Unseen. Le foto mai viste di Vivian Maier al Belvedere della Villa Reale di Monza-
Articolo di Paola Martino-Artuu Magazine
Monza-Le foto mai viste di Vivian Maier al Belvedere della Villa Reale- Vedere le mostre alla Villa Reale di Monza regala sempre grandi emozioni: il Belvedere poi offre una vista che vale tutta la visita, da una parte lungo il cannocchiale dei Giardini Reali, idealmente verso Vienna, e dall’altra parte lungo il grande Viale Cesare Battisti verso Milano. Ad impreziosire questo gioiello la mostra dedicata a Vivian Maier considerata, e a ragione, una delle pioniere e massime esponenti della street photography.
Unseen. Le foto mai viste di Vivian Maier è il titolo della mostra che la Villa Reale di Monza dedica, sino al 26 gennaio 2025 a questa straordinaria fotografa. Realizzata da Vertigo Syndrome in collaborazione con diChroma photography, è la più importante esposizione mai fatta in Italia su questa straordinaria, riservatissima artista. 220 opere, divise in nove sezioni.
Con la scatto silenzioso della sua Rolleiflex Vivian Maier ha immortalato per quasi cinque decenni il mondo che la circondava. Dai banchieri di Midtown ai senzatetto addormentati sulle panchine dei parchi, alle coppie che si abbracciavano o, molto spesso, riprendendo sé stessa.
Vivian Maier è oggi riconosciuta come una delle più importanti fotografe del XX secolo, nonostante il suo lavoro sia rimasto sconosciuto fino a poco prima della sua morte. Nata nel 1926, a New York, ha documentato con incredibile meticolosità la vita quotidiana nelle città americane, in particolare a Chicago e New York, per quasi quattro decenni, dagli anni Cinquanta agli anni Novanta. I suoi oltre 150.000 negativi coprono una vasta gamma di soggetti, spaziando dai ritratti di strada agli scatti di architettura, dai paesaggi urbani agli interni domestici, catturando con un occhio unico e sensibile le sfumature della vita ordinaria.
La storia misteriosa di Vivian Maier è un elemento cruciale che contribuisce al fascino senza tempo della sua figura. Non è solo la straordinaria qualità delle sue fotografie a catturare l’immaginazione del pubblico, ma anche la sua vita segreta e il contrasto tra la sua esistenza quotidiana e il suo talento nascosto.
Vivian ha lavorato per decenni come bambinaia, conducendo una vita apparentemente comune e anonima. Era descritta come una donna severa, riservata e solitaria. Tuttavia, nel silenzio e nella privacy, sviluppava un ineguagliabile talento fotografico, documentando con cura ogni aspetto del mondo che la circondava.
Ciò che rende ancora più intrigante la sua storia è che, durante la sua vita, nessuno era a conoscenza della vastità e della qualità della sua opera. Conservava gelosamente i suoi scatti in scatole e bauli, apparentemente senza mai cercare riconoscimento o pubblicazione. Questo “segreto” ha reso la sua scoperta nel 2007 ancora più sorprendente. Quando lo scrittore John Maloof acquistò casualmente i suoi negativi in un’asta, il mondo fu introdotto a un’artista completa che, fino a quel momento, non aveva lasciato traccia della sua immensa produzione fotografica.
La vicenda di Vivian Maier tocca corde emotive profonde, perché rappresenta il classico archetipo dell’artista incompreso e invisibile, che realizza opere d’arte straordinarie nel silenzio, senza clamore o riconoscimenti. È una storia di talento, ma anche di mistero e solitudine, che ha colpito l’immaginario collettivo e ha contribuito a trasformarla in un’icona. Questa combinazione di segretezza personale e la forza visiva delle sue fotografie ha dato vita a una leggenda affascinante, dove l’arte e la vita si intrecciano in modo unico, facendo di Maier una delle figure più enigmatiche e celebrate del mondo della fotografia contemporanea.
Uno degli aspetti più straordinari dell’arte di Maier è la sua capacità di combinare il realismo umanista europeo con lo stile dinamico della street photography americana. Cresciuta in parte in Francia, ha portato con sé l’influenza del vecchio continente, fondendo questa sensibilità con l’energia e la modernità delle città americane. Le sue opere sono paragonate a quelle di maestri come Robert Frank, Diane Arbus, Robert Doisneau e Henri Cartier-Bresson, che come lei hanno saputo cogliere l’essenza dell’umanità attraverso la fotografia di strada.
In questa esposizione, curata da Anne Morin, si passa da una sala all’altra come in una sorta di racconto della percezione del mondo dell’artista.
Si va dagli autoritratti che esplorano la sua identità attraverso soluzioni visive innovative, come il riflesso in uno specchio, una vetrina o la silhouette proiettata della sua ombra, mostrando la sua abilità di raccontarsi attraverso lo spazio che la circonda. L’attenzione per le persone comuni, in particolare alle donne che Vivian incontrava per strada. Lo sguardo sull’America del dopoguerra dove racconta il contrasto tra l’utopia del Sogno americano e la realtà vissuta dalle persone ai margini della società, mostrando la disuguaglianza sociale, il malessere e le contraddizioni nascoste dietro l’apparente prosperità. E poi i suoi bambini, quelli che Vivian Maier ha fotografato durante la sua carriera di bambinaia. Le fotografie a colori dei quartieri operai di Chicago, la raccolta di filmati in Super 8, dove Maier continua la sua esplorazione della vita cittadina, questa volta in movimento.
