Presentazioni del libro di Lorenzo Costa :”Il mondo della Sinfonia”a cura di Giuseppe Isoleri, Claudio Orazi e Maurizio Roi.Gli autori: Massimo Arduino, Luigi Bellingardi, Alberto Cantù, Guendalina Cattaneo Della Volta, Lorenzo Costa, Roberto Iovino, Francesca Oranges, Paola Siragnapp. XVIII + 358 –
Affrontare uno scritto sulla sinfonia come forma musicale non è impresa facile. L’orizzonte è talmente vasto e variegato che è difficile coglierne l’essenza anche in una trattazione che volesse avere la presunzione di essere completamente oggettiva od oggettivamente completa. L’intento di questa pubblicazione non è quello di scrivere una storia della sinfonia tantomeno quello di farne un’analisi critica o musicologica, ma piuttosto quello di rendere fruibile al pubblico una sorta di compendio di un ciclo di incontri di approfondimento su questa forma musicale e sulla sua evoluzione, promosso a Genova dall’Associazione Amici del Teatro Carlo Felice e del Conservatorio Niccolò Paganini, dalla Fondazione Teatro Carlo Felice, e realizzato dal sottoscritto insieme ai colleghi Massimo Arduino, Alberto Cantù, Maria Guendalina Cattaneo Della Volta, Roberto Iovino, Edwin Rosasco e Paola Siragna in cinque anni a partire dal 2010. Ma un’ulteriore domanda si pone: è attuale discutere e scrivere di una forma musicale astratta in un mondo dove lo scenario dominante sembra unicamente asservito alla produzione di ricchezza e allo sviluppo tecnologico?
La musica non commerciale può apparire addirittura inutile e sorpassata. Noi crediamo il contrario e cioè che l’esperienza artistica sia un momento fondamentale della crescita individuale di una persona e del progresso umano e culturale di un paese.
“È attraverso la bellezza che si perviene alla libertà”, scriveva Schiller nella sua “Lettera sull’educazione estetica”. Verissimo. La bellezza della musica ci educa ai sentimenti, che si imparano, non sono innati. La funzione dei miti, delle leggende e delle fiabe era proprio questa. Educare ai sentimenti. Ed il repertorio sinfonico assolve anch’esso a questa funzione sociale, irrinunciabile, salvifica, risarcitoria. Nelle sinfonie di Beethoven, Brahms, Čajkovskij, Bruckner, Mahler , Šostakovič, oltre la bellezza delle idee musicali e della loro trasformazioni, proporzioni, simmetrie, troviamo anche gli elementi per capire meglio l’amore, il dolore, l’inedia, la tristezza, la disperazione, la consolazione. Attraverso di loro capiamo un po’ più di noi stessi e attraverso il loro punto di vista artistico, decentriamo il nostro, conquistando una visione più bella e più consapevole del nostro stare al mondo.
Camillo Brezzi-L’ultimo viaggio nei lager. Dalle leggi razziste alla Shoah.
Editore il Mulino
L’ultimo viaggio nei lager di Camillo Brezzi, il Mulino-Tre citazioni brevi vi danno subito l’idea telegrafica del saggio di cui vi parleremo “
Il viaggio verso Auschwitz – pochi ne parlano perché pochi sono tornati- è uno dei capitoli più terribili della shoah.Il mio è durato sei giorni” (Liliana Segre).
“Nessuno però ci aveva detto che la nostra idea di peggio era uno scherzo in confronto all’inferno che ci attendeva (Sami Modiano).
“Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo (Primo Levi ).
Camillo Brezzi ha insegnato storia contemporanea all’Università Siena-Arezzo,ha al suo attivo numerosi saggi ed è direttore scientifico della Fondazione Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. In meno di 200 pagine l’autore ha sintetizzato, pensando soprattutto agli studenti, la più grande tragedia umanitaria, rappresentata dalla shoah, della seconda guerra mondiale. Non c’è nulla di nuovo, rispetto all’ampia letteratura sulla tragedia ebraica esistente. L’autore si è assunto però il difficile compito di realizzare una sintesi dei documenti,di una parte importante delle testimonianze e,in generale, della lo storia della shoah. Si ripercorrono anche i percorsi di alcuni deportati, a partire dalle fasi iniziali della “soluzione finale”. E poi ,l’arresto, il viaggio, l’arrivo ad Auschwitz-Birkenau. Cominciava così la discesa all’inferno, che abbiamo visto (nei tanti film e documentari) e letto in numerosi libri. Per ricordarcelo vengono riportate le testimonianze di Primo Levi, Liliana Segre, le sorelle Tatiana e Andrea Bucci, Shlomo Venezia, Pietro Terracina. Un libro fondamentale per capire- senza la necessità di consultare migliaia di volumi – un orrore troppo spesso dimenticato o sottovalutato.
La deportazione degli ebrei nei campi di sterminio rappresenta l’atto più drammatico della Seconda guerra mondiale. Un atto che fu messo in pratica dai nazisti con il solerte aiuto degli italiani, che si trattasse di militari della Repubblica Sociale o di comuni delatori. Il volume ripercorre le storie di alcuni deportati, concentrandosi sulle fasi iniziali della «soluzione finale»: l’arresto, poi il viaggio e l’arrivo sulla Judenrampe, la banchina di Auschwitz-Birkenau dove avveniva la prima selezione. È questa la prima tappa di una discesa all’inferno in cui i prigionieri cominciano a perdere lo status di esseri umani. Nei vagoni (usati solitamente per il trasporto di animali) viaggiano stretti, pressati uno all’altro, utilizzando un bidone per i bisogni corporali; i giorni e le notti si susseguono e si rischia di perdere la nozione del tempo; la fame e la sete si fanno sempre più crudeli, così come le urla dei comandi, pronunciati in una lingua incomprensibile ai più. Intrecciando le testimonianze di Liliana Segre, Primo Levi, le sorelle Tatiana e Andra Bucci, Shlomo Venezia, Pietro Terracina e Sami Modiano con quelle di altri sopravvissuti, il libro spalanca la porta su un orrore che non saremo mai in grado di comprendere fino in fondo, di cui è però necessario tramandare la memoria e mantenere salda la coscienza collettiva. Le impressioni, le sensazioni, le percezioni, che i salvati hanno restituito nelle loro memorie sono una preziosa fonte per ricostruire quell’indicibile tragedia, una ricchezza per gli studiosi, una grande pagina di letteratura civile.
Eh si, questa è la scritta latina che possiamo leggere al Teatro Olimpico di Vicenza, e che non poteva mancare per il suo significato, al centro in alto del scenae frons, vale a dire della spettacolare facciata in proscenio nel Teatro Olimpico di Vicenza. Cosa traduce? “ecco la difficoltà, ecco ciò che v’ha di faticoso”, e cioè: “adesso viene il difficile, il momento di impegnarsi” ed anche, “qui l’opera, qui la fatica”, questa frase racchiude l’intento nel suo operare dell’audace Accademia Olimpica di Vicenza, artefice di aver commissionato ad Andrea Palladio la costruzione del Teatro Olimpico, una “miniatura” di inestimabile valore e bellezza.
Io credo fermamente che Andrea Palladio, dopo aver studiato ed assorbito la grande bellezza dell’architettura classica romana e dopo averne apprezzato le nuove interpretazioni del primo e del tardo Rinascimento, fa dell’architettura un’arte nuova che è creativa e dinamica, funzionale e giocosa, un’architettura che pare fondersi con le altre discipline. Lo Stile Palladiano è variabile come lo spazio e il tempo, si fa strumento di espressione e per questo riesce, solo grazie agli occhi, ad appagare tutti i sensi.
Teatro Olimpico di Vicenza, il più antico teatro coperto, progetto di Andrea Palladio, scenografia fissa di Vincenzo Scamozzi. 1580-1585.
Il Teatro Olimpico è una delle meraviglie artistiche di Vicenza. Si trova all’interno del cosiddetto Palazzo del Territorio, che prospetta su piazza Matteotti, all’estremità orientale di corso Palladio, principale direttrice del centro storico.
Nel Rinascimento un teatro non è un edificio a se stante – come diventerà di prassi in seguito – ma consiste nell’allestimento temporaneo di spazi all’aperto o di volumi preesistenti; nel caso di Vicenza, cortili di palazzo o il salone del Palazzo della Ragione.
Nel 1580 il Palladio ha 72 anni quando riceve l’incarico dall’Accademia Olimpica, il consesso culturale di cui egli stesso fa parte, di approntare una sede teatrale stabile. Il progetto si ispira dichiaratamente ai teatri romani descritti da Vitruvio: una cavea gradinata ellittica, cinta da un colonnato, con statue sul fregio, fronteggiante un palcoscenico rettangolare e un maestoso proscenio su due ordini architettonici, aperto da tre arcate e ritmato da semicolonne, all’interno delle quali si trovano edicole e nicchie con statue e riquadri con bassorilievi.
La critica definisce l’opera ‘manierista’ per l’intenso chiaroscuro, accentuato tra l’altro da una serie di espedienti ottici dettati dalla grande esperienza dell’architetto: il progressivo arretramento delle fronti con l’altezza, compensato visivamente dalle statue sporgenti; il gioco di aggetti e nicchie che aumentano l’illusione di profondità. Il Palladio appronta il disegno pochi mesi prima della sua morte e non lo vedrà realizzato; sarà il figlio Silla a curarne l’esecuzione consegnando il teatro alla città nel 1583.
La prima rappresentazione, in occasione del Carnevale del 1585, è memorabile: la scelta ricade su una tragedia greca, l’Edipo Re di Sofocle, e la scenografia riproduce le sette vie di Tebe che si intravedono nelle cinque aperture del proscenio con un raffinato gioco prospettico. L’artefice di questa piccola meraviglia nella meraviglia è Vincenzo Scamozzi, erede spirituale del Palladio. L’effetto è così ben riuscito che queste sovrastrutture lignee diventeranno parte integrante stabile del teatro. Sempre allo Scamozzi viene affidata anche la realizzazione degli ambienti accessori: l’Odeo, ovvero la sala dove avevano luogo le riunioni dell’Accademia, e l’Antiodeo, decorati nel Seicento con riquadri monocromi del valente pittore vicentino Francesco Maffei.
La fama del nuovo teatro si sparge prima a Venezia e poi in tutta Italia suscitando l’ammirazione di quanti vi vedevano materializzato il sogno umanistico di far rivivere l’arte classica. Poi, nonostante un avvio così esaltante, l’attività dell’Olimpico venne interrotta dalla censura antiteatrale imposta dalla Controriforma e il teatro si riduce a semplice luogo di rappresentanza: vi viene accolto papa Pio VI nel 1782, l’imperatore Francesco I d’Austria nel 1816 e il suo erede Ferdinando I nel 1838. Con la metà dell’Ottocento riprendono saltuariamente le rappresentazioni classiche, ma si dovrà attendere l’ultimo dopoguerra, scampato il pericolo dei bombardamenti aerei, per tornare seriamente a fare spettacolo in un teatro che non ha uguali al mondo.
Vasco Pratolini , scrittore di grande prestigio e insieme di umilissime origini.
Vasco Pratolini Nacque a Firenze, nel 1913, in via de’ Magazzini, uno di quei vecchi quartieri simili a formicai, all’epoca ancora isolati dal contesto del centro storico, brulicanti di operai e artigiani.Il padre era un cameriere e la madre una sartina. Vasco Pratolini rimase orfano a neanche cinque anni di vita, quando la madre morì poco dopo aver dato alla luce il secondo figlio. Questo evento segnò a lungo, negli anni, l’animo dell’autore e si sviluppò nelle pagine di Cronaca familiare.
