Sara Parcak ha inventato l’archeologia spaziale, utilizzando immagini satellitari per cercare indizi dei luoghi perduti delle civiltà passate, cambiando il modo di studiare le rovine del mondo antico. Dal suo laboratorio in Alabama, sfruttando le mappe dei satelliti, questa trentasettenne ha già scandagliato mille tombe, 17 piramidi, scovato insediamenti di cui si ignorava persino l’esistenza. Il suo lavoro aiuterà ora a ricostruire Palmira, distrutta dall’Isis nella Siria in guerra.
La rivoluzione tecnologica nell’archeologia dai tempi di Indiana Jones
Ammettiamolo, Indiana Jones era un archeologo piuttosto scarso. Distruggeva i suoi siti, usava una frusta al posto di una spatola ed era più probabile che uccidesse i suoi colleghi piuttosto che scrivere insieme a loro resoconti archeologici.
Indipendentemente da ciò, “I predatori dell’arca perduta”, che ha festeggiato il suo 30° anniversario lo scorso 12 giugno, ha reso affascinante lo studio del passato per una intera generazione di scienziati.
Gli archeologi moderni che si sono ispirati ai “predatori” hanno però fortunatamente imparato dagli errori del dottor Jones, e ora utilizzano tecnologie avanzate come le immagini satellitari, la mappatura laser aerea, robot e scanner medici. Niente più fruste scientificamente inutili.
Tali innovazioni hanno permesso agli archeologi di individuare dallo spazio piramidi sepolte, creare mappe 3-D di antiche rovine Maya dal cielo, esplorare i relitti di navi romane e trovare prove di malattie al cuore in mummie di 3.000 anni. La maggior parte di questi strumenti proviene da settori quali biologia, chimica, fisica o ingegneria, così come da gadget commerciali, tra cui GPS, portatili e smartphone.
“Se scaviamo parte di un sito, lo distruggiamo”, dice David Hurst Thomas, curatore di antropologia al Museo americano di storia naturale di New York. “La tecnologia ci permette di scoprire molto di più prima ancora di entrare, come i chirurghi che fanno uso di TAC e risonanza magnetica”.
Gli archeologi hanno sfruttato queste tecnologie per scoprire antichi siti di interesse più facilmente che mai. Si può scavare con maggiore fiducia e meno danni collaterali, applicare le più recenti tecniche di laboratorio su antichi manufatti o resti umani, e datare meglio persone o oggetti.
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I satelliti indicano il luogo
Una delle rivoluzioni in corso nell’archeologia si basa sui satelliti in orbita sopra la Terra. Sarah Parcak, egittologa presso l’University of Alabama a Birmingham, e un team internazionale hanno recentemente usato immagini satellitari a raggi infrarossi per scrutare fino a 10 metri al di sotto del deserto egiziano. Hanno trovato migliaia di nuovi siti tra cui, credono, 17 piramidi.
Le immagini rivelano inoltre strade sepolte e case dell’antica città egizia di Tanis, un noto sito archeologico presente anche ne “I predatori dell’arca perduta” tre decenni fa. “Ovviamente, non zoommiamo le immagini satellitari per trovare l’Arca dell’Alleanza e il Pozzo delle Anime”, rassicura la Parcak.
Anche le immagini satellitari ordinarie di Google Earth sono utili. Molti dei siti egizi contengono sepolti edifici in mattoni di fango che si sgretolano nel tempo e si mescolano con la sabbia o il limo. Quando piove, i suoli con i mattoni di fango trattengono l’umidità più a lungo e appaiono scoloriti nelle foto satellitari.
“In passato, sarei saltato su una Land Rover e sarei andato a vedere un possibile sito”, dice Tony Pollard, direttore del Centre for Battlefield Archaeology presso l’Università di Glasgow in Scozia. “Ora, prima di fare questo, vado su Google Earth”.
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Scavando facendo meno danni
Strumenti come il georadar possono anche aiutare gli archeologi a evitare di distruggere dati preziosi quando scavano antichi siti, spiega Thomas. “Molte tribù di nativi americani sono molto interessate nel telerilevamento che non è invasivo né distruttivo, perché a molti non piace l’idea di disturbare i morti o i resti sepolti”.
I magnetometri sono in grado di distinguere tra metalli sepolti, rocce e altri materiali in base alle differenze nel campo magnetico della Terra. I rilevamenti della resistività del terreno trovano invece gli oggetti in base alle variazioni della velocità della corrente elettrica.
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Dare una spolverata a vecchie ossa
Una volta che gli oggetti o le ossa sono riportati alla luce, gli archeologi possono consegnarli al laboratorio per un’analisi forense che impressionerebbe qualsiasi agente di CSI. Le scansioni con tomografia computerizzata comunemente utilizzate in medicina hanno rivelato arterie bloccate in una principessa egizia che finì mummificata 3.500 anni fa.
Questa tecnica è stata usata per identificare le origini di decine di soldati trovati in una fossa comune di 375 anni in Germania. “Alcuni venivano dalla Finlandia, alcuni dalla Scozia”, dice Pollard.
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“Quando ero un cattivo ragazzo e andai a fare archeologia invece di medicina, mia
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madre pensò che avrei speso tutto il mio tempo nel passato”, dice Thomas. “Ciò non potrebbe essere più lontano dalla verità; facciamo tutto il possibile per tenerci al passo con la tecnologia”.
Per il momento la tecnologia non eliminerà il bisogno di scavare, dicono gli archeologi. Ma se quel giorno arrivasse, “l’archeologia diventerebbe molto più noiosa”, afferma Pollard. E non è il solo a pensarlo.
“Va molto bene usare le immagini satellitari, ma fino a quando non vai sul campo sei bloccato in laboratorio”, conclude la Parcak. “È una costante nell’archeologia; devi scavare ed esplorare.”
Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Ilario Fiore (Cortiglione, 14 novembre 1925 – Roma, 12 settembre 1998)–E’ stato partigiano a diciotto anni in una brigata Garibaldi del Monferrato. Ha esordito nel giornalismo accompagnando una nave turca che dalla costa ligure trasportava ebrei superstiti dell’olocausto in Palestina. Ha vissuto sette rivoluzioni: Egitto, Argentina, Algeria, Ungheria, Spagna, Portogallo e Cina. Poi l’America di Kennedy e l’Unione Sovietica di Breznev. Ha lavorato per la RAI come inviato, gestendo le sedi di Mosca, di Madrid e di Pechino. Ha filmato venticinque documentari, primo dei quali la versione televisiva di un suo libro, “L’Italiano di Ponte Cayumba”. E’ autore di numerosi libri ricevendo numerosi riconoscimenti, dal premio “Marzotto” 1957, all’”Estense 1981” all’ “Assisi” 1989. Tra le sue opere più famose : “Tien An Men”, “Rapporto da Pechino”, “La croce e il drago”, “Il Kennediano”, “La nave di seta”. Morì nel 1998 mentre stava lavorando ad un libro sul tentato furto da parte dei russi dei progetti per il Concorde. Fu sepolto nel cimitero di Castel di Guido a Roma.Riportiamo qui di seguito due poesie inedite dello scrittore, entrambe le poesie sono dedicate alla madre.
(A una madre)
La leggenda di Angiolina.
Sei piccola ma mi sembravi grande
quando piangevo per venirti in braccio.
Il canto della tortora nel bosco
ti guidava fuori verso la luce
dove volevi che il figlio vivesse
lontano dai lupi di una favola
vera per te, azzannata com’eri
stata sui pascoli di Vallescura.
Sognavo di diventare scrittore
per metterti in un romanzo d’amore;
e pittore per dipingerti donna
di grandezza sovrannaturale,
oppure musicista per comporre
la canzone che potesse suonare
parole e note col tuo nome,
una gloria più lunga della vita.
Dicevi che dopo al Bambinello
veniva il tuo orfano di padre;
e non sapevi che tanto amore
rompeva quelle catene antiche
che non fecero volare uomini
tanto degni da essere tuoi figli.
La leggenda (2)
Dolorosa gloria della tua vita
ogni giorno dentro di me risuona;
ombra calda di estati lontane
nell’aia sotto l’albero di alloro;
e la nebbia della sera dei Morti
e la tua voce sicura accanto al fuoco
col requieterna sconfiggeva.
Restituivi certezze al bambino
che avevi voluto nella pena,
per dare gioia all’uomo che moriva
sulla Croce fatta con le doghe
della sua bottega di falegname.
Due pale di quercia ti lasciava
per farti più forte della spada
che l’aveva trafitto a Caporetto.
Frammento di quercia di quella croce
e filo di ferro di quella spada,
mi mandavi per le strade del mondo
a difendere le cause dei giusti.
Fino ad oggi nessuno ha saputo
che ignota vittoria amara
aveva arricchito di dolcezza
il latte succhiato dal tuo seno.
La tomba di Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Opere
Cose viste in Algeria 1956
Ultimo treno per Budapest 1957
Il Kennediano 1964
La campagna d’Italia fotografata dal pentagono 1965
Passaggio a sud-est 1965
Litaliano di ponte Cayumba 1967
Chi ha ucciso Kennedy 1968
Miss America 1969
Laurenti il terribile 1973
Caviale del Volga 1977
Spia del Cremlino 1977
La Spagna è differente 1980
Mal di Cina 1984
L’espresso di Shanghai 1987
Tien An Men 1989
I ragazzi di Tien An Men 1989
California 1989
Rapporto da Pechino 1990
La Croce e il Drago 1991
La nave di seta 1993
La stanza di Kerenskij 1994
L’uomo di Harbin 1996
Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-Ilario Fiore –Partigiano , scrittore e giornalista RAI-
Tommaso Tuppini La caduta. Fascismo e macchina da guerra
Tommaso Tuppini- La caduta- Fascismo e macchina da guerra-Orthotes Editrice
Descrizione del libro di Tommaso Tuppini La caduta. Fascismo e macchina da guerra:«C’è nel fascismo un nichilismo realizzato» scrivono Gilles Deleuze e Félix Guattari, «giacché, diversamente dallo Stato totalitario che si sforza di bloccare tutte le possibili linee di fuga, il fascismo si costruisce una linea di fuga intensa, che trasforma in linea di distruzione e di abolizione pura. È strano come sin dall’inizio i nazisti annunciassero alla Germania quel che avrebbero portato: a un tempo nozze e morte, anche la loro propria morte, e la morte dei Tedeschi».
Per quanto eterogenee e difficili da ricostruire in modo univoco, le vicende del fascismo sembrano snodarsi seguendo l’ordine di alcune tappe: il fascismo è un complesso ideologico, rituale e politico che mette capo a un dispositivo militare lanciato verso la propria distruzione. L’ideologia razzista, i rituali, le prassi policratiche di governo, diventano la premessa per la costruzione di una macchina da guerra che ha il significato di un grande esperimento suicidario. Nata per proteggere e riterritorializzare a Est il popolo-nazione tedesco, la macchina si insubordina molto presto a qualsiasi compito che non sia quello della distruzione. Il fascismo voleva produrre l’“autentico” soggetto tedesco, seminare il mondo con maestose rovine capaci di testimoniare la vittoria sulla morte, ma il vortice della sua caduta ha prodotto soltanto la polvere di una catastrofe.
