordinario nelle cose di tutti i giorni, il non detto, la vergogna, la colpa, le contraddizioni umane.
La Frame affronta temi vari e profondi ma lo fa con un approccio originale e creativo, lo fa con scelte linguistiche in cui le continue allitterazioni, il gioco, i simil-anagrammi rappresentano uno sforzo/gioco poetico. Le poesie colpiscono per la struttura e composizione nell’ affrontare i temi della morte, della separazione e della partenza.
La poetica di Janet Frame non si aggroviglia su nuclei di rabbia ma rappresenta un percorso di silenzio in cui riportare alla luce antiche memorie con una discrezione estrema e sofferta, mai urlata.
Il poeta, allora, “respira con un polmone solo / sale una scala con un solo piolo / spara alle stelle senza arma alla mano”.
Nel passo lieve Janet Frame sostiene la sua lotta senza perdersi e rimanendo fedele al suo essere “Eppure ho sentito / di insetti stecco e sagome / e letti a righe / nel cielo e file / di fiori incorporei / in bianco e nero / miseri come gli arcobaleni contro la pressione / e la purezza / del non-colore. / Devo continuare a lottare / con la testa gialla e rossa / dal profondo della fossa, io rimanendo a modo mio”.
Carlo Vecce-Il Decameron di Pasolini, storia di un sogno-
Carocci editore -Roma
Descrizione in breve-Il Decameron (1971), punto di svolta della poetica di Pasolini, è un’opera in movimento, aperta, che per essere compresa va analizzata in tutte le fasi del processo creativo, all’interno del laboratorio dell’autore, dalla prima ideazione fino alla realizzazione del film; ed è allo stesso tempo un capolavoro del cinema e uno straordinario documento della ricezione di Boccaccio nella cultura del Novecento. Il volume, attraverso un accurato esame dei materiali preparatori – il trattamento, la sceneggiatura e soprattutto il copione di scena utilizzato sul set –, ne ripercorre la storia prima, durante, dentro e (in misura limitata) anche dopo. Un’attenzione speciale viene riservata ai luoghi scelti per le riprese, agli interpreti, ai riferimenti iconografici, alla colonna sonora, alla contaminazione degli stili, delle lingue e dei linguaggi.
Ebbe diversi problemi con la censura, che sequestrò e dissequestrò il film e aprì anche un processo, che alla fine vide giudicati non colpevoli gli imputati (tra cui il regista stesso). Ad ogni modo, fu un successo tanto in Italia quanto nel resto d’Europa; vinse anche l’Orso d’argento al Festival di Berlino 1971.
Dal 2000, il film è vietato ai minori di 14 anni.[senza fonte]
Elenco delle novelle
Segue l’elenco delle nove novelle tratte dal “Decameron” nell’ordine in cui appaiono nel film.
Il giovane Andreuccio viene truffato due volte, ma finisce col diventare ricco.[1]
Una badessa riprende una consorella ma è a sua volta ripresa per il medesimo peccato[2]
Masetto si finge sordo-muto in un convento di curiose monache.[3]
Peronella è costretta a nascondere il suo amante quando suo marito torna improvvisamente a casa.[4]
Ciappelletto si prende gioco di un prete sul letto di morte.[5]
L’allievo di Giotto aspetta la giusta ispirazione (divisa in 2 momenti).[6]
Caterina dorme sul balcone per incontrare il suo amato la notte.[7]
I tre fratelli di Lisabetta si vendicano del suo amante.[8]
Il furbo don Gianni cerca di sedurre la moglie di un suo amico.[9]
Due amici fanno un patto per scoprire cosa accade dopo la morte.[10]
Trama
Andreuccio da Perugia
Il giovane Andreuccio si reca a Napoli dalla lontana Perugia per comperare alcuni cavalli. Ma non si accorge che una ragazza di origini siciliane lo ha adocchiato con la sua borsa di monete ed intende rubargliele con un astuto stratagemma. Infatti Andreuccio, non soddisfatto dalla merce del mercato, si addentra per le vie della città quando incontra una ragazza che lo invita a salire in casa. Si tratta della residenza dell’imbrogliona che racconta ad Andreuccio di essere sua sorella illegittima concepita da un amore clandestino del padre con una matrona sicula; e lo invita a passare la notte in casa. Andreuccio è felice dell’invito e chiacchiera con la ragazza, mentre un fanciullo entra in bagno e sega una trave del pavimento per mettere in azione la trappola.