Quando il padre si risposa, Vasco va a vivere con la nonna materna; si allontana precocemente, suo malgrado, dalle figure genitoriali, per frequentare i coetanei, dediti a scorribande e bravate. L’atmosfera e lo spirito di questo periodo è ben espressa in uno dei suoi racconti più compiuti, Una giornata memorabile, contenuto in Diario sentimentale, del 1947 (Mondadori, 1962 e seguenti).
Imparò a leggere quasi da solo, impratichendosi con le lapidi delle vecchie case fiorentine e le tabelle stradali.
Erano marmi con incise terzine dantesche, una vera folgorazione per un ragazzo del popolo. Leggere Dante divenne un passaggio naturale: dalle note della Commedia si debordava nella Storia, si raggiungevano i biografi, si approfondivano i cronisti e i critici.
In casa del pittore Ottone Rosai ebbe modo di affinare le sue letture: Dickens, London, Dostoevskij, Manzoni e Tozzi.
La passione per la lettura e un forte processo di identificazione con i suoi autori di riferimento («Döblin era ciò che avrei voluto essere. Scambiavo Berlin – Alexanderplatz per Piazza Vittorio a Firenze») lo indussero a scrivere racconti: «Scrivevo racconti congestionati, di sommosse, di grandi prostitute, e così via, mettendoci dentro tutte le cose che conoscevo allo stato embrionale, per averle vissute, o come supponevo di viverle, e attraverso una fantasia piuttosto esaltata».
Pratolini si accorse ben presto di mancare di una struttura, di una formazione scolastica, perciò di giorno fece i lavori più diversi, dal vice portiere in un albergo al tipografo, o il rappresentante di commercio, e la sera si mise a studiare con metodo, fino a diplomarsi in lingua francese. In seguito frequentò sporadicamente l’Università, come uditore.
Si manteneva – e nel frattempo stava facendo la sua gavetta di scrittore – compilando tesi di laurea per studenti pigri.
Era una vita intensa e stressante, senza riposo, e finì per minare il suo stato di salute, tanto che nel 1935 venne dato per spacciato, a causa di una malattia polmonare.
Si ricoverò di sua volontà a Villa Bellaria, ad Arco di Trento. Il luogo era placido e suggestivo, circondato dalle montagne e con un lago; vi era nato il pittore Segantini, un grande dell’Ottocento. A villa Bellaria, Vasco vive una vita tranquilla, scandita da lunghe passeggiate e da letture ordinate i cui frutti si concretizzeranno nelle sue prime produzioni.
È importante sottolineare quanto Pratolini fosse un carattere fiero e impulsivo.
La sua spavalderia e tutti i suoi atteggiamenti irruenti e dispersivi si ridimensionano, ad Arco, a contatto con la sofferenza e la pacatezza del luogo, che favorisce anche un ripensamento della sua infanzia.
Dimesso da villa Bellaria, rientra a Firenze e incappa in uno degli incontri più cruciali della sua vita, quello con Elio Vittorini.
Fu Vittorini a cercarlo, come spiega lui stesso raccontandosi a Ferdinando Camon.
Vittorini aveva un fiuto per il talento e introduce Pratolini nel mondo letterario.
Dal 1935 al 1938 il nostro diviene redattore, con lo stesso Vittorini e Romano Bilenchi, del periodico «Il Bargello», organo della Federazione dei Fasci di Combattimento di Firenze.
Gli articoli della rivista erano ispirati a una partecipe ma confusa interpretazione populista e rivoluzionaria del fascismo.
Il sodalizio fra i tre autori si rinforzò, prodigo di idee letterarie e politiche che forgiarono il giovane Pratolini.
A seguito della guerra di Spagna i giovani più critici e sensibili cominciarono ad aprire gli occhi sulle nefandezze del regime: «Ad esser fascisti di sinistra come noi, s’era nell’imbroglio. La Spagna chiarì che eravamo contro gli operai e la cultura, ci percosse come una realtà fisica. Non fu la via di Damasco, ma la controprova dei nostri dubbi». Furono anni di persecuzione degli agitatori socialisti e comunisti; ogni incontro o intesa con le masse popolari era soffocato sul nascere dal regime, e l’anelito alla democrazia era espresso da una parte della borghesia ancora vitale ma incapace di organizzarsi, arroccata nella speculazione letteraria.
Nel 1938 Pratolini ebbe un secondo incontro decisivo nella sua vita, quello con Alfonso Gatto, arrivato a Firenze dopo la persecuzione subita a Milano.
Con Gatto, Pratolini fonda la rivista «Campo di Marte», dove ha modo di rinsaldare le sue convinzioni politiche e maturare la sua vocazione letteraria, con interventi filosofici, con recensioni, corsivi e diari.
All’inizio degli anni ’40 si trasferisce a Roma, dove per qualche tempo lavora al Ministero per l’Educazione Nazionale, nell’ufficio per l’arte contemporanea, accanto a compagni di lavoro come Manlio Cancogni e Antonio Giolitti.
Le sue mansioni dovevano essere mortificanti, e l’ambiente squallido, nonostante il nome altisonante.
Pratolini cercava di leggere e studiare; trascorreva molte notti insonne, a scrivere.
Lo scrittore esordisce con una silloge di racconti, Il tappeto verde (1941, ristampata nel 1981), dove compaiono le figure della madre, della nonna, di suo padre e della matrigna, ma anche i compagni di gioco e di risse, a recuperare un’infanzia ferita. Anche il suo secondo libro, Via de’ magazzini (1941) è imperniato sulla sua vicenda personale e tratta della sua infanzia e della scoperta del mondo, della convivenza non gradita con la matrigna Matilde, della morte del nonno e del ricordo trasognato e struggente della madre perduta.
Seguiranno Le amiche, del 1943, una raccolta di racconti che altro non sono che ritratti di ragazze, più o meno amate, ricordate con fervore e passione dalla voce narrante.
In La prima avventura, uno dei racconti, il giovane fugge di casa e procede nella sua scoperta della notte, immerso in una Firenze lunare: il duomo bianco, l’incontro con una prostituta sul lungofiume e una conversazione nel parco, portandosi dietro una pesante valigia con pochi indumenti, un libro di Dostoevskij, uno di London e la grammatica francese delle edizioni Sonzogno.
Se nei primi libri gli spunti narrativi di Pratolini sono per lo più dettati dalla quotidianità e dalla rievocazione autobiografica, con Il quartiere (1943) si ampliano le tematiche: fanno capolino il motivo dell’amicizia, della solidarietà e dell’amore come un sentimento che richiede impegno, altruismo e pazienza.
Il “quartiere” diviene il punto di convergenza di tutte le attività umane; il romanzo è un evento corale e un’esaltazione lirica ed eroica della sofferenza in tempo di guerra.
Pratolini ha la capacità di ordire le sue narrazioni in tempi brevissimi, e anche il libro successivo, Cronaca familiare (1947), viene imbastito in poco più di una settimana.
In una nota anteposta al romanzo l’autore stesso avverte che non si tratta di un’opera di fantasia ma del suo colloquio con il fratello morto, per depurarsi l’animo, in una sorta di catarsi, riavvicinandosi al fratello (causa della morte prematura della madre) in punto di morte, cercando motivi di condivisione laddove, negli anni, lo aveva percepito così remoto e diverso da sé.
In contemporanea lavora a Cronache di poveri amanti, dove la necessità interiore è quella di rappresentare la vita nel dettaglio, vissuta ora per ora, del popolo fiorentino tra il 1925 e il 1926.
Il romanzo si apre con una visione d’insieme di via del Corno; di primo mattino escono sulla scena Ugo, Maciste il maniscalco, Osvaldo Liverani, rappresentante di commercio, Peppino e Antonio terrazziere.
E questo è solo l’inizio di una galleria di personaggi che viene arricchendosi pagina dopo pagina.
La politica entra con prepotenza nel romanzo: Ugo riferisce a Maciste che ci sarà una spedizione punitiva; i fascisti hanno organizzato dei tribunali rivoluzionari e molti popolani ne faranno le spese, nel sonno.
Maciste parte con la moto per avvertire gli sventurati e la sua corsa diverrà uno degli episodi più alti per stile e scrittura sui quali si impernia il libro.
I migliori di via del Corno cadono sotto i colpi fascisti, la strada è una scena fissa, una rappresentazione che brilla per i dialoghi, per la stratificazione degli episodi e per un’epoca che fluisce per mezzo loro.
La partecipazione di Pratolini alla Resistenza fu il bisogno spontaneo e sincero di essere il cronista di un evento irripetibile.
La sua presenza di autore, dopo il riconoscimento del premio Libera Stampa conferito a Cronache di poveri amanti, si avvicenda a quella di collaboratore della stampa di sinistra: da «Milano Sera» al «Nuovo Corriere» (diretto dal suo vecchio amico Bilenchi) a «Paese Sera».
Il libro successivo, Un eroe del nostro tempo (1949) è, con tutta probabilità, uno dei suoi libri meno convincenti.
Racconta la storia di una giovane vedova, Virginia, che ha subito un’educazione autoritaria e repressiva. La donna si trasferisce in un quartiere di Firenze dove non conosce nessuno e, data la sua vulnerabilità, diviene la facile preda di Sandrino, un fascista sedicenne che abita con la madre in un appartamento stipato di sfollati. Sandrino circuisce la donna, ne diviene l’amante e poi fugge a Milano con tutti i suoi averi, per costituire un gruppo di azione fascista.
Quando rientra a casa, dopo varie peripezie, Virginia gli rivela di aspettare un figlio suo.
Il finale è una spirale di violenza; l’autore sviscera il male e condanna chi fa violenza a se stesso e agli altri.
Alberto Asor Rosa bolla il romanzo come una prova di mestiere che deriva da un’elaborazione esterna, da Moravia e gli americani. Siamo negli anni di piena affermazione del neorealismo, corrente alla quale Pratolini fu molto vicino e che pensava potesse portare a una presa di coscienza storico-collettiva.
Le ragazze di San Frediano (1952) è invece improntato a un registro burlesco, una sorta di balletto di ragazze attorno alla figura di un dongiovanni, Bob, prima conteso da tutte e in seguito esposto al pubblico ludibrio della contrada, mortificato in quegli attributi per i quali era stato in un primo tempo tanto ricercato.
Tutto il racconto sembra convergere, fin dall’inizio, sulla punizione da impartire al Bob «dalle belle ciglia».
Ogni incontro, dialogo e appuntamento del libro non fanno che progredire verso l’esplosione di collera, rancori e gelosie ma anche di gioia liberatrice ch’è la vendetta delle ragazze.
Ma Pratolini non riesce a essere spietato con gli ultimi, e anche se Bob è stato l’emblema della vergogna, in una pagina finale un po’ sbrigativa, dopo il sospetto di impotenza, vi è il perdono e la riabilitazione da parte di tutto il quartiere.
Della vasta e successiva produzione pratoliniana va senza dubbio ricordata la trilogia di Una storia italiana, iniziata con Metello (1955), col quale l’autore vinse il premio Viareggio.
L’idea era di programmare quello che lo stesso Pratolini definì «uno specchio in tre tempi della storia dell’uomo. […] di fare un lungo esame di coscienza a partire dal 1875 ed arrivare a oggi […]».