Macchina da guerra e nomos
diTommaso Tuppini-insegna Filosofia all’Università di Verona. Con Orthotes ha pubblicato La caduta. Fascismo e macchina da guerra
La fuga può appartenere alle esperienze più svariate e per definizione non è anticipabile, si sottrae al perimetro di qualsiasi progetto. La fuga di solito è l’effetto prodotto da una macchina da guerra. La macchina da guerra non ha a che fare in primo luogo con azioni di belligeranza, non provoca necessariamente un conflitto, è semmai un modo peculiare di abitare lo spazio, «è nella sua essenza l’elemento costitutivo dello spazio liscio, dell’occupazione di questo spazio, dello spostamento in questo spazio e della composizione corrispondente degli uomini: è questo il suo solo e vero oggetto positivo (nomos)».[1] Il nomos della macchina da guerra definisce un certo rapporto tra lo spazio e il molteplice di qualsiasi natura (inorganico, animale, antropologico, tecnologico ecc.) che lo riempie. La comprensione deleuziana di nomos è il controcanto della definizione che ne dà Carl Schmitt in un saggio del 1953.[2] Per Schmitt nomos dice il modo in cui un gruppo umano prende possesso di uno spazio e lo organizza per la propria sussistenza. Nomos comprende tre significati fondamentali e sempre coimplicati: “conquistare” la terra (Landnahme) che sarà poi da “spartire” (Teilen) perché diventi possibile utilizzarla e cominciare “produrre” (Weiden). Un gruppo umano prende possesso di un territorio libero, una “cosa di nessuno”, oppure contende il territorio ad altri gruppi. Nel secondo momento del nomos – la spartizione – i lotti del territorio vengono distribuiti ai membri secondo i diritti di ciascuno. Il nomos, però, ha anche un altro significato: l’uso produttivo della terra che è stata conquistata e spartita. Questo terzo momento comprende ogni forma di sfruttamento economico: la pastorizia dei nomadi, ma anche il lavoro agricolo, l’artigianto, la produzione industriale, qualsiasi coltivare, utilizzare e produrre. Nomos è un gesto di colonizzazione, dunque ha un significato politico, ma ha anche un significato giuridico, perché assegna un titolo di proprietà ai membri che partecipano della spartizione, e ha infine un significato economico. Il nomos della conquista, della spartizione e dell’uso ha una funzione stabilizzatrice, scandisce le tappe di un processo che compendia le prerogative dello Stato, le cui funzioni principali sono il controllo delle norme di residenza, il disciplinamento della circolazione di uomini e merci, l’organizzazione del lavoro.[3] Le tappe del nomos sono relative a «una tribù o un seguito o un popolo che si fa stanziale»,[4] definiscono i tratti essenziali della territorializzazione e della codificazione.
Anche il nomos affermato dalla macchina da guerra dice il modo in cui un molteplice ha a che fare con lo spazio: far funzionare una macchina da guerra significa infatti «distribuirsi in uno spazio aperto, tenere lo spazio, conservare la possibilità di apparire in qualsiasi punto».[5] Le componenti della macchina da guerra sono le stesse del nomos stanziale (spazio, elementi e l’occupazione dello spazio da parte degli elementi) ma diverso è il loro incastro reciproco. La differenza fondamentale tra il nomos sedentario e il nomos della macchina da guerra è che quest’ultimo rende impossibile scandire il suo funzionamento in tappe, non distingue tra la conquista, la spartizione e la produzione. Le ultime due tappe del nomos stanziale (spartire e utilizzare) presuppongono la prima (conquistare). Invece, per la macchina da guerra, tenere uno spazio vuol dire percorrerlo senza una presa di possesso preliminare, distribuirvisi senza dividerlo o costruendo recinti. La macchina da guerra tiene uno spazio indeterminato (ovvero “liscio”) nel modo in cui tengono il pendio i massi che ci rotolano sopra oppure – è l’esempio che fa Deleuze – tengono il pascolo gli animali che si distribuiscono sul fianco di una montagna, su una distesa nei pressi di una città, comunque in uno spazio «senza frontiere e senza chiusura».[6] Per il nomos della macchina da guerra lo spazio non è un perimetro inerte da occupare e misurare perché esso è fatto della tensione fra i corpi che lo popolano: c’è spazio solo nel momento in cui un molteplice vi si distribuisce per riempirlo. Lo spazio è ciò che succede tra i corpi. Per il nomos stanziale lo spazio è già dato, esso è qualche cosa di semplicemente presente di cui appropriarsi per poi suddividerlo. Il nomos dello Stato è incapace di produrre qualche cosa di nuovo, inedito, sorprendente, perché la distribuzione e la produzione rimangono funzioni della appropriazione iniziale, la natura del proprietario e della proprietà decidono della spartizione e della produzione. Il presente e il futuro del nomos stanziale sono una conseguenza del passato. Lo spazio “liscio” della macchina da guerra, invece, nasce insieme agli elementi, è la novità della combinazione tra gli elementi: pezzi di realtà, che prima s’ignoravano, si incontrano e si combinano per produrre qualche cosa che prima non c’era. La macchina da guerra non è orientata verso il passato dell’appropriazione ma verso il futuro della produzione. Il nomos stanziale mette ordine e sfrutta il vecchio, la macchina da guerra produce il nuovo. Di questo è fatta la necessaria fragilità della macchina da guerra rispetto a qualsiasi apparato che obbedisca al nomos stanziale. Poiché la macchina da guerra produce il proprio spazio, la tenuta di quest’ultimo non è garantita da nulla se non dall’azzardo della combinazione. È uno spazio sperimentale che può sparire con la stessa facilità con la quale è nato.
Per comprendere meglio la struttura di una macchina da guerra facciamo un esempio idraulico, il vortice. Il vortice è una dei primi fenomeni fisici sui quali si è esercitato il pensiero filosofico, segnatamente quello atomistico, che in esso ha scoperto una struttura intermedia tra il disordine e l’ordine, una fase di passaggio tra la pioggia verticale degli atomi e la condizione del mondo con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. La pioggia verticale di atomi è un flusso lamellare: gli strati compongono un flusso lamellare, differenti per viscosità e consistenza, procedono paralleli, senza mescolarsi e interferire. Un flusso lamellare è come una torta a strati che si disloca: è mobile rispetto all’ambiente ma al proprio interno è immobile perché la disposizione reciproca delle parti non cambia. La condizione presente, invece, è fatta di atomi aggregati in modo più o meno stabile. Tra il flusso uniforme degli atomi in caduta e la condizione presente del mondo, il vortice è la produzione attiva delle cose. La stratificazione di cui sono fatte le cose è un prodotto della vorticazione nella quale parti eterogenee di realtà si distribuiscono e si raccolgono. Il vortice dell’onda trascina con sé i detriti e separa i più grossi dai più piccoli. Questo ordine incipiente è ben rappresentato dal mulinello che si forma in certi corsi d’acqua e che già aveva attirato l’attenzione di Descartes nei Principes de la philosophie: se un torrente incontra un ostacolo (un sasso sul fondo), quest’ultimo gli rimanda indietro un controflusso il quale, combinandosi con il flusso, produce un vortice. Il vortice è una novità perché combina due cose che si ignoravano: lo scorrere del fiume e l’inerzia della pietra. Prima della formazione del vortice pietra e flusso aderivano l’una all’altro senza nessuna sfasatura. Quando il flusso inciampa nella pietra, una turbolenza dell’acqua segna la sfasatura tra i due elementi che in questo modo entrano per la prima volta in relazione.
[1] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 573. [2] C. Schmitt, Appropriazione, divisione, produzione, in Le categorie del politico, tr. it. P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 295-312. [3] G. Sibertin-Blanc, Politique et État chez Deleuze et Guattari. Essai sur le matérialisme historico-machinique, PUF, Paris 2013, pp. 120-121. [4] C. Schmitt, Il nomos della terra, tr. it. E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, p. 59 [5] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 488. [6]Ivi, p. 524.
Ciascuno dei giri di cui è fatto il vortice è fatto di un equilibrio fisico tra le spinte e le controspinte, allaccia la forza centripeta (che origina dal sasso, tendenza alla chiusura) e quella centrifuga (che origina dal fiume, tendenza all’apertura). Per mantenersi il vortice deve catturare le forze che rischiano di distruggerlo: la dispersione della corrente e l’inerzia della pietra. Il vortice si alimenta di queste forze, ma se prevale la spinta centrifuga il giro si allarga troppo e si sfascia, se invece prevale l’inerzia centripeta il giro si restringe e il vortice può chiudersi. Una combinazione dei corpi (flusso d’acqua, pietra) produce uno spazio nuovo e precario (il vortice).
Ma nel vortice riconosciamo un’altra caratteristica della macchina da guerra che fino adesso è rimasta implicita e che ci dice qualcosa di più preciso sulla natura dello spazio che la macchina allestisce: il vortice organizza la propria struttura producendo il vuoto e facendone un qualche uso. Il perno del movimento vorticoso è infatti la cavità conica che mette in comunicazione la superficie del torrente e il sasso sul fondo. Lo spazio della macchina è essenzialmente uno spazio di vuoto. Pensiamo alla ruota, dispositivo che non esiste in natura, capace di riconfigurare l’ambiente e che permette di spostarsi in modo nuovo: la ruota combina il moto di un oggetto circolare con l’immobilità del mozzo, ma funziona soltanto se tra il mozzo e il cerchio c’è un’intercapedine. A causa di questa giunzione senza saldatura la macchina rischia di saltare e guastarsi: tra la ruota e il mozzo, infatti, c’è una frizione (è una delle prime osservazioni che ha fatto la filosofia, «l’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, infiammandosi, in quanto era premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra» dice Parmenide del carro su cui era salito). Le macchine, prima di avere un effetto distruttivo sull’ambiente o sugli altri, sono dannose per se stesse, sono coinvolte in un processo di auto-demolizione. La precarietà della struttura è il prezzo che la macchina deve pagare per la propria audacia e novità. Una macchina, quanto più è complessa e fatta di elementi eterogenei, tanto più è fragile nel suo funzionamento. È il vuoto a permettere che elementi eterogenei si combinino insieme, ma questo assemblaggio rischia sempre di cadere a pezzi. Se, a differenza del nomos di terrritorializzazione, il nomos della macchina da guerra ha un potere inventivo, non si limita a ripetere tale e quale il passato, è perché si addentra in uno spazio di vuoto. Il vuoto investito dalla macchina è uno spazio catastrofico, è il suo futuro. La macchina da guerra trasforma lo spazio in tempo: ogni combinazione, incontro, macchinazione “da guerra” si mantiene soltanto se è capace di assimilare ciò che gli può accadere, il guasto, la rovina, la caduta.