Infatti, arrivata la sera, Andreuccio ha dei dolori di pancia e si reca al bagno per fare i suoi bisogni. Quando mette il primo piede sul pavimento la trave di legno cede e il giovane cade nella latrina dalla quale riesce ad uscire solo per miracolo. Andreuccio si cala da una finestrina e chiede alla serva di farlo entrare, ma questa lo scambia per pazzo. Andreuccio allora capisce l’imbroglio e comincia a gridare, venendo però zittito e scacciato via dalle matrone del quartiere. Senza un soldo e completamente ricoperto di poltiglia puzzolente, Andreuccio non sa dove andare, quando vede due viandanti e, vergognandosi della sua situazione, va a nascondersi dentro una botte. I due viaggiatori si avvicinano alla cassa, attirati dall’odore nauseabondo e scoprono il giovane. I due, che in realtà sono dei ladri, gli propongono di venire con loro nella chiesa vicina dove è stato seppellito da poco in una tomba un famoso vescovo, cosicché possano aprire la cassa e rubargli le vesti e in particolare un anello di grande valore.
Andreuccio è d’accordo, ormai disposto a tutto pur di essere risarcito e va con i due. Aperta la bara i ladri fanno entrare dentro Andreuccio che si mette all’opera. Il ragazzo ha sfilato al cadavere ogni cosa che possa essere di valore, tenendo l’anello per sé. Quando i due gli ordinano di buttare fuori l’anello, Andreuccio dice che lì dentro non c’è nessun anello e i ladri indispettiti lo rinchiudono nella cassa di marmo. Poco dopo sopraggiungono altri due banditi assieme al sagrestano intenti a compiere lo stesso furto. Aprono la cassa, ma Andreuccio addenta immediatamente la gamba del sagrestano che stava per entrare. L’uomo urla di dolore e di paura, facendo scappare i giovani complici e Andreuccio finalmente può tornare a Perugia con l’anello.
La novella della suora con l’amante
Nella città di Napoli un vecchio sta raccontando una storia. In un convento una suora ha rapporti sessuali con un amante segreto, ma gli incontri notturni vengono scoperti dalle altre suore che si precipitano il giorno dopo dalla Madre Superiora per raccontare lo scabroso evento. Tuttavia, al contrario delle loro aspettative, la Madre sta facendo l’amore con il sacerdote e quando sente bussare alla porta, per la fretta, si mette al posto del copricapo le brache dell’amante. Così accade che la sorella, pur essendo punita dalla Madre Superiora, ottiene il permesso, così come tutte le altre sorelle, di ricevere ogni notte in cella il proprio amante.
Masetto l’ortolano nel convento
Masetto è un contadino che pensa solo al piacere che si può provare facendo l’amore. Essendo impaziente pensa di travestirsi da bracciante sordomuto e di entrare in un convento poco distante dal campo. Le suore vedendolo rimangono sorprese ed entusiaste allo stesso momento dato che a un uomo, fuorché al sagrestano, non era concesso entrare in un monastero di monache; e cominciano a formulare pensieri licenziosi. Infatti qualche giorno dopo mentre Masetto sta potando un albero due suore lo chiamano invitandolo in un piccolo ripostiglio degli attrezzi per avere a turno un fugace rapporto amoroso, mentre le altre scorgono la scena dalle finestre del monastero. Anch’esse, nelle loro celle, ricevono una alla volta il giovane per intrattenervi un rapporto sessuale. Alla fine anche la Madre Superiora cede alla tentazione e porta Masetto nel capanno, ma prima del momento supremo l’uomo si rifiuta e dichiara di essere esausto per i tanti rapporti, rivelando così di non essere sordomuto. La Madre, per non far uscire la notizia dal convento, decide di dichiarare miracolato il ragazzo, facendolo rimanere nel convento per soddisfare i desideri delle suore.