Metello Salani è un orfano allevato da contadini, che si trasferisce ancor ragazzo a Firenze, per trovare lavoro.
Nonostante l’intento programmatico dell’opera il romanzo è colmo di pagine felici e convincenti. La presa di coscienza del giovane Metello, come lavoratore e come militante nelle fila del partito operaio, è la storia di Pratolini, scrittore di umile estrazione, autodidatta, che si riscatta con fatica e con perseveranza dalla miseria.
Del secondo romanzo,Lo scialo (1960), colpiscono la lunghezza e lo sfilacciamento degli episodi e dei micro-temi che reggono la narrazione. «La vita è questo scialo di triti fatti» scrive Montale, e Pratolini lo erige a titolo di un racconto che vuole essere un affresco globale dell’ingiustizia della vita, del male e della corruzione che imperversava in particolare nella piccola borghesia italiana arrivista e amorale tra il 1919 e il 1926.
Il testo è costituito da un alternarsi di monologo interiore e di forma diaristica; gli scioperi al Pignone e l’ambiente rurale sono invece descritti in uno stile più tradizionale.
Il libro successivo, La costanza della ragione (1963), sospende il ciclo dei tre libri sulla “storia italiana”, e nelle dichiarazioni dello scrittore appare come un romanzo anticipato, una risposta agli interrogativi rimasti aperti sulle pagine dei due libri precedenti.
Il titolo deriva dalla Vita Nova dantesca, ed è una storia di giovani e della loro scoperta delle virtù e delle colpe dei padri, sulla scorta del recupero di un passato condiviso, dove si definisce per gradi la realtà contemporanea al momento della stesura, che ha per fondale Firenze. I fatti privati si stagliano sulle prospettive aperte a un possibile futuro anche sociale, di lavoro e di affetti.
C’è un riavvicinamento ai temi di Cronaca familiare e Il quartiere, ma mentre là c’era la reticenza e il pudore delle emozioni e dei sentimenti, qui trabocca la carica ideologica.
Le oltre 600 pagine di Allegoria e derisione (1966), il “terzo capitolo” di Una storia italiana, sono ancora all’insegna della memoria: Valerio, il protagonista, assomiglia a Vasco Pratolini ancor più del suo omonimo di Via de’ Magazzini e de Il quartiere. I riferimenti autobiografici sono davvero molti, e vi prevale l’indagine della realtà, sopra ogni accento sentimentale e lirico.
Allegoria e derisione è la storia di un intellettuale e delle sue traversie esistenziali per affermarsi come uno scrittore di prestigio. In una tavolozza variegata di registri e tecniche narrative, che comprendono l’apologo, le epistole, il diario e il monologo interiore sono diversi i passaggi improntati a una critica polemica della controversia sorta tra le due guerre a proposito dell’impegno in letteratura.
Pur inviso a una certa fazione della critica di professione, che non ha mancato di puntualizzarne gli aspetti più pretestuosi e ideologici, la maggior parte dei recensori concordò, fin dall’apparire delle prime opere, che la prosa più valida di Pratolini fosse quella ancorata al mondo noto e familiare dell’autore.
La realtà del quartiere è una realtà cruda, di continuo rielaborata e filtrata, ma non è il singolo a essere colpevole: i deboli, coloro che sbagliano, sono travolti dagli eventi della Storia e vengono sempre giustificati con una superiore pietas, attraverso l’indagine psicologica e d’ambiente.
La memoria che scava nel privato non è mai, in Pratolini, un’operazione sterile, bensì una sincera passione che travalica il particolare per divenire ricerca del passato e condizione della società.
In questo Vasco Pratolini, a 30 anni dalla scomparsa, rimane un pregiato cantore della cronaca del quotidiano, degli episodi famigliari e dei fantasmi dell’auto- finzione.
Se l’Italia cestina i suoi poeti: il caso Piero Bigongiari
Proprio così. In questo Paese i poeti, come Piero Bigongiari, all’improvviso, affogano nelle sabbie mobili. Senza mobilitazioni popolari, i poeti scompaiono dall’orizzonte editoriale, e chi se li ricorda più. Uno dopo l’altro, assistiamo a una lenta, inesorabile, macelleria dei nostri ‘grandi’. Questa volta a soffocare in soffitta è finito Piero Bigongiari. Morto a Firenze il 7 ottobre del 1997, nessun giornale ‘nazionale’ ha rammentato i vent’anni dalla scomparsa di “uno dei più grandi poeti del Novecento” (così la didascalia di uno dei suoi libri, afferrato a casaccio). Insomma, hanno scavato la fossa a Bigongiari e non lo tirano fuori nemmeno per far finta di onorare la ricorrenza. Peccato. Peccato perché Bigongiari è stato un grande poeta, certo, ma soprattutto un poeta anomalo, inquieto, proteiforme. Nato a Navacchio, in provincia di Pisa, Bigongiari fa l’Università a Firenze, dove fa amicizia con i grandi di allora, Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, Tommaso Landolfi. Esordio poetico nel 1942, con La figlia di Babilonia, subito eletto, insieme a Mario Luzi, il più talentuoso e risolto tra gli ‘ermetici’, Bigongiari ha scritto tanto, ha tradotto tanto, è stato un raffinato prof e un acuto studioso di cose d’arte. La sua arguta generosità ha sedotto una generazione: Roberto Carifi, Paolo Roberto Iacuzzi e Alessandro Ceni sono, diversamente, suoi allievi. Già, ma dove lo leggiamo, oggi, Bigongiari, poeta sempre in cerca di sé, audacemente filosofo, impenitente narratore? Non possiamo leggerlo, semplice. La raccolta Dove finiscono le tracce (1958-1996) edita da Le Lettere si trova in biblioteca, idem per le poesie ultime, raccolte come Il silenzio del poema (Marietti, 2003). Il resto, è disperso in piccoli editori, per piccole, amorevoli, iniziative. Di fatto, di Bigongiari, uno dei grandi poeti del secolo, oggi, vent’anni dopo, in libreria, c’è nulla. Figuriamoci allestire un ‘Meridiano’ Mondadori – l’han fatto a Eugenio Scalfari e ad Andrea ‘Montalbano’ Camilleri – a chi importa della parola poetica, l’unica importante? Per capire la grana lirica di questo poeta immenso cercate qualcosa in rete. Una poesia tra le più belle si chiama Daffodils, è tra le ultime, scritte nel gennaio del 1997. Per Bigongiari la poesia è un diario perpetuo, è dissezionare il mondo con il bisturi della propria anima.
I cammini del senso sono strani
deviano spesso misericordiosi
in altri, e vani, i suoi significati,
daffodils chiamammo per il resto
del viaggio il mistero oculare
di una felicità che non ha nome
se non nella più ampia identità
sfuggente a ogni sguardo. Tu ricordi
come si chiama ciò che non si sa?
E il tuo sorriso rispondeva: Daffo-
dils, mi pare daffodils. Forse
fu quella la definizione più
precisa, che incisa su un sorriso,
pietrificò l’enigma e lo smentì
in uno scoppio improvviso di risa.
Questa è una stanza di Daffodils. I daffodils sono una variante del narciso, che il poeta scopre a South Kensington. Il riferimento letterario dotto (“seppi che ne aveva parlato anche Wordsworth”) aumenta, chissà, il sentore di enigma. Il fiore, ad ogni modo, diventa figura di ciò che è inesprimibile. E la poesia è di una bellezza che dobbiamo solo tatuarcela nel cuore.
Quest’anno, poi, inoltre, scocca un altro anniversario che riguarda Bigongiari. Settant’anni fa, nel 1947, Bigongiari ospita nella sua casa fiorentina Dylan Thomas, il poeta gallese che è già leggenda – e che per fortuna nostra viene ancora pubblicato e letto. In Dylan Thomas (biografia tradotta in italiano nel 2008 per Mattioli) Paul Ferris ricostruisce il viaggio italiano del poeta – naturalmente, per eccesso di anglocentrismo, dimenticando di citare Bigongiari. “I Thomas si recarono in Italia in aprile”: prima attraccano a San Michele di Pagana, nei pressi di Rapallo, meta prediletta di Ezra Pound e di William B. Yeats, poi arrivano a Firenze, patria dell’intelligenza italiana. Bigongiari porta Thomas, che ha già pubblicato le poesie più belle, alle Giubbe Rosse, mitico bar fiorentino. Da lì il gallese verga una delle sue lettera strappalacrime indirizzate alla moglie (giocavano, entrambi, a fare i fedifraghi): “Caitlin mia cara, cara, cara: ti scrivo questa inutile lettera a un tavolino delle Giubbe Rosse dove, dopo averti vista salire su un tram, mi sono recato, più triste di chiunque al mondo, a sedermi ad aspettare. Posso solo dire che ti amo come non mai; questo significa che ti amo per sempre, con tutto il cuore e tutta l’anima, ma questa volta come un uomo che ti ha perso”. Thomas rimpiangeva la nebbia di Londra, le praterie gallesi, i bar d’Albione. “Qualche volta andava in centro a Firenze a passare una serata nei caffè. Attorno si radunavano gli intellettuali. Thomas fissava il vuoto e si addormentava. Una fonte attendibile racconta che una volta si nascose nel guardaroba per evitare di incontrare uno scrittore italiano venuto a fargli visita”. Solo Bigongiari era ammesso nell’arco rapido dell’amicizia di Dylan Thomas. Bigongiari andò in brodo per Thomas, che influì sulla sua ricerca poetica, fatta di divagazioni liriche, di esplosioni linguistiche. Lo tradusse, pure. Una delle poesie più celebrate di Thomas, And death shall have no dominion, diventa, “E morte non regnerà/ E morte non regnerà./ I morti nudi saranno una cosa sola/ Con l’uomo nel vento e la luna occidentale”. Magnifico. Il dialogo tra i vivi e i morti è continuo, una fioriera di sorprese. Invece, in Italia, ci ostiniamo a dimenticare i nostri grandi, una volta ficcati nella bara. Sia lode, ora, a Bigongiari.
È considerato uno degli autori che furono alla base dell'”avanguardia non codificata”, come lui stesso definiva l’ermetismo.[1] Con i poeti Luzi e Parronchi costituì quella che Carlo Bo definì la “triade dei poeti ermetici toscani”.[2] Come esponente austero e rigoroso dell’ermetismo purista, ne accentuò la tendenza metafisica con una trattazione predominante del tema dell’assenza, accompagnata da un forte anelito religioso.[3] In un secondo tempo, indicativamente dai primi anni settanta, la sua poesia raggiunse maggiore consapevolezza ed equilibrio tra il richiamo della realtà e la sua trasfigurazione simbolica.[1]
La giovinezza
Piero Bigongiari nacque il 15 ottobre 1914 a Navacchio, in provincia di Pisa, dove la sua famiglia si era trasferita nel 1911 da Livorno. Era il quarto dei cinque figli di Alfredo Bigongiari, ferroviere, e di Elvira Noccioli.[4]
A Pistoia conobbe Roberto Carifi: vivevano a pochi metri di distanza ed ebbero importanti momenti di scambio intellettuale.
Nel 1936 si laureò con il professor Attilio Momigliano, discutendo una tesi su Leopardi, “L’elaborazione della lirica leopardiana”, pubblicata pochi mesi dopo dall’editore Le Monnier.