“Macchina da guerra” può essere una struttura fisica, un’invenzione tecnologica, un circuito commerciale, un’opera d’arte, tutto ciò che allestisce uno spazio plastico e metamorfico dentro il quale è impossibile codificare i rapporti una volta per tutte. Per una scienza della macchina da guerra anche gli esseri viventi sono vortici:
onde, flutti, particelle semplici […], quel che chiamiamo un “essere” non è mai qualcosa di semplice […]: è travagliato da una profonda divisione interiore, è chiuso in modo imperfetto e, in certi punti, viene aggredito dall’esterno. […] Quel che sei riposa sull’attività che tiene insieme gl’innumerevoli elementi di cui sei fatto, sulla comunicazione intensa degli elementi tra di loro. Sono contatti energetici, movimento, calore e migrazioni d’elementi che fanno la vita intima del tuo essere organico. La vita non è mai situata in un luogo preciso: passa rapidamente da un punto all’altro […] come un flusso o una specie di torrente elettrico. […] La tua vita, inoltre, non è fatta soltanto di questo scorrimento interiore; scorre al di fuori e si apre a ciò che fluisce o le zampilla addosso. Il vortice durevole di cui sei fatto va a sbattere contro vortici simili con i quali forma una figura più ampia, animata da un’agitazione relativa.[1]
La storia evolutiva dell’uomo è eminentemente vorticosa, essa ha portato a intersecarsi forze che precedentemente s’ignoravano: la orizzontalità terragna del movimento animale e la postura erettile della pianta che punta verso il cielo.[2] Il vortice umano nasce quando il flusso animale incontra la pianta che gli manda indietro un contro-flusso di verticalizzazione. I picchi dell’esistenza sono fatti di quel «vortice del godimento» che si eleva «nella direzione di un cielo bello come la morte, pallido e improbabile come la morte, mentre gli occhi lo tengono attaccato con stretti legami alle cose volgari dove la necessità ha fissato il suo cammino».[3]
Non dobbiamo però immaginare il molteplice deterritorializzato come un’entità distinta da un molteplice territorializzato, il nomos della macchina da guerra come il “contrario” del nomos sedentario. Deterritorializzazione e territorializzazione sono due condizioni differenti che riguardano lo stesso corpo o insieme di corpi. Il movimento della macchina da guerra di solito rompe una occupazione sedentaria dello spazio e sedimenta in un’altra occupazione stanziale: i massi prima o poi avranno finito di rotolare. Le bestie si saranno distribuite sul fianco della montagna e il pastore le terrà sott’occhio disegnando con il pensiero un perimetro dal quale i singoli capi non devono uscire. Il vortice idraulico proviene da un flusso lamellare nel quale dopo un certo tempo si ritrasformerà. La deterritorializzazione della macchina da guerra va verso un’ulteriore territorializzazione. La macchina da guerra, dunque, è sempre orientata in due direzioni contemporaneamente: la novità della produzione in atto e lo stato di cose nel quale la novità si è ritradotta. Lo stato di cose è la novità fatta abitudine, l’invenzione diventata “scuola”. La macchina da guerra trova il proprio limite nella riterritorializzazione alla quale mette capo. Quest’ultima ne è il limite perché le assegna una figura riconoscibile, per certi versi ne è la continuazione sotto un’altra forma. Rispetto alla macchina da guerra e alla linea molare, la linea molecolare è una condizione di mezzo. La linea molecolare è una specie di compromesso[4] tra il nomos della macchina da guerra e la territorializzazione. La segmentarietà molecolare, fatta di sconfinamenti ed equivoci, può sconcatenarsi fino a diventare macchina da guerra, oppure può perdere la propria flessibilità, irrigidirsi e territorializzare il proprio molteplice. L’equivoco consiste nell’assolutizzare l’una condizione rispetto alle altre, non comprendere che la linea di fuga è il processo genealogico di cui la molarità è il risultato. L’equivoco fascista è proprio questo: il culto di una molarità auto-sufficiente, priva di genealogia (la razza), e il desiderio di costruire una macchina da guerra capace di un movimento continuo (la Panzerwaffe).
[1] G. Bataille, L’experiènce interieure, in Œuvres complètes, vol. V, Gallimard, Paris 1973, p. 111. [2] Id., Dossier de l’œil pinéal, in Œuvres complètes, vol. II, Gallimard, Paris 1970, p. 26. [3]Ibidem. [4] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 295.
Tratto da Tommaso Tuppini, La caduta. Fascismo e macchina da guerra, Orthotes 2019
Tommaso Tuppini La caduta. Fascismo e macchina da guerra
Orthotes Editrice
Via Saverio Costantino Amato 16 84014 – Nocera Inferiore (SA)
Donatella Gay Rochat– La Resistenza nelle valli valdesi-
Casa Editrice Claudiana-Torino
Descrizione del libro di Donatella Gay Rochat- La Resistenza nelle valli valdesi.Una ricerca, basata sul confronto di testimonianze dirette, sul primo periodo della guerra partigiana nelle valli valdesi del Piemonte – teatro di lunghe lotte in difesa della religione protestante – a cui ambiente geografico, economico-sociale e religioso conferirono caratteri specifici.
Il libro in pillole
L’esordio, le illusioni, le sconfitte, le ritirate, la ripresa e le prime vittorie
La lotta politica che cattolici, agnostici e valdesi vissero fianco a fianco
Libertà di coscienza e lotta di liberazione
Introduzione
di Alberto Cavaglion Prefazione alla prima edizione
di Leo Valiani Premessa
1. L’ambiente
2. L’antifascismo e le Valli valdesi fino al 1943
3. L’estate 1943
4. I giorni dell’armistizio
5. La Resistenza in val Pellice dal settembre al dicembre 1943
6. Val Pellice e val Germanasca dal gennaio al marzo 1944
7. Il rastrellamento di marzo
8. La ripresa (primavera 1944)
9. Giugno-luglio: nuova espansione
10. Brevi cenni sugli avvenimenti dall’agosto 1944 alla liberazione
Appendice prima Lettera di Karl Barth ai protestanti di Francia (dicembre 1939) Appendice seconda «Il Pioniere» Anno I, n. 1 – Venerdì 30 giugno 1944
Biografia dell’autore
Donatella Gay Rochat-insegnante, vive e lavora a Torre Pellice.
Jacint Verdaguer-Poeta spagnolo di lingua catalana
Biografia di Jacint Verdaguer (1845-1902)-Poeta e sacerdote spagnolo, uno dei maggiori di lingua catalana.Romantico, è ascritto alla generazione della Restaurazione del 1874, che nel quadro del Rinascimento ricollocò la lingua catalana nella categoria di lingua letteraria.
MANDORLO
*
Ti guardo
e ti ammiro,
mandorlo in fiore,
che osi
coprirti di rose
per il mese di gennaio.
Se arriva il gelo,
il tuo fiore bianco
appassirà
come l’erba falciata.
Ma tu sarai sbocciato,
e, all’Infinito,
devoto giardiniere,
avrai donato il primo fiore.
Signore,
se per il cuore
amarti è fiorire,
come il mandorlo
voglio affrettarmi
ad amare;
come lui, voglio sbocciare,
morire lentamente.
Jacinto Verdaguer y Santaló
POEMES DE JACINT VERDAGUER QUÈ ÉS LA POESIA
La poesia és un aucell del cel que fa sovint volades a la terra, per vessar una gota de consol en lo cor trist dels desterrats fills d’Eva.
Los fa record del paradís perdut on jugava l’amor amb la ignocència, i els ne fa somiar un de millor en lo verger florit de les estrelles.
Ella és lo rossinyol d’aquells jardins, són llur murmuri bla ses canticeles, que hi transporten al pobre desterrat dant-li per ales místiques les seves.
No es deixa engabiar en los palaus, no es deixa esbalair per la riquesa, en la masia amb los senzills del cor ses ales d’or i sa cançó desplega.
Mes per sentir-li modular a pler la pobra humanitat està distreta. Qui està distret amb lo borboll mundà, com sentirà la refilada angèlica?
L’aucell del paradís no es fa oir, no, de qui escolta la veu de la sirena. Lo cel que es mira en la fontana humil no s’emmiralla en la riuada tèrbola.
De poetes cabdals prou n’hi ha haguts; cap d’ells la dolça melodia ha apresa. Qui n’arribés a aprendre un refilet, aquell ne fóra l’àliga superba.
Mes l’aucellet refila tot volant, calàndria de l’empírea primavera, allí dalt entre els núvols de l’orient llença un raig d’harmonies i s’encela.
Jo l’he sentida un bell matí de maig, lo bell matí del maig de ma infantesa. Jo l’he sentida la gentil cançó, per ço m’és enyorívola la terra.
Aires del Montseny (1896)
LES TRES VOLADES
Entre la vinya i el fenollar amor me pres, fe’m Déus amar. Ramon Llull
Lo matí de ma infantesa, quin matí fou tan hermós!, lo cor vessava de càntics, lo camp vessava d’olors. Jo em sentí unes ales nàixer i volí de flor en flor,
a quiscuna que em somreia li dictava una cançó: si cançons no li plavien, li donava un bes o dos.
No veia de vostra tenda, gran Déu, les estrelles d’or. Les vegí per entre els arbres, i adéu floretes del bosc; per la bresca de mos càntics ja no teniu prou dolçor. Prou veia aprés les estrelles, mes no us veia encara a Vós, del cel bellesa increada, robadora de l’amor. Ara que us veig i us abraço, adéu, estrelles i tot; per aimar a qui tant aimo ja no tinc prou gran lo cor.
Idil·lis i cants místics (1879)
LO COLP
Lo món me creia feliç, l’enveja em feia la gala, mes jo perdia el cantar com a l’hivern la calàndria. Dormien en sol mortal
les cançons en la meva arpa, en ella i en lo meu cor que anava arronsant les ales, quan lo colp de vostra mà
fa deixondir la meva ànima, com los aucells adormits en los niuets de la branca, al sentir baix en lo tronc una forta destralada.
Flors del calvari (1896)
SUM VERMIS
Veieu-me aquí, Senyor, a vostres plantes, despullat de tot bé, malalt i pobre, de mon no-res perdut dintre l’abisme. Cuc de la terra vil, per una estona
he vingut en la cendra a arrossegar-me. Fou mon bressol un gra de polsinera, i un altre gra serà lo meu sepulcre. Voldria ser quelcom per oferir-vos,
però Vós me voleu petit i inútil, de glòria despullat i de prestigi.
