Ettore Pellegrini-Fortificare con arte-Betti Editrice-
I lIbri di Betti Editrice-Ettore Pellegrini-Fortificare con arte-Nella Valle della Chiana I centri fortificati collinari: Sinalunga, Chianciano, Cetona, San Casciano dei Bagni e i loro antichi castelli VOLUME IX – TOMO I
Betti Editrice-Ettore Pellegrini-Fortificare con arte
L’ormai ultradecennale percorso di “Fortificare con Arte” ha affrontato un’altra tappa irta di difficoltà: ostacoli consueti per chi fa ricerca nel campo dell’architettura militare, ma anche inediti come quelli frapposti dai proprietari all’osservazione diretta di alcune fortificazioni. La rilevanza storica e ingegneristica di non pochi dei soggetti indagati, l’ampiezza del territorio di riferimento nel consueto doppio registro della ricerca sui documenti d’archivio e dell’esplorazione sul campo, l’intento sia di descrivere l’assetto di apparati difensivi, sia di comprenderne le non sempre esplicite caratteristiche funzionali e strategiche, hanno complicato il lavoro degli studiosi e di quanti altri li hanno accompagnati in questo cammino. Tuttavia non l’ hanno fermato ed anche il nono volume della serie ha preso vita, uscendo di tipografia addirittura moltiplicato in tre tomi per una migliore fruibilità.
Betti Editrice-Ettore Pellegrini-Fortificare con arte
Nella Valle della Chiana Da arce etrusco-romana a piazzaforte confinaria della Repubblica di Siena: duemila anni di storia delle fortificazioni di Chiusi VOLUME IX – TOMO II
«Importante città capitale nell’antichità e primario nodo viario nel Medio Evo per i collegamenti trasversali e longitudinali dell’Italia centrale, Chiusi è stata oggetto di considerevoli attenzioni fortificatorie, che in ogni epoca hanno ostacolato i tentativi di conquista promossi da potenti sovrani, da ambiziosi signori e da bellicosi vicini. Dall’epoca degli Etruschi e dei Romana al Basso Medio Evo il sistema difensivo chiusino ha subito continui e pesanti interventi edilizi per riparare le demolizioni delle guerre o i danni degli agenti atmosferici, ma anche per adattare la capacità d’interdizione degli apparati ad affrontare sempre più evoluti sistemi di combattimento. Inevitabilmente, la decifrazione dell’assetto architettonico militare di questa città-fortezza nelle varie epoche costituisce oggi un’impresa assai complessa, se non impossibile». Dall’Introduzione.
Betti Editrice-Ettore Pellegrini-Fortificare con arte
Nella Valle della Chiana Proteggere una città contesa: la piazzaforte di Montepulciano nelle ambizioni espansionistiche di Siena e di Firenze tra il XIII e il XVI secolo VOLUME IX – TOMO III
«L’ormai ultradecennale percorso di “Fortificare con Arte” ha affrontato un’altra tappa irta di difficoltà: ostacoli consueti per chi fa ricerca nel campo dell’architettura militare, ma anche inediti come quelli frapposti dai proprietari all’osservazione diretta di alcune fortificazioni. La rilevanza storica e ingegneristica di non pochi dei soggetti indagati, l’ampiezza del territorio di riferimento nel consueto doppio registro della ricerca sui documenti d’archivio e dell’esplorazione sul campo, l’intento sia di descrivere l’assetto di apparati difensivi, sia di comprenderne le non sempre esplicite caratteristiche funzionali e strategiche, hanno complicato il lavoro degli studiosi e di quanti altri li hanno accompagnati in questo cammino. Tuttavia non l’ hanno fermato ed anche il nono volume della serie ha preso vita, uscendo di tipografia addirittura moltiplicato in tre tomi per una migliore fruibilità.». Dall’Introduzione.
Betti Editrice
La Betti Editrice nasce nel 1992 con un taglio prevalentemente locale con una particolare attenzione alla storia, cultura e turismo a Siena. Negli anni ha allargato il suo raggio d’azione a generi diversi (narrativa, edizioni per bambini,..) con uno sguardo che spazia all’intero territorio Toscano e a tematiche di interesse nazionale. Una produzione differenziata per argomenti e generi è elemento distintivo della Betti Editrice che opera nel mondo editoriale cercando di far convivere e tenere in equilibrio il rispetto della storia e delle tradizioni con la curiosità per l’innovazione e i linguaggi contemporanei.
Dal 2017 organizza il premio di narrativa dedicato alle storie di viaggio lungo la Via Francigena.
Vent’anni fa la scomparsa di Mario Luzi- Il Poeta che visse nel giusto della vita.Articolo di Luigi Oliveto-
Mario Luzi il Poeta che visse il giusto della vita-Vent’anni fa, il 28 febbraio 2005, nella sua casa fiorentina in via di Bellariva, moriva Mario Luzi, voce tra le più significative della poesia del Novecento. Una poesia connotata dall’incessante limìo attorno al mistero dell’esistenza umana: tanto luminosa nei suoi aspetti di compartecipazione al creato, quanto esperienza dolorosa di ombre e tenebre. Un universo lirico, quello luziano, ove stupore, inquietudine, meditazione, pronunciamento, si innervano nella parola («vola alta parola») a dire comunque la «maestà del mondo». Tale, infatti, è stato l’insistito scandaglio della riflessione poetica di Luzi: cogliere il continuo divenire del mondo nella sua osmosi drammatica e stupefacente di vita e morte, luce e ombre, creato e incompiuto. Ecco, allora, uomo, cosmo, natura, come sospesi tra il presente e il non-ancora, tra l’espresso e l’inesprimibile, tra la precarietà del presente e la definitiva pienezza.
Giusto qualche giorno prima della sua scomparsa, egli aveva licenziato alcuni versi che parlavano di un termine, di una vetta che si approssimava e di cui «ne davano un chiaro avvertimento / i magri rimasugli / di una tappa pellegrina». «Lì – scriveva il poeta – avrebbe la sua impresa / avuto il luminoso assolvimento / da se stessa nella trasparente spera / o nasceva una nuova impossibile scalata… / Questo temeva, questo desiderava».
Quei versi sembrarono, allora, andare a sigillare non solo la fine di una vita, ma, ancora di più, la conclusione di un percorso poetico instancabilmente contrassegnato dal dubbio, dalla domanda, dall’invocazione, dalla ricerca dell’essenza eterna delle cose. Lo stesso sublime tormento che il poeta aveva trasferito nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), laddove in una sorta di cammino penitenziale ed iniziatico, si cercava di ricomporre, in parole nuove, tutti i contrari dell’esperienza umana: vita-morte, eternità-finitezza, sogno-realtà, la concretezza e l’insondabile, l’esistenza e l’arte. La poesia di Mario Luzi ha di continuo indagato questi opposti, intendendo così – lo confidava nella premessa al Libro di Ipazia (1978) – «attivare dei punti di assillo e di sofferenza presenti anche se latenti nel tempo e nell’umano. Come fontane che riprendessero a versare acqua, o piaghe a sanguinare».
E quando al poeta occorse dare un luogo per contemplare un siffatto tormento, non allestì scene fittizie, ma trasfigurò a metafora geografie reali: quelle delle terre toscane, delle Crete senesi, della Val d’Orcia, dell’Amiata. Sono i luoghi che il poeta – ebbe a scrivere Lorenzo Mondo – intese ridisegnare in «un universo purgatoriale di ombre ansiose in paesaggi aspri e desolati […] dove agisce la lezione dell’onnipresente Dante e di Eliot». Del resto Luzi – e qui fu Andrea Zanzotto ad affermarlo – è da ritenersi «grandissimo poeta del paesaggio e del dramma che la natura porta con sé e dell’uomo che vive in questa dimensione». Mentre Alberto Asor Rosa non mancò di cogliere una specie di «universale panpsichismo» che si manifesta proprio attraverso «l’energia affettuosa e in ultima analisi tutta mondana con cui Luzi ha cantato fino all’ultimo terre e paesaggi della sua Toscana».
In quelle plaghe – sosteneva il poeta – sembra racchiuso il ‘divenire’ della vita e della morte. È dunque terra che richiama gli scomparsi o i venturi? Forse entrambi – si rispondeva – perché è terra che assorbe morte, ma per restituirla in vita. Dunque, essere dentro quel paesaggio non è solo trovarsi nel tormentoso scorrere del tempo, ma anche compartecipare a una pietas comune, ad una memoria ad infinitum che è misura – appunto infinita – del tempo e del dolore. E a proposito di condivisa pietas verso l’esperienza umana, avrebbe scritto ancora: «Sia grazia essere qui, / nel giusto della vita, / nell’opera del mondo. Sia così».
Del resto Luzi restò sempre fedele alla dichiarazione di poetica enunciata, poco più che ventenne, nella sua opera d’esordio (La barca, 1935), con l’immagine di quello scafo che, nel flusso dell’esistenza, conduce, in ascesa, dal delta alla sorgiva: «Amici dalla barca si vede il mondo / e in lui una verità che procede / intrepida, un sospiro profondo / dalle foci alle sorgenti».
Evidenziò lo stesso Asor Rosa come il dettato poetico di Luzi, sempre così alto e nobile, mai, però, risultò disgiunto da una profonda umanità: «era sembrata stupenda e ammirevole quella sua sintesi fra una purissima, persino aristocratica voce di poesia e il coraggio etico-politico delle opinioni. E alla fine era non solo stimato e apprezzato ma amato: con quel consenso concorde, che riconosce la grandezza umana quando c’è».
È vero. Si ricorderanno, ad esempio, certi suoi versi di poesia civile come quelli, sferzanti e indignati, scritti durante gli anni di piombo, poi confluiti nella raccolta Al fuoco della controversia (1978): «Muore ignominiosamente la repubblica. / […] Tutto accade ignominiosamente, tutto / meno la morte medesima – cerco di farmi intendere / dinanzi a non so che tribunale / di che sognata equità. E l’udienza è tolta.» Oppure le accorate parole formulate il 7 gennaio 1997 a Reggio Emilia per il bicentenario del Tricolore (cento anni prima la prolusione era toccata a Giosuè Carducci): «Per la nostra nazione sono oggi necessari due sentimenti, come l’amore e la speranza, che l’hanno sorretta nelle grandi prove a cui è stata chiamata, dalle guerre del Risorgimento alla lotta della Resistenza alle difficili vicissitudini attuali. Bisogna fondare la nostra scommessa sulla mai soddisfatta aspettativa di un paese giusto, attraverso un invito toccante a riesaminare il nostro stato reale nel nome della solidarietà, della volontà comune e della speranza».