Nel 1941 Bigongiari sposò Donatella Carena, figlia del pittore Felice Carena, e si trasferì a Firenze, in Piazza dei Cavalleggeri 2, zona Santa Croce, dove vivrà fino alla morte. Ebbero un figlio, Lorenzo, ma il matrimonio naufragò quasi subito e si arrivò addirittura alla dichiarazione di nullità.[4]
Nel 1942 pubblicò il suo primo volume di poesie, “La figlia di Babilonia”. Nello stesso anno ebbe inizio la sua amicizia con Giuseppe Ungaretti, solitamente considerato l’ispiratore e il primo vero poeta dell’ermetismo.
Nel 1948 conobbe Elena Ajazzi Mancini, la donna che diventerà la sua seconda moglie e dalla quale avrà un secondo figlio, Luca, nato nel 1952. Con Elena il poeta condivise, fino agli ultimi giorni, l’esistenza, le amicizie e le passioni, soprattutto quelle per l’arte (in particolare per il “Seicento fiorentino”, di cui furono grandi collezionisti e di cui Bigongiari fu anche esperto critico) e per la cultura francese.[4]
Negli anni cinquanta iniziò la collaborazione ai programmi radiofonici della RAI“L’Approdo” e “L’Approdo letterario” e, su invito dell’amico Romano Bilenchi, iniziò a fornire il suo contributo ai quotidiani Il Nuovo Corriere e, in un secondo momento, La Nazione. Nel 1951 iniziò la traduzione e la cura dell’opera completa di Joseph Conrad (che completerà nel 1966, in ventiquattro volumi) e diventò redattore della rivista Paragone, appena fondata dallo storico dell’arte Roberto Longhi (incarico che manterrà per circa dieci anni e che abbandonerà nel 1960 in polemica con Giorgio Bassani[4]).
Benché si definisse «un sedentario che si sposta»[10], Bigongiari, soprattutto nei primi anni cinquanta, compì una serie di viaggi in Francia e in Medio Oriente, e lunghi soggiorni in Grecia e in Egitto con l’amico Giovanni Battista Angioletti, e con il giornalista Sergio Zavoli, traendone suggestivi reportage, poi pubblicati con i titoli “Testimone in Grecia” (1954) e “Testimone in Egitto” (1958).[10] Nel 1952 uscì il suo secondo libro di versi “Rogo”, seguito tre anni dopo da “Il corvo bianco” (1955) e, dopo altri tre anni, da “Le mura di Pistoia” (1958). Sulla rivista La Palatina comparve il suo primo importante saggio d’arte contemporanea, su Jackson Pollock.
La maturità e l’ultimo periodo
Nel 1965 vinse il concorso per la cattedra universitaria in Letteratura italiana moderna e contemporanea e cominciò a insegnare alla Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze, incarico che mantenne fino al 1989. Nel 1977 dette vita alla rivista di “studi e testi” Paradigma, pubblicata internamente alla Facoltà di Magistero, chiamando a collaborarvi i suoi assistenti e allievi dell’Istituto di Letteratura italiana moderna e contemporanea.[4]
Dal punto di vista dell’attività letteraria, il periodo che va dai primi anni sessanta fino alla sua morte, vide Bigongiari impegnato in un’incessante ed eterogenea produzione, che mette in luce la molteplicità dei suoi interessi e la sua versatilità.
Tra le principali opere poetiche di questo periodo si segnalano le raccolte “La torre di Arnolfo” (1964), “Antimateria” (1972), “Moses” (1979), “Col dito in terra” (1986), “Diario americano” (1987), “Nel delta del poema” (1989), “La legge e la leggenda” (1992). Nel 1985 pubblicò anche la selezione antologica “Autoritratto poetico”.[7] Nel 1994, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi fu pubblicato il primo volume (poesie del 1933–1963) della raccolta antologica‘Tutte le poesie’ , ed insieme la raccolta inedita degli anni 1933-1942, con il titolo “L’arca”. Come ultime opere poetiche di Bigongiari sono da considerare le due raccolte “Dove finiscono le tracce” e “Nel giardino di Armida” (entrambe uscite nel 1996).
fu sempre affiancata da quella di traduttore, che riguardò testi di Rainer Maria Rilke, dei francesi René Char e Francis Ponge (“Poesia francese del Novecento”, 1968), oltre ai già citati Joseph Conrad e Dylan Thomas. Fu anche autore di importanti studi critici, tra i quali “Poesia italiana del Novecento” (1960), “Leopardi” (1962), in cui riunì tutti i suoi saggi scritti fino a quel momento sul poeta di Recanati, “La poesia come funzione simbolica del linguaggio” (1972), “Visibile invisibile” (1985) e “L’evento immobile” (1987).[4]
Collezionista e studioso di pittura, nel 1975 pubblicò il testo d’arte “Il Seicento fiorentino”. I suoi numerosi saggi brevi su temi artistici furono riuniti nel 1980 in “Dal Barocco all’Informale”, che è la testimonianza del suo costante interesse per la pittura contemporanea (da Paul Klee a Giorgio Morandi, da Max Ernst a Ennio Morlotti, da Jackson Pollock a Balthus).[4]
La vedova Elena Ajazzi Mancini donò, con lascito testamentario alla sua morte, la biblioteca (oltre 6.000 volumi) alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia, dove la maggior parte dei volumi sono conservati in una saletta intitolata al poeta.[12][13]
Sempre a Pistoia, presso i Musei dell’Antico Palazzo dei Vescovi,[14] è conservata la collezione dei quadri del Seicento Fiorentino, messa insieme negli anni dai coniugi Bigongiari e acquisita dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia alla morte della signora Ajazzi Mancini.
«Con la sua parola calma, discreta, impastata in quel silenzio da dove provengono le parole vere, Bigongiari raccontava la sua poesia. Poche esperienze poetiche e di pensiero di questo secolo sembrano al pari di quella di Bigongiari, la parola donata nella comune memoria del Bene. Un cammino in cui la poesia, nota che accomuna maestro e discepolo, è un luogo dove nessuno sarà mai a tal punto straniero da non potervi trovare l’accoglienza.»
Archivio
Il fondo Piero Bigongiari[16] è stato donato nel 2007 alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia in base alle disposizioni testamentarie di Elena Ajazzi Mancini, vedova di Piero Bigongiari. Il versamento è stato curato da Paolo Fabrizio Iacuzzi, curatore delle opere di Bigongiari, che si è occupato anche dell’ordinamento del fondo e ha redatto un Inventario topografico. L’archivio contiene materiale relativo a Bigongiari poeta, traduttore e narratore, traduttore e scrittore: autografi, dattiloscritti, minute, materiali preparatori, bozze manoscritte e dattiloscritte, fogli volanti, pubblicazioni in riviste ed opuscoli, suddivisi a seconda dei libri pubblicati e in cartolari cronologici di inediti dal 1972 al 1997.
Opere
Poesie
La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1942
Rogo, Ed. della Meridiana, Milano, 1952
Il corvo bianco, Ed. della Meridiana, Milano, 1955
Le mura di Pistoia (1955-1958), Mondadori, Milano, 1958
Il caso e il caos, Ediz. Salentina, Lecce, 1960
Antimateria, Mondadori, Milano, 1972
Moses, Mondadori, Milano, 1979
Autoritratto poetico, Sansoni, Firenze, 1985
Col dito in terra, Mondadori, Milano, 1986
Diario americano, Amadeus, Montebelluna, 1987
Nel delta del poema, Mondadori, Milano, 1989
La legge e la leggenda, Mondadori, Milano, 1992
L’arca, Le Lettere, Firenze, 1994
Dove finiscono le tracce (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996
Nel giardino di Armida, Le Lettere, Firenze, 1996
Tra splendore e incandescenza, Pezzini Editore, Viareggio 1996
Saggi
L’elaborazione della lirica leopardiana, Le Monnier, Firenze, 1937
Il senso della lirica italiana e altri studi, Sansoni, Firenze, 1952
Poesia italiana del Novecento, Vallecchi, Firenze, 1960
Leopardi, Vallecchi, Firenze, 1962
Torre di Arnolfo, Mondadori, Milano, 1964
Capitoli di una storia della poesia italiana, Ediz. Felice Le Monnier, Firenze, 1968
La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano, 1972
L’Artista Silvano Campeggi ha reso indimenticabili alcuni film di Hollywood
L’Artista Silvano Campeggi (1923-2018)- Nella memoria collettiva che alcuni classici del cinema di Hollywood siano rimasti impressi proprio per l’efficacia della locandina, qui sta l’arte di Silvano Campeggi che ha reso indimenticabili alcuni film di Hollywood.
” Via col vento ” non avrebbe avuto lo stesso pathos senza Clark Gable che bacia Vivien Leigh sullo sfondo di Altanta in fiamme ma questo mostra anche un genere tipico degli illustratori di quel periodo presente in molta stampa italiana, dal Corriere della sera fino a Grand Hotel, ovvero l’enfasi con cui drammi e storie pubbliche venivano presentate, con tutto il carico emotivo privo di ogni leggerezza. Era l’eleganza dell’estremo in cui ogni bacio pareva l’ultimo, ogni abito quello dell’unica occasione della vita, ogni incontro una fatalità ineluttabile.
Uno stile che ha segnato non solo un arte visiva ma un modello di sensazioni di cui ancora subiamo il fascino.
La sua fama è principalmente dovuta alla sua attività di cartellonista per le case di produzione cinematografiche di Hollywood nell’epoca d’oro del cinema (1945/1970): negli Stati Uniti è considerato tra i più importanti artisti grafici nella storia del cinema americano.
Il padre, tipografo e stampatore, introduce il giovane Silvano alla grafica e al design. Campeggi frequenta l’Istituto D’Arte di Porta Romana, a Firenze, e studia con Ottone Rosai e Ardengo Soffici.
Alla fine della Seconda guerra mondiale riceve un incarico dalla Croce Rossa Americana per dipingere alcuni ritratti di soldati prossimi al congedo; in questo modo entra in contatto con la cultura, la musica e il cinema d’oltreoceano.
Dopo la guerra si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con il pittore Orfeo Tamburi e con il cartellonista Luigi Martinati e definisce il suo interesse per la cartellonistica cinematografica. Il suo primo manifesto è del 1946, per il film Aquila nera di Riccardo Freda.
Dopo poco tempo viene contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per la realizzazione del manifesto del film Via col vento, al quale seguiranno oltre 3000 lavori, oltre che per la MGM anche per Warner Brothers, Paramount, Universal, Columbia Pictures, United Artists, RKO, Twentieth Century Fox.
Fra i cartelloni più famosi: Casablanca, Cantando sotto la pioggia, Un americano a Parigi, West Side Story, La gatta sul tetto che scotta, Vincitori e vinti, Exodus, Colazione da Tiffany.
Molte delle immagini create da Nano per i film più famosi hanno assunto valore iconico e sono immediatamente riconoscibili, come i quattro cavalli bianchi su sfondo rosso di Ben Hur e il volto di Leslie Caron utilizzato come puntino sulla prima lettera I di Gigi (che compare anche sulla copertina dell’album Ummagumma, del Pink Floyd).
Silvano Campeggi
Biografia di Silvano Campeggi-Nato a Firenze nel 1923, frequenta la scuola d’arte come allievo di ottone Rosai e Ardengo Soffici, iniziando poi a lavorare come illustratore di libri e giornali per diverse aziende grafiche.