Peronella e l’orcio
A Napoli, Donna Peronella sta aspettando il ritorno del proprio marito e nel frattempo sta facendo l’amore con Giannello, venditore di orci e giare. Il marito torna a casa e Peronella fa nascondere l’amante nella grande giara in giardino. L’uomo si presenta alla moglie assieme ad un mercante dichiarando di aver concluso con lui un affare per la vendita di una giara per 5 denari. Peronella tuttavia per liberarsi del compratore comunica al marito di averlo già venduto per 7 denari; allora il coniuge congeda il mercante e si reca con Peronella nel giardino. Giannello esce fuori dal recipiente affermando che l’interno della giara è sporco e che bisogna pulirlo, altrimenti l’affare non potrà essere concluso. All’istante lo sciocco marito di Peronella si cala dentro a pulire, mentre Giannello ha un rapporto con la donna che rimane affacciata sul bordo della giara a controllare il lavoro del marito.
Ser Ciappelletto (o Cepparello) da Prato
Ser Ciappelletto è già comparso due volte nel film: la prima all’inizio quando è intento a gettare da una rupe un sacco contenente un cadavere, la seconda mentre un vecchio racconta ad un gruppo di persone la novella di Masetto; Ciappelletto propone un rapporto sessuale ad un bel giovanetto in cambio del denaro che ha appena sottratto dalla cintura di uno degli ascoltatori. In questa novella il protagonista si reca da Prato in Germania per essere ospitato da due fratelli napoletani usurai. Ciappelletto ha passato un’intera vita di imbrogli, truffe, raggiri, rapporti sessuali con prostitute e omosessuali, bestemmie e ingiurie nei confronti della Chiesa. Giunto in città viene ospitato dai due fratelli mentre viene inquadrata una festosa sagra nel prato fuori dalla città. Ciappelletto entra in sala e mangia con loro fino a che non si sente male e crolla a terra.
Passano alcuni giorni ma Ciappelletto è sempre più grave finché si riduce in fin di vita. I due fratelli, sotto le suppliche di Ciappelletto, convocano un santo frate che possa assolverlo dai peccati. Il sacerdote giunge in casa e inizia la confessione mentre i due uomini ascoltano fuori dalla porta, ridendo della confessione di ser Ciappelletto e commentando tutte le sue malefatte. L’astuto Ciappelletto si dimostra disperato dei suoi peccati confessando di aver sputato in chiesa e di aver ingiuriato la madre. Il frate, credendo di trovarsi di fronte all’uomo più pio che abbia mai conosciuto, decide di dargli subito l’assoluzione e di farlo venerare come un santo. Ciappelletto muore di lì a poco e viene portato nella chiesa principale dove tutti i pellegrini si recano a rendergli omaggio toccando la sua salma.
L’allievo di Giotto
In tutta la regione si sta parlando di un certo pittore (Pasolini) che ha frequentato la scuola del famoso Giotto. L’uomo deve recarsi a Napoli nella chiesa di Santa Chiara per affrescare la parete dell’altare. Arrivato, l’uomo comincia tutti i preparativi sistemando il ponteggio e diluendo i colori con i compagni. Mentre incomincia a dipingere il quadro continuano le altre storie del Decameron.
Caterina di Valbona e Riccardo
In un paese vicino a Napoli la nobile Caterina ama il giovane Riccardo, ma ha paura di dichiararlo al padre. Per questo, con la scusa del caldo torrido dell’estate, dichiara alla madre di voler dormire per un po’ sulla terrazza affinché possa rinfrescarsi. I genitori acconsentono e così il bel Riccardo quella notte può salire per fare l’amore con Caterina. Il giorno dopo molto presto, i genitori della ragazza si svegliano e salgono su per vedere come sta la figlia e la trovano nuda con Riccardo. La madre sta per gridare, ma il marito la rassicura spiegandole che il giovane potrebbe essere un buon partito e quindi pensano di farli sposare al più presto. E ciò avviene: i due genitori fanno svegliare la coppia e li convincono a sposarsi proprio in quel momento sulla terrazza e poi lasciano che Riccardo e Caterina se ne tornino a dormire beatamente abbracciati.
Il pranzo dell’allievo
Qui vi è un secondo intermezzo delle storie: l’allievo di Giotto viene invitato dai frati a mangiare per rifocillarsi un po’, ma l’uomo trangugia tutto in pochi minuti e si precipita di nuovo a lavorare, scherzando sempre con i giovani aiutanti.