Anche nel discorso preparato per la nomina a senatore a vita (discorso che non fece in tempo a pronunciare) Luzi aveva ripreso questi concetti parlando di un’Italia «in fieri come le sue cattedrali». La nazione – avrebbe detto il neo nominato senatore a vita – «si unisce e ascende a se stessa, la sanzione di quella ascesa è lo Stato, per il quale penso si debbano avere, data la nostra storia, speciali riguardi». Per poi concludere che «revolution e amelioration» possono equamente curare lo Stato, «ma tradirlo e spregiarlo non dovrebbe essere consentito a nessuno».
È desolatamente ovvio dire che nel frangente storico in cui ci troviamo, nell’emergenza di una crisi di civiltà che pare non avere idee, volontà, intelligenze e sensibilità in grado di fronteggiarla, vorremmo tanto poter sentire la voce di Mario Luzi – voce flebile, elegantemente misurata, parsimoniosa ma efficace nell’andare all’osso delle cose – per ricordarci che «le nazioni non meno dei singoli / disimparano l’amore della sostanza, dimenticano / quel giro stretto di vita e volontà / che ne molò i lineamenti, ne definì l’essenza». Insomma, una voce che abbia, tantomeno, autorevolezza e pietas per consolarci.
Luigi Oliveto
Luigi Oliveto
Luigi Oliveto-Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita dapoeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poetadelle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004), Mario Luzi. Un segno indelebile (2016). Esce nel 2020 la raccolta di racconti Le rose di Kathryn. Nell’album Indy e Lib (cinque ristampe) adatta, per i bambini della scuola primaria, il testo della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», edizione patrocinata dalla Federazione Italiana dei Club Unesco. È autore di trasmissioni culturali per la televisione e di docufilm pubblicati in Dvd. È direttore del portale toscanalibri.it.
a cura di Roberto Nencini e Luigi Oliveto
Un segno indelebile è quello lasciato da Siena nella poesia di Mario Luzi, che fu legato alla città del Palio e al suo territorio fin dall’adolescenza. I contributi, accompagnati da immagini e documenti rari – tra cui anche corrispondenze epistolari inedite – definiscono un quadro il più possibile completo del rapporto del poeta fiorentino con una città e un terra che hanno profondamente inciso nella formazione del suo immaginario, della sua estetica, della sua morale. “La testimonianza letteraria di tale legame”, scrive Luigi Oliveto, “può far dire che Luzi sia stato l’ultimo scrittore del novecento a sostenere un racconto di Siena in chiave mitica. Egli, infatti, asseriva che la città è, allo stesso tempo, una realtà urbana (umana) e un mito. In forza del fatto che essa riesce a operare miticamente non solo nella memoria, ma anche nella immaginazione di chi la viva nel presente”.
Testi di Roberto Barzanti, Luigi Oliveto, A. Nino Petreni, Carlo Fini, Stefano Carrai, Roberto Nencini, Luca Lenzini, Elisabetta Nencini, Stefano Verdino, Paola Lambardi, Cesare Viviani.
Roma al Teatro Vascello va in scena EDIPO RE di Sofocle,
traduzione Fabrizio Sinisi, adattamento e regia Andrea De Rosa-
Roma al Teatro Vascello debutto romano EDIPO RE di Sofocle, traduzione Fabrizio Sinisi, adattamento e regia Andrea De Rosa,
con (in o.a.) Francesca Cutolo, Francesca Della Monica, Marco Foschi, Roberto Latini, Frédérique Loliée, Fabio Pasquini
scene Daniele Spanò, lo spettacolo andrà in scena dal 4 al 9 marzo dal martedì al venerdì h 21, sabato h 19 e domenica h 17
Roma al Teatro Vascello va in scena EDIPO RE di Sofocle
EDIPO RE
di Sofocle traduzione Fabrizio Sinisi
adattamento e regia Andrea De Rosa
produzione TPE Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli-teatro nazionale, Lac Lugano Arte e Cultura, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT/teatro nazionale
EDIPO RE
Sofocle / Andrea De Rosa
di Sofocle
traduzione Fabrizio Sinisi
adattamento e regia Andrea De Rosa
con (in o.a.) Francesca Cutolo, Francesca Della Monica, Marco Foschi, Roberto Latini, Frédérique Loliée, Fabio Pasquini
scene Daniele Spanò
luci Pasquale Mari
suono G.U.P. Alcaro
costumi Graziella Pepe costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
assistenti alla regia Paolo Costantini, Andrea Lucchetta
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
La verità che Edipo sta cercando è chiara. Ma la luce di quella verità, per lui che è il campione della chiarezza, è troppo forte e infine lo acceca.
Teatro Vascello Via Giacinto Carini, 78, 00152 Roma
Considerato uno dei testi teatrali più belli di tutti i tempi, Edipo re di Sofocle rappresenta il simbolo universale dell’eterno dissidio tra libertà e necessità, tra colpa e fato. Arrivato al potere grazie alla sua capacità di “far luce attraverso le parole”, abilità che gli aveva permesso di sconfiggere la Sfinge che tormentava la città di Tebe, Edipo è costretto, attraverso una convulsa indagine retrospettiva, a scoprire che il suo passato è una lunga sequenza di orrori e delitti, fino a riconoscere la drammatica verità delle ultime, desolate parole del Coro: “Non dite mai di un uomo che è felice, finché non sia arrivato il suo ultimo giorno”.
In una città che non vediamo mai, un lamento arriva da lontano. È Tebe martoriata dalla peste. Un gruppo di persone non dorme da giorni. Come salvarsi? A chi rivolgersi per guarire la città che muore? Al centro della scena, al centro della città, al centro del teatro c’è lui, Edipo. Lui, che ha saputo illuminare l’enigma della Sfinge con la luce delle sue parole, si trova ora di fronte alla più difficile delle domande: chi ha ucciso Laio, il vecchio re di Tebe? La risposta che Edipo sta cercando è chiara fin dall’inizio, e tuona in due sole parole: “sei tu”. Ma Edipo non può ricevere una verità così grande, non la può vedere. Preferisce guardare da un’altra parte. Sarà la voce di Apollo, il dio nascosto, il dio obliquo, a guidarlo attraverso un’inchiesta in cui l’inquirente si rivelerà essere il colpevole. Presto si capirà che il medico che avrebbe dovuto guarire la città è la malattia. Perché è lui, Edipo, l’assassino e quindi la causa del contagio. La luce della verità è il dono del dio. Ma anche la sua maledizione.
Roma al Teatro Vascello va in scena EDIPO RE di Sofocle
La nuova regia di Andrea De Rosa, che torna per l’occasione a lavorare con Fabrizio Sinisi dopo la fortunata collaborazione sul testo di Processo Galileo, parte dalla storia di Edipo re che ruota attorno alla verità, proclamata, cercata e misconosciuta. “Il sapere è terribile, se non giova a chi sa.” Nello spettacolo di De Rosa, Edipo è interpretato da Marco Foschi, affiancato da Roberto Latini nel ruolo di Tiresia, da Frédérique Loliée nella parte di Giocasta, Fabio Pasquini di Creonte e da un coro dalle molteplici voci di Francesca Cutolo e Francesca Della Monica. La messa in scena di Edipo re si avvale dell’intervento artistico di Graziella Pepe ai costumi, Pasquale Mari alle luci e di G.U.P. Alcaro ai suoni, questi ultimi, tra le molte collaborazioni, hanno affiancato De Rosa in Solaris. Le scene sono state affidate a Daniele Spanò.
Note di regia di Andrea De Rosa
La novità più importante di questo adattamento del testo di Sofocle consiste nell’aver affidato allo stesso attore i ruoli di Tiresia e di tutti i messaggeri. Non si tratta solo di uno stratagemma registico, ma di mettere in scena un personaggio che, di volta in volta, rappresenti una manifestazione del dio Apollo, della sua voce oscura, dei suoi oracoli. Questo spettacolo sarà per me un proseguimento del lavoro iniziato con Le Baccanti. Se in quello tutto ruotava intorno alla figura e alla voce di Dioniso, in questo il protagonista nascosto sarà Apollo. A queste divinità non dobbiamo smettere di prestare ascolto se è vero, come dice Platone, che “i più grandi doni vengono dati agli uomini dagli dèi attraverso la follia”. A quella follia è sicuramente legata la nascita, forse anche il destino, del teatro occidentale.
Roma al Teatro Vascello va in scena EDIPO RE di Sofocle
Note sul testo di Fabrizio Sinisi
Questa traduzione di Edipo re la considero, in un certo senso, un saggio su Apollo. Non solo perché Andrea De Rosa mi ha domandato di comporre appositamente un inserto originale che funzionasse come una sorta di preghiera, capace di evocare alcune fra le caratteristiche meno conosciute di questo dio spesso considerato solare e aggraziato – Apollo come essere capriccioso, vendicativo, infantile, ambiguo, competitivo, sanguinario. “Il dio con il coltello in mano”, come scrive Marcel Detienne. Ma soprattutto perché l’oscura e indefinibile specificità di Apollo è sicuramente legata al rapporto col linguaggio. Profezie, nascondimenti, mediazioni, enigmi – insomma “le parole del dio”, un’espressione che ricorre spesso in questo spettacolo – fanno di Edipo re una vera e propria “tragedia del linguaggio”. È nel linguaggio che la verità, qualunque essa sia, “va in scena”, non tanto come lo sviluppo di un racconto quanto come lo svolgimento di un rito, di un mistero.