Trasferitosi a Roma nel dopoguerra, entra nello studio del pittore Orfeo Tamburi e conosce il cartellonista Luigi Martinati, venendo attratto dalla cartellonistica cinematografica. Per la sua abilità nel ritratto e l’inventiva che gli è congeniale, lavora, firmandosi ‘Nano’, per le maggiori case cinematografiche americane come Metro Goldwyn Mayer, Universal, Paramount, Warner Bross, RKO, Dear Film, realizzando più di 3.000 manifesti, tra i quali Via col Vento, Un americano a Parigi, Singin’ in the Rain, West Side Story, Gigì, Ben Hur, Bambi.
Tornato a Firenze negli anni Settanta, realizza per l’Arma dei Carabinieri otto grandi quadri di battaglie del Risorgimento e il ritratto di Salvo d’Acquisto, eroe della Resistenza, che nel 1975 è utilizzato come francobollo commemorativo dalle Poste Italiane. Sempre dagli anni Settanta comincia a trascorrere molta parte dell’anno all’Isola d’Elba, dove fonda una scuola di ceramica per i giovani elbani. I sassi e le pietre dell’isola diventano protagonisti dei suoi quadri e della natura antropomorfa che essi rappresentano.
La personale fiorentina del 1988, intitolata Il Cinema nei manifesti di Silvano Campeggi, segna l’inizio di una nuova attenzione e valorizzazione dell’attività di Campeggi come autore di manifesti e locandine per il cinema, sancendone definitivamente l’importanza come artista in grado di contribuire alla definizione e costruzione di un immaginario visivo diffuso. Le sue opere sono richieste in tutto il mondo, espone a più riprese in Italia, in Francia e negli Stati Uniti, dove si impone come uno degli artisti più apprezzati nel suo campo (nel 2005 viene premiato dallo Stato del New Jersey e nel 2007 il Lincoln Center di New York gli dedica una nuova mostra monografica).
Nel corso degli anni è coinvolto anche nella creazione di dipinti e opere per eventi e manifestazioni quali il Palio di Siena, la commemorazione della battaglia di Campaldino, il Calcio storico fiorentino, la Corsa del Saracino a Arezzo, fino ai ritratti delle protagoniste pucciniane per la Fondazione Puccini. Nel 2000 riceve dalla Città di Firenze il Fiorino d’oro, e tra dicembre 2017 e gennaio 2018 Palazzo Vecchio ospita l’importante antologica intitolata Nano tra divi e diavoli.
Si spegne a Firenze il 29 agosto 2018. Il suo autoritratto è esposto insieme a quello dei più grandi artisti nel Corridoio Vasariano degli Uffizi, testimonianza di una lunga vita dedicata con amore all’arte.
Firenze ricorda Silvano “Nano” Campeggi. Suoi gli storici manifesti di “Via col vento” e “Colazione da Tiffany”
Articolo di Costanza Baldini-Lunedì 23 gennaio per un giorno la sala d’Arme di Palazzo Vecchio diventerà sede di una mostra con pezzi esclusivi e originali, un evento speciale per celebrare il grande autore di locandine per i film di Hollywood. L’iniziativa per celebrare il Maestro scomparso nel 2018 a cento anni dalla nascita
Il 23 gennaio 1923 nasceva a Firenze Silvano Nano Campeggipittore e insuperabile cartellonista, autore cioè di manifesti che hanno fatto letteralmente la storia del cinema, tra cui: Casablanca, Cantando sotto la pioggia, Via col Vento, Ben Hur, La gatta sul tetto che scotta, Colazione da Tiffany, West Side story, Un americano a Parigi, Exodus, Vincitori e Vinti e molti altri.
Campeggi, scomparso il 29 agosto del 2018, compirebbe 100 anni lunedì 23 gennaio, in questa data Palazzo Vecchio lo vuole ricordare con un evento speciale.
La sala d’Arme diventerà sede per un giorno di una mostra con pezzi esclusivi e originali della collezione della famiglia Campeggi e contenuti multimediali.
Dalle 10 alle 18, saranno esposte le tele dei più importanti cartelloni cinematografici realizzati per Hollywood, mentre sulle pareti un video mapping immersivo realizzato da Art Media Studio ripercorrerà tutta la carriera artistica di ‘Nano’, dall’inizio fino alle ultime opere realizzate.
Oltre alla mostra alle 17 si terrà il ricordo dell’artista alla presenza della vicesindaca Alessia Bettini, del presidente della Regione Toscana Eugenio Giani, di Elena Campeggi, moglie di ‘Nano’, di Riccardo Nencini, scrittore e politico, di Cristina Acidini, presidente dell’Accademia delle arti e del disegno e Matteo Cichero organizzatore dell’evento. L’iniziativa, ad ingresso libero, è stata promossa dall’associazione Fuori scena e fatta propria dall’amministrazione comunale.
L’avventura nel cinema di Nano Campeggi
Negli Stati Uniti Nano Campeggi è considerato tra i più importanti artisti grafici nella storia del cinema americano.
La sua fama è principalmente dovuta alla sua attività di cartellonista per le case di produzione cinematografiche di Hollywood nell’epoca d’oro del cinema dal 1945 al 1970.
Impara grafica e design dal padre, tipografo e stampatore, poi frequenta l‘Istituto D’Arte di Porta Romana, a Firenze, e studia con Ottone Rosai e Ardengo Soffici.
Alla fine della Seconda guerra mondiale riceve un incarico dalla Croce Rossa Americana per dipingere alcuni ritratti di soldati prossimi al congedo; in questo modo entra in contatto con la cultura, la musica e il cinema d’oltreoceano.
Dopo la guerra si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con il pittore Orfeo Tamburi e con il cartellonista Luigi Martinati e definisce il suo interesse per la cartellonistica cinematografica. Il suo primo manifesto è del 1946, per il film Aquila nera di Riccardo Freda.
Dopo poco tempo viene contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per la realizzazione del manifesto del film Via col vento, al quale seguiranno oltre 3000 lavori, oltre che per la MGM anche per Warner Brothers, Paramount, Universal, Columbia Pictures, United Artists, RKO, Twentieth Century Fox.
Con la crisi del cinema, Campeggi torna a Firenze, dove prosegue l’attività pittorica. Nel 1997 realizza 35 dipinti ispirati al calcio storico fiorentino, esposti poi in una mostra al Palagio di Parte Guelfa in Firenze e a Lione, in Francia. Nel 2001 realizza il drappellone per il palio dell’Assunta, a Siena.
Nel 2006 disegna la sua ultima locandina per il Peter Pan il Musical opera con le musiche tratte dall’album Sono solo canzonette di Edoardo Bennato, e riarrangiate in versione musical dallo stesso cantautore.
Nel 2008, in occasione del 150º anniversario della nascita di Giacomo Puccini, Campeggi espone a Torre del Lago una serie di ritratti immaginari delle protagoniste dell’opera del compositore, in una mostra dal titolo Puccini e le sue donne.
Nel 2018 gli è stato dedicato un documentario in cui appare per l’ultima volta in pubblico, dal titolo As Time Goes By – L’uomo che disegnava sogni, diretto da Simone Aleandri e prodotto da Clipper Media e Istituto Luce.
È stato presentato alla Festa del cinema di Roma 2018 e ha vinto il Tiburon International Film Festival 2018 come miglior documentario.
Lawrence Ferlinghetti a Praga – Articolo di Dario Bellini- il manifesto-Alias-Il viaggio. Primavera 1998, passeggiate, osterie e incontri nella Città d’oro-
«Poeti, uscite dai vostri gabinetti…»
È il motto sulla terza pagina di un libro comprato su una bancarella di libri usati in un parco di Praga dedicato al soggiorno praghese di Lawrence Ferlinghetti nel 1998. Sfogliando il libro al centro della pubblicazione spunta tra le pagine, in giallo smagliante su carta più spessa, un foglio con la poesia Rivers of Light. Una poesia pubblicata solo su questo libro edito da Meander nel ’99. L’unica traccia della poesia è sulla fotografia della CTK, in questi giorni su un articolo del Washington Post, Ferlinghetti la sta sventolando alla conferenza stampa presso il Centro Franz Kafka di Praga. Il libro in questione racconta nei dettagli il viaggio di Ferlinghetti a Praga e lui descrive la sua poesia così: «L’ho scritta ieri notte, quando mi sono svegliato da un sogno. Quando la leggerete saprete riconoscerne il senso… In ogni caso se qualcuno la vuole stampare lo può fare tranquillamente. È una poesia di questo momento ed è pubblica, chiunque è autorizzato a farlo. Questa è una liberatoria un po’ anarchica, vero? Gli anarchici non credono nel diritto d’autore».
L’arrivo a Praga in treno da Parigi-
L’idea di invitare Ferlinghetti a Praga era nell’aria da più di dieci anni, già dagli anni 80 durante il periodo di repressioni e carcerazioni, quando in Cecoslovacchia la normalizzazione arrestava intellettuali e musicisti jazz. È probabilmente così che iniziano le amicizie e le affinità dell’underground ceco di allora con Ferlinghetti e altre personalità mondiali che facevano petizioni per la liberazione degli arrestati a Praga. Ferlinghetti di sicuro si sentiva dalla loro parte e qualche esperienza di ingiustizia ce l’aveva anche lui. Nel ’57 era stato arrestato e processato per aver pubblicato l’Urlo di Allen Ginsberg, nel ’68 era stato arrestato e condannato a 17 giorni di carcere per una manifestazione contro la guerra in Vietnam e perfino in Italia nel 2005 era stato fermato una notte dalla polizia a Brescia, arrestato come un clandestino beatnik che scattava fotografie e suonava ai campanelli in una via della città vecchia dove avevano abitato i suoi genitori. Anche un altro grande scrittore verso la fine degli anni ’80 a Praga aveva avuto problemi con la polizia, tutte le settimane veniva convocato per tremendi interrogatori nella casa piastrellata dove c’era la centrale della polizia segreta. Era Bohumil Hrabal che invitato in direzione opposta, da est verso ovest, da Aprilina Clifford per una serie di incontri culturali e conferenze nell’anno della rivoluzione di velluto, durante l’Uragano di Novembre si affacciava alle vetrine della City Lights di Lawrence Ferlinghetti a San Francisco. Viaggi attraverso gli oceani e le culture che, specialmente dopo la caduta dei muri, ma prima delle loro ricostruzioni, si alternavano con visite reciproche di artisti e scrittori tra i due continenti. Incontri tra culture in via di liberazione e finalmente nel ’97 quando un nutrito gruppo di librai, traduttori, poeti e fotografi, era partito da Praga per invitare Ferlinghetti che promise la sua partecipazione dicendo agli organizzatori «non accetto però soldi dal governo Usa, dovete trovare i finanziamenti da qualche altra parte».
In quel periodo il presidente del Festival degli Scrittori era il poeta americano Michael March che viveva a Praga. Karel Srp rilanciava la famosa Sezione Jazz Artforum e così l’edizione del festival del 1998 è diventata anche una Beat Generation Fest. La più volte rimandata visita di Ferlinghetti si è concretizzata una sera del 16 Aprile con il suo arrivo alla stazione di Hlavni Nadrazi. Un suo desiderio era quello di non essere ospitato ufficialmente in un hotel, così già dalla prima sera a Praga Lorenzo si è ritrovato come a casa ospite di Iva e Mirek Vodrazkovy nella città vecchia in via del Tempio, in una casa che prima era stata una chiesa e secondo la leggenda un luogo di incontro dei cavalieri templari.