Elisabetta (o Lisabetta) da Messina e Lorenzo
Elisabetta è la sorella di tre ricchi mercanti i quali pensano solo a far soldi. Ma la ragazza è innamorata di un giovane garzone: Lorenzo e con lui ha appassionanti rapporti sessuali. Ma i tre lo vengono a sapere e pensano di ucciderlo. Infatti qualche giorno dopo i tre fratelli invitano l’ignaro Lorenzo a giocare insieme nel giardino lì vicino e lo pugnalano alle spalle. Fatto ciò comunicano a Elisabetta che il suo Lorenzo si è recato in Sicilia per affari e che sarebbe tornato qualche settimana dopo. Ma Lorenzo non fa ritorno ed Elisabetta passa le intere notti a piangere invocando il suo nome. Una di queste notti il fantasma di Lorenzo le appare in sogno comunicandole di essere stato ucciso e che il suo corpo è stato seppellito nel giardino. Il giorno dopo Elisabetta chiede ai fratelli il permesso di uscire e si reca in giardino con una serva. Dissotterrato il corpo di Lorenzo, Elisabetta ne recide la testa e la porta in camera sua, nascondendola dentro un vaso di basilico.
Gemmata e la cavalla
Un vecchio contadino incontra a Napoli l’amico Gianni e i due decidono di riprendere il viaggio verso il paesello. Durante il tragitto il contadino propone a Gianni di ospitarlo, in virtù dell’amicizia che li lega e, soprattutto, per ricambiare il favore (dato che anche il contadino era stato ospite di Gianni). Donna Gemmata, moglie del contadino, riceve la visita del coniuge e di Gianni il quale, spacciandosi per una sorta di stregone indovino, sostiene che una donna si possa tramutare con un suo sortilegio in cavalla e, se si vuole, farla ritornare alle sue sembianze. L’obiettivo di Gianni è di avere un rapporto sessuale con Gemmata dato che è bellissima ed è oggetto di tutte le attenzioni del villaggio. Marito e moglie ingenuamente credono a questa magia e invitano Gianni a casa loro, facendolo dormire nella stalla coi cavalli.
Il giorno dopo all’alba, Gemmata si sveglia e chiede al marito, dato che sono molto poveri, se può essere tramutata in cavalla cosicché possa aiutarlo nell’arare i campi. Il marito acconsente e la porta da Gianni, comunicandogli il desiderio di Gemmata. Gianni subito prende al volo l’occasione e dichiara al coniuge che, durante il rito, deve stare zitto senza proferire parola. Infatti secondo il sortilegio, la parte più difficile è quella di “attaccare alla donna la coda”. Fatto ciò Gianni fa spogliare nuda Gemmata e la fa mettere carponi, mentre egli si accinge ad un rapporto da terra. Durante l’operazione però il marito, fremente di rabbia, comincia ad urlare e Gianni, con faccia affranta, dichiara fallito il rito perché il coniuge non ha rispettato il silenzio.
L’ultima novella di Tingoccio e Meuccio e il completamento dell’affresco
Mentre l’allievo di Giotto sta per finire l’opera, i due popolani Tingoccio e Meuccio sono ansiosi di capire cosa ci sia dopo la morte e soprattutto come siano il Paradiso o l’oscuro antro dell’Inferno; ma i due sono un po’ riluttanti perché credono che sia peccato avere rapporti sessuali con le amiche e quindi non vorrebbero finire all’inferno. Tingoccio propone che chi muore per primo visiti in sogno l’altro per rivelargli i segreti dell’aldilà. Arrivata la notte però, mentre Meuccio cerca in tutti i modi di morire concentrandosi in preghiera, Tingoccio ha un rapporto sessuale con la comare e poi si reca dall’amico, raccontandogli l’avventura. Meuccio gli rinfaccia che ormai è condannato, perché, secondo lui, ha commesso un grave peccato contro Dio. Dopo qualche tempo Tingoccio muore e quella stessa notte appare in sogno a Meuccio che gli domanda in che mondo sia stato collocato.
Tingoccio risponde che si trova in una specie di “limbo” in attesa di essere condotto nell’Inferno o nel Purgatorio e che in quella zona non si scontano pene per aver avuto nella vita rapporti con la comare. Di seguito prega Meuccio affinché il popolo di Napoli lo veneri e faccia celebrare messe in suo onore per raccogliere denaro che gli sarà d’aiuto nella vita ultraterrena. Contentissimo, Meuccio corre dalla comare per soddisfare i suoi desideri.