Note sulle scene di Daniele Spanò
Quello realizzato è un allestimento spaziale dal carattere fortemente installativo che dichiara con crudezza la sua funzionalità: dare luce. Una selva di fari teatrali disordinatamente distribuiti sul fondo, prendono forma e si organizzano avanzando nello spazio fino a descrivere un emiciclo al centro del palcoscenico; il tempio del dio Apollo. A delineare ulteriormente il tempio, una schiera di pannelli dorati capaci di catturare i raggi luminosi riportandoli allo spettatore. Una linea bianca, segno che prende forma dal gesto, è tracciata invece su sette pannelli trasparenti ad occludere la vista di coloro che non possono o non vogliono vedere la verità. La luce è dunque il vero protagonista di uno spazio scenico pensato per mettere in risalto le sue innumerevoli caratteristiche fisiche, drammaturgiche e simboliche.
Teatro Vascello Via Giacinto Carini, 78, 00152 Roma
Note sulle luci di Pasquale Mari
Interrogare la luce del dio è rischioso. Riceverne in pieno viso il fascio può accecare. Edipo, una volta a Colono, esiliato e cieco, non smetterà per il resto dei suoi giorni di maledire il carro del Sole guidato da Apollo, che porta vita e conforto agli umani ma può anche annientarli. In questo adattamento il profeta anche lui cieco Tiresia si fa voce di Apollo fin a indentificarsi con un dio che forse ha guardato in viso una volta di troppo perdendo la vista. Nel nostro lavoro ci parla dal centro di un emiciclo di un luci rivolte verso Edipo e verso noi spettatori che viviamo e compatiamo fisicamente la sua condizione. Per la foresta di luci immaginata da Andrea De Rosa e Daniele Spanò per questo allestimento, ho scelto lampade PAR (parabolic aluminium reflector), incandescenti e analogiche, che stanno per scomparire ma che sono tutt’ora il migliore strumento ideato dall’uomo per simulare sulla scena i raggi del sole al tramonto
Note sul suono di G.U.P. Alcaro
La voce e la vocalità al centro del lavoro, una ritualità mantrica che evoca immagini sonore. Voce come strumento generativo che si fa materia in un deserto atonale fatto di ombre e sussurri. Incursioni acustiche che irrompono come squarci di luce.
Roma Teatro Vascello
Note sui costumi di Graziella Pepe
È la prima volta che affronto la tragedia di Edipo ed entrando sempre più in profondità nel racconto, ho iniziato a lavorare sentendo di dover tradurre una sensazione più che rappresentare dei singoli personaggi. Con Andrea abbiamo immaginato persone consumate dal dolore, che non dormono da giorni; quindi, con gli abiti regali che vanno perdendo splendore via via che la verità viene svelata. È stato proprio il concetto di svelamento a guidare il disegno dei costumi: c’è sempre una verità che si intravede ma che resta celata, scivola tra le pieghe delle camicie di seta e luccica tra i ricami preziosi. Ho scelto tessuti trasparenti, leggeri e morbidi che avvolgessero e proteggessero segreti e verità. Colori profondi ma cangianti, tonalità tra il blu e il verde nel cercare di raccontare questo stato d’animo, questo bilico tra sapere e credere di non sapere, di vite che si consumano nel fronteggiare un destino già segnato.
Andrea De Rosa
Regista teatrale di prosa e opera lirica, Andrea De Rosa (1967) è stato direttore del Teatro Stabile di Napoli e dal 2021 è direttore del TPE Teatro Astra di Torino (Fondazione Teatro Piemonte Europa – Teatro di Rilevante Interesse Culturale). I suoi lavori in prosa sono caratterizzati da uno spiccato senso di ricerca teatrale/filosofica e dimostrano un grande interesse per i personaggi tragici; con Fedra di Seneca ha vinto il Premio dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro 2015 per il miglior spettacolo dell’anno. Nel 2021 ha vinto il Premio Hystrio alla regia. Nell’opera spazia dal Novecento al melodramma ottocentesco, fino al primo Novecento di Puccini e Granados. Le sue produzioni sono state rappresentate in teatri quali il Teatro dell’Opera di Roma, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, il Teatro Regio di Torino, il teatro La Fenice di Venezia, il San Carlo di Napoli, il Teatro Real di Madrid, il Municipal di Sao Paolo, il Sao Carlos di Lisbona, la Royal Opera di Copenaghen, il Mariinsky di San Pietroburgo, Il Festival di Pentecoste di Salisburgo. Nel febbraio 2024 ha firmato la messa in scena di Un ballo in maschera di Verdi al Teatro Regio di Torino con la direzione di Riccardo Muti.
Fabrizio Sinisi
Drammaturgo, poeta e scrittore, lavora stabilmente con i maggiori teatri nazionali, collaborando con i più importanti registi della scena italiana. Suoi lavori sono stati tradotti e rappresentati anche in Austria, Croazia, Egitto, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Romania, Spagna, Svezia, Svizzera e Stati Uniti. Ha ottenuto la menzione dell’American Playwrights Project, il Premio Testori per la Letteratura e il Premio Nazionale dei Critici di Teatro.
Francesca Cutolo
Ha lavorato con i più importanti registi di prosa del teatro italiano, tra cui Mario Martone, Carlo Cecchi, Roberto Andò e Antonio Latella. Al teatro affianca da sempre il cinema, lavora per trasmissioni radiofoniche, film TV e serie televisive di grande successo, tra cui The Young Pope e The New Pope per la regia di Paolo Sorrentino.
Francesca Della Monica
Una delle voci più originali nel panorama della musica sperimentale italiana. Lavora come compositrice delle partiture vocali e come preparatrice vocale con importanti registi, ed è stata preparatrice vocale e musicale di Dario Fo.
Marco Foschi
Al fianco di Giorgio Albertazzi in Moby Dick all’Odéon di Parigi, e con Luca Ronconi al Piccolo Teatro di Milano, al teatro ha sempre alternato il cinema e la televisione (miglior attore al Festival di Annecy 2004, menzione d’onore al Cleveland International Film Festival). Ha ricevuto il Premio Ubu come miglior attore giovane (2003), il premio Coppola Prati, il Premio dell’Associazione Critici Italiani, il premio Flaiano, il premio Le Maschere del Teatro, il premio Cavalierato Giovanile.
Roberto Latini
Attore, autore, regista, ha ricevuto il Premio Sipario 2011, il Premio Ubu 2014 – Miglior Attore, il Premio della Critica nel 2015 (interpretazione e regia), il Premio Ubu 2017 – Miglior Attore, il Premio Le Maschere del Teatro – Miglior Spettacolo (regia). Ha diretto ll teatro comico di Carlo Goldoni, produzione Piccolo Teatro di Milano nel 2018. Tra i suoi ultimi lavori Pagliacci All’uscita, da Leoncavallo e Pirandello, e Romeo e Giulietta – stai leggero nel salto.
Frédérique Loliée
Frédérique Loliée è un’attrice francese che lavora in Francia e in Italia. In Italia, diretta da Andrea De Rosa, ottiene il Premio speciale Golden Graal 2006. Lavora al Teatro Stabile di Genova con Matthias Langhoff e Marcial Di Fonzo Bo tra gli altri, e nel 2022 torna a recitare con Matthias Langhoff in Riva fatiscente-Medea/materiali- Paesaggio con Argonauti di Heiner Müller, al Teatro Astra di Torino. Partecipa al film Noi credevamo di Mario Martone.
Fabio Pasquini
Lavora in teatro ricoprendo ruoli da protagonista con importanti registi; al cinema con i fratelli
Taviani e con la regista Marlene Gorris accanto a Emily Watson e John Turturro. Ha partecipato a
sceneggiati radiofonici RAI e a varie fiction televisive.
Roma Teatro Vascello
Daniele Spanò
Dopo una formazione da scenografo inizia l’attività di regista e artista visivo nell’ambito della performance e della videoarte, e firma il disegno video di numerosi spettacoli teatrali. Tra le collaborazioni più importanti quella con il videoartista Gary Hill per la realizzazione della sua installazione al Colosseo di Roma, e la partecipazione al format televisivo scritto e condotto da Takeshi Kitano. Dal 2012 al 2015 è consulente artistico per la Fondazione Romaeuropa. In ambito della videoarte realizza installazioni multimediali sia per spazi pubblici sia per gallerie private (al Made in New York – Media Art Centre; al Cafesjian Center for the Arts di Yerevan-Armenia; al Festival dei Due Mondi – Spoleto).
Pasquale Mari
Direttore della fotografia e disegnatore luci, è attivo nel teatro di prosa, d’opera e nell’arte contemporanea. Collaboratore da lungo tempo di Andrea De Rosa ha lavorato con lui di recente in Solaris (premio Ubu alle luci 2021) e per Processo Galileo. Nel febbraio 2024 ha firmato le luci della sua regia di Un ballo in maschera diretto dal M° Muti al teatro Regio di Torino. Con Mario Martone ha aperto nel 2017 la stagione del Teatro alla Scala con Andrea Chénier, e ha lavorato alle produzioni televisive per RAI Cultura e Teatro dell’Opera di Roma de Il barbiere di Siviglia (Premio Abbiati), La traviata, e all’opera-film Bohème del 2022. In ambito cinematografico, tra le sue direzioni della fotografia più importanti ricordiamo Teatro di Guerra di Martone, Il Bagno turco e Le Fate Ignoranti di Ozpetek, L’Uomo in più di Sorrentino, Lezioni di volo di Archibugi, L’Ora di religione e Buongiorno, Notte di Bellocchio. Nel 2021 ha pubblicato con Cristina Grazioli il volume Dire Luce, ed. Cue Press.
G.U.P. Alcaro
È sound designer e musicista, cura progetti musicali di ricerca come produttore artistico. Condivide il palcoscenico con diversi attori come Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni e Sergio Rubini, oltre a progettare drammaturgie sonore per il teatro di prosa con i migliori registi italiani vincendo il Premio UBU 2014 per Quartett di Heiner Müller e nel 2023 per Lazarus di Valter Malosti. Collabora stabilmente con Andrea De Rosa.
Graziella Pepe
Dal 2015 firma i costumi di spettacoli diretti da Antonio Latella in Italia (Piccolo Teatro di Milano, in Svizzera (Theater Basel), in Germania (Residenztheater di Monaco di Baviera) e in Austria (Burghtheater di Vienna). Collabora negli anni con diversi registi alla Biennale di Venezia e con l’Accademia D’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma.