Fonte articolo -Artuu Magazine
Insomma, ognuna delle nove sezioni mostra uno spaccato del lavoro dell’artista e ci permette di scoprire una straordinaria fotografa che con le sue immagini profonde e mai banali racconta la “vita americana” della seconda metà del Ventesimo Secolo.
Paola Martino
Paola Martino Giornalista, appassionata di lingua araba e di arte, vive a Milano. Per focusmediterranee.com e ultimabozza.it scrive per la sezione Culture, soffermandosi su artisti, mostre, eventi e progetti culturali che non hanno confini. Per lei, infatti, la cultura è un mezzo per migliorare il dialogo e la conoscenza reciproca, anche tra le due sponde: Sud Europa e Nord Africa. Si è diplomata in lingua e cultura araba all’Ismeo di Milano e ha lavorato come giornalista radiofonica.
Viterbo: presentazione del restauro dell’opera di Neri di Bicci
“Madonna in trono con Bambino”
Viterbo-Organizzata da Fondazione Carivit, giovedì 31 ottobre prossimo a Viterbo , alle ore 10.00 presso la Sala delle Assemblee di Palazzo Brugiotti (via Cavour, 67) a Viterbo, si terrà la presentazione del restauro, effettuato sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale, dell’opera dell’artista fiorentino Neri di BicciMadonna in trono con Bambino. Si tratta di un dipinto a tempera su tavola, databile fra il 1458 e il 1459, conservato attualmente nella Chiesa di San Sisto a Viterbo.
All’incontro saranno presenti, oltre al restauratore che ha effettuato i lavori, prof. Giorgio Capriotti, per l‘Ufficio, la soprintendente, arch.Margherita Eichberg, e la funzionaria storica dell’arte della Sabap, dott.ssa Luisa Caporossi.
In apertura previsti i saluti istituzionali del presidente di Fondazione Carivit, dott. Luigi Pasqualetti e di S.E. Mons. Orazio Francesco Piazza, Vescovo della Diocesi di Viterbo.
Dell’attività e dell’operato di Neri di Bicci, sappiamo da un suo taccuino personale di bottega che tenne e che aggiornò assiduamente nel tempo. La sua produzione, ad esempio, dal 1453 al 1475, è riportata dettagliatamente in questo suo diario di bottega (meglio noto con il nome di Ricordanze), in cui annotò scrupolosamente i propri lavori.
Conosciuto per le sue pale d’altare, si occupò anche di molti restauri, ma risalta in particolare la qualità della policromia adottata per le immagini a rilievo.
Viterbo è la Città dei Papi. Nel XIII secolo la città fu sede pontificia e ospitò i Pontefici nel Palazzo Papale.
Città d’arte e di cultura a ridosso dei monti Cimini, tra il lago di Vico e quello di Bolsena, Viterbo offre numerose esperienze e opportunità di visita: dalle chiese medioevali ai palazzi rinascimentali, dalle aree archeologiche alle terme, dalla buona cucina alle tradizioni culturali.
Imperdibili il Palazzo dei Priori, il Palazzo dei Governatori e il Palazzo del Podestà. Simbolo autentico dell’antica città di Viterbo è il quartiere San Pellegrino, tra i quartieri medievali più grandi d’Europa. Qui tutto è rimasto immutato: la pavimentazione stradale, i palazzi e le case con le volte a botte, gli archi, le logge e i famosi “profferli”, le scale esterne che univano la corte al piano terra. Lungo la via San Pellegrino, in corrispondenza della via Francigena. le case sono poggiate sul tufo dal tipico color grigio. Si susseguono inoltre gli edifici trecenteschi come il Palazzo degli Alessandri, edificio a tre piani e dal “profferlo” interno con parapetto decorato “a stelle”. C’è poi la chiesa di San Pellegrino, tra le più antiche della città. Nel cuore del centro storico si erge la Cattedrale romanica di San Lorenzo, o Duomo di Viterbo. Dalla metà del Duecento la Cattedrale assunse maggiore rilievo con la presenza dei Papi che risiedevano nel celebre Palazzo Papale edificato nelle vicinanze. La chiesa fu trasformata nel 1192 in un edificio romanico sul luogo di un’antica Pieve. Il campanile invece fu costruito verso la fine del 1300 e presenta le tipiche caratteristiche del gotico toscano. Meraviglioso il pavimento cosmatesco della navata centrale e molto importanti le tele esposte all’interno. Viterbo è la Città dei Papi. Nel XIII secolo la città fu sede pontificia e ospitò i Pontefici nel Palazzo Papale.
Città d’arte e di cultura a ridosso dei monti Cimini, tra il lago di Vico e quello di Bolsena, Viterbo offre numerose esperienze e opportunità di visita: dalle chiese medioevali ai palazzi rinascimentali, dalle aree archeologiche alle terme, dalla buona cucina alle tradizioni culturali.
due poesie di RACHEL KORN, poetessa di lingua yiddish
Breve biografia di Rachel Korn, poetessa di lingua yiddish- Rachel (Rokhl) Häring Korn (Pidlisky, Ucraina, 15 gennaio 1898 – Montreal, Canada, 9 settembre 1982), poetessa e scrittrice di lingua yiddish. Trasferitasi in Polonia all’inizio della Grande Guerra, esordì in polacco, per passare subito all’yiddish. Riparata a Mosca nel 1941 dopo l’invasione tedesca, emigrò infine in Canada nel 1948. Tristezza, sradicamento e solitudine caratterizzano molte delle sue poesie.