Feu de mi lo que us plàcia, fulla seca de les que el vent s’emporta, o gota d’aigua de les que el sol sobre l’herbei eixuga, o, si voleu, baboia de l’escarni. Jo só un no-res, més mon no-res és vostre; vostre és, Senyor, i us ama i vos estima. Feu de mi lo que us plàcia; no en só digne d’anar a vostres peus; com arbre estèril, de soca a arrel traieu-me de la terra, morfoneu-me, atuïu-me, anihilau-me.
Veniu a mi, congoixes del martiri, veniu, oh creus, mon or i ma fortuna, ornau mon front, engalonau mos braços. Veniu llorers i palmes del Calvari, si em sou aspres avui, abans de gaire a vostre ombriu me serà dolç l’asseure’m. Espina del dolor, vine a punyir-me, cuita a abrigar-me amb ton mantell, oh injúria; calúmnia, al meu voltant tos llots apila, misèria, vine’m a portar lo ròssec. Vull ser volva de pols de la rodera a on tots los qui passen me trepitgen; vull ser llençat com una escombraria del palau al carrer, de la més alta
cima a l’afrau, i de l’afrau al còrrec. Escombreu mes petjades en l’altura; ja no hi faré més nosa, la pobresa serà lo meu tresor, serà l’oprobi
lo meu orgull; les penes ma delícia.
Des d’avui colliré los vilipendis i llengoteigs com perles i topazis per la corona que en lo cel espero. Muira aquest cos insuportable, muira; cansat estic de tan feixuga càrrega; devor’l lo fossar, torne a la cendra d’on ha sortit, sum vermis et non homo. Jo no só pas la industriosa eruga que entre el fullam de la morera es fila de finíssima seda lo sudari. Jo me’l filo del cànem de mes penes; mes, dintre aqueixa fosca sepultura, tornat com Vós, Jesús, de mort a vida, jo hi trobaré unes ales de crisàlide per volar-me’n amb Vós a vostra glòria.
Flors de calvari (1896)
La meva ànima està trista, Catalunya del meu cor, tants dies que no t’he vista! tants mesos ha que t’enyor!
Lluny de tu, què se me’n dóna de les flors ni dels jardins? Ton amor és ma corona, tos rebrolls mos gessamins.
Per mi no té llum lo dia, no té la nit un estel; mos estels, oh pàtria mia! se quedaren en ton cel.
Mos somnis en tes arbredes, en tes lires mes cançons, se quedaren on tu et quedes, bressol de mes il·lusions.
Fent lo cant de les cigales lo meu cor volant, volant, ha sentit caure les ales que mai més li tornaran.
Si alguna ploma li’n brota seria, pàtria, al sol teu, si pel maig, que tot rebrota, pogués trobar-s’hi el cor meu.
He pujat a una alta serra, de la serra he vist el mar; mar que toques a ma terra, si m’hi volguessis tornar!
Qui pogués desfer los passos i arribar, pàtria, a ton port! Qui pogués dormir en tos braços més que fóra el son de mort!
De la sèrie «Lluny de ma terra», Pàtria (1888)
LOS DOS CAMPANARS
Doncs ¿què us heu fet, superbes abadies, Mercèvol, Serrabona i Sant Miquel, i tu, decrèpit Sant Martí, que omplies aqueixes valls de salms i melodies
la terra d’àngels i de sants lo cel?
Doncs ¿què n’heu fet , oh valls!, de l’asceteri, escola de l’amor de Jesucrist? On és, oh soledat!, lo teu salteri? On tos rengles de monjos, presbiteri,
que, com un cos sens ànima, estàs trist?
D’Ursèol a on és lo Dormitori? La celda abacial del gran Garí? On és de Romualdo l’oratori, los palis i retaules, l’ori evori que entretallà ha mil anys cisell diví?
Los càntics i les llums s’esmortuïren; los himnes sants en l’arpa s’adormiren, la rosa s’esfullà com lo roser; com verderoles que en llur niu moriren quan lo bosc les oïa més a pler.
Dels romàntics altars no en queda rastre, del claustre bizantí no en queda res: caigueren les imatges d’alabastre i s’apagà sa llàntia, com un astre
que en Canigó no s’encendrà mai més.
Com dos gegants d’una legió sagrada sols encara hi ha drets dos campanars: són los monjos darrers de l’encontrada, que ans de partir, per última vegada, contemplen l’enderroc de sos altars.
Són dues formidables sentinelles que en lo Conflent posà l’eternitat; semblen garrics los roures al peu d’elles; les masies del pla semblen ovelles al peu de llur pastor agegantat.
Una nit fosca al seu germà parlava lo de Cuixà: -Doncs, que has perdut la veu? Alguna hora a ton cant me desvetllava i ma veu a la teva entrelligava cada matí per beneir a Déu.
-Campanes ja no tinc- li responia lo ferreny campanar de Sant Martí-. Oh!, qui pogués tornar-me-les un dia! Per tocar a morts pels monjos les voldria; per tocar a morts pels monjos i per mi.
Que tristos, ai, que tristos me deixaren! Tota una tarda los vegí plorar; set vegades per veure’m se giraren; jo aguaito fa cent anys per on baixaren; tu que vius més avall, no els veus tornar?
-No! Pel camí de Codalet i Prada sols minaires i llauradors: diu que torna a son arbre la niuada, mes ai!, la que deixà nostra brancada no hi cantarà mai més dolces amors.
Mai més! Mai més! Ells jauen sota terra; nosaltres damunt seu anam caient; lo segle que ens deu tant ara ens aterra, en son oblit nostra grandor enterra
i ossos i glòries i records se’ns ven.
-Ai!, ell ventà les cendres venerables del comte de Rià, mon fundador; convertí mes capelles en estables, i desniuats los àngels pels diables en eixos cims ploraren de tristor.
I jo plorava amb ells i encara ploro, mes ai!, sens esperança de conhort, puix tot se’n va, i no torna lo que enyoro, i de pressa, de pressa, jo m’esfloro, rusc on l’abell murmuriós s’és mort.
-Caurem plegats- lo de Cuixà contesta- Jo altre cloquer tenia al meu costat; rival dels puigs, alçava l’ampla testa, i amb sa sonora veu, dolça o feresta, estrafeia el clarí o la tempestat.
Com jo, teia nou-cents anys de ma vida, mes, nou Matusalem, també morí; com Goliat al rebre la ferida, caigué tot llarg, i ara a son llit me crida son insepult cadavre gegantí.
Abans de gaire ma deforme ossada blanquejarà en la vall de Codalet; lo front me pesa més i a la vesprada, quan visita la lluna l’encontrada,
tota s’estranya de trobar-m’hi dret.
Vaig a ajaure’m també: d’eixes altures tu baixaràs a reposar amb mi, i ai!, qui llaure les nostres sepultures on foren Sant Miquel i Sant Martí-.
Aixís un vespre els dos cloquers parlaven; mes, l’endemà al matí, al sortir lo sol, recomençant los càntics que ells acaben, los tudons amb l’heurera conversaven, amb l’estrella del dia el rossinyol.
Somrigué la muntanya engallardida com si estrenàs son verdejant mantell; mostrà’s com núvia de joiells guarnida; i de ses mil congestes la florida blanca esbandí com taronger novell.
Lo que un segle bastí, l’altre ho aterra mes resta sempre el monument de Déu; i la tempesta, el torb, l’odi i la guerra al Canigó no el tiraran a terra, no esbrancaran l’altívol Pirineu.
Canigó (1886) [afegit el 1901 com a epíleg]
Jacinto Verdaguer y Santaló
Jacinto Verdaguer y Santaló
Jacinto Verdaguer y Santaló
Biografía di Jacinto Verdaguer y Santaló
Jacinto Verdaguer y Santaló12a (Folgarolas, 17 de mayo de 1845-Vallvidrera, 10 de junio de 1902) fue un poeta y sacerdote español que escribió su obra en lengua catalana, en cuya literatura influyó especialmente el obispo Torras y Bages que lo calificó de «príncipe de los poetas catalanes». También se lo conoce en catalán como Mossèn Cinto Verdaguer por su condición de clérigo.3
Biografía
Fue el segundo hijo de los ocho nacidos del matrimonio formado por José Verdaguer y Ordeix (Tabérnolas, 1817-Folgarolas, 1876) y Josefa Santaló y Planas (Folgarolas, 1819-1871). De los ocho solo sobrevivieron tres, dados los escasos medios de la familia. Su padre era maestro de obras y su madre trabajaba en casa como hiladora. La religiosidad de su madre le hizo ingresar, en 1855, a los diez años de edad, en el Seminario de Vich. Mientras cursaba los estudios eclesiásticos, vivía en una casa de campo cercana a la ciudad —Can Tona—, donde daba clases a los niños y ayudaba en las faenas agrícolas. En 1865 participó en los Juegos Florales de Barcelona y obtuvo dos galardones. Al año siguiente volvió a ganar dos premios en los mismos Juegos Florales.
El 24 de septiembre de 1870 fue ordenado sacerdote en Vich por el obispo Luis Jordá, y en octubre de ese mismo año cantó su primera misa en la ermita de Sant Jordi de Puigseslloses, cercana a su pueblo natal. El día siguiente celebra la segunda misa en la ermita de San Francisco, próxima a Vich.
Jacinto Verdaguer
El 17 de enero de 1871 fallece su madre, a los cincuenta y dos años de edad. El día 1 de septiembre es nombrado coadjutor de Viñolas de Oris (Osona), donde permanecerá dos años. En 1873 publica la Passió de Nostre Senyor Jesucrist. Deja la parroquia por cuestiones de salud y se va a Barcelona, en busca de curación.
A los veintiocho años, en diciembre de 1874, entró como sacerdote en la Compañía Trasatlántica de Antonio López y López (futuro marqués de Comillas), habiéndole recomendado los médicos, para mejorar su salud, los aires del mar. Pasó dos años cruzando el Atlántico, de España a Cuba (y viceversa). El 8 de septiembre de 1876 muere su padre, a los sesenta y cinco años. En el barco “Ciudad Condal”, de regreso de Cuba, termina el poema La Atlántida. En noviembre entra, como capellán, en la casa del futuro marqués de Comillas, en el palacio Moja de Barcelona.
En 1877 el Consistorio de los Juegos Florales le concede el premio extraordinario de la Diputación de Barcelona por el poema La Atlántida. Es su consagración como poeta. El crítico Menéndez y Pelayo considera a Verdaguer «el poeta con más dotes creativos de España», y Mistral, el poeta provenzal que le vaticinó un gran futuro como poeta, le manda una carta de felicitación. En 1878, el marqués de Comillas corre con los gastos de la primera edición, bilingüe, del poema. Verdaguer viaja a Roma, en una peregrinación organizada por el obispo de Barcelona. El papa León XIII, también poeta, lo recibe y le habla de La Atlántida. Verdaguer le obsequia con un ejemplar del poema
En 1880, tras haber obtenido los tres premios canónicos en los Juegos Florales, fue proclamado Mestre en Gai Saber. Ese mismo año publicó dos libros sobre Montserrat: Canciones y Leyenda. En 1884 viajó a París, Suiza, Alemania y Rusia, y el año anterior lo había hecho, acompañando al segundo marqués de Comillas, al norte de África (Marruecos y Argelia). Durante estos años realizó también largas excursiones por el Pirineo catalán, y fue el primer español en pisar la cima del Aneto. En 1883, presenta a los Juegos Florales una extensa oda A Barcelona que le merece un premio extraordinario. El Ayuntamiento de la ciudad publica el poema en una edición de cien mil ejemplares.