Roma Teatro Vascello
Campagna abbonamenti
Card libera 108 euro (6 spettacoli a scelta) (ACQUISTA ONLINE) con eventuale scelta del posto
Card love 72 euro (2 spettacoli a scelta per 2 persona) (ACQUISTA ONLINE) con eventuale scelta del posto
Info e prenotazioni esclusivamente tramite abbonamenti Zefiro , Eolo e CARD LIBERA E CARD LOVE info promozioneteatrovascello@gmail.com
Biglietti: Intero 25 euro – Ridotto over 65: 20 euro – Ridotto addetti ai lavori del settore e Cral/Enti convenzionati: 18 euro – Ridotto studenti, studenti universitari, docenti e operatori esclusivamente delle scuole di teatro, cinema e danza 16 euro e gruppi di almeno 10 persone 16 euro a persona È possibile acquistare i biglietti, abbonamenti e card telefonicamente 065881021 con carta di credito e bancomat abilitati,
acquista direttamente alla biglietteria https://www.teatrovascello.it/biglietteria-23-24/
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Come raggiungerci con mezzi privati: Parcheggio per automobili lungo Via delle Mura Gianicolensi, a circa 100 metri dal Teatro. Parcheggi a pagamento vicini al Teatro Vascello: Via Giacinto Carini, 43, Roma; Via Maurizio Quadrio, 22, 00152 Roma, Via R. Giovagnoli, 20,00152 Roma
Con mezzi pubblici: autobus 75 ferma davanti al teatro Vascello che si può prendere da stazione Termini, Colosseo, Piramide, oppure: 44, 710, 870, 871. Treno Metropolitano: da Ostiense fermata Stazione Quattro Venti a due passi dal Teatro Vascello. Oppure fermata della metro Cipro e Treno Metropolitano fino a Stazione Quattro Venti a due passi dal Teatro Vascello
Un conto è leggere a scuola questi desolati versi di Sergio Corazzini (Roma, 1886-1907), come hanno fatto molti studenti, anche recentemente agli ultimi esami di Stato.
Il mio cuore
Il mio cuore è una rossa macchia di sangue dove io bagno senza possa la penna, a dolci prove
eternamente mossa. E la penna si muove e la carta s’arrossa sempre a passioni nove.
Giorno verrà: lo so che questo sangue ardente a un tratto mancherà,
che la mia penna avrà uno schianto stridente… … e allora morirò.
Imagine
La rondine di mare che ieri, mia dolente, volava sopra il lago, con l’alucce sgomente,
erra sempre e la sorte del suo tenero volo? brutal piombo la colse, e cadde, morta, al suolo?
o pur, libera, dopo lungo palpito d’ale, giunse all’immenso, azzurro Oceano natale,
ove ne l’aria, ondeggiano esalazioni amare?… A me, vedi, la piccola rondinella di mare,
stanca, che sfiorava, con l’aluccia sua lieve, l’onde del lago, troppo, per i suoi voli, breve,
a me sembra il tuo cuore instancabile, ardito, cuore di donna, cuore acceso d’infinito,
cuor nostalgico in preda al doloroso senso di cercar, vanamente, per sé un amore immenso!
Rime del cuore morto
O piccolo cuor mio, tu fosti immenso come il cuore di Cristo, ora sei morto; t’accoglie non so più qual triste orto odorato di mammole e d’incenso.
Uomini, io venni al mondo per amare e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti vostri e ho cantato tutti i vostri canti! Io fui lo specchio immenso come il mare.
Ma l’amor onde il cuor morto si gela, fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano! Come un’antenna fu il mio cuore umano, antenna che non seppe mai la vela.
Fu come un sole immenso, senza cielo e senza terra e senza mare, acceso solo per sé, solo per sé sospeso nello spazio. Bruciava e parve gelo.
Fu come una pupilla aperta e pure velata da una palpebra latente; fu come un’ostia enorme, incandescente, alta nei cieli fra due dita pure,
ostia che si spezzò prima d’avere tocche le labbra del sacrificante, ostia le cui piccole parti infrante non trovarono un cuore ove giacere.
Tutta l’anima, tutte le pure
Tutta l’anima mia, tutte le pure gioie godute nella giovinezza; ogni mia più soave tenerezza, tutte le mie speranze malsecure
nelle loro precoci sepolture, l’eterna immensurabile tristezza che il mio cuore dissangua ma non spezza offerte alle mortali creature.
Anima, come vano, come vano l’amor tuo, come triste il disinganno.
Desolazione del povero poeta sentimentale
I
Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta?
II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. Le mie gioie furono semplici, semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.
III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d’amore e di angoscia; solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio, come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza! E non domandarmi; io non saprei dirti che parole così vane, Dio mio, così vane, che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire. Le mie lagrime avrebbero l’aria di sgranare un rosario di tristezza davanti alla mia anima sette volte dolente, ma io non sarei un poeta; sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù. E i sacerdoti del silenzio sono i romori, poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce. Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani, povera tenera preda del primo venuto; e desiderai di essere venduto, di essere battuto di essere costretto a digiunare per potermi mettere a piangere tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro.
VII
Io amo la vita semplice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava! Ma tu non mi comprendi e sorridi. E pensi che io sia malato.
VIII
Oh, io sono, veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen.
Un bacio
Oh, un bacio, un bacio lieve su la tua bocca rossa, un bacio breve, breve piccolo, senza scossa.
Senza che il core possa tremar… no, non lo deve non vo’ che tu per l’ossa senta un brivido lieve…
che faccia il volto esangue… . . . . . . . . .
Oh, un bacio di morente sulla bocca, permetti?
Su quella bocca ardente che pare un fior di sangue trionfante tra i mughetti!
“Io non sono un peota”: i versi di Corazzini, il bimbo che voleva morire articolo di Eraldo Affinati-31 agosto 2021-Fonte il Riformista
Sergio Corazzini
«Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. / Perché tu mi dici: poeta?». Un conto è leggere a scuola questi desolati versi di Sergio Corazzini (Roma, 1886-1907), come hanno fatto molti studenti, anche recentemente agli ultimi esami di Stato. Un altro conto è scandirli in un soffio leggero, nella calura stagnante in mezzo alle zanzare, come è capitato a me dentro l’ottavo colombario al cimitero del Verano (ossario 25, fila II), dove sono conservati i suoi poveri resti. Nel lungo corridoio oscuro, illuminato soltanto dai fiochi raggi provenienti dai lucernai, il volto adolescente del ragazzo splendeva ancor più del solito, nell’unica famosa fotografia che ancora oggi lo ritrae, in ogni manuale del crepuscolarismo, quello stato d’animo sconsolato e malinconico, fra organetti, conventi, suore, cortili, ospedali e sagrestie, individuato per la prima volta da Antonio Borgese nel 1910, il colletto inamidato fin sulla gola, col cravattino stretto sotto il gilet, come usava ai primi del Novecento, il ciuffo di capelli ben pettinato sulla fronte alta, lo sguardo fermo, determinato, rivolto verso il baratro del futuro.
Mi ero deciso a rendere questo omaggio al fanciullo più celebre della letteratura italiana, così diverso da Guido Gozzano in quanto, a differenza sua, privo di vezzi e orpelli, dopo averne riletto i testi appena riproposti in una piccola, preziosa, commovente, meritoria edizione di Internopoesia, a cura di Alessandro Melia: Io non sono un poeta (pp. 156, dodici euro). Andare in libreria, comprare il testo, ritrovare subito il vecchio, mai sopito, incanto di Toblach: «Le speranze perdute, le preghiere / vane, l’audacie folli, i sogni infranti, / le inutili parole de gli amanti / illusi, le impossibili chimere, / e tutte le defunte primavere…», prendere lo scooter e, sfidando le temperature più alte dell’anno, puntare deciso verso l’antico Tiburtino scalcinato, nella città dei morti dispersa fra le circonvallazioni vorticanti, era stato per me un tutt’uno.
«Perché, tu che sai tutto di Roma, / lo chiamate così quel vostro cimitero / con quel nome spagnolo che significa estate?», si chiedeva Vittorio Sereni in una delle sue poesie più belle, Verano e solstizio? La stessa domanda tornava a ronzarmi in testa mentre entravo dal portone principale lasciandomi alle spalle il monumento funebre di Goffredo Mameli, morto nel 1849 nella difesa di Roma, anche lui a soli 21 anni. Ormai il suo inno lo cantano tutti, ma chi rammenta più la vita di questo giovane ardimentoso? Eppure è stato proprio il paladino risorgimentale a spingermi idealmente verso Sergio Corazzini, nato in una famiglia benestante, abitavano in via dei Sediari 24, dietro Piazza Navona, falcidiata dalla tubercolosi e presto travolta dalla più cruda indigenza. Il suo talento lirico si rivelò immediatamente.
A soli sedici anni, già collaborava ai giornali dell’epoca: Il Marforio, Il Rugantino, Il Capitan Fracassa. Attorno a lui si formò un cenacolo di amici, che si riunivano al Caffé Aragno, per i quali il più ispirato coetaneo rappresentò un riferimento carismatico, sia in vita che, ancor più, dopo la morte: una stella cometa che, agli albori del ventesimo secolo, brillò solo per poco nel fondo smagato delle loro sontuose adolescenze. Ricordiamo Fausto Maria Martini, Alberto Tarchiani, Remo Mannoni, Giuseppe Caruso, Giorgio Lais, Auro d’Alba, Giuseppe Altomonte e Guido Milelli. Nomi perduti, volati via come foglie, simili a quelli che decifro nei loculi posti intorno a Sergio: Maddalena Antonelli, Renzo Francia, Antonio Gregori, Gustavo Benedetti, Rinaldo Casadei, Maria Macciocchi, scomparsi tutti in giovanissima età, alcuni addirittura bambini.
“Per chi ricorda Sergio Corazzini”, leggo inciso sul marmo. La sua voce era bianca, fosforica. Egli pare sempre che ci voglia raccontare qualcosa d’importante, si capisce dall’adozione della seconda persona, eppure non ha nulla da dire, se non l’assenza, il vuoto, l’esilio qui, non in un altrove, no, proprio sulla nostra terra: «Sono un fanciullo triste che ha voglia di morire». Quando nell’agosto 1905, in una lettera diretta a Aldo Palazzeschi, scrive: «Il letto bianco e triste che mi accoglie da venti giorni è divenuto il mio trono di questo mondo», non sta recitando. Spirerà l’anno dopo, senza aver ricavato alcuna utilità dal ricovero al sanatorio di Nettuno. I luoghi che frequentò restano fra le nostre dita come una manciata di coriandoli fuori stagione: la tabaccheria di famiglia in Via del Corso, nella stessa strada dove lavorò all’ufficio della compagnia di assicurazioni La Prussiana; le chiese sperdute che amava visitare nei pomeriggi ombrosi e solitari: San Saba, Sant’Urbano, Santa Prassede, San Luca, la Ferratella a San Giovanni.