LE MIE MANI
*
Le mie mani
– due mondi,
con linee rette e curve
di fiumi, monti e vallate
Attraverso gole sempre più strette
scolpite nel corso di migliaia di anni,
il mio destino scorre come un’acqua sconosciuta e triste –
a volte verso di te,
a volte lontano da te,
a volte verso una meta ignota e distante.
Le dieci mezzelune di un pallido rosa
non si spengono mai
sulle onde tremanti del mio sangue
e come eterni testimoni, serbano
il dolce segreto della punta delle mie dita.
E se talora nell’abisso del tempo
i mondi separati delle nostre mani si incontrano,
allora per un momento
immobili e calmi,
confusi da una gioia troppo improvvisa,
i due soli rossi restano nella nostra carne
DALL’ALTRO LATO DELLA POESIA
Dall’altro lato della poesia c’è un giardino,
e nel giardino una casa con il tetto di paglia
e tre pini,
tre sentinelle che non parlano mai e stanno di guardia.
Dall’altro lato della poesia c’è un uccello,
giallo e marrone con il petto rosso,
e torna ogni inverno
appeso come un bocciolo sul cespuglio nudo.
Dall’altro lato della poesia c’è un sentiero
sottile come la riga tra i capelli,
e qualcuno perso nel tempo
cammina sul sentiero a piedi nudi, senza far rumore.
Dall’altro lato della poesia possono accadere cose sorprendenti,
anche in questa giornata nuvolosa,
in quest’ora ferita
che sospira di febbrile desiderio alla finestra.
Dall’altro lato della poesia potrebbe apparire mia madre
e sostare un po’ sulla soglia, persa nei suoi pensieri
per poi chiamarmi a casa, come faceva tanto tempo fa:
Hai giocato abbastanza, Rokhl. Non vedi che è notte?
(da Poesie scelte, 1985 – su Otra iglesia es imposible)
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Breve biografia di Rachel (Rokhl) Häring Korn (Pidlisky, Ucraina, 15 gennaio 1898 – Montreal, Canada, 9 settembre 1982), poetessa e scrittrice di lingua yiddish. Trasferitasi in Polonia all’inizio della Grande Guerra, esordì in polacco, per passare subito all’yiddish. Riparata a Mosca nel 1941 dopo l’invasione tedesca, emigrò infine in Canada nel 1948. Tristezza, sradicamento e solitudine caratterizzano molte delle sue poesie.
Francesco Giuliani-Cercando la rivoluzione. Vita di Enrico Russo
un comunista tra la guerra civile spagnola e la resistenza antifascista europea (1895-1973)
Editore- Red Star Press -Roma
Descrizione del libro di Francesco Giuliani-Cercando la rivoluzione. Vita di Enrico Russo-Non esiste avventura più grande, né romanzo in grado di eguagliare la forza di una vita vissuta dalla parte della classe operaia. Una vita come quella di Enrico Russo, metalmeccanico. Già protagonista del «biennio rosso» e ultimo segretario della Camera del Lavoro di Napoli, fu costretto dal fascismo alla clandestinità, non certo all’inazione. Non è certo un caso, dunque, se troveremo Russo in seno ai gruppi comunisti di lingua italiana in Francia e, in Spagna, al comando della Columna Internacional Lenin, in prima linea sul fronte di Aragona. Internato in un campo di concentramento in Francia, quindi destinato al confino in Italia, riguadagnerà la libertà nel 1943, quando svolgerà un ruolo determinante nella rifondazione della Confederazione Generale del Lavoro, la celebre «CGL rossa»: una pagina di storia fondamentale per il sindacalismo italiano che, grazie al lavoro di Francesco Giliani, si fa materia viva, carne e sangue del proletariato italiano nel cuore di una stagione di riscatto a cui, senza sconti per gli opportunisti e i rinnegati, si diede il nome di «rivoluzione».