Portada de una edición madrileña en castellano de Canigó (1898), obra del dibujante José Arija.
En 1886 publica Canigó, su segundo gran poema épico. El 21 de marzo de dicho año, el obispo Morgades lo coronó «en nombre de Cataluña» en el Monasterio de Santa María de Ripoll. Más tarde realizó un viaje de peregrinación a Tierra Santa, que le produjo una profunda crisis personal. Dedicó los años siguientes a la oración y, sobre todo, a las limosnas (era el capellán-limosnero del marqués de Comillas). Frecuentó a grupos de videntes y asistió a prácticas exorcísticas. Su producción literaria pasó por una época de sequía, y no volvió a publicar poesía hasta unos años más tarde.
En mayo de 1893, se ve forzado a abandonar su cargo de capellán-limosnero en el palacio de los marqueses de Comillas. Por esas fechas termina la trilogía Jesús Infant, dedicada a la Sagrada Familia. Tras dejar la casa del marqués, se instala en el santuario mariano de La Gleva, cerca de Vich, donde residirá dos años. En 1894 publica Roser de tot l’any y Veus del Bon Pastor. El 31 de marzo de 1895 abandona el santuario y se instala en Barcelona, en casa de la familia Durán-Martínez, a cuyo padre Verdaguer había asistido en su lecho de muerte.
El obispo de Vich, que lo había coronado en Ripoll, le abrió un expediente disciplinario por desobediencia, y se le prohibió ejercer el ministerio sacerdotal. El poeta pasó dos años de soledad y amargura, durante los cuales escribió otro tipo de poesía, más personal y muy dolorida. En 1895 y 1897 publicó en la prensa izquierdista de Barcelona unos durísimos artículos «en defensa propia», que causaron gran estupor en la jerarquía eclesiástica y en la opinión pública catalana. La intervención de los monjes agustinos de El Escorial fue decisiva para que el obispo Morgades le devolviera las licencias sacerdotales, tras la retractación del capellán-poeta. A finales de diciembre de 1897, Verdaguer pudo celebrar misa, y en febrero de 1898 fue destinado, por el obispo de Barcelona, a la parroquia barcelonesa de Belén, donde pasó sus últimos años como beneficiado.
«La capilla ardiente durante la exposición del cadáver de Mosén Jacinto Verdaguer». Dibujo de Nicanor Vázquez.
En 1902 se le declara una tisis galopante. El 17 de mayo de 1902, el mismo día que cumplía cincuenta y siete años, se trasladó desde Barcelona a la finca conocida como Quinta Juan (Vila Joana, en catalán), en Vallvidrera, donde su propietario, exalcalde de la entonces villa de Sarriá, le ofreció pasar unas semanas para restablecerse de una tisis pertinaz. El 10 de junio, poco antes de las seis de la tarde, el poeta falleció. Tres días después, el cadáver de Verdaguer, tras haber sido expuesto en el Ayuntamiento de Barcelona, fue sepultado en la montaña de Montjuich, en una roca delante del mar, después de un largo trayecto por las calles de la ciudad, en una de las manifestaciones de duelo más multitudinarias de la historia de Cataluña.
Entre sus obras poéticas destacan La Atlántida (1877), Idilios y cantos místicos (1879), Canigó (1886), Patria (1888), Flores del Calvario (1896), Montserrat (1898) y Aires del Montseny (1901). En prosa publicó Excursiones y viajes (1887), Dietario de un peregrino a Tierra Santa (1889) y los artículos En defensa propia (1895-1897).
En 1971 la Fábrica Nacional de Moneda y Timbre emitió un billete de 500 pesetas con la efigie del poeta y clérigo en el anverso, en el reverso aparece la vista del monte Canigó.
El servicio de Correos emitió en 1977 un sello de Jacinto Verdaguer en una serie dedicada a Personajes españoles. Aparece en él vestido con barretina catalana.
Fondo personal
Carta autógrafa de Jacinto Verdaguer a Menéndez Pelayo.
La biblioteca del poeta ingresó como fondo el 1908 en la Biblioteca de Cataluña, y constituye una de sus colecciones fundacionales. Poco después ingresó un importante conjunto de documentación personal y literaria, adquirido a los herederos de Verdaguer por el conde de Lavern y donado por este mecenas a la Biblioteca; en 1915 se adquirieron igualmente otras seis cajas con documentación literaria procedente de la editorial L’Avenç. A principios de los sesenta ingresó un importante conjunto de autógrafos y agendas procedentes de la colección Fondevila, y a mediados d eso setenta un importante conjunto de documentos que habían sido conservados por los descendientes de uno de los doctores que asistieron a Verdaguer en su muerte. La colección continua abierta a nuevos ingresos.
La colección de autógrafos del Archivo histórico se compone de once libretas y cerca de doscientos documentos sueltos ordenados por temas, e incluye manuscritos y borradores de sus libros. El apartado de impresos lo integran: aleluyas, coplas, himnos, cánticos, canciones de Navidad, canciones de cuna y partituras musicales, ordenados también por temas. Unas ochenta imágenes, con retratos dedicados o firmados, fotografías de lugares y ambientes relacionados con la vida y la obra de Verdaguer, así como el álbum “El Vanadis”, nombre del yate alquilado en 1883 por el marqués de Comillas y a bordo del cual Verdaguer realizó un crucero por el Mediterráneo, acompañado de diversos miembros y amigos de las familias López-Güell, conforman el tercer gran apartado del fondo. La documentación personal de Jacinto Verdaguer ingresó en el AHCB el 16 de marzo de 1945 procedente de la Quinta Vilajoana. Después de su muerte, los barceloneses organizaron su entierro donde mucha gente fue a verlo. Hoy en día, en Vallvidrera, hay su casa, que se puede visitar como museo.
Legado
En Barcelona, la figura de Jacinto Verdaguer recibió un amplio culto póstumo inmediatamente después de su fallecimiento. Muestra de ello son las iniciativas que dieron lugar a los primeros memoriales en los cuales el poeta sería recordado y homenajeado. Entre estos cabe mencionar la tumba del poeta en el cementerio de Montjuïc, que se convirtió rápidamente en un lugar de veneración y peregrinaje, la instalación de la Sala Verdaguer en el Museo de Arte Decorativo y Arqueológico (1903), o el ingreso de su retrato en la Galería de Catalanes Ilustres (1906). También otras iniciativas igualmente significativas, como la de la colocación de su retrato en la Galería de Excursionistas Catalanes Ilustres del Centre Excursionista de Catalunya, o la lápida de mármol instalada en uno de los muros de la estación superior del funicular. Es también inmediatamente después de su muerte cuando se planteó la erección del gran Monumento a Mosén Jacint Verdaguer que, sin embargo, no se inauguró hasta el 1924.4
El culto a Verdaguer transciende la ciudad de Barcelona, como lo demuestra el hecho de que sea una de las personalidades históricas que tiene más calles en Cataluña, el monumento y la casa-museo dedicados a su figura en el pueblo natal, Folgarolas, o las esculturas existentes en Vic y la Mare de Déu del Mont, por mencionar únicamente algunos ejemplos.5
· «Testamento otorgado por el Rdo. Sr. Jacinto Verdaguer y Santaló», copia del testamento autógrafo ante el notario Manuel Borràs i de Palau. Barcelona, 10 de junio de 1902; en Inventari de manuscrits verdagueriansArchivado el 22 de junio de 2010 en Wayback Machine. Recurso electrónico, Barcelona, Biblioteca de Catalunya, 2004, ref. 383/15. 2, pág. 40.
· «Mosén» en castellano y mossèn en catalán (‘mi señor’), era el título que se daba a los clérigos y a la nobleza de segundo orden en la antigua Corona de Aragón. Cfr. DRAE, lema «mosén».
Biografia di Jacint Verdaguer (1845-1902)-Poeta e sacerdote spagnolo, uno dei maggiori di lingua catalana.Romantico, è ascritto alla generazione della Restaurazione del 1874, che nel quadro del Rinascimento ricollocò la lingua catalana nella categoria di lingua letteraria.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-
11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina -Premio Nobel per la Medicina nel 1945-
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina- Premio Nobel per la Medicina nel 1944
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina- Premio Nobel per la Medicina nel 1945 -Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni–
– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina- Premio Nobel per la Medicina nel 1944
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Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 11) Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina- Premio Nobel per la Medicina nel 1944Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da vari Blog e siti web-
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Biografia di Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina-Premio Nobel per la Medicina nel 1945-
Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina-Premio Nobel per la Medicina nel 1945-Batteriologo inglese (Lochfield, Scozia, 1881 – Londra 1955); prof. di batteriologia nell’univ. di Londra e direttore dell’Inoculation Department del St. Mary’s Hospital; accademico pontificio (1946) e socio straniero dei Lincei (1947)-Alexander nasce il 6 agosto 1881, in una zona rurale nei pressi di Darvelen Ayrshire (Scozia) in una famiglia composta dai genitori e da tre fratelli nati dal secondo matrimonio del padre. Passa l’infanzia e la preadolescenza studiando nelle scuole della zona, dopodiché intorno ai 14 anni si trasferisce a Londra, città in cui convive con uno dei fratelli che studia medicina.
Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina -Premio Nobel per la Medicina nel 1945
La vita dell’uomo che avrebbe scoperto il primo antibatterico della storia è molto più normale di quanto potremmo immaginare: nella capitale inglese, infatti, Alexander frequenta prima il Regent Street Polytechnic Institute e poi per quattro anni lavora in una compagnia che si occupa di spedizioni. Insomma, fa l’impiegato.
Nel 1901 la sua vita prende un’altra piega: eredita dallo zio John una piccola somma di denaro e successivamente il fratello lo convince a iscriversi alla Scuola di Medicina Saint Mary dell’Università di Londra.Durante questi anni entra a far parte del club dei fucilieri dell’università e il suo capitano gli consiglia di unirsi al gruppo di ricerca della facoltà di medicina. È così che Alexander diventa l’assistente batteriologo di Sir Almroth Wright, uno dei primi studiosi di immunologia.
Se inizialmente era intenzionato a diventare un chirurgo, grazie all’esperienza in laboratorio Alexander cambia idea e capisce che quella della batteriologia sarebbe stata la sua strada.
Nel 1906 si laurea in medicina e chirurgia e solamente due anni dopo vince la medaglia d’oro dell’Università e inizia la carriera come Professore sempre all’interno dell’Ateneo.