Nella chiesa di Santa Chiara, nel frattempo, il pittore che sta dormendo fa un sogno in cui gli appare la Vergine Maria con in braccio il bambino Gesù e tutta la schiera di angeli e santi, possibile ispirazione per finire l’affresco. Il sogno si interrompe ed il giorno dopo il pittore completa finalmente l’affresco, decidendo però di omettere il suo ultimo sogno, e mentre tutti i frati e i sagrestani festeggiano l’avvenimento, il pittore commenta la mancanza della sua visione nell’opera finale dicendo: “Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”.
Produzione
Sceneggiatura
In una lettera della primavera del 1970, Pasolini spiegava al produttore Franco Rossellini di aver modificato la sua originaria idea di ridurre l’intero Decameron a quattro o cinque novelle di ambiente napoletano e di voler dare invece «un’immagine completa e oggettiva del Decameron» attraverso la scelta del maggior numero possibile di racconti. Al gruppo centrale dei racconti ambientati nella Napoli popolare avrebbero dovuto aggiungersene altri per rappresentare lo «spirito interregionale e internazionale» dell’opera di Boccaccio, con l’ambizione di realizzare «una specie di affresco di tutto un mondo, tra il medioevo e l’epoca borghese». Il film avrebbe dovuto durare almeno tre ore ed essere diviso in tre tempi, ognuno dei quali rappresenti un’unità tematica.[11] Il primo trattamento elaborato dall’autore era dunque costruito su questa struttura tripartita (15 novelle suddivise in tre tempi, ognuno dei quali racchiuso da un racconto cornice, con protagonisti rispettivamente Ser Ciappelletto, Chichibio e Giotto), che voleva rispecchiare la complessa architettura narrativa dell’opera di Boccaccio.
La scelta delle novelle appariva ancora caratterizzata da estrema eterogeneità. Solo tre novelle del Decameron sono di ambientazione partenopea; Pasolini rafforzava la “napoletanità” della propria rivisitazione trasferendone altre, di ambientazione toscana, a Napoli e dintorni.[12] Rispetto al trattamento, nella sceneggiatura, datata 26 agosto 1970,[13] Pasolini allentò il rigido schema tripartito, eliminando cinque novelle «orientali» o «nordiche» e aggiungendone due nuove, e cercando di bilanciare il rischio dell’eccessiva frammentarietà con una maggior omogeneità d’ambiente (napoletano e popolare).[14]
Dalla sceneggiatura alla forma definitiva del film, il cambiamento più importante riguardò la sostituzione dello schema tripolare con quello bipolare.[14] Furono eliminati il racconto-cornice di Chichibio e altre due novelle (tra cui quella di Alibech, nel trattamento definita dall’autore di «grazia sublime»,[15] ma ritenuta dissonante rispetto al resto del film e comunque eliminata solo all’ultimo, tanto che gli interpreti appaiono comunque accreditati nei titoli di testa), e furono effettuati degli spostamenti strutturali che diedero maggior coesione all’insieme. Malgrado l’apparente eterogeneità dell’intreccio, il film mostra una logica interna e una sostanziale omogeneità,[16] a cui contribuisce la napoletanità che pervade tutti i dialoghi. In merito a questa scelta linguistica, Pasolini affermò: «Ho scelto Napoli contro tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva: niente babele linguistica, dunque, ma puro parlare napoletano».[17]
Un’importanza particolare riveste, fin dal trattamento e poi nelle elaborazioni successive, il racconto di Giotto che si reca a Napoli per affrescare la chiesa di Santa Chiara. L’artista figura in effetti nella novella 5 della VI giornata, che però è ambientata nei dintorni di Firenze e ha andamento aneddotico. Nel progetto pasoliniano, invece, la vicenda giottesca costituisce uno dei racconti-cornice delle (progettate tre, e poi effettive due) parti dell’opera. Inoltre, e fin dalla prima stesura, a Giotto è affidato l’explicit del film: guardando la sua opera compiuta, nel trattamento l’artista «ha un lieve, ingenuo e misterioso sorriso»;[18] nella sceneggiatura «nel suo viso è stampato – come una leggera ombra, non priva di malinconia – il sorriso dolce, misterioso e ingenuo con cui l’autore guarda la sua opera finita»;[13] mentre nel film (in cui Giotto diventa «un allievo di Giotto», forse contestualmente alla decisione di Pasolini di interpretare in prima persona il personaggio)[19] pronuncia, di spalle, la battuta «Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?», aggiunta dal regista direttamente sul set.[20]
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