«Probabilmente, le sconfitte dei movimenti rivoluzionari nei quali si era battuto in prima fila nella Spagna del 1936-1937 e nella Napoli del 19431945 esaurirono la sua forza. Ma non del tutto. Non gli mancò, infatti, la forza per non integrarsi in nessuna burocrazia politica, stalinista o socialdemocratica, contro le quali aveva combattuto negli anni più tempestosi e ardenti della sua vita. Avvisati dai dipendenti del cronicario del decesso del proprio parente, il figlio Alberto e il nipote Enrico curarono il funerale di Enrico Russo. Il nipote, mosso da affetto, cercò nelle bancherelle del quartiere una copia de Il Capitale di Karl Marx da porre nella bara del nonno come omaggio. Questo lavoro, al di là dei suoi aspetti scientifici, vorrebbe essere anche una ripresa di quel gesto»
Red Star Press
Viale di Tor Marancia 76
Roma, Italia
CAP 00147
Descrizione del libro di Robert Capa-“Leggermente fuori fuoco” è il leggendario volume di Robert Capa che racconta le vicende del suo autore nell’Europa della Seconda guerra mondiale. L’edizione italiana di Slightly out of focus, uscito per la prima volta nel 1947, e già pubblicata nella collana Dixit da Contrasto anni fa, e ora presente nella collana “In parole” nell’edizione a cura di Valentina De Rossi, torna in libreria nel formato brossura. “Leggermente fuori fuoco” è il diario delle memorie di guerra di Robert Capa “con foto dell’autore”, come amava che si scrivesse. Il libro mutua il titolo dalle didascalie che su Life accompagnavano le sue foto dello sbarco in Normandia, rovinate da un tecnico di laboratorio in fase di sviluppo. Preceduto da una nota del fratello Cornell Capa e dall’introduzione di Richard Whelan, biografo di Capa, il volume alterna le vicende del fotoreporter con una storia d’amore travagliata, trasformando l’autobiografia in un romanzo celeberrimo in cui il fotografo mantiene la freschezza dello sguardo, la passione, l’ironia, lo spirito d’avventura di un grande testimone del nostro tempo.
ContrastoBooks
Roberto Koch Editore srl
Corso d’Italia 83 00198
Roma
Italia
Descrizione del libro di Anthony Penrose e Lee Miller Fotogiornalista, corrispondente di guerra, modella e musa surrealista, Lee Miller è stata una delle più grandi fotografe del Ventesimo secolo, tra fotogiornalismo, moda, ritratti e pubblicità. Questo libro, pubblicato contemporaneamente all’uscita di un importante film sulla sua vita, raccoglie 100 dei suoi migliori lavori. Anthony Penrose è un fotografo britannico, figlio di Sir Roland Penrose e Lee Miller, e dirige il Lee Miller Archive e la Penrose Collection, con sede nella casa di famiglia, Farley Farm House. La sua biografia Le molte vite di Lee Miller è stata pubblicata in Italia da Contrasto. Kate Winslet, che interpreta Lee Miller nel film, prefaziona il libro.
La sua famiglia di origine era composta dal padre Theodore, ingegnere, inventore e uomo d’affari di origine tedesca, dalla madre Florence Miller, nata MacDonald, di origine canadese, scozzese ed irlandese, dal fratello minore Erik e dal fratello maggiore John. Era la figlia preferita del padre, che si dilettava con la fotografia e che insegnò le tecniche fotografiche ai propri figli quando erano ancora molto piccoli. Lee, oltre ad essere allieva, fin dall’infanzia era stata anche la modella di Theodore, che la ritraeva spesso nelle sue fotografie stereoscopiche.[4]
Nel 1914, all’età di sette anni, subì una violenza sessuale, mentre si trovava a Brooklyn presso amici di famiglia in occasione del ricovero in ospedale della madre; fra le conseguenze ebbe un’infezione di gonorrea. Non venne sporta denuncia e non fu ben chiaro chi fosse l’autore della violenza, che voci contrastanti attribuirono ad un marinaio, ad un parente o addirittura al padre di Lee. Molti anni più tardi tali supposizioni vennero smentite dal figlio di Lee Miller, il quale escluse parimenti l’ipotesi di rapporti incestuosi fra Lee e Theodore, che le foto scattate loro in seguito da Man Ray potevano suggerire.[5] Qualunque fosse la vera identità dello stupratore, in quello stesso anno Theodore iniziò a fotografare la figlia nuda, ritraendola nella neve in una foto intitolata Mattinata di dicembre che si ispirava a Mattinata settembrina, un quadro di Paul Chabas, la cui esposizione a New York nel 1913 era stata causa di scandalo.[6]
Nel 1925 frequentò l’École nationale supérieure des beaux-arts; nel 1926, a 19 anni, si iscrisse alla Art Students League di New York per studiare scenografia e illuminazione di scena.[7][8] Nello stesso anno, mentre camminava per strada a Manhattan, rischiò di essere investita da un’auto che sopraggiungeva, ma fu prontamente trattenuta da un passante che le evitò l’incidente e le salvò la vita.[7][8]
Carriera come modella
Il passante che le salvò la vita si rivelò Condé Nast, editore di Vanity Fair e di Vogue. Nast rimase affascinato dal portamento e dal modo di vestire di Lee, e ne apprezzò anche la conoscenza della lingua francese, al punto da proporle un contratto: iniziò in questo modo la sua carriera di fotomodella.[7][8]
Mentre dimostrava sempre maggiore interesse alle tecniche di chi la fotografava, cresceva la sua ambizione a diventare l’osservatrice anziché l’osservata.[5]
Nel 1928 una foto di Lee Miller scattata da Steichen fu utilizzata per la pubblicità di assorbenti e causò uno scandalo[9] che pose fine alla sua carriera di modella.