Ferlinghetti era molto stupito dell’affetto con il quale era stato accolto, diceva continuamente che lui non era importante come Ginsberg (che era stato a Praga quattro volte dal ’65, espulso per droga e ubriachezza dalla Cecoslovacchia tornò nel 96 nella Repubblica Ceca insieme a Philiph Glass) lui si aspettava un tranquillo festival casalingo, ma già dalla prima mattina in città era su tutte le prime pagine dei giornali e anche per strada in molti lo riconoscevano, praghesi e anche turisti di passaggio. Molti gli incontri e le iniziative che erano state organizzate e fitta di eventi la pianificazione del soggiorno di Ferlinghetti a Praga, tra istituzioni, scuole, gallerie d’arte, teatri, vari centri di cultura ma anche molte birrerie e vinerie. Dalle foto che lo ritraggono in quei giorni si vede bene che Lorenzo si deve essere molto divertito nei suoi attraversamenti culturali, tra storia e attualità, passeggiando sui ponti tra la città nuova e la città vecchia, sulle rive della Moldava e sopra i castelli.
Questi sono i miei fiumi-
Il 18 Aprile era previsto il primo evento pubblico e la conferenza stampa al Centro Franz Kafka era molto affollata. C’era Maya Cain la curatrice di Prague Projekt, accanto a Ferlinghetti c’era Dante Marinacci, poeta e traduttore in Italia delle poesie di Ferlinghetti e direttore del centro di cultura italiano di Praga e c’erano Michael March e Karel Srp. Tra il pubblico, oltre ai giornalisti, molti artisti, poeti e ammiratori dello scrittore italoamericano. Subito la sorpresa di una poesia scritta proprio quella notte, istantaneamente stampata in giallo da Mirek in cento copie e distribuita ai presenti, in un’atmosfera di amicizia e grande disponibilità. C’era da mettersi d’accordo sulla lingua. L’inglese lo parlavano tutti, anche un po’ l’italiano che Ferlinghetti di origini bresciane parlava (aveva tradotto anche alcuni poeti), ma il ceco per lui era «come una lingua sulla luna».
Fu una conversazione molto internazionale e la conferenza fitta di domande specialmente sulla situazione politica, il ruolo degli intellettuali e la poesia. È vero che è venuto in treno? «Sì ho viaggiato per 15 ore, in treno vedo il mondo mentre in aereo sembra tutto uguale».
Conosce la poesia di Giuseppe Ungaretti?
«Questi sono i miei fiumi…ho ripassato le epoche della mia vita… c’è molta affinità, la luce non è un’idea, è ambiente e atmosfera. Sì la citazione di Ungaretti l’ho usata per una mia raccolta di poesie che ho pubblicato prima negli Stati Uniti e poi in Italia». Ha incontrato recentemente Gregory Corso? «Certamente Gregory Corso è il più grande poeta della beat generation dopo Allen Ginsberg. È un poeta geniale. Ha un suo modo di parlare americano molto originale, una lingo americana, come la tradurreste? No non è un dialetto, è qualcosa di diverso. Lui è veramente molto originale, non è mai influenzato da altre fonti letterarie. La mia poesia è invece molto influenzata da molti scrittori e poeti come Ungaretti, T.S. Eliot, Dylan Thomas, Walt Whitman, invece Gregory Corso ha una sua anima poetica pulita come a suo modo aveva solo Shelley». Sapete dov’è Gregory adesso? «Chi lo sa… forse a New York, forse a Campo de’ Fiori a Roma, forse da qualche altra parte. Magari entrerà da questa porta, lui è sempre con Shelley». Che ne pensate dei poeti cechi e di Kafka? «Kafka non esiste, è come un marchio… Sul Lunapark avevo in testa la poesia di Kafka del Castello. Ho anche letto Havel, i suoi drammi La Tentazione e Largo Desolato sono molto vicini a Ionesco e Samuel Beckett, ma la mia conoscenza della letteratura ceca è molto limitata»
Come dovrebbe funzionare un mondo ideale? Cosa pensa dell’anarchia? «L’anarchia non è mai stata un’ideologia, è stato un anarchismo ideale. I media hanno degradato l’anarchia a dei bombaroli che buttano sempre qualcosa in aria. Quando ovviamente tornate all’idea di anarchia come filosofia, indietro a Bakunin e agli altri scrittori anarchici come l’anglicano Herbert Reed oppure il canadese George Woodkock, scoprite che la filosofia anarchica è realmente libertaria, di individui per la libertà contro gli stati totalitaristi, che limitano la libertà degli individui. Arriva all’ideale che afferma che l’uomo è capace di governarsi da solo, senza uccidere i propri simili. In altre parole l’anarchia è una fede e dice che le persone sono fondamentalmente buone. Si può dire che anche la beat generation è stata una fede, un modo di relazionarsi con il mondo e sono convinto del bisogno che c’è di questo, nel mondo di oggi assorbito da una ingordigia materialistica insaziabile».
Poeti, intellettuali e chaos-
E poi inizia a parlare di tutto, così come in diverse altre occasioni del suo soggiorno a Praga in una non stop di 72 ore di letture e giornate di passeggiate, di incontri nelle osterie e di altre iniziative più o meno organizzate, come per i ragazzi di una scuola d’arte che gli hanno fatto dei ritratti, con i fotografi che gli hanno scattato fotografie in continuazione o al teatro Lucerna dove ha partecipato con City Lights alla Fiera internazionale del libro in corso in quei giorni. Quasi dieci giorni di soggiorno a Praga che sono evidentemente volati tra la musica del Club Rokoko, del jazz nella chiesa di San Salvatore, a teatro con il regista Lumir Tucek e le sue rappresentazioni dei Giochi di amnesia e Le tremila formiche rosse, la visita al Castello, le dissertazioni sull’anarchia buddista di Gary Snyder che anche lui a fine anno sarebbe stato invitato a Praga, Brno e Olomouc per delle letture.
Parla volentieri di tutto, come del superamento di apparteneza nazionale: «La tecnologia informatica ormai ignora completamente le frontiere e i governi non riescono a padroneggiare il cambiamento. Come mi ha detto Gunther Grass forse nel ventunesimo secolo non esisteranno più gli stati così come li conosciamo adesso ma ci saranno solo orde migratorie, quando le etnie individuali vagheranno alla ricerca di cibo e alloggio. Io però questa visione così nera non ce l’ho. In tutto questo gli artisti ballano ai confini del mondo e cercano di cambiarne il destino. Nel campo della poesia darei la precedenza ad un’altra parola, oggi un poeta deve essere qualcosa di più di un semplice poeta, deve essere un intellettuale. Ci sono stati molti grandi poeti pazzi e burrascosi da Villon a Rimbaud e Dino Campana fino a Gregory Corso che sono degli enormi compositori lirici ci pazzoidi e non c’è niente che li possa sostituire, sono i poeti più grandi. Un’eccezione era Allen Ginsberg con il suo modo di pensare geniale era capace di ragionare ad ogni livello su ogni tema, come un grande poeta e non solo come un lirico geniale e pazzoide. Vaclav Havel è un’altra eccezione, è allo stesso tempo un intellettuale e un politico che sa parlare alla gente. In America non è così, i politici sono ad un così basso livello che spesso non sono creduti, leggono discorsi scritti da qualcun’altro.
Il bevitore di assenzio-
Così è intitolato il grande quadro appeso ad una parete della grande Kavarna Slavia, un luogo da sempre molto frequentato da tutti, famiglie, studenti, intellettuali, artisti, giovani e anziani. Lì proprio a fianco del quadro c’è una porticina secondaria, comunicante con la famosa Accademia di Cinema, Musica e Teatro, FAMU, AMU e DAMU dalla quale gli studenti entrano da sempre indisturbati. Le grandi vetrate danno sulla Narodny Trida dove c’è il Teatro Nazionale e di fronte sulla Vltava c’è il ponte dove transitano incessantemente i puntualissimi tram di Praga, in vista del Castello presidenziale di Hradcany. Poco più in là l’originale architettura del palazzo danzante con a fianco il portoncino del piccolo appartamento all’ultimo piano dove per un bel po’ Vaclav Havel si è ostinato ad abitare prima di trasferirsi al Castello.
La famosa Caffetteria Slavia ad un certo punto è stata acquistata da un grande gruppo immobiliare americano, è stata chiusa per tempo, si diceva addirittura che ci avrebbero aperto un Mc Donald ma naturalmente tutti si sono opposti. Quando finalmente il caffè è stato riaperto, bello come prima, era però sparito il quadro del bevitore di assenzio, stava per essere venduto all’asta ma poi è stato restituito. Proprio lì sotto quel ritratto impressionista di un autore senza nome, quasi in un appuntamento giornaliero, Lorenzo si incontrava con gli amici di Praga che lo hanno iniziato all’assenzio, lui diceva di non averlo mai bevuto ma il cameriere gli ha detto che era solo al 72 per cento e quindi innocuo. Lui per provare ne ha messo qualche goccia in un bicchierino di acqua che però non si è tinta di giallo come il pernod, poi con un dito intinto della sostanza ne ha esaminato il lavaggio del colore sul suo taccuino e dicendo quanto era piacevole quel posto che non ce n’era uno così in America e neanche a San Francisco, se lo è bevuto in un sorso alla salute dei bevitori di assenzio praghesi.
Di effetto un po’ lisergico diventavano così anche alcune sue citazioni di astronomia e di teorie del chaos: «Mi piace l’astronomia e l’ho studiata molto. Le teorie più avanzate sono spesso meravigliosamente poetiche come ad esempio il paradosso dell’astronomo tedesco Olbers che osservava che le stelle guardate a distanza ravvicinata erano moltissime, ma più a lungo guardava erano sempre di più, a distanza infinita ci sono grappoli di stelle giganteschi che si vede solo la luce, è il paradosso di Olbers dove l’infinito è solo luce». E qui viene in mente la poesia Proximity di Gregory Corso: A star is as far as the eye can see and near as my eye is to me. Tutti erano sorpresi del buon umore di Ferlinghetti e Iva Vondrackova l’attrice e cantante, che con Mirek lo ha accudito tutto il tempo nella loro casa in Templova Ulice, racconta di una mattina di sole (mattina in ceco si dice rano) in strada Lorenzo ballava e cantava «Rama rama, Rano rano… che bella giornata, di nuovo qualcosa di nuovo, non ho settantanove anni, ma ventuno»
Così che dopo essere stato dappertutto, anche in onore di Hrabal alla birreria del Tigre, U Zlateho Tygra dove insieme a Maja Cain, Brian Patten, Robert Creeley, Gyorgy Petri, Egon Bondi, a un certo punto sono arrivate come onde del Pacifico Brenda Knight insieme al suo fidanzato pittore Paul Blake, Ruth Weiss e Carolin Cassady, portavano il libro di Brenda sulle donne della beat generation.
Quando qualcuno ha poi chiesto a Ferlinghetti che cosa gli era piaciuto di più, se l’autogramiada (gli autografi) al teatro Lucerna, le letture di poesia, la serata di improvvisazione jazz o gli anarchici della rivista Konfrontace, Lawrence ha risposto «l’incontro con gli anarchici, sono giovani e si fanno delle domande interessanti. Si prendono cura di quello che succede nel mondo e sul pianeta». In partenza il 25 ci siamo alzati alle 6.30, racconta nel suo diario Iva, un caffè al volo e in fretta alla stazione. Un sorriso e un saluto. Ce ne siamo andati prima che il treno partisse, e lo abbiamo lasciato «on the road».