Nel 1915 si sposa con Sarah Marion McElroy ma durante la Prima Guerra Mondiale viene inviato al fronte occidentale francese per assistere e curare i feriti di guerra. Qui affronta moltissimi casi di setticemia, cancrena e tetano, ed è costretto a mettere alla prova tutte le sue capacità come medico e, in particolare, come batteriologo.
Terminata la guerra Alexander può tornare finalmente a casa: è l’inizio di un nuovo capitolo della sua vita che lo porterà a diventare uno dei precursori della medicina moderna.
La prima grande scoperta arriva nel 1922: il lisozima.
Alexander Fleming- Batteriologo, scopritore della penicillina -Premio Nobel per la Medicina nel 1945
Il lisozima (dal greco lysis = dissoluzione) è un enzima, una sostanza composta da proteine che il nostro corpo utilizza per prevenire le infezioni e che è presente nelle lacrime, nelle secrezioni nasali e nella saliva. Alexander scopre l’esistenza di una potente barriera che produciamo autonomamente e che mentre a noi non causa nessun danno, è nociva per i batteri (anche se in modo piuttosto blando).Ma come avviene la scoperta? Casualmente, come spesso accadde nella storia di quest’uomo.
Alexander aveva semplicemente lasciato in un recipiente un po’ del suo stesso muco nasale per qualche settimana e poi, una volta rientrato in laboratorio, aveva notato che si erano sviluppati dei microbi in tutto il recipiente, tranne in quelle zone dove c’era il suo muco.
Decide così di ripetere l’esperimento con altre sostanze che normalmente produce il nostro corpo come le lacrime e la saliva e capisce che tutte contengono un antibatterico, per quanto leggero, del tutto naturale. Non era però in grado di isolarlo perché, purtroppo, nel laboratorio mancava un chimico.
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Grazie allo studio del lisozima e alcune ricerche sulle muffe svolte negli anni successivi, si realizza anche la più grande scoperta di Alexander: la penicillina. È il 1928 e nel suo laboratorio sta studiando e coltivando lo stafilococco, un comune batterio che vive sulla superficie e all’interno del nostro corpo, ma che può generare delle patologie in circostanze particolari.
Anche in questo caso Alexander dopo qualche giorno di assenza torna in laboratorio e scopre che una muffa ha contaminato uno dei recipienti che contenevano una cultura di stafilococchi. La cosa strabiliante è che la colonia di stafilococco a contatto con muffa era stata totalmente distrutta. Il motivo? La muffa, appartenente al genere Penicillium, produceva una sostanza in grado di annientare i batteri. Il 7 marzo del 1929 la sostanza prodotta dalla muffa prende il nome di penicillina.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Anche in questo caso sono necessari moltissimi altri test di laboratorio per verificare l’efficacia di questa nuova sostanza scoperta, ma – nonostante gli incoraggianti risultati ottenuti – la penicillina diventerà un medicinale diffuso e utilizzato solo 15 anni dopo. Ad aiutare il processo di ingresso della penicillina nel grande mondo dei medicinali furono due studiosi di Oxford, Howard Florey ed Ernst Boris Chain che isolarono la penicillina pura, di gran lunga più efficace di quella grezza prodotta naturalmente dalla muffa. Furono loro ad entrare in contatto con le case farmaceutiche statunitensi e a fare in modo che la penicillina fosse prodotta in enormi quantità.
Nel 1944 Alexander viene nominato Sir, titolo onorifico nei paesi anglofoni, e riceve il Premio Nobel per la Medicina insieme a Florey e Chain.Alexander è spesso collegato al tema della serendipità o – in inglese – “serendipity”. Si tratta della capacità o la fortuna di fare per caso delle scoperte importanti mentre si sta cercando (o in questo caso studiando) altro, come sono state quelle di Alexander in ambito medico-scientifico.
La grandezza di questo medico sta nell’aver predisposto tutte le condizioni affinché le scoperte potessero avvenire e, dall’altro lato, aver saputo osservare i fenomeni che si generavano ed essere riuscito ad interpretarli.Nel 1947 viene a mancare il maestro di Alexander, Sir Almroth Wright, e due anni dopo purtroppo viene a mancare la moglie, Sarah.
Nel 1953 Alexander sposerà la sua seconda moglie, la microbiologa Amalia Coutsoris-Voureka con cui aveva stretto un legame negli anni dopo essere stati colleghi al Saint Mary.Il Dottor Alexander Fleming muore d’infarto l’11 marzo del 1955 a soli 74 anni.
Biografia a cura diA cura di Camilla Ferrario-Fonte-Geopop è un progetto editoriale di Ciaopeople.- https://www.geopop.it/
l’Associazione Graffiti Zero, associazione che promuove l’integrazione fra la Street ha realizzato i Murales dell’Ospedale Spallanzani di Roma
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recensione di Leone Ginzburg scritta per la Rivista PEGASO n°10 1932 diretta da Ugo Ojetti
ISAAC BABEL -Scrittore russo (n. Odessa 1894 – m. 1940), autore di bozzetti e racconti – giustamente chiamati miniature – che ritraggono gli avvenimenti della lotta rivoluzionaria (Konnarmija “L’armata a cavallo”, 1926), a cui B. stesso partecipò nell’armata di Budënnyj e che ci descrive in prima persona, oppure la vita e la graduale scomparsa della piccola borghesia ebraica di Odessa (Odesskie rasskazy “Racconti di Odessa”, 1931; Istorija moej golubiatni “Storia della mia colombaia”). È autore inoltre di due drammi: Zakat (“Il tramonto”, 1928) e Marija (“Maria”, 1935). Vittima delle epurazioni staliniane, fu arrestato nel 1939 e non si ebbero più notizie di lui; nel 1956 la sua memoria fu ufficialnente riabilitata.
ISACCO BABEL
ISACCO BABEL , L’armata a cavallo-ISACCO BABEL , L’armata a cavallo-recensione di Leone Ginzburg ISACCO BABEL , L’armata a cavallo-recensione di Leone Ginzburg ISACCO BABEL , L’armata a cavallo-recensione di Leone Ginzburg ISACCO BABEL , L’armata a cavallo-recensione di Leone Ginzburg – Rivista PEGASO n°10 1932ISACCO BABEL , L’armata a cavallo-ISACCO BABEL
ISAAC BABEL-Biografia da Enciclopedia TRECCANI
Babel´ ⟨bàb’il’⟩, Isaak Emmanuilovič. – Scrittore russo (n. Odessa 1894 – m. 1940), autore di bozzetti e racconti – giustamente chiamati miniature – che ritraggono gli avvenimenti della lotta rivoluzionaria (Konnarmija “L’armata a cavallo”, 1926), a cui B. stesso partecipò nell’armata di Budënnyj e che ci descrive in prima persona, oppure la vita e la graduale scomparsa della piccola borghesia ebraica di Odessa (Odesskie rasskazy “Racconti di Odessa”, 1931; Istorija moej golubiatni “Storia della mia colombaia”). È autore inoltre di due drammi: Zakat (“Il tramonto”, 1928) e Marija (“Maria”, 1935). Vittima delle epurazioni staliniane, fu arrestato nel 1939 e non si ebbero più notizie di lui; nel 1956 la sua memoria fu ufficialnente riabilitata.
Leone Ginzburg
Leone Ginzburg- Nacque a Odessa dagli ebrei Fëdor Nikolaevič Ginzburg e Vera Griliches.Era l’ultimo di tre fratelli: lo precedevano Marussa (1896) e Nicola (1899). Era in realtà figlio naturale dell’italiano Renzo Segré, con cui la madre aveva avuto una fugace relazione mentre si trovava in villeggiatura a Viareggio; Fëdor lo aveva però riconosciuto come suo e Leone stesso lo considerò sempre come il proprio padre. Figura importantissima nell’infanzia di Leone fu l’italiana Maria Segré (sorella del suo padre naturale) che sin dal 1902 viveva presso la famiglia in qualità di istruttrice. Insegnò ai tre fratelli il francese e l’italiano e fu lei a creare i rapporti tra i Ginzburg e l’Italia. Leone fu per la prima volta in Italia nel 1910, quando trascorse le vacanze a Viareggio con la madre e i fratelli. Questa consuetudine si ripeté anche negli anni successivi sino allo scoppio della Grande Guerra, nel 1914: in quell’occasione la madre e i fratelli maggiori tornarono a Odessa mentre il figlio minore, per evitargli un pericoloso viaggio in mare, rimase nella Penisola con la Segré che divenne per lui quasi una seconda madre. Il giovane Ginzburg visse in Italia per tutta la durata del conflitto, dividendosi tra Roma e Viareggio. Frattanto, passati attraverso la Rivoluzione di ottobre, i parenti rimasti in Russia si trovavano in difficoltà: nonostante avessero sostenuto la rivolta, i Ginzburg dovevano soffrire nuove pesanti limitazioni. Il primo a lasciare Odessa, nel 1919, fu Nicola il quale, temendo il richiamo alle armi, si trasferì a Torino dove si iscrisse al Politecnico. L’anno successivo tutta la famiglia si era stabilita a Torino e fu raggiunta da Leone che si iscrisse alla seconda classe del “Liceo Classico Vincenzo Gioberti”. Nel 1921 i Ginzburg si spostarono ancora una volta: furono a Berlino dove il padre aveva avviato una nuova società commerciale assieme a un amico. Leone dovette quindi riprendere la lingua russa e fu iscritto alla scuola russa della città dove proseguì gli studi ginnasiali. Nell’autunno 1923, mentre il padre restava in Germania per lavoro, la famiglia si riportò a Torino e qui Leone preparò, nel 1924, l’esame ginnasiale. Tra il 1924 e il 1927 concluse gli studi classici frequentando il liceo Massimo d’Azeglio. Fu studioso e docente di letteratura russa, partecipò allo storico gruppo di intellettuali di area socialista e radical-liberale (tra gli altri, Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Cesare Pavese, Carlo Levi, Elio Vittorini, Massimo Mila, Luigi Salvatorelli) che collaborarono alla nascita a Torino della casa editrice Einaudi. In campo politico fu un federalista convinto, attivo antifascista, dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana nel 1931 aderì al movimento “Giustizia e Libertà”. Fu per questo arrestato il 13 marzo 1934 in seguito alle ammissioni dell’antifascista giellino Sion Segre, arrestato con Mario Levi l’11 marzo, e su segnalazione del chimico francese René Odin, informatore dell’OVRA. Condannato a quattro anni di carcere, con cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, beneficiò di due anni di condono condizionale. Rilasciato nel 1936, proseguì la sua attività letteraria e di antifascista. Nel 1938 sposò Natalia Levi (meglio nota come Natalia Ginzburg), dalla quale ebbe due figli e una figlia: Carlo Ginzburg, poi divenuto noto storico, Andrea, economista, e Alessandra, psicanalista. Nel giugno del 1940 fu mandato al confino a Pizzoli, in Abruzzo, fino alla caduta del fascismo. Liberato nel 1943 alla caduta del fascismo, si spostò a Roma dove fu uno degli animatori della Resistenza nella capitale. Nuovamente catturato e incarcerato a Regina Coeli, fu torturato dai tedeschi perché rifiutò di collaborare. Morì in carcere, in conseguenza delle torture subite, la mattina del 5 febbraio 1944. È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.
Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Leone_Ginzburg
“Da Sharaja a Roma, lungo la via delle spezie”, la mostra ospitata dalla Cura Iulia
Roma Capitale-La mostra “Da Sharjah a Roma lungo la via delle spezie”, ospitata all’interno della Curia Iulia, antica sede del Senato Romano, è il frutto della collaborazione tra il Parco archeologico del Colosseo e la Sharjah Archaeological Authority, promossa da Sua Altezza lo sceicco Dr. Sultan bin Al Qasimi, membro del Consiglio supremo e sovrano di Sharjah.
L’esposizione, a cura di Eisa Yousif e Francesca Boldrighini, illustra al pubblico, per la prima volta in Italia, gli straordinari ritrovamenti archeologici dell’Emirato di Sharjah: le città di Mleiha e Dibba, fiorite tra l’epoca ellenistica ed i primi secoli dell’Impero Romano, città sorte al centro delle antiche vie carovaniere che collegavano l’India e la Cina con il Mediterraneo e con Roma.
Da Sharaja a Roma lungo la via delle spezie la mostra ospitata dalla Cura Iulia
Testimonianza di questi stretti contatti culturali e commerciali tra Oriente ed Occidente sono gli splendidi oggetti esposti, rinvenuti nelle necropoli e negli abitati: anfore da vino da Rodi e dall’Italia, contenitori dalla Mesopotamia e dalla Persia; unguentari in alabastro dall’Arabia e in vetro dal Mediterraneo orientale; pettini di avorio e gioielli indiani e orecchini di fattura ellenistica; statuine di Afrodite e dediche alla divinità al-Lat; monete indo-greche e romane, originali e di imitazione locale. Tutto concorre a delineare un affresco di grande varietà e ricchezza, una società aperta a numerose e diverse influenze, che potremmo definire ante litteram “multiculturale”.
La mostra, arricchita da un catalogo breve e da un’evocativa videoproiezione, permette inoltre di sottolineare l’importanza dei commerci con l’Oriente per il mondo romano. Le spezie, prima fra tutte l’incenso, prodotto in Arabia erano tra i prodotti più importati e richiesti, e proprio per questo il commercio era regolato dall’autorità imperiale. Il legame con Roma si evidenzia nella presenza nel Foro Romano, a pochi metri dalla sede della mostra, degli Horrea Piperataria, i magazzini voluti da Domiziano per la conservazione del pepe e di altre spezie, che il PArCo ha recentemente restaurato e reso accessibili al pubblico.
Con questa nuova esposizione il Parco archeologico del Colosseo intende proseguire il percorso di divulgazione e ricerca scientifica ampliandolo alla dimensione mediterranea ed internazionale – commenta Alfonsina Russo, Direttore del Parco archeologico del Colosseo. I legami tra l’Arabia e l’area mediterranea sono antichi, e i commerci contribuirono ad ampliare le connessioni tra le due regioni, plasmando la storia del Mediterraneo e del Vicino Oriente per secoli.
Ci auguriamo che questa mostra offra ai visitatori l’opportunità di esplorare una storia globale condivisa: questi oggetti non sono semplici reliquie silenziose; sono storie vibranti che ci raccontano come civiltà e città come Roma e Sharjah abbiano stabilito legami che si estendevano lungo migliaia di chilometri – afferma Eisa Yousif, curatore della mostra e direttore della Sharjah Archaeological Authority.
SHARJAH
Sharjah è uno dei sette emirati che compongono la federazione degli Emirati Arabi Uniti. Si trova nella parte centrale della penisola dell’Oman, con accesso sia dal Golfo Arabico a ovest, sia dal mare dell’Oman a est. Rinvenimenti risalenti al periodo Paleolitico in diverse zone dell’emirato di Sharjah testimoniano l’insediamento umano nell’area, fino al Neolitico (9000-4000 a.C.), e all’età del Bronzo
(4000-1250 a.C.) e del Ferro (1250-300 a.C.). In questo periodo nell’area si attesta la domesticazione del cammello, così come la creazione di un sistema di irrigazione che permise un rapido sviluppo dell’agricoltura.
Il periodo di Mleiha (III secolo a.C. – III secolo d.C.) è il tema principale dell’attuale esposizione che narra la storia del misterioso mondo dell’antico Regno dell’Oman durante il periodo ellenistico e romano. Sebbene l’impero di Alessandro e gli stati ellenistici non siano giunti a mettere sotto il loro controllo queste terre, il Golfo ed il lato sud-est della penisola arabica si trovavano al crocevia dei commerci del continente eurasiatico. Mleiha, infatti, costituiva un importante punto di snodo lungo la Via della Seta marittima che collegava l’Occidente, con l’Egitto,
Roma e la Grecia, all’Oriente, con la Mesopotamia, l’India e l’Asia centrale, fino alla Cina, favorendo lo scambio non solo di merci e beni preziosi, ma anche di uomini e di idee che arricchirono la cultura, la religione e la visione del mondo della popolazione locale.
Tra i beni di lusso che giungevano a Roma attraverso la penisola di Oman c’erano le spezie e soprattutto l’incenso. Utilizzate per scopi alimentari, religiosi e medici, le spezie erano talmente richieste e apprezzate che la loro importazione era rigidamente regolamentata dallo Stato, tanto che gli imperatori Flavi fecero costruire nel Foro Romano un apposito magazzino: gli Horrea Piperataria, di recente resi pienamente fruibili alla visita a conclusione delle campagne di scavo archeologico.
Nel sito di Mleiha sono stati rinvenuti vasti cimiteri con tombe monumentali, appartenenti ai membri più importanti della comunità, circondate da tombe più modeste. Le tombe, risalenti al III- inizio del I secolo a.C., erano individuali e variavano in dimensione in base ai corredi funerari ospitati. La più importante tra le tombe monumentali, scoperta nel 2015, costruita con mattoni di gesso intonacato, presentava una pianta a forma di “H” con un lungo corridoio d’ingresso. Saccheggiata in antichità, la tomba fu riutilizzata e un muro di mattoni chiuse il passaggio tra le due camere. Tra i mattoni, uno recava un’iscrizione bilingue (sudarabica e aramaica) datata al 222/221 o 215/214 a.C., che attribuisce la tomba a un ispettore reale del regno dell’Oman. Questo è il primo riferimento storico al regno omanita, citato poi successivamente nel Periplus Maris Erythraei e nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. I reperti rinvenuti, tra cui un’anfora da vino di Rodi, una ciotola in bronzo decorata con iconografie ellenistiche, africane e arabe, e un set da vino in bronzo, testimoniano non solo l’alto rango del defunto ma anche il prestigio culturale e la consolidata tradizione dell’importazione di vino dal Mediterraneo.
Da Sharaja a Roma lungo la via delle spezie la mostra ospitata dalla Cura Iulia
SHARJAH, ROMA E IL MEDITERRANEO
I legami tra l’Arabia e l’area mediterranea sono antichi e non toccano solo il Mediterraneo orientale, ma anche Roma e la Spagna. Con le conquiste di Alessandro Magno l’Egitto e la Mesopotamia divennero parte del mondo ellenistico. Il Mediterraneo orientale entrò poi a far parte dell’Impero Romano, che si estese più tardi, con Traiano, alla Mesopotamia e all’Arabia.
Nel 24 a.C. Elio Gallo, prefetto d’Egitto, fu inviato dall’imperatore Augusto in Arabia per aprire una via commerciale verso l’India. L’obiettivo era il controllo delle importazioni di merci, e soprattutto delle spezie: secondo Plinio il Vecchio, ogni anno arrivavano a Roma 3000 tonnellate di solo incenso. Ma si importavano anche avorio, seta, pietre preziose, perle, pepe e mirra. L’importanza di queste merci è testimoniata dalla costruzione nel Foro Romano degli Horrea Piperataria – per
immagazzinare pepe (in latino piper) e altre spezie – e della Porticus Margaritaria, dove venivano vendute perle (margaritae).
Le navi romane trasportavano a loro volta verso Oriente tessuti, corallo, gioielli, vetro e oggetti in metallo. Il vino proveniva da Rodi e dal Mediterraneo orientale, ma anche dalla Spagna. Oggetti in vetro, come gli unguentari, venivano spesso importati da Siria ed Egitto. L’influenza romana è attestata anche dai ritrovamenti di monete, sia originali sia imitazioni.
Descrizione del libro Addio Kabul di Domenico Quirico e Farhad Bitani -Dopo una doverosa premessa storica, il giornalista Domenico Quirico affronta in queste pagine un discorso, sotto forma di dialogo-intervista con Farhad Bitani, sulle cause della veloce e ritirata americana dall’Afghanistan e sulle menzogne a cui quanti hanno creduto in 20 anni di missione salvifica, da parte degli americani nei confronti di una popolazione duramente provata dal regime Albano e dai conflitti precedenti, che si è rivelata in atto qualcosa nei diverso.
Una prima reazione condivisibile è quella della delusione e del sentirsi presi in giro, anche se che la guerra non sia un bene per nessuno, soprattutto per i popoli che la subiscono è una verità assoluta in ogni circostanza.
In particolare in questo caso, si parla delle responsabilità occidentali e delle false credenze attribuite all’una e all’altra parte (la stessa popolazione afghana) attraverso un fitto dialogo tra il giornalista de La Stampa, responsabile degli Esteri, corrispondente da Parigi e inviato, Domenico Quririco e l’ex capitano dell’esercito afghano Farhad Bitani, figlio di un generale, che ha vissuto nell’Afghanistan dei mujaheddin e poi dei Talebani e infine si è definitivamente trasferito in Italia, dopo aver frequentato l’Accademia militare di Modena e la scuola di Applicazione di Torino.