Carriera come fotografa
Nel 1929 Lee Miller si recò a Parigi con l’intenzione di fare apprendistato presso l’artista e fotografo surrealista Man Ray. Sebbene all’inizio questi non fosse intenzionato ad avere allievi, Lee presto divenne la sua modella e collaboratrice, e pure la sua compagna e musa.[6]
A Parigi nel 1930 Miller allestì uno studio fotografico proprio, spesso ricevendo commissioni da stiliste affermate quali Elsa Schiaparelli e Coco Chanel.[2] Non di rado sollevò da questo tipo di incarichi Man Ray, che in tal modo poteva concentrarsi sui propri dipinti.[10] Molte fotografie attribuite a Man Ray erano in realtà opera di Miller e nel 1930 non era facile distinguere quale dei due fosse l’autore.[6][10]
Insieme a Ray Lee Miller lavorò a numerosi progetti, ed insieme sperimentarono la tecnica fotografica della solarizzazione.[11]
Nell’intero corso della sua carriera Lee Miller mantenne sempre il punto di vista surrealista, utilizzando porte, specchi, finestre ed altri dettagli atti ad inquadrare e ad isolare il soggetto ritratto.[2]
Delusa sia dalla relazione amorosa che dall’ambiente artistico, nel 1932 lasciò Ray e Parigi per tornare a New York, dove allestì un proprio studio fotografico per ritratti e foto commerciali, con il fratello Erik che la assisteva nella camera oscura. Nello stesso anno espose nella mostra della Moderna fotografia europea presso la galleria Julien Levy di New York, nella quale allestì l’anno successivo l’unica mostra personale di tutta la sua vita.[15]
A New York lavorò con successo come fotografa per due anni, eseguendo numerosi ritratti, come quelli dell’artista Joseph Cornell, delle attrici Lilian Harvey e Gertrude Lawrence, e del cast afroamericano dell’opera lirica Four Saints in Three Acts (1934) di Virgil Thomson e Gertrude Stein. Ritratti come Floating Head (Mary Taylor), del 1933, riflettevano l’influenza surrealista di Man Ray.[2]
Nel 1934 conobbe il facoltoso uomo d’affari egiziano Aziz Eloui Bey, che si era recato a New York per acquistare l’attrezzatura per il trasporto ferroviario nazionale del proprio Paese. Nacque una storia d’amore che in pochi mesi venne coronata dal matrimonio, e nel 1935 Lee Miller seguì il marito al Cairo. Qui, impressionata dal paesaggio arido del deserto e dai luoghi abbandonati dei faraoni, fotografò rovine e templi, arrampicandosi con la propria attrezzatura anche sulla piramide di Cheope a Giza. Le foto scattate in Egitto, compresa Portrait of Space, sono considerate fra le sue immagini surrealiste più sorprendenti, nonostante Miller avesse temporaneamente sospeso il lavoro di fotografa professionista.
La storia d’amore con Bey non durò a lungo, e presto Lee si stancò della vita al Cairo. Nel 1937 intraprese un viaggio a Parigi, dove incontrò il pittore surrealista e curatore d’arte britannico Roland Penrose, che si era appena separato dalla moglie Valentine, e che avrebbe sposato qualche anno più tardi. Insieme a Penrose visitò buona parte dell’Europa, scattando foto spettacolari, e trascorse una vacanza nel sud della Francia, a Mougins, dove frequentò Pablo Picasso, Dora Maar, Paul Éluard, Nusch Éluard, Man Ray, Eileen Agar ed altri artisti, che ritrasse in una serie di fotografie fra cui uno studio su Picasso. Questi, a propria volta, dipinse Lee Miller su sei diverse tele.[2][16]
Nel 1939 Miller lasciò definitivamente l’Egitto per trasferirsi a Londra.
Corrispondente di guerra e fotoreporter
Allo scoppio della seconda guerra mondiale Miller era residente in Hampstead a Londra con Roland Penrose quando iniziò il bombardamento della città. Penrose venne richiamato alle armi, mentre Lee tornò per un breve periodo a New York dove riprese il lavoro di fotografa per Vogue.
Ignorando le richieste degli amici e della famiglia di restare negli Stati Uniti, Miller intraprese la nuova carriera di fotoreporter di guerra per Vogue, e documentò il bombardamento strategico del Regno Unito nel corso della guerra lampo portata avanti dalla Germania nazista. Tra il 1939 ed il 1945 Miller fece parte del London War Correspondents Corp e fu riconosciuta dall’esercito degli Stati Uniti d’America quale corrispondente di guerra per l’editore Condé Nast dal mese di dicembre 1942, incarico all’epoca non frequentemente assegnato ad una donna. Collaborò con il fotografo statunitense David Scherman, corrispondente di Life, con il quale ebbe una relazione. Le furono affidati numerosi incarichi, durante i quali sviluppava le pellicole in una camera oscura improvvisata nella propria stanza d’albergo.
Miller si recò in Francia meno di un mese dopo il D-Day e documentò il primo utilizzo del napalm durante l’assedio di Saint-Malo, la liberazione di Parigi, la battaglia dell’Alsazia, l’incontro tra l’esercito statunitense e l’Armata Rossa a Torgau, la conquista del Berghof nell’Obersalzberg presso Berchtesgaden. In particolare, la documentazione dell’orrore dei campi di concentramentonazisti di Buchenwald e di Dachau costituì la prima testimonianza dello sterminio perpetrato nei campi, tanto che dovette essere certificata l’autenticità delle foto per la pubblicazione su Vogue,[17] e lasciò un segno indelebile nella sua mente.[18] Una foto di Scherman, che ritrasse Miller nella vasca da bagno dell’appartamento di Adolf Hitler a Monaco di Baviera dopo la caduta della città nel 1945, costituì una delle immagini più rappresentative della collaborazione fra i due fotografi.[5][19]
Durante la guerra, forse per la prima volta nella vita, Lee venne apprezzata non per il proprio aspetto bensì per ciò che era in grado di fare, realizzando in tal modo il desiderio di “scattare una foto piuttosto che essere ripresa”. Fu sempre determinata a competere con gli uomini ad armi pari, talvolta rischiando guai, come quando infranse il divieto che riguardava le fotografe di avvicinarsi troppo al fronte: infrazione che le costò l’arresto per un breve periodo.[5]
Finita la guerra, Miller iniziò a ritrarre bambini ricoverati in un ospedale di Vienna e la vita dei contadini nell’Ungheria; immortalò anche l’esecuzione del Primo ministro László Bárdossy. Continuò quindi a lavorare per Vogue per due anni, occupandosi di moda e di celebrità.