Articolo di Dario Bellini-
Fonte- il manifesto-Alias- 13 marzo 2021.
Usa, è morto il poeta Lawrence Ferlinghetti Fu esponente chiave della “controcultura” nel panorama statunitense –
23 febbraio 2021 All’età di 101 anni è morto Lawrence Ferlinghetti. Poeta di primo piano, fu a lungo proprietario del City Lights, la libreria e casa editrice di San Francisco che fece da culla alla Beat Generation e contribuì a dare alla città il ruolo di centro letterario e della rivoluzione culturale, destinata a superare i confini degli Usa. Come editore indipendente sconvolse l’America non solo letteraria, pubblicando libri come “Urlo” di Allen Ginsberg, per cui fu processato con l’accusa di aver diffuso oscenità. La morte è avvenuta lunedì nella sua casa di San Francisco. Il figlio Lorenzo ha riferito che a causare il decesso è stata una malattia polmonare. Nato il 24 marzo 1919 a Yonkers, nello Stato di New York, da padre italiano (Carlo Ferlinghetti era originario di Chiari, in provincia di Brescia e morì sei mesi prima della nascita del figlio) e madre franco-portoghese, Lawrence Ferlinghetti trascorse l’infanzia in Francia, a Strasburgo, affidato a una zia dopo il ricovero della madre in manicomio; e si trasferì negli Usa quando la zia fu assunta come governante a New York. Dopo aver intrapreso studi da giornalista (completati alla Columbia University di New York nell’immediato dopoguerra), Ferlinghetti venne arruolato nella Marina statunitense durante la Seconda guerra mondiale prendendo parte alla sbarco in Normandia. Quando vide Nagasaki a pochi giorni dallo sgancio della bomba atomica, decise di diventare un ”pacifista radicale” e di concentrare i suoi studi a Parigi, ottenendo un dottorato alla Sorbona, e dove incontrò il poeta statunitense Kenneth Rexroth, che in seguito lo persuase a recarsi a San Francisco, in California, per sperimentare la nascente scena letteraria della città. Dopo aver sposato Selden Kirby-Smith nel 1951, per un paio di anni, insegnò francese, fu critico letterario e iniziò a dipingere, stabilendosi a San Francisco. Qui nel 1953 fondò City Lights, la prima libreria al mondo a vendere esclusivamente tascabili, che ben presto diventò anche casa editrice, pubblicando fra l’altro nel 1956 uno dei libri di poesie più venduti al mondo, il dirompente ”Howl and other poems” (”Urlo e altri poemi) di Allen Ginsberg, manifesto poetico della Beat Generation (con l’incipit divenuto celeberrimo: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia,/ affamate isteriche nude/, trascinarsi nei quartieri negri all’alba in cerca di un sollievo astioso”). Ferlinghetti finì in prigione per aver pubblicato il volume dopo una condanna per oscenità. City Lights ha avuto un ruolo determinante nella diffusione dell’opera degli scrittori della Beat Generation, conosciuti in Italia principalmente grazie all’americanista e traduttrice Fernanda Pivano, grande amica di Ferlinghetti. Lo stesso Ferlinghetti fra l’altro fu un bestseller con il suo libro “A Coney Island of the Mind” (pubblicato nel 1958 da New Directions) che nel giro di poco tempo superò il milione di copie vendute, con traduzioni in nove lingue. Per i suoi meriti letterari, nel 1998 fu nominato ‘Poeta Laureato’ di San Francisco. L’amicizia e il rapporto intellettuale con Allen Ginsberg, Gregory Corso, Jack Kerouac, William Burroughs, Diane DiPrima e Peter Orlowsky lo fece sin dall’inizio diventare membro della cosiddetta Beat Generation, di cui è sempre stato l’editore di riferimento. A lui si deve anche il merito di aver pubblicato Charles Bukowski, di cui raccolse in volume gli articoli pubblicati nella sua rubrica settimanale “Diario di un vecchio sporcaccione”. Anche se è essenzialmente un poeta, Ferlinghetti ha scritto due romanzi, “Lei” e “L’amore ai tempi della rabbia”, e due raccolte di testi teatrali, “Routines” e “Unfair Arguments with the Existence”. Quasi tutte le sue raccolte di versi sono pubblicate in Italia da Minimum Fax: “Strade sterrate per posti sperduti”, “Il senso segreto delle cose”, “A Coney Island of the Mind” e il volume “Poesie vecchie e nuove” (che unisce due precedenti raccolte di poesie pensate dall’autore appositamente per Minimum Fax: “Scene italiane” e “Non come Dante”). Negli ultimi vent’anni Ferlinghetti si è dedicato soprattutto alla pittura, esponendo anche in Italia. La mostra antologica “60 anni di pittura” con i suoi dipinti si è tenuta a Roma e Reggio Calabria nel 2010. La sua ultima mostra è stata “A Life: Lawrence Ferlinghetti Beat Generation, ribellione, poesia”, allestita al Museo di Santa Giulia a Brescia dal 7 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018, che ha messo in luce l’importanza della figura di Lawrence Ferlinghetti nel panorama letterario degli anni Cinquanta e Sessanta.
IL POETA PESCATORE
Invecchiando percepisco
che la vita ha la coda in bocca
e gli altri poeti gli altri pittori
non significano più alcun genere di competizione
È il cielo a lanciare la sfida
il cielo ha bisogno di decifrare
anche se gli astronomi si sforzano di sentirlo
con le loro enormi orecchie elettriche
il cielo che ci sussurra costantemente
gli ultimi segreti dell’universo
il cielo che respira dentro e fuori
come fosse l’interno di una bocca
del cosmo
il cielo che è anche la sponda della terra
e anche quella del mare
il cielo con le sue molte voci e nessun dio
il cielo che racchiude un mare di suoni
e di echi che ci rimanda
come in un’onda contro la parete del mare
Poesie intere dizionari interi
arrotolati in un rombo di tuono
E ogni tramonto un action painting
e ogni nuvola un libro di ombre
attraverso le quali volano selvagge
le vocali degli uccelli che stanno per gridare
E il cielo è chiaro per il pescatore
anche se è coperto
Lo vede per quello che è:
uno specchio del mare sul punto di crollare su di lui
sulla barca di legno al cupo orizzonte
Dobbiamo pensarlo come poeta per sempre faccia a faccia con la vecchia realtà
dove gli uccelli non volano mai prima della tempesta
Shakespeare and Company a Parigi: la libreria più affascinante del mondo
Nel cuore di Parigi, a pochi passi dalla cattedrale di Notre Dame, esiste la libreria storica più famosa del mondo: la Shakespeare and Company.
A Parigi esiste un posto speciale, teatro di incontro di grandi scrittori come Hemingway, Joyce e Fitzgerald: la libreria storica Shakesperare and Company, al civico 37 di Rue de la Bucherie. Entrare in questo magico luogo equivale a fare un salto indietro nel tempo, tra luci soffuse e libri che riempiono gli scaffali.La libreria Shakespeare and Company, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, è stata luogo d’incontro di famosissimi scrittori, come Hemingway e Ezra Pound. La sua storia ebbe infatti inizio nel 1919, quando Sylvia Beachdecise di aprire un luogo dedicato alla cultura al numero 8 di rue Dupuytren.
Nel 1941, la libreria fu costretta a chiudere i battenti a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale ma riaprì un decennio dopo, per volontà di George Whitmanche, tra l’altro, mise a disposizione dei posti letto da offrire a chi aveva necessità, secondo il motto: be not ihospitable to strangers lest they be angels in disguise (non essere ospitale verso gli estranei potrebbero essere angeli sotto mentite spoglie). Egli chiamava i suoi inquilini “trumbleweed”, ossia “rotolacampi” e li ospitava a patto che essi promettessero di leggere un libro ogni giorno e di svolgere qualche piccolo lavoretto, come per esempio spolverare i volumi.
George considerava la sua libreria alla stregua di un’opera letteraria: «Ho creato questa libreria nel modo in cui un uomo scriverebbe un romanzo, costruendo ogni stanza come se fosse un capitolo», raccontò. «Voglio che le persone aprano la porta nello stesso modo in cui aprono un libro; un libro che porta nel mondo magico della loro immaginazione».Oggi come ieri, la libreria Shakesperare and Company è il punto di riferimento di intellettuali e viaggiatori che non possono fare a meno di fare tappa tra i suoi scaffali pieni di libri. C’è ancora posto per i tumbleweed, purché essi accettino di scrivere una piccola autobiografia di una pagina su carta celeste e servendosi di una macchina da scrivere.
La libreria Shakespeare and Companya Parigi si trova al N.37 di Rue de la Bûcherie ed è aperta tutti i giorni dalle 10 del mattino alle 23.00. La libreria si trova proprio nelle vicinanze del Quartiere Latino a Parigi e proprio a pochi passi a piedi dalla fermata Saint-Michel della Linea 4 della metro oppure anche dalla RER: Linea B e C con fermata a Saint-Michel – Notre-Dame da qui sono circa 300 metri a piedi per raggiungere la libreria.
Pierre Antonetti-La vita quotidiana: A Firenze ai tempi di Dante-
Editore Rizzoli-Articolo di Giovanni Teresi
Descrizione del libro– di Pierre Antonetti –La vita quotidiana: A Firenze ai tempi di Dante -Articolo di Giovanni Teresi:Innanzitutto, non era la Firenze della Cupola del Brunelleschi, di Palazzo Pitti, del Campanile diGiotto o di Palazzo Strozzi. Era una delle città più popolose d’Italia (nel 1280 contava già tra i quarantamila e i cinquantamila abitanti),ma non aveva ancora dei monumenti architettonici imponenti; il centro cittadino era un complesso intrico di viuzze, case addossate le une sulle altre, botteghe, fondaci e botteghe, dominate dall’alto dalle case torri delle famiglie più importanti della città, costruite soprattutto per difendersi dai frequenti attacchi delle famiglie rivali.
La città ovviamente era piena di chiese,che tuttavia non avevano le dimensioni delle successive costruzioni. Tra le tante, ce ne sono tre molto legate a Dante: la prima è ovviamente il Battistero di San Giovanni, la chiesa cittadina per antonomasia, dove Dante era stato battezzato e dove, come racconta lui stesso nella Divina Commedia, aveva salvato un bambino rompendo una fonte battesimale (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, C. XIX,vv. 16-21: “Non mi parean men ampi né maggiori/ che que’ che son nel mio bel San Giovanni,/ fatti per loco d’i battezzatori; / l’un de li quali, ancor non è molt’anni,/ rupp’io per un che dentro v’annegava:/e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.” ).
La seconda è la Badia fiorentina, una delle chiese più vecchie di Firenze, dove Dante andava spesso a messa, la quale viene citata nel XV Canto del Paradiso da Cacciaguida, l’avo di Dante, come la chiesa vicina alle vecchie mura della città, dal cu campanile si odono ancora i battiti delle ore canoniche ( Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, C. XV,vv. 97-99: “Fiorenza dentro da la cerchia antica,/ ond’ella toglie ancora e terza e nona,/ si stava in pace, sobria e pudica.”).
La terza e ultima chiesa è la chiesa di Santa Margherita,una piccola chiesetta vicino la (presunta) casa di Dante, dove la leggenda vuole che sia la chiesa in cui il Poeta abbia incontrato per la prima volta Beatrice, che andava di solito lì a pregare.