Ma come dimenticare il Dialogo di marionette, fra De Chirico e il Sogno di una notte di mezza estate, in cui vengono messi a confronto una piccola regina dal cuore di legno e il suo grazioso amico, nello scenario offerto dal balcone di cartapesta, mentre il re dorme? Alla richiesta di sciogliere i lunghi capelli d’oro, lei risponde: «Poeta! non vedete che i miei capelli sono di stoppa?». Lui, dopo qualche battuta, sentenzia: «Siete ironica… Addio!».
Forse un solo poeta può essere posto accanto a Sergio Corazzini: San Francesco. Quasi che nel fondo della semplicità giacesse il segreto di un’arte antica, la bottega artigiana da cui è uscito, come un volo di colombe dal cilindro, il verso novecentesco. È bello leggere i bigliettini che qualche spirito puro continua a depositare sotto i fiori della sua tomba: «Sergio mio, come vedi ogni tanto corro da te in cerca di conforto per la mia anima tormentata…» Così, mentre esco dalla necropoli, tornano a risuonare dentro di me gli ultimi memorabili versi della Morte di Tantalo, nel punto in cui il poeta, con piglio eroico, rompe le catene del tempo: «Andremo per la vita errando per sempre».
Il nonno di Sergio, Filippo Corazzini (sposato con Albina Pera), fu avvocato e funzionario della Dataria Pontificia. In qualità di avvocato, difese il Cardinal Lorenzo Nina, Segretario di Stato Pontificio sotto Papa Leone XIII, a seguito di rivalse di alcuni privati su alcuni beni confiscati dallo Stato all’ex collegio Sistino. Secondo il libro biografico su Sergio Corazzini di Filippo Donini, si disse che i Corazzini fossero imparentati (però non si hanno documenti a tal riguardo e il poeta pare non averne fatto mai menzione) con l’eroe carducciano Eduardo Corazzini, originario di Pieve Santo Stefano, morto per le ferite riportate durante la campagna romana nel 1867.
Per questo la famiglia Corazzini, che si dice romana e papalina, in realtà potrebbe avere origini toscane. Sergio, appartenente ad una famiglia minata dalla tubercolosi (la madre, Carolina Calamani, era cremonese), frequentò qualche anno di scuola elementare a Roma e in seguito, dal 1895 al 1898, si trasferì a Spoleto con il fratello Gualtiero e frequentò il Collegio Nazionale. Ma, a causa delle difficoltà finanziarie in cui si ritrovò la famiglia, il padre Enrico, dimessosi da impiegato al Registro della Dataria Pontificia, fu costretto a ritirare i figli dal collegio.
Sergio continuò il ginnasio a Roma, ma non poté frequentare il liceo perché dovette cercare lavoro presso una compagnia di assicurazioni, “La Prussiana”, per aiutare la famiglia. La compagnia di assicurazione aveva sede in una vecchia casa in via del Corso e la stanza di Sergio era buia e triste, con una finestra ad inferriate che dava sul cortile. Si possono trovare numerosi riferimenti a questo luogo nei versi di Soliloqui di un pazzo. Il passare da una vita agiata alla povertà, dovuta alle errate speculazioni in borsa e al libertinaggio del padre, cambiò completamente le condizioni spirituali del poeta che da questo momento non ebbe certo vita felice (la madre era ammalata di tisi, il fratello Gualtiero morirà della stessa malattia, il fratello Erberto perirà in un incidente d’auto in Libia e il padre morirà in un ospizio).
Amante delle lettere, Sergio non rinunciò tuttavia alla lettura dei suoi poeti preferiti, quelli contemporanei, non solo italiani (la triade Carducci, Pascoli e D’Annunzio), ma anche i provinciali francesi e fiamminghi come Francis Jammes, Albert Samain, Charles Guérin, Maurice Maeterlinck, Georges Rodenbach, Jules Laforgue, e quelli dialettali. Le sue intense letture lo aiutarono nel suo esordio poetico e i suoi primi componimenti apparvero su giornali popolareschi.
Il 17 maggio 1902 scriverà il suo primo sonetto, Na bella idea, in romanesco pubblicato in “Pasquino de Roma” al quale seguirà, il 14 settembre 1902, il sonetto di settenari in lingua, Partenza, pubblicato sul “Rugantino” e dai versi liberi, La tipografia abbandonata, usciti su “Marforio”. Si trattava di versi dai temi realistici che rivelavano, nel giovanissimo autore, una precoce predisposizione ad osservare i fatti della vita. Si trovano in essi allusioni alla malattia già latente e in un sonetto del 1906, Vinto, vi sono amare riflessioni sulla perdita della felicità.
Gli ultimi anni di vita
Nella primavera del 1905 la precaria salute del giovane poeta, malato di tubercolosi, lo costrinse a soggiornare in un sanatorio a Nocera Umbra dove conobbe una giovane danese, Sania, per la quale provò un intenso e platonico innamoramento. Nel giugno dello stesso anno il poeta si recò a Cremona, città natale della madre, per cercare un aiuto economico dai parenti materni e conobbe una giovane pasticciera con la quale inizierà una breve corrispondenza epistolare. Tra il 1904 e il 1906 furono pubblicate le sue raccolte poetiche: Dolcezze (1904), L’amaro calice (1905), Le aureole (1906), Piccolo libro inutile (1906), Elegia (1906), Libro per la sera della domenica (1906).
Nel 1906 Corazzini, per l’aggravarsi della malattia, venne ricoverato nella casa dei Fatebenefratelli di Nettuno. Dal sanatorio iniziò la corrispondenza con Aldo Palazzeschi e lavorò alla traduzione della Semiramide di Joséphin Péladan che veniva annunciata su “Vita letteraria” come opera di collaborazione con G. Milelli. Nel maggio del 1907 Corazzini ritornò a Roma ma il suo stato di salute peggiorò e il 17 giugno morì di etisia (tubercolosi) nella sua casa di via dei Sediari. È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.
Poetica
Il crepuscolarismo di Corazzini, che adotta il verso libero e si mostra sensibile alla lezione simbolista, ha anche un forte valore di proposta esistenziale; il poeta si presenta come un fanciullo malato, fino a negare, paradossalmente, il significato di poesia alla sua povera scrittura dell’anima. La sua poesia è focalizzata su “piccole cose”, dietro le quali non emergono valori segreti, ma si nasconde il vuoto, tipico dei poeti crepuscolari tra i quali Corazzini fu annoverato. I suoi versi esprimono da un lato un malinconico desiderio per quella vita che la malattia gli negava, dall’altro un nostalgico ritrarsi dall’esistenza presente, proprio perché avara di prospettive future.
Nelle poesie di Corazzini si possono cogliere due momenti: quello del povero poeta sentimentale che racconta la propria malinconia con un linguaggio semplice e dimesso e quello del poeta ironico che adotta un linguaggio meno trasparente, più polisemico, a volte addirittura simbolico.
In Desolazione del povero poeta sentimentale si esprime tutta la poetica di Corazzini dove il “piccolo fanciullo che piange” proclama l’impossibilità di essere chiamato “poeta”, affermando così, per la prima volta, la concezione della poetica crepuscolare così in contrasto con il trionfante dannunzianesimo.
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Letizia Battaglia- A cura di Walter Guadagnini-Dario Cimorelli Editore-
lI volume su Letizia Battaglia , a cura di Walter Guadagnini ,nasce in occasione della grande retrospettiva dedicata dal Jeu de Paume alla fotografa e attivista italiana .Letizia Battaglia(1935-2022) e presentata allo Château de Tours.
Letizia Battaglia-
Famosa per il suo lavoro su Cosa Nostra, la mafia siciliana che regnò negli Anni di Piombo, il suo lavoro colossale – ha prodotto più di 500.000 fotografie – è tuttavia molto vario. Questo volume rivela il viaggio incandescente della fotografa dai suoi esordi a Milano negli anni ‘70 fino alla sua morte nel 2022 nella sua città natale. Mette in risalto, attraverso una selezione di circa 200 stampe originali e moderne, la straordinaria capacità di Letizia Battaglia di mostrare al mondo con passione ardente, in modo diretto, senza nascondere alcun aspetto, da quello più spaventoso a quello più poetico.
Allegati
Alcune immagini del libro
Indice
Letizia Battaglia. Diventare il mondo / Letizia Battaglia. Become the world Walter Guadagnini “Non c’era niente di erotico”. Letizia Battaglia giornalista / “There was nothing erotic there.” Letizia Battaglia, journalist Monica Poggi Sorelle di lotta: Letizia Battaglia e Donna Ferrato, Mary Ellen Mark e Susan Meiselas / Sisters-in-arms: Letizia Battaglia and Donna Ferrato, Mary Ellen Mark and Susan Meiselas Melissa Harris Essere una fotoreporter non bastava: l’impegno di Letizia Battaglia nell’editoria (1986-2006) / Being a photo reporter was not enough: Letizia Battaglia’s (1986-2006) Marta Sollima Opere / Works
Gli inizi / The beginnings
Palermo e Sicilia, gli anni Settanta / Palermo and Sicily, the 1970s
Mafia, gli anni Settanta / The mafia, the 1970s
Palermo e Sicilia, gli anni Ottanta / Palermo and Sicily, the 1980s
Mafia, gli anni Ottanta / The mafia, the 1980s
Palermo e Sicilia, le feste religiose / Palermo and Sicily, religious festivals
Real casa dei matti: l’istituto psichiatrico di Palermo / Real casa dei matti, Palermo psychiatric hospital Nuovi orizzonti: gli anni Ottanta / New horizons, the 1980s
A cavallo tra i secoli, la Sicilia, la mafia, il mondo / From one century to the next, Sicily, the mafia and the world
Biografia di Letizia Battaglia / biography of Letizia Battaglia
Biografie degli autori / Biography of the authors
Walter Guadagnini
Walter Guadagnini
Walter Guadagnini è nato a Cavalese (Trento) nel 1961. Si è laureato in Lettere Moderne alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna nel 1985, con una tesi in Storia dell’Arte Contemporanea. Vive e lavora a Bologna, dove dal 1992 è titolare di una cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti. Dal 2011 tiene la cattedra di Storia della Fotografia ed è coordinatore del Biennio Specialistico in Fotografia della stessa Accademia.