Nel 1946 fece visita a Man Ray in California insieme a Penrose. Quando si accorse di aspettare un bambino, chiese il divorzio dal marito egiziano e sposò Roland Penrose il 3 maggio 1947. Il suo unico figlio, Antony, nacque nel mese di settembre del 1947.
Mentre Miller continuava occasionalmente a scattare foto per Vogue, era conosciuta soprattutto come Lady Penrose e presto alla camera oscura preferì la cucina,[24] trasformandosi in cuoca apprezzata. Fotografò anche Picasso e Antoni Tàpies per le biografie che Roland scrisse su di loro. Le immagini della guerra, specialmente quelle dei campi di concentramento, continuavano a tormentarla e il suo stato depressivo peggiorò. Il suo peggioramento poteva anche essere in parte attribuito alla lunga relazione extraconiugale del marito con una trapezista.[4]
Lee Miller morì di cancro nel 1977 presso la Farley Farm all’età di 70 anni. Venne cremata e le sue ceneri sparse nel suo giardino.[27]
La fama di Lee Miller
Nel 1955 alcune foto di Miller vennero selezionate per l’esposizione The Family of Man realizzata presso il Museum of Modern Art di New York; nel 1976 Lee fu ospite d’onore ai Rencontres d’Arles.
In generale, Lee Miller non si preoccupò particolarmente di fare pubblicità al proprio lavoro fotografico, noto soprattutto in seguito agli sforzi del figlio Antony che iniziò a studiare, conservare e promuovere l’opera materna fin dall’inizio degli anni ottanta, rendendo accessibili le foto sul sito Lee Miller Archives.[28]
Quando ereditò la Farley Farm, Antony la trasformò in museo in cui, accanto alle stanze abitate dai genitori, espose le opere di loro produzione, come Fallen Giant, Sea Creature e Kneeling Woman, e le collezioni private Miller-Penrose, ossia alcuni fra i loro pezzi d’arte preferiti, comprendenti lavori di Picasso, Man Ray, Max Ernst e Joan Miró.[23]
Nel 1985 Antony Penrose pubblicò la prima biografia della madre, intitolata The Lives of Lee Miller.[3] Da quel momento molti libri, spesso corredati di foto di Lee Miller, vennero scritti dagli storici dell’arte e da scrittori quali Jane Livingston,[20] Richard Calvocoressi,[29] Mark Haworth-Booth.[30] Un’intervista radiofonica del 1946 venne trasformata in audiolibro dal titolo Surrealism Reviewed, pubblicato nel 2002.[31]
Nel 1989 venne organizzata una grande retrospettiva itinerante in buona parte degli Stati Uniti d’America.
Le opere principali di Lee Miller, ossia le foto scattate come corrispondente di guerra, vennero in buona parte raccolte e pubblicate postume sempre a cura di Antony Penrose, con una prefazione di David Scherman.[32] Nel 1993 la biografia romanzata di Lee Miller pubblicata da Marc Lambron vinse il Prix Femina.[33]
Nel 2005 la vita di Lee Miller venne riprodotta in un musical intitolato Six Pictures of Lee Miller, con musiche e parole del compositore britannico Jason Carr,[34] premiato al Chichester Festival Theatre nel Sussex. Nello stesso anno la biografia di Carolyn Burke, Lee Miller, a Life[35][36] venne pubblicata negli Stati Uniti d’America da Alfred A. Knopf e nel Regno Unito da Bloomsbury.
Nel 2007, con la collaborazione dell’Università del Sussex, comparve Echoes from St. Malo[37] all’interno della collana Traces of Lee Miller, un CD interattivo e DVD sull’attività fotografica di Lee Miller a Saint-Malo.
Nel 2012 diverse opere di Miller vennero incluse nella tredicesima edizione della documenta di Kassel.
Nel 2020 esce il libro La Vasca del Führer di Serena Dandini, sulla vita di Lee Miller Penrose.
Nel 2023 viene realizzato il lungometraggio Lee, diretto da Ellen Kuras ed interpretato da Kate Winslet.
Filmografia
(FR) Sylvain Roumette, Lee Miller ou la Traversée du miroir, Production Terra Luna Films, France, 1995, a 0:54:00.