“Se mai continga che ‘l poema sacro/
al quale ha posto mano e cielo e terra,/
sì che m’ha fatto per molti anni macro,/
vinca la crudeltà che fuor mi serra/
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,/
nimico ai lupi che li danno guerra;/
con altra voce omai, con altro vello/
ritornerò poeta, e in sul fonte/
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;
Con questi versi, nei quali il poeta spera un giorno di poter tornare nella sua Firenze e ricevere la corona d’alloro nel suo “bel San Giovanni”, ha inizio il XXV Canto del Paradiso, una delle tre Cantiche della Divina Commedia di Dante Alighieri.
In questo capolavoro della letteratura mondiale, tra i tanti argomenti di cui si tratta, si parla molto spesso di Firenze, la patria ingrata del Poeta, da cui nel 1301, con la falsa accusa di baratteria, venne esiliato a vita.
Nonostante la rabbia di Dante verso quel popolo ingrato che l’aveva ingiustamente cacciato, Dante rammenta spesso la sua città natale, sia rimpiangendola, sia più spesso criticandola, per le sue continue lotte intestine e per la corruzione del governo e del popolo fiorentino, avido, invidioso e lussurioso; basti pensare, per esempio, a tutte le discussioni che Dante ha con i vari fiorentini incontrati durante il viaggio ultraterreno (Farinata degli Uberti, Brunetto Latini, Forese Donati,Ciacco), dove tutte le imperfezioni dei fiorentini vengono chiaramente fuori, e alla celebre invettiva del XXVI Canto dell’Inferno, nel quale il poeta inveisce contro Firenze, diventata famosa anche all’Inferno per la presenza di cinque suoi cittadini nella VII Bolgia del VIII Cerchio,dove sono puniti i ladri (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, C. XXVI,vv. 1-3: “Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,/ che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ’nferno tuo nome si spande!”).
Oltre ai guelfi e ai ghibellini, nelle strade di Firenze c’erano donne che calzavano zoccoli in legno altissimi su strade trafficate e fangose, banchi di cambiatori, sarti, rigattieri, medici, barbieri e ciarlatani che vendevano droghe miracolose. L’autore Pierre Antonetti, nel suo testo, ci racconta diffusamente la tipica giornata del contadino. Si entra nei meccanismi delle magistrature, nei segreti delle corporazioni di artigiani, e si scopre come venivano combinati fidanzamenti e matrimoni. Proprio in questo periodo ha inizio il grande sviluppo artistico di Firenze, che oltre alle rime di Dante si concretizza con gli affreschi di Giotto e i primi disegni per il progetto del Duomo.
Marino Moretti e Cesenatico- Articolo di Giuseppina Giacomazzi
Marino Moretti e Cesenatico- Articolo di Giuseppina Giacomazzi- Negli scrittori crepuscolari i luoghi, fisici o idealizzati, dimore reali o letterarie, costituiscono spesso l’essenza della loro espressione artistica. Il legame con la provincia è una caratteristica comune: nel caso di Marino Moretti, Cesenatico e la Romagna. Nella scelta dei paesaggi, che sono sempre dell’anima, forte è l’influenza dei simbolisti francesi, le cui opere sono pervenute a questi scrittori italiani attraverso riviste quali la “Revue des deux mondes” e “Mercure de France”. Per i simbolisti francesi, come Francis Jammes e Georges Rodenbach, il paesaggio idealizzato è quello della provincia, con i ricordi struggenti e gli oggetti ad essa legati e aventi profonda risonanza interiore: conventi, chiostri, ospedali (luoghi appartati e solitari, in contrapposizione con quelli dei futuristi) e giardini, orti, cimiteri, organetti di Barberia, proiettati in una stagione autunnale e grigia, i vecchi angoli di una città, i mobili di una casa, le fotografie ingiallite, le stampe. Gli oggetti, entrando in colloquio con il poeta, diventano un motivo di sensazioni raffinate e di evasioni, nella trasfigurazione della banalità quotidiana. I personaggi sono spesso malati, beghine, suore o maestre, ma anche signorine di provincia; la terminologia e i toni usati sono perfettamente conformi e coerenti con questa particolare ambientazione. Gli spazi, sia dei luoghi e ambienti natali, sia di quelli lontani, come le Fiandre per Moretti, sono comunque spazi dell’altrove. Egli rifiutò il termine crepuscolare per la sua poesia, non accettò i limiti di tale appartenenza e molto si è dibattuto sulla presenza di elementi crepuscolari nella sua tarda poesia e nella prosa, dove sembrano dominare piuttosto aspetti veristici e naturalistici, ma solo apparentemente, per un continuo coinvolgimento dell’autore, operato attraverso il confronto fra realtà esterna e verità interiore. Non c’è luogo per me che sia lontano, asserisce Moretti (in Andar lontano. Le Poverazze, Milano, Mondadori, 1973) perché ogni luogo, anche il più distante, può essere avvertito come luogo dell’anima. Il paesaggio che fa da sfondo alla sua produzione letteraria non è solo Cesenatico o la Romagna, ma anche Firenze, dove abitò, e le Fiandre, in particolare Bruges, patria di uno dei più significativi suoi modelli di riferimento, Georges Rodenbach. Marabini afferma: separa Moretti dai suoi luoghi una natura contestatrice acutamente critica e sostanzialmente inappagata. […] Si può amare e non amare nello stesso tempo, essere dentro e fuori, essere e non essere borghese, realizzare oggettivamente un mondo ma cercare la verità più gelosa in un altro luogo. Moretti mantiene infatti con l’ambiente che lo circonda indipendenza e capacità polemica, che si esprimono attraverso l’ironia. A differenza di Guido Gozzano guarda più al presente o ad un passato più vicino, anche se i paesaggi e gli oggetti sono idealizzati e trasfigurati in atmosfere che sottolineano uno stato di malinconia, di noia esistenziale e di nostalgia del non vissuto, di malessere, suscitando interrogativi senza risposte. Moretti è consapevole dell’esaurimento di uno stile poetico che nella nuova realtà ha perso ogni funzione di messaggio. La poesia è poesia della non poesia, della sua impossibilità. Cesenatico e la sua casa sul porto canale sono presenti soprattutto nelle prime raccolte poetiche. Luogo privilegiato dell’interiorità è il giardino della sua casa, spazio in cui forte è il richiamo della morte, hortus conclususche chiude lo scorrere del tempo e consente apparizioni, ma anche giardino dell’Eden, frutteto antidannunziano, metafora di poesia. Il giardino dei frutti (Napoli, Ricciardi, 1916) dà il titolo ad una raccolta poetica, e fiori e frutti non sono che i prodotti della sua creatività, del suo impegno letterario. “Ecco: dicon queste cose, / ma non so se vero sia: / che un bel fiore è poesia / e che il frutto è solo prosa”. Il giardino Hortus incultus, hortus animulae, il giardino di casa sua, in Poesie scritte col lapis (Bari, Palomar, 1992) è anche il giardino della memoria familiare e del ricordo. “Angolo d’hortulus / E’ dolce ricordare! Ogni fil d’erba / dell’orto mio potrebbe ricordare, / ché molto sa […]. Ne Il giardino dei morti, in Poesie scritte col lapis, il cimitero in cui riposa il fratellino, scomparso ad un mese d’età, che Marino non conobbe: “Il piccol camposanto / è un precluso giardino. / Precluso”, perché in esso è il mistero che si schiuderà con la morte. Il giardino della stazione di piccoli luoghi della provincia romagnola, che si scorge dal finestrino del treno, è un luogo dove non ci si ferma quasi mai, perché: “poveri illusi, si va / in cerca di felicità, / verso città sempre nuove, / verso l’ignoto e la sera!” (Il giardino della stazione, in Il giardino dei frutti) e il petalo che cade nella fontana richiama la vita che passa inesorabilmente. Posto privilegiato fra gli spazi familiari occupa la cucina, alla quale viene dedicata una sezione intera della raccolta Il giardino dei frutti; la cucina in cui il poeta desidera sempre vedere sua madre in un ruolo casalingo e rassicurante. Nella poesia La madre risponde, la madre comunica al figlio di amare gli utensili presenti in essa: “[…] e vorrò bene a quella / casseruola di rame, al testo ed al tegame, / al vaglio e alla gretella …” e il sentirli nominare “… / in quell’ora / omai crepuscolare” (Mia madre risponde, in Il giardino dei frutti) tranquillizza Marino, legato ad un ruolo tradizionale della donna all’interno della società e della famiglia. Nelle ultime raccolte, oltre a quelli della sua casa, gli spazi rievocati sono Cesenatico e la Romagna, rivissuta dall’interno. Si tratta sempre di un paese ripercorso e guardato dalle mura domestiche, in una dimensione familiare e locale che lo salva dalla vita assente e dal deserto dell’anima. Moretti volge lo sguardo ai luoghi della quotidianità: la locanda denominata L’albergo della tazza d’oro (in Poesie scritte col lapis), un salone di parrucchiere di provincia, dove i bei conversari ironizzati da Gozzano, diventano pettegolezzi, conversari popolari, rivissuti dal poeta con l’ambiguità dell’odio e del sorriso bonario che nasce dalla comprensione. “Il tedio pio di tutta questa gente / che forse è ancor dei sogni e dei segreti!” (Salone, in Poesie scritte col lapis). Il suo paese è un paese marino, nel quale “il mare è da per tutto”, ma “In cimitero s’ode / Così come alla riva / Lì ci verranno a stare godendo il lido in pace”(Cesenatico vecchia, in Diario senza le date, Milano, Mondadori, 1974). Il paesaggio marino che si presuppone ridente e assolato, spesso si adombra di immagini crepuscolari. Il ponte sul porto canale ricostruito secondo criteri moderni suscita un sentimento di nostalgia, al ricordo di quello antico che il poeta attraversava tornando da scuola. (I due ponti, in Diario senza le date). La spiaggia del suo paese balneare ritorna ad appartenergli allorquando, deserta, mostra “gusci e alcunché d’informe, / tracce del mare infido (Paese balneare, in L’ultima estate, Milano, Mondadori, 1969) quando possono scorgersi rifiuti e meduse morenti sulla battigia. (Battigia, in L’ultima estate). Nella raccolta Le Poverazze, che prende il nome da un onesto mollusco, cibo dei poveri, si ripropongono gli stessi temi della casa protettiva e degli oggetti quotidiani: la cucina-tinello, il giardino, la libreria, gli animali domestici. Anche i versicoli del poeta sono le ultime poverazze, metafora, nella loro umiltà, della scrittura: “Le poverazze: cronache dell’io. / Le poverazze: cronache di pena. / Le poverazze: scelte per la cena. / Le poverazze: scelte per l’addio. Le immagini e il tono, dimessi nella loro semplicità, sono pervasi da malinconia. La poesia crepuscolare è percorsa da una concezione del tempo, quale tempo dell’anima disgiunto da quello storico, spesso inteso come vuoto, noia esistenziale che scandisce la monotonia della vita di provincia, ripetitività e non senso che conducono alla morte. Uno dei temi ricorrenti della poesia di Marino Moretti è quello della Domenica, spazio tempo del grigiore e della noia, nei quali è immersa la provincia. A tale tema è dedicata un’intera sezione delle Poesie scritte col lapis. Fra queste, un posto particolare occupa La Domenica di Bruggia, nella quale Moretti introduce un nuovo luogo dell’anima, quello delle Fiandre che acquisteranno centralità nel romanzo La casa del Santo Sangue.
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