Ha diretto dal 1995 al 2005 la Galleria Civica di Modena. Dal 1995 al 2003 ha diretto la manifestazione internazionale Modena per la fotografia. Presidente dal 2004 della Commissione Scientifica del progetto UniCredit e l’Arte, nel 2007 cura la mostra Pop Art! 1956-1968 alle Scuderie del Quirinale, Roma. Nel 2007 è Commissaire Unique per la sezione italiana all’interno di Paris Photo. Nel 2008 cura insieme a Francesco Zanot Faces -Ritratti nella fotografia del XX secolo alla Fondazione Ragghianti di Lucca. Nel 2009 cura la mostra Past Present Future – Highlights from the UniCredit Group Collection al Kunstforum di Vienna. Nel 2011 cura le mostre Things are queer al MARTa Museum di Herford e People and the City al Winzavod Centre for Contemporary Art di Mosca. Nel 2013 cura la mostra Andy Warhol – Una storia americana a Palazzo Blu di Pisa (con C.Ceppi Zevi) e le mostre collettive Territori instabili – Confini e identità nell’arte contemporanea al CCC Strozzina di Firenze (con F.Nori) e La Grande Magia al MAMbo di Bologna (con G.Maraniello). Nel 2014 cura la mostra Facts and Fictions al MAMM di Mosca.
Nel 2000 ha pubblicato il volume Fotografia per l’editore Zanichelli, Bologna. Nel 2007 pubblica il volume 100 – La fotografia in cento immagini per Motta Editore, Milano. Nel 2010 pubblica Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo per Zanichelli, Bologna.
È curatore del progetto editoriale La Fotografia, in 4 volumi pubblicati dal 2011 al 2014 dalla casa editrice Skira, edizione italiana e inglese.
Dal 1995 al 2003 ha collaborato come critico d’arte con il quotidiano «La Repubblica». Dal 2006 è responsabile della sezione fotografia de «Il Giornale dell’Arte». Dal 2008 al 2009 è stato co-direttore della rivista «FMR – Bianca».
Allegate n.5 foto relative alla Processione del 1992.
Filetta , località sita a 5km. dal capoluogo Amatrice, dove il 22 maggio 1472 ,dalla pastorella Chiara Valente, fu trovata una piccola immagine incisa su di un cammeo , che fu venerata dal popolo.
AMATRICE-Santuario di Filetta del sec. XV:
Nello stesso anno(1472), nel luogo in cui avvenne il rinvenimento dell’Immagine , fu eretta la chiesa di Santa Maria dell’Ascensione.
Il Santuario, nella facciata principale , presenta un portale ad arco acuto, un campanile a doppia vela e, lateralmente, un secondo ingresso.
L’interno della chiesa è ad una sola navata, il soffitto è a carena. I dipinti, di notevole interesse, sono opera degli Artisti Dioniso Cappelli, Pier Paolo da Fermo e di altri pittori minori locali.
Ogni anno, la domenica dopo l’Ascensione, il reliquiario, contenente la Sacra immagine, è portato in processione , dalla chiesa di San Francesco di Amatrice sino al Santuario di Filetta.
La Processione, prima di avviarsi verso Filetta, sosta nella chiesa del Crocifisso in Amatrice, dove il reliquiario viene preso in consegna, dopo una piccola cerimonia, dal Parroco di S.S. Lorenzo a Flaviano, il quale ha la giurisdizione ecclesiastica su Filetta.
La processione dei fedeli riprende il cammino e giunta al torrente Mareta si congiunge con i cortei delle Confraternite di S.S. Lorenzo a Flaviano, che hanno il privilegio di accompagnare la Madonna del Santuario di Filetta, restando, come indica il cerimoniere, in prima fila. Questa processione , come è sopra descritta, si rinnova da secoli rispettando ogni parte del vecchio cerimoniale.
Le foto allegate al post:
A) Madonna di Filetta;
B) Santuario di Filetta del sec. XV:
C) Filetta di Amatrice – la casa della pastorella Chiara Valente, la quale, il 22 maggio del 1472, trovò la Sacra Immagine della Madonna;
D) Amatrice-Chiesa di San Francesco (sec.XIII)-Altare ligneo con fregi, capitelli e pregiati lavori d’intaglio. Al centro, la Sacra Immagine della Madonna di Filetta, custodita nell’artistico e prezioso reliquiario- Particolare :le famose 7 chiavi con cui viene chiusa.
E) Seguono n.5 foto relative alla Processione del 1992.
AMATRICE- Festa della Madonna della Filetta.AMATRICE-Santuario di Filetta del sec. XV:Filetta di Amatrice – la casa della pastorella Chiara Valente, la quale, il 22 maggio del 1472, trovò la Sacra Immagine della Madonna;AMATRICE-Sacra Immagine della Madonna di FilettaAMATRICE-foto relative alla Processione del 1992.AMATRICE-foto relative alla Processione del 1992.AMATRICE-foto relative alla Processione del 1992.AMATRICE-foto relative alla Processione del 1992.
Richard Newbury- Elisabetta I-Una donna alle origini del mondo moderno-Editore Claudiana-
Descrizione del libro di Richard Newbury ci regala un ritratto – affettuoso e pieno di humour – di Elisabetta I, sovrana che rifiutò di diventare regina consorte. Ereditato un paese sull’orlo della guerra civile e di religione, Elisabetta regnò per quasi mezzo secolo: pacificò e fece della debole Inghilterra cattolica una potente nazione protestante – la cui chiesa è oggi la terza tra quelle cristiane –, con il primo governo parlamentare dell’era moderna nonché una marina, una City e una lingua destinate a conquistare il mondo.
Papa Sisto V disse di lei: «Guardate come governa! È solo una donna, solo la signora di mezza isola eppure si fa temere da tutti». La presente è la terza edizione.«Nel suo divertente ritratto – che inevitabilmente si tinge dei colori dell’autore – Richard Newbury dichiara che il frutto di questa regina, che scelse di rimanere senza figli per il bene del suo paese e del suo popolo, “siamo tutti noi”, è il mondo moderno, il liberalismo che può essere sintetizzato con massima: “Tutto è lecito purché non si facciano scartare i cavalli”. Elisabetta è l’origine di quella democrazia parlamentare che, per parafrasare un suo altro grande eccentrico figlio, Winston Churchill, per quanto piena di difetti è il miglior sistema di governo che l’umanità abbia finora prodotto. Grazie, per cominciare, alla capricciosa e testarda regina dai capelli rossi, gran diva a cui, non a caso, soltanto negli ultimi vent’anni Hollywood ha dedicato tre film e altrettante pellicole sono state realizzate dalla BBC».
Dall’Introduzione di Erica Scroppo
Indice testuale
Introduzione di Erica Scroppo
1.Il naso di cleopatra
2.La figlia di papà
3.Elisabetta, la figlia di un’incestuosa ed eretica sgualdrina
4.Quando la manica divenne una barriera. Nebbia sulla manica: continente isolato
5.Nascita di un’erede al trono o della figlia illegittima di una sgualdrina?
6.Istruzione accademica e per la sopravvivenza
7.Scampare alla mannaia, ovvero: come avere successo
8.Oh signore! La regina è una donna!
9.Il settlement elisabettiano
10.Il dolce Robin
11.Il mostruoso regime delle donne
12.«Conoscevo Doris Day prima che diventasse vergine» (Groucho Marx)
13.Le due cugine
14.Un ospite indesiderato
15.Testa e croce
16.Il Ranocchio della regina
17.Figlia della discordia
18.L’apoteosi di Elisabetta e la chiave di volta della storia europea: la sconfitta dell’Armada spagnola
19.Martiri ed esuli
20.La sfida puritana, più temibile di quella papista
21.Elisabetta e i cattolici
22.La decapitazione del toyboy 23.Regina quondam reginaque futura
Biografia dell’autore
Richard Newbury storico e giornalista, vive e lavora a Cambridge e a Torre Pellice (To). Collaboratore de “La Stampa” e “Il Foglio”, per Claudiana ha pubblicato anche La regina Vittoria (2011) e Oliver Cromwell (2013).
Il “Lamento di Khajeh” (secolo XIX) è uno dei più celebri poemi popolari della Letteratura Kurda
Siyaband, bandito gentiluomo, dopo molte avventure rapisce la bellissima Khajeh, figlia del principe, che altrimenti non potrebbe sposare. I due giovani vivono felicemi per tre giorni sul monte Sipan, finchè Siyaband, andando a caccia, viene spinto da un cervo giù da un precipizio. Non teme la morte, ma piange la sorte della giovane sposa. E Khajeh si getta nel baratro, per morire abbracciata a Siyaband. è una delle leggende più popolari del folklore Kurdo.
“Lamento di Khajeh”
Siyaband, Siyaband! Non parlare. Chi avrebbe predetto una fine così triste? E non dovrei piangere, non dovrei versare lacrime calde, di sangue? Dormi, amor mio, dormi. I tuoi lamenti tristi e profondi sono lamenti di morte. Come resistere, come non piangere se i tuoi sospiri per me arrivano dritti al mio cuore? Cadono lacrime sul mio dolore. Dormi, amor mio, dormi.
Perchè piangi, Siyaband, perchè piangi ancora? Mi hai lasciato, sei corso lungo l’abisso. Sapevi che senza di te non ho protezione, sostegno. Come potrebbe la mia ferita guarire? Dormi, amor mio, dormi.
Oh Sipan, oh rocce di Sipan! Non fermatemi! Apritemi la via, portatemi da Siyaband! Oh Sipan, apri un sentiero, un passaggio, fa’ che io passi, che vada sarò di Siyaband la tomba, non solo la sposa!