Attilio Motta-Storia di un motto d’amore e d’amicizia-
«Usque dum vivam et ultra»
Marsilio Editori -Venezia
Descrizione del libro di Attilio Motta, Storia di un mottod’amore e d’amizizia-Concepito come un’inchiesta, il saggio insegue le tracce del fortunato motto latino «Hyeme et aestate, prope et procul, usque dum vivam et ultra» («D’inverno e d’estate, vicino e lontano, finché vivrò e oltre»), prendendo le mosse dalla sua comparsa nelle prime pagine di Una questione privata di Fenoglio e dal suo più noto antecedente, il Daniele Cortis di Fogazzaro, per risalire, attraverso le epigrafi di due monumenti perduti, alle sue origini nel classicismo settecentesco, e indagarne la preistoria nell’iconografia rinascimentale dell’amicizia e la sua gestazione nell’imago amoris sive amicitiae della didascalica medievale. Terminato il percorso à rebours, il saggio ripercorre quindi le tappe della fortuna moderna del motto soffermandosi sulla sua straordinaria diffusione tra Ottocento e Novecento, con le sue sorprendenti riprese, da Pirandello ad Ada Negri, da Jolanda a Buonaiuti, da Brecht a Elsa Morante, e avanzando un’ipotesi nuova (e cinematografica) per la fonte della sua conoscenza da parte di Fenoglio. Un viaggio appassionante nella letteratura di autori e periodi lontani tra loro, che attraversa anche altre e diverse discipline, dalla storia dell’arte all’architettura dei giardini, dall’iconografia all’emblematica, dalla filologia alla storia del cinema.
L’Autore-Attilio Motta(Lecce 1971) è professore associato di letteratura italiana all’Università di Padova. Si è occupato di poesia popolare del Trecento (edizione critica dei Cantari della Reina d’Oriente di Antonio Pucci, con William Robins, 2007), di romanzo italiano del Settecento e di Ippolito Nievo, di cui ha pubblicato per l’Edizione nazionale Marsilio gli Scritti politici e d’attualità (2015). Al Novecento ha dedicato la sua prima monografia, sul ripiegamento memorialistico degli intellettuali contemporanei (L’intellettuale autobiografico, 2003), e numerosi saggi, su narratori quali Cesare Pavese e Italo Calvino e sui rapporti tra letteratura e cinema (su Eastwood, Truffaut, Amelio, Sorrentino, il romanzo cinematografico, le “transcodifiche” da libro a film), curando recentemente, con Denis Brotto, il volume Interferenze. Registi/scrittori e scrittori/registi nella cultura italiana (Padova University Press 2019).
Il Tempio-I resti del monumento sono situati nell‘area archeologica di Metaponto, più precisamente sull’ultima ondulazione dei Givoni, antichi cordoni litoranei, presso la sponda destra del fiume Bradano, eretto sui resti di un antico villaggio neolitico, lungo la strada preistorica proveniente da Siris-Heraclea, a circa 3 km dall’antica città di Metaponto.
STORIA
Il tempio delle Tavole Palatine, restaurato nel 1961, era stato inizialmente attribuito al culto della dea Atena, successivamente sul frammento di un vaso, trovato nel corso degli scavi archeologici del 1926, venne rinvenuta una dedica votiva alla dea Hera. Fino al XIX secolo le Tavole Palatine erano localmente definite anche “Mensole Palatine” o “Colonne Palatine“, probabilmente in ricordo alle lotte contro i Saraceni dei Paladini di Francia. Il tempio era anche chiamato “Scuola di Pitagora“, in memoria del grande filosofo Pitagora. Nel medioevo era ancora chiamato “Mensae Imperatoris“, probabilmente a ricordo dell’imperatore Ottone II che, nella spedizione contro i Saraceni del 982, si accampò a Metaponto.
DETTAGLI
I resti del tempio sono composti da 15 colonne con 20 scanalature e capitelli di ordine dorico. Delle 15 colonne, 10 sono sul lato settentrionale e 5 sul meridionale. In origine le colonne erano 32, poiché il tempio aveva una forma periptera con 12 colonne sui lati lunghi e 6 sui lati corti. Lo stilobate era lungo 34,29 metri e largo 13,66 metri, la cella di 17,79 x 8,68 metri. Il tempio risulta molto degradato, poiché costruito con calcare locale (detto mazzarro)
ITINERARI
Bernalda: Castello, Chiesa madre di San Bernardino da Siena, Palazzo Margherita; spiagge del Metapontino, Torre Mare con la chiesa di San Leone Magno;
Pisticci: chiesa madre di Santi Pietro e Paolo, Rione Dirupo e Terravecchia, Castello di San Basilio, Torre dell’Acquedotto;
Policoro: Castello Baronale, Museo della Siritide, Parco archeologico di Herakleia;
Montescaglioso: Abbazia di San Michele Arcangelo;
Miglionico: Castello del Malconsiglio
Matera
Fonte- Museo Archeologico Nazionale Metaponto
Contatti
Museo Archeologico Nazionale Metaponto
Via D. Adamesteanu, 21
75010 Bernalda (MT)
Descrizione dal sito MiC – Ministero della Cultura
I resti del monumento sono situati nei pressi di Metaponto, nell’area archeologica del Tempio di Hera detto delle Tavole Palatine, presso la sponda destra del fiume Bradano. Si tratta delle rovine del tempio di stile dorico, eretto nel VI secolo a.C., che ornava il santuario extraurbano dedicato alla stessa dea Hera e marcava, visibile a distanza, il confine con il territorio della polis antagonista di Taranto.