Le domande sono poste da Quirico come si trattasse di una lunga intervista, anche se in realtà è più un dialogo a due voci, la parte “occidentale” che tenta di riconoscere e puntare il dito sui limiti del sistema messo in atto dai paesi della coalizione e smaschera le bugie date in pasto all’opinione pubblica e la parte più coinvolta emotivamente, ormai svincolata dalla cruda realtà del paese, a cui guarda con disincanto e senza remore di dire come stanno le cose, che è quella di Bitani, cresciuto come molti in un clima di violenza, sopraffatto da quella stessa violenza, fino ad abituarsene
Perché questi quarant’anni circa di guerra hanno fatto crescere una generazione nel male. Cosa vuol dire? Quando tu cresci nel male, e non conosci il bene, nella vita il male diventa parte di te, ti plasma. Tutto il dolore che vedi pensi che sia ineluttabile, naturale, che faccia parte della vita. Sparare, morire, che una persona venga uccisa, pensi che faccia parte dell’esistenza, pensi che la vita sia questa, perché tu in questo ambiente cresci, fai esperienze, maturi, scegli… Se resti vivo! (p.48)
Particolarmente interessanti sono le parti del libro in cui si cerca di spiegare il perché del fallimento della “missione” che in questi vent’anni ha visto gli Stati Uniti e i paesi della coalizione Nato, compresa l’Italia, impegnati in un’opera di democratizzazione dall’esterno, senza capire che gli strumenti messi a disposizione facevano arricchire più la parte dialogante e politica, che era anche quella corrotta e non aiutavano la popolazione in nessun modo, se non in quello di fargli rimpiangere degli interlocutori che avessero davvero a cuore le sorti del paese, e che in un certo senso non hanno mai smesso di tenerlo in pugno, con la loro promessa di comprensione vera delle dinamiche e nello stesso tempo con la pratica della violenza.
I mujaheddin prima e i Talebani poi, hanno avuto la loro santificazione e la loro contemporanea condanna grazie ad una narrazione volta a creare eroi (Massoud, che per Bitani è un eroe costruito a tavolino dai francesi) o mostri (i Talebani), agli occhi di una sbrigativa opinione pubblica internazionale, che non si è mai veramente addentrata nelle dinamiche di un paese profondamente diviso, disunito, corrotto, tribale e privo di strumenti, che non fossero l’odio contro il nemico e la volontà di approfittarne prima e cacciarlo poi.
Attestandosi battaglie modaiole per i diritti delle donne e per le minoranze apparentemente più fragili le potenze straniere si sono mantenute in superficie, senza scavare nei drammi familiari di un paese che ha i suoi limiti e le sue estensioni ben oltre Kabul, che vive di una religione che è legge coranica e giustizia civile, che si alimenta dei suoi stessi mostri e non conosce i concetti per cui “gli invasori” sono venuti a predicare, senza distinguere nemmeno le minoranze o le differenze linguistiche, abbacinati da spot di democratizzazione che ha dato in pasto lo specchio di ciò che volevamo vedere, per rassicurarci che tutto stesse andando per il verso giusto:
Ma la democrazia non è sollevare il velo, la democrazia è credere, convincersi che è il sistema più giusto, il migliore. Prima bisogna convincere i popoli del significato della democrazia, poi portarla affinché diventi realtà. Invece gli americani hanno portato la democrazia in un Paese dove nessuno sapeva che cosa fosse. (p. 99)
La condizione femminile, la politica, la religione islamica, il rapporto con un Dio totalitario, le bugie la sottile arte della dissimulazione sono alcuni dei temi attorno a cui ruotano i punti di vista, certo personali, ma supportati da un buon numero di evidenze, dei due uomini, narratori e protagonisti, che intrecciano le loro idee e le loro opinioni in un dialogo notturno, che è un viaggio dentro il cuore di tenebra dell’Afghanistan, che rischia di far prevalere questo suo lato oscuro su tutte le cose e di restare invischiato, ancora una volta in una lunga notte di oblio e di terrore, che investe tutte le cose e tutte le apparenti conquiste, bruciate sul rogo delle finte intenzioni e dei goffi tentativi di pulirsi la coscienza, dimenticando chi è rimasto indietro.
Massimo D’Azeglio (Torino, 24 ottobre 1798 – Torino, 15 gennaio 1866) è stato un politico, patriota, pittore e scrittore italiano. Vita e opereQuartogenito del marchese Cesare Taparelli d’A.; dopo una brillante giovinezza, dedita soprattutto allo studio della pittura (1820-30 a Roma), frequentò nel 1831 a Milano il cenacolo del Manzoni, del quale sposò la figlia Giulia. Di questi anni sono i suoi romanzi (Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta, 1833, Niccolò de’ Lapi ovvero I Palleschi e i Piagnoni, 1841; La Lega Lombarda, incompiuto, scritto nel 1845 e pubblicato postumo nel 1871). Sviluppatasi negli anni 1843-44, attraverso colloqui col cugino Cesare Balbo, la passione politica, accettò nel 1845 di fare per il movimento liberale un viaggio per le Romagne, le Marche e la Toscana e al ritorno scrisse Gli ultimi casi di Romagna (1846), pagine ostili alle sètte ma ancor più al malgoverno papale, e auspicanti apertamente una cospirazione pubblica. Espulso dal governo toscano per tale opuscolo, d’A. all’avvento di Pio IX vide possibile la realizzazione del proprio programma liberale moderato e legalitario (nel 1847 espose il suo pensiero nella Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana), puntando decisamente prima su Pio IX e poi su Carlo Alberto. Scoppiata la guerra, fu aiutante di campo del gen. Durando e fu ferito al monte Berico (10 giugno 1848). In acre polemica con democratici e repubblicani da lui incolpati del fallimento della guerra del 1848-49, declinò l’invito di formare il ministero piemontese: solo il 7 maggio 1849 s’inchinò davanti all’ordine preciso del re. Chiusa la vertenza austriaca (a tal fine fu costretto a sciogliere la Camera), d’A. seppe mantenere, nonostante le pressioni austriache, il sistema costituzionale e riformò radicalmente (1850) i rapporti fra Stato e Chiesa con le leggi Siccardi. Dimessosi il 22 ottobre 1852 per le difficoltà suscitategli dal “connubio” Cavour-Rattazzi, ebbe in seguito incarichi politici di minore importanza (nel novembre 1855 accompagnò il re a Londra e a Parigi, dove ritornò da solo prima della guerra; nel 1859 fu nominato commissario straordinario nelle Romagne, nel genn. 1860 governatore di Milano), mentre i suoi scritti agivano vitalmente sull’opinione pubblica (articoli antiaustriaci sul Morning Chronicle, 1859, De la politique et du droit chrétien au point de vue de la question italienne, 1860); in questi anni, dimenticando ogni precedente dissidio, aiutò il Cavour in momenti delicati (intervento in Crimea, guerra del 1859), ma successivamente il suo moralismo conservatore e paternalistico gli impedì di cogliere il significato degli avvenimenti che si compirono nel 1860 e negli anni seguenti, così si oppose all’unificazione del nord al sud della penisola, giudicandola immatura, e si scagliò, nell’opuscolo Questioni urgenti (1861), contro la prospettiva di portare la capitale a Roma, vedendo in essa un motivo esclusivamente retorico. Solitario e incompreso, d’A. allora scrisse per gl’Italiani, “ancora da fare”, I miei ricordi (incompiuti, si fermano al 1846, pubblicati postumi nel 1867).
Fonte Enciclopedia TRECCANI-
Il Pittore MASSIMO D’AZEGLIOIl Pittore MASSIMO D’AZEGLIOIl Pittore MASSIMO D’AZEGLIOIl Pittore MASSIMO D’AZEGLIOIl Pittore MASSIMO D’AZEGLIOIl Pittore MASSIMO D’AZEGLIOBiblioteca DEA SABINA-Il Pittore MASSIMO D’AZEGLIO-Rivista PAN n° Settembre 1935l Pittore MASSIMO D’AZEGLIO-l Pittore MASSIMO D’AZEGLIO-Biblioteca DEA SABINA-Il Pittore MASSIMO D’AZEGLIO-Rivista PAN n° Settembre 1935
Biblioteca DEA SABINA-Il Pittore MASSIMO D’AZEGLIO-
Biografia-Fonte Enciclopedia TRECCANI-
Massimo Taparelli marchese d’Azeglio (Torino, 24 ottobre 1798 – Torino, 15 gennaio 1866) è stato un politico, patriota, pittore e scrittore italiano. Vita e opereQuartogenito del marchese Cesare Taparelli d’A.; dopo una brillante giovinezza, dedita soprattutto allo studio della pittura (1820-30 a Roma), frequentò nel 1831 a Milano il cenacolo del Manzoni, del quale sposò la figlia Giulia. Di questi anni sono i suoi romanzi (Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta, 1833, Niccolò de’ Lapi ovvero I Palleschi e i Piagnoni, 1841; La Lega Lombarda, incompiuto, scritto nel 1845 e pubblicato postumo nel 1871). Sviluppatasi negli anni 1843-44, attraverso colloqui col cugino Cesare Balbo, la passione politica, accettò nel 1845 di fare per il movimento liberale un viaggio per le Romagne, le Marche e la Toscana e al ritorno scrisse Gli ultimi casi di Romagna (1846), pagine ostili alle sètte ma ancor più al malgoverno papale, e auspicanti apertamente una cospirazione pubblica. Espulso dal governo toscano per tale opuscolo, d’A. all’avvento di Pio IX vide possibile la realizzazione del proprio programma liberale moderato e legalitario (nel 1847 espose il suo pensiero nella Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana), puntando decisamente prima su Pio IX e poi su Carlo Alberto. Scoppiata la guerra, fu aiutante di campo del gen. Durando e fu ferito al monte Berico (10 giugno 1848). In acre polemica con democratici e repubblicani da lui incolpati del fallimento della guerra del 1848-49, declinò l’invito di formare il ministero piemontese: solo il 7 maggio 1849 s’inchinò davanti all’ordine preciso del re. Chiusa la vertenza austriaca (a tal fine fu costretto a sciogliere la Camera), d’A. seppe mantenere, nonostante le pressioni austriache, il sistema costituzionale e riformò radicalmente (1850) i rapporti fra Stato e Chiesa con le leggi Siccardi. Dimessosi il 22 ottobre 1852 per le difficoltà suscitategli dal “connubio” Cavour-Rattazzi, ebbe in seguito incarichi politici di minore importanza (nel novembre 1855 accompagnò il re a Londra e a Parigi, dove ritornò da solo prima della guerra; nel 1859 fu nominato commissario straordinario nelle Romagne, nel genn. 1860 governatore di Milano), mentre i suoi scritti agivano vitalmente sull’opinione pubblica (articoli antiaustriaci sul Morning Chronicle, 1859, De la politique et du droit chrétien au point de vue de la question italienne, 1860); in questi anni, dimenticando ogni precedente dissidio, aiutò il Cavour in momenti delicati (intervento in Crimea, guerra del 1859), ma successivamente il suo moralismo conservatore e paternalistico gli impedì di cogliere il significato degli avvenimenti che si compirono nel 1860 e negli anni seguenti, così si oppose all’unificazione del nord al sud della penisola, giudicandola immatura, e si scagliò, nell’opuscolo Questioni urgenti (1861), contro la prospettiva di portare la capitale a Roma, vedendo in essa un motivo esclusivamente retorico. Solitario e incompreso, d’A. allora scrisse per gl’Italiani, “ancora da fare”, I miei ricordi (incompiuti, si fermano al 1846, pubblicati postumi nel 1867).
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