Una poesia dolcemente erotica:
“Sono la rosa selvatica” (secolo XIX; qualche verso)
Sono la rosa selvatica non ancora dischiusa coperta di rugiada, tutta rorida. Se tu non mi tocchi io non fiorirò se tu non mi tocchi non esalerò il mio profumo. Sono la rosa selvatica, la rosa di montagna lontana da te… L’amore sboccia con le carezze tu, con amore, rendi morbida la terra intorno a me!
Una straziante ballata d’amore, su una donna crudele e il suo innamorato disposto al sacrificio:
“Rose di sangue” (secolo XIX)
“Guarda, c’è festa e si danza laggiù, ascolta il dahol, il flauto e lo zorna; (*) abiti variopinti, brusio di parole non manca che il frusciar della tua seta. Dammi la mano, ti prego, affrettiamoci! Corriamo alla danza, lieti del nostro amore.”
“Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata alla festa non vengo, non vengo a danzare.”
“Per la tua bellezza, per la tua bellezza, per gli sguardi furtivi vicino alla sorgente: l’autunno ha già spogliato alberi e giardini. Dove trovo le rose? Ormai han le labbra chiuse.”
“Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata alla festa non vengo, non vengo a danzare. Se il tuo amore fosse vero, se mi avessi dato il cuore, coglieresti le rose nel giardino del pascià.”
“Il giardino del pascià è di là del fiume, tutto circondato da sgherri assassini. Se ci vado corro mille e mille rischi, se non vado la mia diletta si offenderà.”
“Senza sosta ho cercato nel giardino del pascià, ecco le rose gialle che ho colto per te; di rose rosse, ahimè, non ne ho trovate. Verrai ora alla festa, a danzare con me?”
“Mai, se non ho rose rosse per ornarmi le chiome!”
“Non vuoi questa ferita, rossa come le rose?”
“Le armi del nemico, ahimè, ti hanno insanguinato! Vieni, appoggia il tuo capo qui sul mio seno, lascia ch’io pianga il tuo cuore amato, perso per una rosa!”
(*) Il Dahol è una specie di tamburo, lo Zorna una sorta di clarinetto.
Poesia Kurda
“La canna e il vento” di Sherko Bekas (qualche verso)
“Da quel giorno le ferite degli amanti parlano con le dita del vento e cantano, ovunque nel mondo, da quel giorno.”
Sherko Bekas fu colpito da un mandato di cattura per la sua attività poetica, si unisce ai partigiani combattenti Pesh Merga e diventa la voce della resistenza Kurda, alternando poesia e lotta armata. Nel 1987 si rifugia in Svezia, pubblicando poesie, romanzi, opere teatrali e ricevendo il premio del Pen Club svedese. Tornato nel Kurdistan liberato, diventa ministro per la Cultura della Regione autonoma del Kurdistan iracheno dalla sua fondazione (1992)
“La nostra poesia è scritta con le lacrime” di Mehmet Emin Bozarslan (qualche verso)
La fantasia tesse nuovi racconti, ricama con fili di lacrime, con colori di sangue, del sangue dei ragazzi e delle ragazze che scorre eroico sui nostri monti, su queste montagne kurde.
“Sirio” di Goran, poeta nato nel 1904 e morto, dopo persecuzioni e carcere, nel 1981. Nelle sue poesie utilizzò le forme antiche della metrica Kurda, rifiutando la metrica della poesia medio-orientale.
Il tramonto! E la memoria disperde il respiro del vento invita la mia anima scura e greve a una cerimonia di dolore.
Il mondo pacificato dal silenzio è un oceano senza confini in esso il mio pianto si alza come calda melodia.
L’oscurità ha chiuso il sipario ha velato il volto della terra immagini di desiderio indistinguibili attraverso lacrime brucianti.
Il mio cuore è spinto nel vuoto oscuro della disperazione oh se tu mi salvassi, stella – splendente Sirio!
Sirio che sorridi con le labbra rosse della prima luce tu puoi arrestare la malinconia che scorre dal mio cuore Un tuo fluido sguardo tocca il mio spirito oscuro fa che la notte che viene splenda di pietà sulla mia testa china.
Ascolta Stella dei Re; ascolta, bianca splendente Sirio! Sorgi, asciuga con i tuoi capelli le lacrime degli occhi della notte!
Ora qualche notizia storica-letteraria, tratta dalle note di Ibrahim Ahmad e Laura Schrader, in “Canti d’amore e di libertà del popolo Kurdo” (Tascabili Economici Newton)
“La poesia (…) è diventata un’arma molto efficace e forte nella lotta dei popoli per la libertà, l’autodeterminazione, la democrazia, la pace. Alcuni poeti hanno combattuto sul campo di battaglia e hanno dato la vita, come martiri. L’oppressione, la tirannia degli occupanti del Kurdistan, torturatori dei Kurdi, hanno dunque provocato una rivoluzione anche nella poesia.” (Ibrahim Ahmad)
“Per la sua posizione strategica e per le sue risorse (…) il Kurdistan è stato sottoposto a diverse dominazioni. Ma, se nelle città e presso le corti principesche i letterati – molti, non tutti – adottarono per le loro opere, nei secoli scorsi, l’arabo, il persiano, il turco, nei villaggi si sono tramandate una lingua e una poesia multiforme (…) la lingua Kurda è la lingua dell’Avesta. Alcune parole Kurde di oggi sono le stesse usate da Zardasht (Zarathustra) nelle Ghata, gli inni sacri scritti di cui rimangono pochi frammenti.”
“La poesia popolare Kurda si canta, e anche le liriche contemporanee vengono dette con voce, cadenze e tono che sono musicali (…) Il divieto islamico di far musica al di fuori del contesto religioso non ebbe alcun ascolto da parte Kurda. Fanno parte del folklore poemi epici, cavallereschi, d’amore in molte versioni, che cantano i bardi: fiabe, leggende, racconti, ballate e canti dedicati ai villaggi, alle stagioni, alla natura, all’amore.”
“Originariamente, una delle forme di poesia popolare tra le più note, il Laùk, tipico di molte aree del Kurdistan settentrionale, era composto e cantato esclusivamente dalle donne, ma non perchè fossero musiciste di mestiere. Le donne, soprattutto in occasione di fatti d’arme, cantavano le gesta del marito, del figlio, del fratello o ne celebravano il ricordo di fronte alla famiglia, al villaggio, all’assemblea della tribù. In alcuni aspetti della cultura e della lingua Kurda affiorano tracce di matriarcato, resti di una civiltà remota eppure tenace, tanto da aver resistito all’offensiva antifemminile del Corano: la donna Kurda ha mantenuto un ruolo importante, anche a capo di clan e principati in pace e in guerra, nei movimenti indipendentisti e nella resistenza. In Kurdistan, viaggiatori ed etnologi dei secoli scorsi notavano innanzitutto che le donne anzichè nascondersi sotto il velo informe in uso negli altri paesi islamici, indossavano abiti dai colori splendenti che mettono in risalto la femminilità, e che le danze popolari di donne e uomini insieme, parte integrante della vita sociale, erano motivo di scandalo per i popoli vicini.” (Laura Schrader)
Il poeta più importante della Letteratura Kurda è Ahmadi Khani (1651-1707), il “Dante Kurdo”, autore del poema epico “Mam e Zin”.
In epoca moderna i Kurdi sono stati massacrati. Leggo dalle note di Laura Schrader che:
“Fino a due anni fa in Turchia era vietato l’uso della lingua Kurda anche in privato. I familiari dei Kurdi, incarcerati e torturati anche se bambini o bambine con accuse di “separatismo”, dovevano limitarsi a guardare in silenzio, piangendo, i loro parenti nelle ore di visita, non conoscendo altra lingua che il Kurdo per comunicare con loro.”
Così Hejar ha espresso in versi la disperazione del suo popolo nella sua poesia “Il nostro destino”:
“Ai nostri oppressori, tutta la ricchezza del petrolio. A noi, neppure quel poco che serve per alimentare la lampada nelle nostre notti oscure. Gli stranieri del nostro paese si sono ingozzati, saziati del nostro patire. E noi, poveri, infelici, miserabili trasciniamo brevi esistenze di terrore. Vietata a noi la lingua materna. Vietato a noi respirare. Massacrati i nostri giovani, a migliaia e migliaia. Desiderare la libertà, chiedere la libertà è diventato un crimine per noi, i Kurdi.”
Il poeta Khabat, parlando dei bombardamenti iracheni con armi chimiche nel 1988 sulla città Kurda di Halabja, poi distrutta con la dinamite:
“Era pomeriggio. Nubi grevi di morte scendono sulla città 18 minuti terremoto paura, silenzio. Corpi rossi di sangue ritagliano aiuole di fiori.”
(da “La canzone della città uccisa”)
“L’Est” è l’espressione usata in Turchia per indicare il Kurdistan, parola che fino a due anni fa era vietato pronunciare.
Il poeta Cahit Külebi così ricorda, nei suoi versi:
“Nero sangue inonda le notti trascina morte, trascina disperazione. […] Un sorso di agonia dalla mano di chi amate è tutto quello che aveste da bere, e che berrete. Questo è l’Est. Negli occhi, sguardo di agnelli al macello.”
e il poeta Latif :
“Il cibo diventa sangue nel corpo”
e Ferhad Shakely :
“Lentamente vagano le ore nel buio di strade, vicoli, mercati trascinando dolore, tristezza ore impiccate agli alberi e ai muri gente trafitta dalle lance della sventura. Il tempo, qui, è una macchina e la manovra la polizia.”
(“Kamishli”, città del Kurdistan, in Siria)
“A sera, quando la luce lascia le fradice tristi finestre della tua stanza ti siedi, specchiandoti nel vetro scuro, annebbiato contando una a una le gocce di pioggia che battono sulle fradice tristi finestre della tua stanza. Guardi lontano. Il cielo è come un manto scuro indistinto; su di esso, neppure un fiore (…) Acuisci lo sguardo e ti accorgi che la terra si è fatta velo rosso sangue. (…) Tu sai che in questa notte tutti i tuoi sogni saranno impiccati alle forche di questa città. (…) Scorgo un barlume di luce e lo chiamo Kurdistan. O Kurdistan! Culla di lacrime, di gloria e d’amore! Terra sanguinante di sangue, suolo ferito dalle ferite. Paese addolorato dal dolore. Siedo alla finestra della notte e osservo gli infiniti percorsi dell’oscurità. (…) Il mio cuore vorrebbe come una nuvola gonfia sciogliersi in pioggia sulle vette rosate confondendosi nel crepuscolo.”