Fino al XIX secolo le Tavole Palatine erano localmente definite anche “Mensole Palatine” o “Colonne Palatine”, forse in ricordo delle lotte dei Paladini di Francia contro i Saraceni.
Nel medioevo risulta anche il nome “Mensae Imperatoris”, che richiama il passaggio dell’imperatore Ottone II il quale, nel X secolo d.C., si accampò a Metaponto di ritorno dalla spedizione contro i Saraceni.
Del tempio si conservano 15 colonne sormontate da capitelli di ordine dorico e dagli architravi. L’edificio, in origine dotato di 32 colonne, 12 si lati lunghi e 6 sulle fronti. La cella, di cui si conservano solo i blocchi di fondazione, era munita di pronao, naos e adyton. Il tempio era ornato da ricche decorazioni architettoniche in terracotta policroma, i cui resti sono conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Metaponto.
Da alcuni anni una missione della Scuola Superiore Meridionale ha ripreso gli scavi nell’area del tempio e del santuario.
Descizione del libro di Federici Canaccini, il Medioevo in 21 battagie. Cavalieri, fanti, arcieri e poi armi, strategie, tecniche. Questi sono gli elementi che fanno una battaglia. Ma se osserviamo con attenzione il ‘volto della guerra’ ci riconosciamo molto altro: emozioni, cultura, contesti, personalità e caratteristiche individuali. Un nuovo racconto del Medioevo in 21 momenti fatali che hanno deciso la Storia.Quando pensiamo al Medioevo, automaticamente ci vengono in mente immagini di spade, castelli e armature. Quasi ogni cosa che ricordiamo di questo periodo storico ha a che fare con battaglie, duelli o assedi. Mai come nei mille anni dell’Età di Mezzo, la guerra ha occupato uno spazio così centrale nella vita degli uomini. In queste pagine troveremo tutte le battaglie più famose, da Hastings ad Azincourt, da Poitiers a Bouvines, ma più volte ci stupiremo inoltrandoci in luoghi lontani, sconosciuti e affascinanti: dalle umide pianure indiane alle gole del Tagikistan, dalle acque del Giappone fino alle inesplorate valli dell’Impero azteco, dai ghiacci del Baltico fino al profondo deserto d’Arabia. Ciascuno di questi 21 ‘fatti d’arme’ diventa un prisma attraverso il quale conosciamo gli avanzamenti dell’῾arte della guerra’, ma anche uomini, culture, contesti. Un libro che piacerà a tutti gli appassionati di storia militare e che ha l’ambizione di proporre uno sguardo nuovo, capace di coinvolgere tutti coloro che amano la storia.
L’autore – Federico Canaccini, medievista, si occupa da anni di storia comunale italiana, con una particolare attenzione al conflitto tra le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini. Ha insegnato Storia della guerra nel Medioevo alla Catholic University of America di Washington, Paleografia latina alla LUMSA di Roma e attualmente insegna Paleografia e Filosofia medievale alla Università Pontificia Salesiana di Roma. In qualità di ricercatore all’Università di Princeton ha intrapreso un lavoro di edizione critica di Questioni quodlibetali e di trattati astrologici inediti. È assiduo collaboratore della rivista “Medioevo”, di cui cura la rubrica d’apertura. Tra le sue pubblicazioni, Ghibellini e ghibellinismo in Toscana da Montaperti a Campaldino (2007), Matteo d’Acquasparta tra Dante e Bonifacio VIII (2008) e Al cuore del primo Giubileo (2016). Per Laterza è autore di 1268. La battaglia di Tagliacozzo (2018) e 1289. La battaglia di Campaldino (2021).
Inge Müller è nata a Berlino il 13 marzo 1925. Sopravvissuta miracolosamente ai furiosi bombardamenti su Berlino che hanno chiuso la seconda guerra mondiale, sarà lei stessa a estrarre i corpi dei genitori dalle macerie della loro casa. È morta suicida il 1° giugno 1966. Solo vent’anni dopo le sue poesie saranno pubblicate nella raccolta Wenn ich schon sterben muss. Come exergo al libro, il marito, Heiner Müller, ha scritto parole che danno tutta la dimensione della distanza, della solitudine della donna che aveva sposato: «… Più di una volta ho letto le poesie contenute in questa raccolta; alcune mi erano estranee, alcune mi irritavano, molte le ho capite solo dopo il suicidio della donna che le ha scritte in tredici anni accanto a me…».
Giunge un giorno
Inviato da noi
L’uomo
Annunziato.
Vantatevi voi,
voi che ci conficcate nel selciato
calpestandoci.
Per ridere non ho bisogno di un motivo
Per piangere di nessun dolore
Sono come voi e da voi ferita
Non sono nessuna oppure solo una bocca.
Dodecafonica e terza.
Siamo piantati nella terra
Da entrambi i lati
Ci consuma la pioggia
Dalla radice spunta
Una gialla talea, che
Il sole più non raggiunge.
Quando ci incontrammo
Quando ci incontrammo
In una strada laterale delle nostre vie
Sentivi paura della vita
Sentivo paura della morte
Che era vicina e vedemmo il cielo rosso
Avvolgerci soffice come una coperta di lana
E ci riscaldammo per un attimo
L’attimo
durò sette estati. Quando levammo gli occhi
Il tempo era già trascorso.
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