(“Kurdistan, la terra sanguinante”)
Chi volesse sentire una band Metal Kurda: Ferec (caricati su YouTube)
ORVINIO SABINO -Carlo Magno e La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –
Si pensa che l’origine della struttura di Santa Maria del Piano possa risalire al IX secolo, collegata ad una vittoria dell’esercito di Carlo Magno sui Saraceni nella pianura adiacente. Dopo un periodo di notevole dinamismo e operosità, quando i monaci benedettini, legati alla potente abbazia di Farfa, estendevano i loro possedimenti su diversi paesi dei dintorni, a partire dal ‘500 iniziò una lunga fase di declino e abbandono in cui il sito veniva frequentato solo per alcune celebrazioni e le consuetudini rurali.
Un uso temporaneo come cimitero durante l’800, sommato a ripetuti crolli e saccheggi che i vari restauri non sono riusciti ad arginare, hanno condotto all’aspetto attuale. Il monumento, per quanto affascinante e armonicamente inserito nel paesaggio, risulta ormai privo di molti elementi architettonici impiegati per la sua costruzione e provenienti da resti di edifici romani e medievali della zona (capitelli, stipiti, fregi, bassorilievi). E’ interessante notare come per questi materiali, che in gergo tecnico vengono definiti “di spoglio” perché derivano dallo smantellamento di qualcosa di preesistente, il destino tenda a ripetersi.
Oggi di proprietà dello Stato, fino agli anni ’70 la struttura era del Comune di Orvinio , anche se dal punto di vista amministrativo l’area ricade nel comune di Pozzaglia Sabino . In tempi remoti, fra gli abitanti di questi due paesi si sono accese diverse contese per il possesso dell’abbazia e delle sue terre.
ORVINIO SABINO-La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –
ORVINIO SABINO-La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –
Pillole di storia
I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
ORVINIO SABINO-La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –ORVINIO SABINO-La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –ORVINIO SABINO-La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –ORVINIO SABINO-La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –ORVINIO SABINO-La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –ORVINIO SABINO-La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –ORVINIO SABINO-La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960- A cura di Walter Guadagnini, Monica Poggi- Dario Cimorelli Editore-
Margaret Bourke-White (1904-1971), è una tra le fotografe più autorevoli della storia del fotogiornalismo. Fu tra le prime donne fotografe ad affrontare un ambiente ed un settore fino ad allora prettamente maschile, la prima fotografa straniera ad avere il permesso di scattare foto in URSS e la prima donna fotografa a realizzare una copertina di Life.
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Il volume monografico presenta l’opera di questa pioniera dell’informazione e dell’immagine, Margaret Bourke-White ha esplorato ogni aspetto della fotografia: dalle prime immagini dedicate al mondo dell’industria e ai progetti corporate, fino ai grandi reportage per le testate internazionali più importanti; dalle cronache sul secondo conflitto mondiale, ai celebri ritratti di Stalin prima e poi di Gandhi; dal Sud Africa dell’apartheid, all’America dei conflitti razziali fino al brivido delle visioni aeree del continente americano.
Allegati-Alcune immagini del libro
Indice
Margaret Bourke-White Una vita sul tetto del mondo Monica Poggi Il talento di Miss Bourke-White Margaret e la scrittura Alessandra Mauro I primi servizi di “Life”
L’incanto delle fabbriche e dei grattacieli
Ritrarre l’utopia in Russia
Cielo e fango: le fotografie della guerra
Il mondo senza confini: i reportage in India, Pakistan e Corea
Oro, diamanti e Coca-Cola
Biografia
Bibliografia
Nacque nel Bronx il 14 giugno 1904, figlia di Joseph White, inventore e naturalista e Minnie Bourke; avviata agli studi di biologia frequentò, ancora studentessa del college, alcuni corsi di fotografia[1].
La carriera professionale inizia nel 1927. All’età di vent’anni iniziò a scattare fotografie industriali.
Nel 1929 si compì la svolta professionale: conobbe Henry Luce, caporedattore di Time, che la invitò a trasferirsi a New York per collaborare alla fondazione di una nuova rivista illustrata: Fortune[2].
Erano gli anni della Depressione e dell’importante campagna fotografica della Farm Security Administration e anche la Bourke-White con il futuro marito, lo scrittore Erskine Caldwell, intraprese un viaggio di ricerca e documentazione sociale nel sud, che sfociò nella pubblicazione del libro You Have Seen Their Faces. La fotografia della Bourke-White fu emblematica sia per i contenuti che per lo stile. Fin dagli inizi, la sua carriera abbracciò la visione moderna tipica di quegli anni, di un mondo dominato dalla fede nel potere della macchina e della tecnologia.
Nonostante i suoi viaggi e il rapporto con Fortune, fino al 1936 mantenne un proprio studio, per i lavori industriali e di corporate senza per questo trascurare le diverse possibilità per libri, mostre e lavori indipendenti.
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Il primo numero della rivista Life, del 23 novembre 1936, utilizzò una sua foto per la copertina. Era uno scatto dei lavori finiti (grazie al New Deal) della diga di Fort Peck, nel Montana: un’immagine che fece il giro del mondo e che segnò un punto di svolta della professione del fotografo nell’universo femminile.
Da quel momento Margaret Bourke-White iniziò un’assidua collaborazione con la prestigiosa rivista e copre reportages dalla Seconda Guerra mondiale, all’assedio di Mosca, dalla guerra in Corea, alle rivolte sudafricane. Al fotogiornalismo la Bourke-White dedicherà la maggior parte della sua carriera[3].
La Bourke-White si considerò sempre una fotografa seria e impegnata in un’altrettanto seria missione. Dopo aver scattato le fotografie della Cecoslovacchia invasa dai tedeschi nel 1938, credette che la macchina fotografica potesse salvare la democrazia del mondo: “sono fermamente convinta che il fascismo non avrebbe preso il potere in Europa se ci fosse stata una stampa veramente libera che potesse informare la gente invece di ingannarla con false promesse”.
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Fu con il marito in Unione Sovietica nel 1941, quando venne invasa dai nazisti (la Bourke-White fu non solo l’unica fotografa americana testimone dell’evento, ma anche la sola fotografa straniera a Mosca).
Grazie all’intervento di Roosevelt scattò il primo ritratto non ufficiale di Stalin, anche l’unico per molti anni, con circolazione autorizzata al di fuori dell’URSS. Nel 1943 fu la prima donna ad accompagnare i caccia statunitensi che bombardavano e fotografò quello che fu uno dei più violenti attacchi all’esercito tedesco.
A seguito del reggimento statunitense, fotografa gli assedi della linea gotica (zone di Loiano e Livergnano nell’Appennino Emiliano)[4]. Entrò a Buchenwald il giorno dopo la liberazione dei prigionieri e fece parte del gruppo che scoprì, prima ancora dell’esercito, il campo di Erla. Nel 1952 capì per prima i tragici risvolti della guerra di Corea.
Perseguendo la sua missione lei stessa divenne leggenda: nel 1937 durante un servizio nell’Artico il suo aereo fece un atterraggio di fortuna e si interruppe per giorni e giorni ogni contatto; nel 1942 in navigazione verso il Nord Africa la nave fu silurata nel Mediterraneo e passò una notte e un giorno su una scialuppa di salvataggio.
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Nel 1953, all’età di 49 anni, le venne diagnosticata la malattia di Parkinson. Quando nel 1959 non fu più in grado di lavorare, si sottopose ad un intervento chirurgico al cervello che fu documentato sui giornali. Da quel momento ridusse drasticamente l’attività di fotografa e si dedicò alla scrittura. L’autobiografia Il mio ritratto, venne pubblicata nel 1963 e fu un bestseller.
Dopo una caduta nella sua casa di Darien, nel Connecticut, morì il 27 agosto 1971, all’età di 67 anni[2].
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Stile
Nel 1928 affermò su un giornale che “l’industria è il vero luogo dell’arte” e due anni più tardi che “i ponti, le navi, le officine hanno una bellezza inconscia e riflettono lo spirito del momento”.
Nella composizione delle sue prime immagini, si può notare una stretta relazione con la pittura cubista, la sovrapposizione dei piani, le geometrie astratte, la riduzione da tridimensionale a bidimensionale; e fu senza dubbio altrettanto importante l’influenza del cinema espressionista russo e tedesco, da cui derivano la drammaticità degli effetti di luce e la suggestione per l’astratto. Accanto all’aspetto teatrale, e a volte retorico, della sua fotografia industriale, ha sicuramente contribuito alla sua fortuna anche un certo aspetto romantico: la nazione aveva bisogno di credere e sognare della tecnologia, una delle poche speranze per controbattere l’insorgere della Depressione.
Negli anni Trenta la Bourke-White muove la sua ricerca sulla scia di altri fotografi, da László Moholy-Nagy a Edward Steichen, verso il dinamismo dell’astratto: le fotografie della Elgin Watch Company o della Singer rivelano un’immagine senza alto né basso, senza punto focale, così che l’occhio è costretto a vagare sull’intera superficie. L’immagine è una successione di oggetti senza fine ed un’inquadratura puramente arbitraria di un mondo che si estende ben oltre di essa. Uno straordinario esempio di questa pratica è il foto-murales per il palazzo della NBC al Rockfeller Center datato 1933, conservato sul luogo fino agli anni ’50 e successivamente rimosso e mai più mostrato in pubblico.
Solo verso la fine della sua lunga e brillante professione, nei primi anni ’50, ritorna la passione per l’astratto con alcuni interessantissimi esperimenti di fotografia aerea che precorrono molta pittura della fine degli anni cinquanta e sessanta.
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Della sua professione di donna fotografa disse più volte: “la fotografia non dovrebbe essere un campo di contesa fra uomini e donne” e più tardi rivelò ad un editore: “in quanto donna è forse più difficile ottenere la confidenza della gente e forse talvolta gioca un ruolo negativo una certa forma di gelosia; ma quando raggiungi un certo livello di professionalità non è più una questione di essere uomo o donna”.
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